Udin&Jazz 2022: con il suono delle dita.

Dopo la triennale parentesi balneare di Grado, è tornata nella sua sede naturale di Udine la storica manifestazione Udin&Jazz che ha dimostrato, con la sua 32 edizione, di essere uno dei punti di riferimento per il jazz non solo a livello italiano.


Lo ha ribadito autorevolmente con una serie di straordinari eventi musicali ma anche con tutta una serie di attività culturali collaterali che da sempre sono parte integrante di un modo di intendere la musica non solo come intrattenimento ma prima di tutto come rivendicazione di istanze democratiche e libertarie che considerano le blue note in tutte le loro sfumature come strumento di conoscenza, condivisione e rispetto di diritti inalienabili nei confronti dei nostri fratelli meno fortunati e di tutti.
Il jazz può essere inteso in molti modi: può essere un modo un po’ esotico e snob di estraniarsi dalla realtà per qualche ottusa élite oppure il grido di dolore che si alza dai campi dell’ingiustizia e della discriminazione che scuote il potere con l’intento di abbatterlo a colpi di note. Non a caso la rassegna si è aperta con il film “Gli Stati Uniti vs Billie Holiday” di Lee Daniels (Usa 2021) che a modo suo ricostruisce la persecuzione giudiziaria che subì la grande cantante per aver denunciato attraverso la propria arte gli orrori dei linciaggi contro gli afroamericani in “Strange Fruit”.
Il Jazz è uno strano frutto che penzola dall’albero dell’ingiustizia sociale ma che non muore mai continuando a scalciare contro ogni sopruso senza che nessuno possa mai far tacere la sua voce di denuncia e di protesta.
L’associazione Euritmica con il suo patron Giancarlo Velliscig, che da sempre organizza il festival, lo sa bene e da sempre si batte per gli alti valori in cui crede e professa. Il motto della manifestazione di quest’anno lo diceva chiaramente: “Play Jazz, Not War” semplice e diretto ma per nulla scontato in un momento nel quale stiamo assistendo ad una nuova pericolosa corsa al riarmo generale, mentre i soliti mentecatti credono che solo dotandosi di missili più potenti si possa “vincere la pace”. Stiamo passando dalle tragicomiche “missioni di pace” a suon di bombardamenti a tappeto (Iraq, Afghanistan, Siria ecc.) alle “Operazioni speciali di difesa democratica” con i droni telecomandati e con i lanciamissili portatili. Gli imperialisti sono sempre gli altri così come molti di noi dicono: “Sono pacifista ma…”, affermano tranquillamente anche “Non sono razzista ma…”come in una canzone, tristemente ironica, di Willie Peyote.
Di seguito daremo conto brevemente degli eventi principali del festival, solo una piccola parte di tanta meraviglia che per essere davvero compresa ha bisogno di essere vissuta personalmente, per questo si considerino le righe che seguono solo come un’indicazione e un invito a partecipare alla prossima edizione.
Gianpaolo Rinaldi con il suo rodato trio è in grado di affascinare e divertire in qualunque situazione anche la più improbabile. Udin&Jazz quest’anno più che mai ha voluto sperimentare nuovi angoli della città per alcune delle proprie esibizioni in cartellone. Come preambolo al festival ha creato un’apposita sezione chiamata semplicemente : “Aspettando Udin&Jazz”. A Rinaldi e ai suoi è toccato un bel giardino nel pieno centro cittadino perfettamente attrezzato con aree giochi per bambini e un fornitissimo chiosco per quelli che bambini non lo sono più da un pezzo e possono annegare negli spritz tutti i rimpianti e le nostalgie mentre i loro bambini fanno il diavolo a quattro su altalene, tappeto elastico e cavallucci a molla. Non è facile suonare in un luogo del genere ma è davvero affascinante, vivo, reale; non si può contare sulle liturgie della sala da concerto e nemmeno sulla dimensione intima del club, è stato vero jazz in plein air con i bambini che scorrazzavano e il vociare delle famiglie al parco mentre i tanti intervenuti per il concerto si godevano i suoni meravigliosi della vita reale che si univano dinamicamente in perfetta sinergia a quelli dei musicisti.

L’ultima ambiziosa incisione del trio con composizioni originali di Rinaldi, “Sapiens doesen’t mean Sapiens” è stata ispirata al best seller Sapiens, da animali a dei di Yuval Noah Harari e, almeno nelle intenzioni, vuole tracciare un arcobaleno di note tra la scimmia che eravamo e i quadrumani che diventiamo mano a mano che pervertiamo le nostre esigenze di esseri umani. E’ un fatto ormai acclarato che tanta abilità e adattamento evolutivo non hanno portato solamente a miglioramenti nella nostra esistenza; la catastrofe ecologica che abbiamo provocato su scala planetaria ci dimostra chiaramente che di certo siamo Homo ma che sul Sapiens si può discutere. Rinaldi traduce impeccabilmente questo discorso in musica dal proprio punto di vista di pianista talentuoso alle prese con un mondo difficile da capire ma che la musica può aiutarci a comprendere.
Il tutto è suggerito da Rinaldi in modo lieve ma per nulla superficiale, il linguaggio della sua musica è alto ma perfettamente comprensibile a tutti. Nel trio si distingue anche il batterista Marco D’Orlando dalla grande fantasia poliritmica che usa anche gli stridii delle bacchette sui piatti e altri bizzarri rumori per esprimere al meglio inquietudini e illuminazioni. Ottima la calibratura dell’insieme attraverso il contrabbasso di Mattia Magatelli.
Armando Battiston è uno dei decani del pianismo jazz friulano e si è esibito per “Aspettando Udin&Jazz” in duo con il proprio storico batterista Daniele Comuzzi al Caffè Caucigh, uno dei luoghi storici della buona musica udinese con un cartellone fitto di eventi, jam sessions e readings.
La versatilità del pianista, la lunghissima esperienza gli permettono di guardare avanti e progettare futuri imperscrutabili e inauditi. Per l’occasione ha sfoggiato la sua conoscenza e predisposizione verso il Latin Jazz con una certa vena tangheira. Moltissimi anche gli standard più classici interpretati dalla sua particolarissima sensibilità e dal suo gusto che va dalle più spericolate sperimentazioni free form al jazz main stream e confidenziale venato dalla tradizione della canzone italiana melodica. E’ davvero un gran piacere ascoltarlo; la sua musica è un vero balsamo vivificante, la sua fluviale esibizione in perfetto interscambio ed equilibrio con il batterista Comuzzi in uno degli angoli più suggestivi della città medievale ha respirato al ritmo della serata estiva e dei suoi incanti.
La manifestazione è entrata nel vivo spostando i propri eventi centrali al Teatro Palamostre. Tra i primi ad esibirsi in quella sede il pianista Emanuele Filippi che presentava per l’occasione il suo nuovo lavoro, fresco di stampa, in duo con Seamus Blake: “Heart Chant”. Il sassofonista inglese, purtroppo non ha potuto essere presente a Udine perché impegnato nella tournée americana di Roger Waters, d’altronde un nome come “Seamus” deve ricordare sicuramente qualcosa al fondatore dei Pink Floyd (Meddle, 1971). Solo da questo, che non è per nulla un particolare irrilevante, possiamo capire la rilevanza internazionale di Blake e il conseguente alto valore del sodalizio con il giovane pianista friulano. Il lavoro discografico che ne è scaturito è di una bellezza meditativa e sospesa. A sostituire il musicista inglese per il concerto udinese, Ben van Gelder da Amsterdam, giovane di talento e di grandi prospettive ma comprensibilmente, non proprio allo stesso livello.
La musica è sembrata molto solida dal punto di vista compositivo ma fin troppo sorvegliata per quanto riguarda il Pathos. Di certo, almeno dal vivo, il cambio di partner all’ultimo momento non ha giovato al risultato finale che comunque ha regalato alcuni momenti di grande intensità.

A seguire, in una serata dal doppio concerto, il quartetto del funambolico trombettista Fabrizio Bosso che ha trascinato il pubblico in un’atmosfera gioiosa di divertimento dai suoni scintillanti e preziosi fatti di grandissimo virtuosismo ma anche di tanta emozione elegante. Bosso non è mai eccessivo e non vuole stupire il pubblico a tutti i costi con equilibrismi trombettistici fine a se stessi così come i suoi musicisti che pur lanciati a folli velocità da ritmi prodigiosi mantengono sempre la barra a dritta. Nessuno di loro vuole fare il “fenomeno”. Fin da subito hanno saputo creare un’atmosfera piacevole, senza tensioni eccessive o liturgie narcisistiche, solo tanta buona musica che lascia Good Vibrations e che fa sognare ad occhi aperti. Ogni tanto ci vuole proprio.
Udin&Jazz presentava anche una personale dedicata della pittrice Ivana Burello dal significativo titolo “I colori del Jazz”. Nel ridotto del Palamostre, dedicato a Carmelo Bene e ricavato sotto una delle scalinate dell’auditorium, erano esposti alcuni ritratti di grandi icone del jazz, (Sonny Rollins, John Coltrane, Miles Davis, Billie Holiday) frutto di varie tecniche pittoriche soprattutto relative all’espressionismo astratto e all’action painting. L’effetto era quello di un’improvvisazione musicale per spatole e pennelli non del tutto inedita o assolutamente originale ma sicuramente di grande impatto.

Nel corso della manifestazione è stata anche presentata quella che ormai è giustamente diventata la migliore e più venduta graphic novel di Jazz nel nostro paese: Mingus di Flavio Massarutto e Pasquale Todisco “Squaz” dal quale, per concludere questa prima parte della recensione, rubiamo impunemente l’explicit che può davvero servirci come nuovo inizio per future riflessioni: Mingus “è la storia di un intellettuale autodidatta in lotta perenne con una società che lo vorrebbe marginale e subalterno. La storia di un Martin Eden meticcio, la si potrebbe definire anche una biografia apocrifa. Come ebbe a scrivere Ingeborg Bachmann – Lo scrittore apocrifo non gioca con la storia, non divaga con i destini, non costruisce biografie: prende una vita umana, consegnata all’erbario delle storie dell’arte, della poesia e della filosofia, e la provoca, la smaschera, la interroga: le fa rivelare sorprendenti segreti, fantasie più vere della realtà, che fanno esplodere tutte le storie e tutti i cimiteri, riconsegnando alla vita quanto di una vita è stato immaginato vivente.”
(continua)

Flaviano Bosco

Quando le foto parlano: due interessanti volumi di Roberto Masotti

Quanti seguono con un minimo di attenzione ”A Proposito di Jazz” si saranno resi conto di come questa testata abbia nel tempo dedicato la massima attenzione a tutte le forme attraverso cui si manifesta, si sviluppa la musica jazz. Quindi, ovviamente, anche la fotografia che anzi si è posta come elemento fondamentale per cogliere meglio l’evoluzione di questa musica. Si pensi, ad esempio, cosa ha significato per gli studiosi riuscire a carpire alcuni momenti dell’arte jazzistica quando ancora non esistevano o non erano così diffusi i filmati. Un solo esempio credo sia sufficiente a meglio spiegare quanto fin qui detto: nell’estate del 1958 venne scattata una delle foto più famose nel mondo del jazz, quella foto che ritrae, uno accanto all’altro, cinquantasette tra i migliori jazzisti di tutti i tempi in una strada di Harlem. Non musicisti qualsiasi, ma veri e propri “giganti” che hanno fatto la storia del jazz quali Armstrong, Duke Ellington, Count Basie, Dizzy Gillespie, Miles Davis, Sonny Rollins, Monk, Charlie Mingus, Coleman Hawkins.

Anche in Italia l’arte della foto-jazz, grazie all’opera appassionata di molti fotografi-artisti, ha raggiunto ottimi risultati di cui su questi spazi è stata fornita ampia documentazione. Tra quanti hanno contribuito in maniera determinante allo sviluppo di quest’arte nel nostro Paese c’è sicuramente Roberto Masotti che conosco bene oramai da tanti anni e i cui scatti mi hanno sempre appassionato e stupito per la carica di verità che contengono. Tracciare una biografia di Masotti in questa sede è tutto sommato inutile; basti sottolineare alcune tappe fondamentali: nel 1973 inizia una lunga e proficua collaborazione con ECM Records di cui è stato responsabile della comunicazione per l’Italia, oltre a veicolare nel mondo l’immagine della casa tedesca; dal 1979 al 1996 è il fotografo ufficiale del Teatro alla Scala di Milano con Silvia Lelli; nel 2005 viene realizzato un programma televisivo a lui dedicato per SKY/Leonardo nella serie Click… nel corso degli anni le sue fotografie sono state esposte in numerose città italiane ed europee. E proprio a questa sorta di “categoria” appartiene il primo dei due volumi che presentiamo in questa sede.

“Jazz Area – seipersei – Pgg.160 ” trae origine dalla mostra “Jazz Area la mia storia con il jazz in 25 quadri” commissionata dall’Assessorato alla Cultura del Comune di Pavia nel  1999, e poi esposta   una decina di volte. Come sottolinea lo stesso Masotti, l’opera andrebbe considerata come “la mia storia attraverso il jazz più che con il jazz”.  Insomma una sorta di viaggio autobiografico il cui tragitto viene ripercorso attraverso una serie di immagini mai banali. Il libro si apre con la formazione “Detroit Free Jazz”, con Art Fletcher, Don Moye e Ron Miller al Conservatorio di Bologna nel 1968, e si chiude con un fotomontaggio relativo a Sun Ra.

Le foto sono impaginate in modo assai particolare: una stampa a colore argento su una carta spessa e nera, associate a titoli, didascalie, brevi testi, per cui, evidenzia ancora Masotti, è “più un progetto di mostra che un risultato fissato per sempre, più una riflessione sul jazz filtrata dalla mia personale esperienza che una storia del jazz per immagini per forza di cose limitata e parziale”. Così si susseguono una serie di istantanee accomunate da un filo rosso: l’intenzione di Masotti di non presentare una galleria di ritratti ma, in qualche modo, di interpretare il soggetto che viene ripreso in un momento di verità. Quindi nessuna posa ma scatti che colgono i musicisti o sul palco o in un momento di pausa. Le foto sono organizzate per aree tematiche tra cui: blues; blowers sassofoni; canto; Miles Davis; Sam Rivers – Archie Shepp, Jazz & Polities; Steve Lacy; Drums – drummers; Gruppi; Dave Holland big-band; Brotherhood of Breath; Jazz italiano; Jazz Rock; Chitarristi; ECM, Keith Jarrett… I protagonisti di questa galleria sono quindi  tantissimi e sarebbe inutile citarli tutti; valga comunque qualche nome: Miles Davis, Gato Barbieri, Steve Lacy, Max Roach, Ornette Coleman, Sonny Rollins, Archie Shepp, Carla Bley, Sam Rivers, Cecil Taylor, Charles Mingus, e, tra gli italiani, Stefano Bollani, Antonello Salis, Roberto Ottaviano, Gianluca Petrella.
Insomma un volume che sicuramente interesserà tutti gli appassionati di jazz.

“Keith Jarrett a portrait – seipersei – Pgg. 112” è invece di impostazione completamente diversa. Si tratta di un vero e proprio omaggio, o se volete un atto d’amore, che il fotografo dedica ad uno dei più grandi pianisti del jazz. Le foto sono accompagnate da testi di Geoff Dyer, Franco Fabbri e dello stesso Masotti il quale afferma esplicitamente che “In questa lunga serie di fotografie che osservo retrospettivamente, si gioca decisamente sulla presenza, quella del corpo e dello strumento, che compaiono nell’immagine. Le foto sono il risultato di una intima e oggettiva attenzione nei confronti di un artista a lungo seguito e ammirato, ma anche di una sua risposta che è consapevole accettazione, e soprattutto, partecipazione. Suo, solo suo, è il suono di una musica inconfondibile che la serie di fotografie ambisce di evocare e far risuonare.” In effetti Masotti ha assistito ad un centinaio di suoi concerti avendo così moltissime occasioni per estrinsecare la sua arte. Il libro si apre con una foto molti importante nella vita di Roberto: siamo nel 1969 e Keith Jarrett si esibisce al Teatro Comunale di Bologna nell’ambito del locale jazz Festival. Masotti non è ancora un professionista; fotografa con la Rolleiflex del padre, ma il risultato è talmente soddisfacente da indurlo a proseguire lungo la via delle foto. Dopo questa prima foto, gli scatti, esclusivamente in bianco e nero, sono organizzati in ordine cronologico fino al 2009… ed è davvero straniante constatare come l’aspetto del pianista sia cambiato con lo scorrere del tempo e come Masotti sia riuscito a cogliere gli aspetti più intimi della personalità dell’artista…anche perché è stato per lungo tempo l’unico fotografo ammesso alle prove di Jarrett. Ecco quindi il pianista impegnato durante un concerto… o in un momento di riposo accomodato in poltrona… o ancora seduto dietro una batteria o intento a suonare il sax soprano. E ammirando queste foto si ha quasi l’impressione di sentire le dita di Jarrett scorrere sulla tastiera per quelle straordinarie improvvisazioni che ci hanno deliziato fino al 2018 anno che ha segnato il definitivo abbandono delle scene da parte del pianista colpito da due ictus.

Gerlando Gatto

Maurizio Giammarco protagonista al Maderna Jazz Festival 2021 di Cesena con una masterclass e un concerto

Venerdì 17 e sabato 18 settembre 2021, il grande sassofonista Maurizio Giammarco sarà protagonista del Maderna Jazz Festival 2021. Il sassofonista condurrà il workshop “Gli itinerari dell’improvvisazione” e poi, nella serata di sabato 18 settembre, al termine delle attività didattiche, Maurizio Giammarco si esibirà in concerto insieme ai docenti del Conservatorio “Maderna” e ai musicisti che lo hanno coadiuvato nelle attività didattiche, vale a dire Mariano Di Nunzio alla tromba, Michele Francesconi al pianoforte, Paolo Ghetti al contrabbasso e Luca Santaniello alla batteria.

Il concerto si terrà a Cesena, nel Chiostro di San Francesco, alle 21. In caso di maltempo, verrà spostato nella Sala Dellapiccola del Conservatorio “Bruno Maderna”.

Il workshop “Gli itinerari dell’improvvisazione” condotto da Maurizio Giammarco vuole fornire un ampio spettro di argomenti di riflessione e concreti strumenti di studio per affrontare i molteplici aspetti dell’improvvisazione, sia che questa indirizzata al repertorio classico del jazz sia che invece guardi ai materiali originali di vario tipo.

L’improvvisazione, se praticata ad alti livelli, andrebbe meglio definita come composizione estemporanea, essendo una prassi che richiede al musicista una mole di conoscenze musicali che va ben oltre la mera maestria strumentale. Il workshop alternerà momenti di natura teorica (con argomentazioni e ascolti analitici) e pratica: gli studenti verranno invitati a cimentarsi col repertorio classico ma anche con originali di Giammarco per affrontare spunti musicali differenti.

Il workshop sarà articolato in tre momenti. Venerdi 17 settembre, la prima sessione di terrà dalle ore 10 alle 13, mentre nel pomeriggio le attività avranno luogo dalle 15 alle 18. Sabato 18 settembre, i lavori si completeranno con la sessione mattutina in programma dalle ore 10 alle 13.

Al termine del workshop, Maurizio Giammarco si esibirà in concerto insieme ai docenti del Conservatorio “Maderna” che lo hanno coadiuvato nelle attività didattiche. Sul palco avremo un quintetto formato da Maurizio Giammarco al sax tenore, Mariano Di Nunzio alla tromba, Michele Francesconi al pianoforte, Paolo Ghetti al contrabbasso e Luca Santaniello alla batteria.

Maurizio Giammarco è protagonista del Jazz in Italia fin dai primi anni ’70. Nel corso della sua carriera lo abbiamo conosciuto come solista di assoluto spessore, compositore, arrangiatore e leader di organici ampi. Alcune delle formazioni di cui ha fatto parte hanno segnato la storia mdel jazz italiano come Lingomania (considerato il gruppo più rappresentativo degli anni ’80) o la Parco Della Musica Jazz Orchestra, big band residente dell’Auditorium di Roma, di cui è stato direttore tra il 2005 e il 2010.

Il sassofonista vanta uno stile riconoscibile sul piano solistico come compositivo, frutto di una sintesi personale del proprio vissuto. Ha suonato con moltissimi musicisti di fama internazionale e con tutti i più importanti musicisti italiani. Ha composto e arrangiato musica per teatro, danza, cinema, cd roms, orchestra sinfonica e orchestra d’archi. Da sempre attivo anche in campo didattico, è stato autore di una monografia su Sonny Rollins (1996) e di un libro di sue composizioni e trascrizioni edito dalla Carish (2012). Ha diretto la rassegna Termoli Jazz Podium dal 2000 al 2006.

Il Maderna Jazz Festival è la rassegna organizzata dal Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna” di Cesena ed è coordinata dal pianista Michele Francesconi.

Tutti gli eventi del Maderna Jazz Festival 2021 si svolgono a Cesena e sono ad ingresso libero. A causa delle restrizioni legate alla situazione sanitaria, per poter partecipare ai singoli eventi sarà necessaria la prenotazione, inviando una mail a eventi@conservatoriomaderna-cesena.it

Le eventuali variazioni del programma causate dalle evoluzioni della situazione sanitaria in corso saranno comunicate tempestivamente sul sito del Conservatorio (www.conservatoriomaderna-cesena.it) e sui canali social del Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna”.

Domenica 19 settembre 2021, il Maderna Jazz Festival si completerà con il concerto della Big Band del Conservatorio Maderna diretta da Giorgio Babbini in programma alle 21, al Chiostro di San Francesco (in caso di maltempo, il concerto sarà spostato al Teatro Verdi).

Il Chiostro di San Francesco si trova a Cesena, in Via Montalti, dietro la Biblioteca Malatestiana.

I NOSTRI CD. Il jazz italiano omaggia Morricone

Cari amici, prima di andare in vacanza, “A proposito di jazz” vi propone una serie di album, italiani e stranieri, che vale la pena ascoltare. E si comincia con tre eccellenti CD dedicati al cinema.

Stefano Di Battista – “Morricone stories” – Warner

Questo del sassofonista Stefano Di Battista è il primo dei tre album dedicati al cinema che viene ospitato nella nostra abituale rassegna discografica. L’album è particolare in quanto Di Battista, ben coadiuvato da Fred Nardin al pianoforte, Daniele Sorrentino al contrabbasso e il fantastico André Ceccarelli alla batteria, dedica questa sua ultima impresa discografica a Ennio Morricone, uno dei più grandi musicisti italiani degli ultimi tempi, al quale era legato da profonda e sincera amicizia. E lo fa nel modo migliore, vale a dire tralasciando i brani più noti, quelli che tutti conosciamo, per far ricorso ad alcune vere e proprie perle del Maestro che purtroppo non sempre godono di grande popolarità. Così l’unico brano universalmente conosciuto è “Metti una sera a cena” dall’omonimo film del 1969 diretto da Giuseppe Patroni Griffi, con Lino Capolicchio e Florinda Bolkan magnifici interpreti. Di Battista ce lo ripropone in una versione swingante in cui il sassofonista si produce in uno degli assolo più riusciti dell’intero album, che nulla toglie all’originaria bellezza del pezzo. Toccante, così come l’originale, “Tema di Deborah” da “C’era una volta in America” mentre in “Gabriel’s Oboe” da “Mission” Di Battista sostituisce il suo sax soprano all’originario oboe, con risultati straordinari nel mantenere sempre e comunque l’originaria bellezza della scrittura ‘morriconiana’. E questa sorta di devozione si avverte anche nel modo in cui la musica viene eseguita: niente muscolose esibizioni di bravura, niente arrangiamenti particolarmente sofisticati, insomma nessun escamotage per stupire l’ascoltatore, ma solo il piacere di suonare una musica evidentemente amata e profondamente vissuta. Splendida, e come poteva essere diversamente, anche l’interpretazione di “Flora” un pezzo che Morricone scrisse appositamente per Di Battista. Il disco è stato preceduto dai tre singoli “Peur sur la ville” (uscito il 29 gennaio), “Cosa avete fatto a Solange?” (uscito il 26 febbraio) e “Gabriel’s Oboe” (uscito il 19 marzo).

Marco Fumo – “Il mio Morricone” – Oradek

Ecco il secondo album dedicato a Morricone, firmato da Marco Fumo che more solito si esprime in solitudine. Anche questa volta la scelta dei brani è ben meditata: per la successione dei brani è stato scelto l’ordine cronologico mentre per i contenuti è lo stesso Fumo a venirci incontro nelle note che accompagnano l’album. Così i quattro preludi (“Cane bianco”, “Star System”, “Metti una sera a cena”, “Indagine”) e le quattro canzoni (“Il deserto dei tartari”, “Le due stagioni della vita”, “Got mit Uns” “Il potere degli angeli”) più “Nuovo cinema Paradiso” sono stati scelti in quanto da sempre fanno parte del repertorio di Fumo così come “scelta obbligata” è stata anche quella di “Rag in frantumi”, scritto da Morricone nel lontano febbraio 1986 ed espressamente dedicato proprio a Marco Fumo. Interessante sottolineare come Fumo mai abbia inciso le musiche di Morricone avendole, invece, eseguite spesso dal vivo (eccezion fatta per il già citato “Rag in frantumi” presente in vari album del pianista). Insomma un CD profondamente sentito, a dimostrazione di come Morricone fosse amato anche dai suoi colleghi e di quanto profondo, in particolare, fosse il legame che intercorreva tra Morricone e Fumo. “Questo – conclude le sue note Marco Fumo – è quello che sento e posso fare, dal cuore”. Dal punto di vista prettamente musicale, lo stile di Fumo è oramai riconoscibile: una assoluta conoscenza della letteratura pianistica – in particolar modo jazzistica – un sound fresco ma incisivo frutto di una solida preparazione di base, doti interpretative non comuni. Così, sotto le sue sapienti mani, i brani di Morricone rivivono letteralmente imponendosi all’attenzione anche dell’ascoltatore più distratto.

Renzo Ruggieri, Mauro De Federicis – “Ciak” – Vap

Il terzo album in qualche modo dedicato al cinema è questo “Ciak” che vede impegnati Renzo Ruggieri alla fisarmonica e Marino De Federicis alla chitarra. Si tratta di un duo ampiamente collaudato che ha già inciso un album, “Terre” (2008), e che si è esibito con successo in Finlandia e Austria, oltre che in diversi festival italiani. Adesso tornano a presentarsi al pubblico del jazz con questo nuovo album composto da cinque brani per un totale di circa ventisette minuti di musica comunque di eccellente qualità. Il fatto è che Renzo Ruggieri si è oramai imposto all’attenzione del pubblico internazionale come uno dei migliori fisarmonicisti non solo italiani e può vantare una certa parsimonia nell’entrare in sala di registrazione: tutti i suoi album conservano uno standard qualitativo molto elevato grazie al fatto che Renzo decide di incidere un disco solo se ha qualcosa da dire. Dal canto suo Mauro De Federicis può esibire una preparazione di base di assoluto rispetto e una continua frequentazione con l’olimpo del jazz testimoniato dalle collaborazioni con nomi prestigiosi quali Dee Dee Bridgewater, Paolo Fresu, Bob Mintzer, tanto per fare qualche esempio. In questo album, dedicato al cinema, i due hanno scelto di eseguire due composizioni originali e tre brani di assoluto spessore come “Il postino” di Luis Bacalov, Riccardo Del Turco e Paolo Margheri, “La gita in barca” di Piero Piccioni e “Speak Softly Love” di Rota tratto da “Il Padrino”. Una scelta coraggiosa non fosse altro che per aver tralasciato quel Morricone cui viceversa sono dedicati i due precedenti album. Particolarmente interessante il modo in cui i due attualizzano le atmosfere proprie di giganti del cinema dedicando loro due brani, “De Niro” (Marino De Federicis) e “Fellini” (Ruggieri). Comunque il pezzo che più mi ha toccato è stato “Il Postino” il cui originario pathos è stato perfettamente riproposto. E devo dire che in questo tipo di riletture Ruggieri è davvero un maestro: basti dire che ogni qualvolta lo ascolto eseguire “Caruso” mi è difficile contenere la commozione.

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Claudio Angeleri – “Music from the Castle of Crossed Destinies” – Dodicilune

Conosco e apprezzo oramai da molti anni Claudio Angeleri e non credo di sbagliare di molto se affermo che questo album è uno dei migliori che il pianista bergamasco abbia prodotto nel corso della sua oramai lunga carriera. A coadiuvarlo in questa ennesima fatica un gruppo di eccellenti musicisti: Giulio Visibelli (sax soprano, flauto), Paola Milzani (voce), Virginia Sutera (violino), Michele Gentilini (chitarra elettrica), Marco Esposito (basso elettrico), Luca Bongiovanni (batteria, percussioni) e, nel brano “Two or three stories”, Gabriele Comeglio (sax alto). Oltre al celebrato “Round about Midnight” di Monk, l’album consta di otto composizioni dello stesso Angeleri liberamente tratti dal breve romanzo fantastico “Il castello dei destini incrociati” di Italo Calvino. “L’idea di realizzare un nuovo progetto intorno alla letteratura di Italo Calvino – afferma lo stesso Angeleri – scaturisce da un invito del MIT Jazz Festival di Musica Oggi al Piccolo Teatro di Milano nello scorso novembre 2019. Lo spettacolo è stato poi replicato a gennaio al Blue Note, per essere messo in scena a luglio alla rassegna che ha significato la ripresa dal vivo dopo il lockdown a Bergamo”. E di certo bisogna avere una fervida immaginazione e soprattutto molto coraggio per trasporre in musica la scrittura non facile e mai banale di Italo Calvino. Di qui una musica ricca di colori in cui non sempre è facile distinguere le parti improvvisate da quelle scritte. Una musica in cui i vari strumenti diventano essi stessi voci narranti sì da rappresentare, – spiega ancora Angeleri – “per il loro carattere sonoro specifici personaggi”. Come si evince da queste poche note un compito davvero difficile che solo un musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, in possesso di una solida preparazione non solo come strumentista, poteva pensare di intraprendere e di traghettare alla meta con successo.

Nik Bärtsch – “Entendre” – ECM

Per chi ancora non conoscesse questo straordinario pianista e compositore svizzero, ecco un’ottima occasione per colmare questa lacuna. Nel panorama jazzistico internazionale oggi Bärtsch è personaggio imprescindibile tale e tanta è l’importanza che man mano va assumendo grazie anche ad alcune produzioni discografiche di eccellente livello. E’ questo il caso di “Entendre” declinato attraverso sei originali tutti composti da Nik e tutti eseguiti al piano solo. Lo stile dell’artista è assolutamente personale in quanto risultato da molti anni di continue sperimentazioni in cui Bärtsch ha cercato – e trovato – una soddisfacente sintesi tra jazz, minimalismo, poliritmie. Molti dei brani (quasi tutti intitolati Modul + numero, secondo consuetudine di Bärtsch) sono già stati presentati in altri album ma il pianista li rivisita apportando modifiche non di poco conto. Così ora tralascia precedenti climi jazz-rock per affidarsi unicamente alle sonorità dello strumento, ora si affida al giuoco minimalista alla ricerca con grande personalità di sottili variazioni timbriche. Il tutto completato da straordinarie capacità interpretative che portano l’artista a misurarsi anche sul piano dell’espressività. Si ascolti con attenzione l’apertura di “Modul 5” già proposto in “Llyrìa” (2010): la ricerca spazio-temporale in cui Bärtsch inserisce il suo pianismo è assolutamente straordinaria e mai conosce un attimo di stanca pur articolandosi su poche note che comunque delineano un quadro ben preciso. L’album si chiude con lo splendido “Déjà-vu, Vienna”, il pezzo più breve di “Entendre” (5:15), dal vago sapore impressionistico e dalla riconoscibile linea melodica elemento non certo usuale nelle concezioni di Bärtsch.

Enzo Carniel, Filippo Vignato – “Aria” – Menace

E’ davvero un piacere presentare questi due giovani straordinari musicisti che ancora non sono molto conosciuti dal pubblico italiano, ma la cui collaborazione era forse scritta negli astri dal momento che ambedue sono nati nel 1987. Enzo Carniel è un pianista francese dedito allo studio dello strumento sin da giovanissimo; sale agli onori della cronaca nel 2019 quando incide, con il gruppo House Of Echo, l’album ‘Wallsdown’. Filippo Vignato è a ben ragione considerato l‘astro nascente del trombonismo jazz italiano; anch’egli ha cominciato a studiare musica sin da bambino (a dieci anni) e oggi può vantare uno stile e una tecnica assolutamente personali. Ad onta delle difficoltà notoriamente insite in un duo, soprattutto se due artisti si cimentano per la prima volta in un organico del genere, questo “Aria” evidenzia una profonda empatia, un’intesa che trova la sua ragion d’essere nell’idem sentire dei due musicisti. Così il dialogo si svolge su binari sicuri anche se non banali, mai dando così all’ascoltatore l’impressione del ‘già sentito’ o peggio ancora di moduli predefiniti. Il risultato è un sound del tutto particolare determinato anche dall’uso del Fender Rhodes e dei sintetizzatori, la visione di un universo musicale multicolore, in cui i due artisti improvvisano continuamente essendo perfettamente in grado l’uno di capire le intenzioni dell’altro, in un susseguirsi si input, di stimoli, di processi creativi che si susseguono senza soluzione di continuità. Il tutto impreziosito da una riuscita ricerca sulle linee melodiche che costituiscono l’ossatura stessa dell’intero repertorio, otto brani tra cui spicca per intensità emotiva “Aria” la composizione che apre l’album in acustica per chiuderlo in versione elettronica. L’album, uscito il 16 aprile scorso per l’etichetta franco-giapponese Menace è stato anticipato da due singoli: la title-track Aria uscito il 5 febbraio e Babele uscito il 10 marzo.

Vittorio Cuculo Quartet – “Ensemble” – Wow Records

Lo stato di maturità del jazz italiano è dimostrato, seppur ce ne fosse ancora bisogno, dal proliferare di nuovi talenti. Tra questi c’è senza dubbio alcuno il ventisettenne sassofonista romano (alto e soprano) Vittorio Cuculo al suo secondo album. Il titolo è determinato dal fatto che il quartetto capitanato da Cuculo incontra i sassofoni della Filarmonica Sabina “Foronovana” con risultati eccellenti ma di cui parleremo tra poco. Il quartetto comprende, altre al leader, Danilo Blaiotta al pianoforte, Enrico Mianulli al contrabbasso, Gegè Munari alla batteria e in veste di special guest Lucia Filaci che interpreta con coraggio e bravura la cover di “Brava”, il pezzo di Bruno Canfora portato al successo da Mina. Il resto del repertorio è costituito da sei brani standard appartenenti alla tradizione jazz frutto della verve compositiva di alcuni grandi quali Charlie Parker, Errol Garner, Juan Tizol, Thelonius Monk, Rogers & Hart e due composizioni originali di Roberto Spadoni. Ciò detto vediamo più da vicino la musica proposta. Si tratta di un jazz mainstream che si rifà chiaramente agli stilemi del bop e dell’hard-bop interpretato con efficacia dal gruppo nel suo complesso che ben si amalgama con i fiati della Filarmonica, dando vita ad un sound particolare. Ovviamente sempre in primo piano il leader che data la scelta del repertorio comunica apertamente l’intento di volersi confrontare con un certo tipo di jazz sebbene avvalendosi di nuovi arrangiamenti, firmati da Riccardo Nebbiosi, Mario Corvini, Roberto Spadoni e Massimo Valentini. Ora che un giovane musicista scelga di suonare bop, ci sta tutto…ci mancherebbe altro. Solo che ci piacerebbe ascoltare Cuculo anche in contesti diversi in cui magari le eccelse capacità tecniche non sono poi così fondamentali.

Joe Debono Quintet – “Acquapazza” – Anaglyphos

Dino Rubino alla tromba e al flicorno, Rino Cirinnà al sax tenore, Joe Debono al pianoforte, Nello Toscano al contrabbasso e Paolo Vicari alla batteria sono i componenti del Joe Debono Quintet. Prodotto dall’etichetta discografica Anaglyphos Records e supportato da Malta Arts Fund – Arts Council Malta, la tracklist del CD è formata da otto composizioni originali del pianista, e da “Innu Lil San Guzepp”, un inno di San Giuseppe composto dal compositore maltese Carlo Diacono all’inizio del ventesimo secolo. In un momento come l’attuale, in cui il jazz si sta praticamente frammentando in moltissimi rivoli, in cui non sempre è facile trovare tracce di un passato anche se non remoto, questo album ci riporta in piena atmosfera jazz, senza equivoci di sorta. Il linguaggio di tutti è perfettamente in linea con le migliori tradizioni della musica afro-americana senza per ciò peccare di pedissequa imitazione. Ottima la ricerca sul sound come dimostra l’impasto sonoro determinato dalle parti suonate all’unisono da sassofono e tromba, sempre ben sostenute da una eccellente sezione ritmica. E al riguardo non si può non sottolineare da un canto la conferma a livelli straordinari di un musicista come Dino Rubino (che forse molti non lo sanno ma suona benissimo anche il pianoforte) e la rapida ascesa di Paolo Vicari batterista giovane ma già in possesso di una buona tecnica. Ovviamente più che positivo l’apporto di Rino Cirinnà sassofonista di vaglia e di Nello Toscano contrabbassista siciliano tra i più validi a livello nazionale. Bisogna comunque dare atto a Joe Debono, pianista e compositore maltese, di aver saputo costituire un quintetto capace di produrre un jazz elegante, raffinato, con un repertorio assolutamente confacente alle caratteristiche dei singoli musicisti. Si ascolti al riguardo “Gigi”, brano dolcissimo introdotto dallo stesso Debono e ben sviluppato dai fiati.

Alessandro Deledda – “La linea del vento” – Le Vele

Undici brani originali declinati attraverso una interpretazione per piano solo. Con questo album Alessandro Deledda, jazzista sardo che abita a Perugia, abbandona la strada tracciata in precedenza sia con l’elettro-jazz di “Conception & Contamination” del 2011 assieme a Simone Alessandrini, sax e Mirko Ferrantini, dj, ritmiche, sia con il CD del 2014, “Morbid Dialogues” in cui era alla guida di un quartetto di chiara impronta jazzistica con Francesco Bearzatti al sassofono, Silvia Bolognesi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria. Infatti questa volta si presenta al pubblico nella duplice veste di compositore (il repertorio è tutto da lui scritto) ed esecutore. Il risultato è apprezzabile: le composizioni sono ben strutturate, con una bella linea melodica, e inserite in un ambito in cui le sensazioni più intimiste sembrano prevalere sul resto. Non a caso alcuni titoli – “Ginevra”, “Sulla strada di casa tua”, “L’Aquilone”, “Gino e l’ulivo” – sembrano riferirsi ad esperienze direttamente vissute dal musicista. Così ad esempio “Madreterra” è un esplicito omaggio alla terra natia mentre “Ginevra”, afferma Deledda, “è la storia di una cagnolina, chiamata Ginevra che ritrova nella sua nuova famiglia il suo sorriso, abbandonato nel bosco con le sue fragilità, per andare a vivere fedele una nuova melodia”. Dal punto di vista esecutivo lo stile pianistico di Deledda rifugge sia da qualsivoglia sperimentazione sia da passaggi particolarmente complessi e arditi per frequentare terreni più aperti alla comprensione, in cui i riferimenti al jazz si mescolano con quelli alla popular music.

Massimo Donà – “Magister Puck” – Caligola

A solo un anno da “Iperboliche distanze”, ecco tornare sulle scene discografiche il filosofo–trombettista Massimo Donà (nell’occasione anche chitarrista e rapper), alla testa di un ampio organico in cui spiccano i nomi del sassofonista Michele Polga e del batterista Davide Ragazzoni, quest’ultimo unico musicista presente, insieme al leader, in ogni traccia del Cd; in un solo brano (“E chi no”) è possibile ascoltare anche Francesco Bearzatti. Questo nuovo album, “Magister Puck”, si sostanzia, quindi, di colori, atmosfere assai diversificate pur mantenendo una sua coerenza di fondo. Ecco, quindi, in apertura “Topi in terrazza” di chiara impronta funky così come “Tagology” che non a caso presenta quasi lo stesso organico del pezzo di apertura con, oltre al leader, Michele Polga al sax tenore, Maurizio Trionfo alla chitarra, Stefano Olivato basso e clavinet, Davide Ragazzoni batteria, assente, quindi, Bebo Baldan al sintetizzatore. Più influenzato dal pop, seppure di classe, “I’m in Love” impreziosito dalla voce di Paola Donà e con un bell’assolo, vagamente davisiano, del leader. Anche “Magister Puck’s Theory” sembra seguire le orme del precedente “I’m in Love” prima di trasformarsi in un incalzante rap dal testo significativamente ironico. Nel brano decisamente più lungo dell’intero album, “E chi no”, si rinnova la collaborazione tra Massimo Donà e David Riondino che frutti succosi aveva già dato nel precedente album dello stesso trombettista, “Iperboliche distanze”, dedicato alla figura del grande filosofo veneto Andrea Emo. Il disco si chiude con una registrazione del 1989, “Irrisoluzione cromatica”, ad opera di un sestetto di chiara derivazione davisiana post ’69.

Cettina Donato, Ninni Bruschetta – “I siciliani – Vero succo di poesia” – Alfa Music

Pochi anni fa ero stato fin troppo facile profeta nel prevedere che Cettina Donato sarebbe divenuta una delle punte di diamante del jazz mady in Italy. Ciò perché sin dall’inizio l’artista messinese mostrava una completezza straordinaria essendo allo stesso tempo, pianista preparata, compositrice assai feconda, capace direttrice anche di grosse formazioni. Il tutto è ben compendiato in questo ultimo album in cui si fortifica quella stretta collaborazione che oramai va avanti da qualche tempo tra Cettina e l’attore, regista anch’egli siciliano, Ninni Bruschetta. I due sono reduci dai successi teatrali de “Il mio nome è Caino” di Claudio Fava, i quali, dopo aver interpretato un testo di impegno civile servendosi solo di voce e pianoforte presentano adesso il volto poetico e letterario dell’isola. Di qui l’album “I siciliani”: otto pezzi originali scritti dalla Donato con testi dello scrittore siciliano Antonio Caldarella scomparso nel 2008, interpretati da un gruppo con Dario Cecchini (clarinetto basso, sax soprano e baritono), Dario Rosciglione (contrabbasso e basso elettrico), Mimmo Campanale (batteria e percussioni) con l’aggiunta degli archi della B.I.M. Orchestra e dell’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (che interpreta “Le siciliane”). Tutti gli altri brani sono affidati alla voce spesso roca e graffiante di Bruschetta che si amalgama in maniera straordinaria con il pianismo della Donato e più in generale con il sound dell’ensemble. Come sottolineato in apertura, la Donato trova quindi terreno fertile per evidenziare tutte le sue capacità, di strumentista, di compositrice, di arrangiatrice e di direttrice d’orchestra, in un alternarsi di atmosfere che forse solo un siciliano doc può capire sino in fondo. Una musica che sottolinea alcune peculiarità di una terra tanto straordinaria quanto ancora oggi ben difficile da vivere.

Ganelin, Kruglov, Yudanov – “Access Point” –Losen Records

Ecco un trio di assoluto livello internazionale composto da Slava Ganelin al pianoforte, tastiere, live electronics e percussioni, Alexey Kruglov sax alto e soprano, Oleg Yudanov batteria e percussioni, vale a dire tre dei migliori esponenti del free jazz russo. Quindi un organico non usuale caratterizzato dalla mancanza del contrabbasso, impegnato in un repertorio di sei brani interamente scritto dai tre. Registrato il 13 novembre del 2017, l’album rappresenta uno dei migliori esempi di free jazz realizzato in Europa in quest’ultimo decennio. La cosa non stupisce più di tanto ove si consideri la statura artistica del russo Ganelin già noto al pubblico del jazz per il suo fantastico trio con Tarasov e Chekasin. Questa volta a completare il trio sono due altri jazzisti ma il risultato finale non cambia granché. Nato nel 2012 il trio frequenta il terreno della libera improvvisazione in cui non esistono strutture predefinite che viceversa si creano nel momento stesso in cui si suona, quindi in quello strettissimo lasso di tempo che passa dall’idea musicale all’esecuzione. Quasi inutile sottolineare come la musica sia caratterizzata da una forte energia creativa che trova in Ornette Coleman il suo nume tutelare e che mai conosce un attimo di stanca con i tre musicisti che riescono a ritagliarsi spazi appropriati alle loro grandi possibilità. Il clima generale dell’album è perfettamente disegnato sin dal primo brano, quando dopo una sorta di introduzione a tempo lento il sassofonista prende in mano le redini del gruppo e si lancia in una trascinante improvvisazione, seguito a ruota da Ganelin mentre Yudanov sorregge il tutto con precisione; a circa 2:40 Ganelin si sostituisce a Kruglov mantenendo un clima incandescente che non muta quando a circa tre quarti dell’esecuzione Kruglov passa al sax soprano. E sarà poi questa l’atmosfera che si respirerà durante tutto l’arco dell’album.

Vijay Iyer – “Uneasy” – ECM

Nato ad Albany da genitori indiani di etnia dravidica Tamil, Vijay a cinquant’anni viene giustamente considerato uno dei migliori pianisti jazz oggi in esercizio. Considerazione conquistata grazie ad un talento cristallino e ad una personalità molto forte che è riuscita a coniugare un profondo sapere extra-musicale (è laureato in matematica e fisica alla Yale, insegnante ad Harvard, esperto in psicologia cognitiva con specifico riferimento alla capacità psico-fisica di relazionarsi ai vari linguaggi musicali) con una straordinaria dedizione alla musica essendo giunto al ventiquattresimo disco da leader, senza considerare le moltissime composizioni eseguite anche da formazioni non jazzistiche. In questo “Uneasy” Vijay suona in trio con Linda May Han Oh, contrabbassista di origine malese ma cresciuta in Australia e poi negli States e Tyshawn Sorey alla batteria, personaggio ben apprezzato sia nella musica classica sia nel jazz. In repertorio dieci composizioni tutte scritte dal pianista eccezion fatta per “Night and Day” di Cole Porter e “Drummer’s Song” di Gery Allen. Il clima nel cui ambito si muove Iyer è quello bop e post-bop, quindi un jazz sanguigno che si rifà alle radici più autentiche della musica afro-americana e che proprio per questo necessita di una profonda conoscenza della materia. Conoscenza che sicuramente non manca nel bagaglio dell’artista, il cui pianismo si svolge solido per tutta la durata dell’album validamente supportato da batteria e contrabbasso precisi e propositivi nella loro costante azione. Non si esagera affermando che tutti i brani meritano un attento ascolto anche se lo standard “Night and Day” si fa particolarmente apprezzare per come l’artista riesce a personalizzare il brano senza alcunché perdere né dell’originaria riconoscibilità né tanto meno della sua splendida linea melodica. Particolarmente interessante anche “Entrustment, brano di profonda suggestione, intimista, a chiudere nel modo migliore un album assolutamente consigliato.

Sinikka Langeland – “Wolf Rune” – ECM

Il Kantele è lo strumento tipico della musica folkloristica finlandese e Sinikka Langeland è specialista di questo strumento nonché cantante folk di Finnskogen, la « foresta finlandese » norvegese. In questo sesto album targato ECM, Sinikka, diversamente da altri album, si appalesa in splendida solitudine utilizzando ben tre tipi di kantele, a cinque, a quindici e a trentanove corde, facendoci così apprezzare le innumerevoli sfaccettature dello strumento. Nella maggior parte dei brani Sinikka si esprime anche vocalmente, il tutto ad elaborare un’espressività che questa volta nulla ha da spartire con il linguaggio jazzistico, restando, comunque, sulla scorta di un’estetica che nella ECM ha trovato la sua più completa estrinsecazione. Insomma una musica tutta giocata su melodie ampie, ariose, spesso evocative, alle volte venate da quella sorta di dolce malinconia che attraversa le atmosfere nordiche. Una profondità d’ispirazione che caratterizza oramai le realizzazioni della Langeland, ispirazione che specie se, come chi scrive, conosci quei luoghi, non può non toccarti nel profondo. Dal punto di vista testuale, Sinikka ha tratto ispirazione da molte fonti: ecco quindi il drammaturgo Jon Fosse accanto al filosofo e mistico del tredicesimo secolo Meister Eckhart… e ancora il poeta norvegese Olav H. Hauge. In tale contesto suggerire un brano in particolare è impresa quanto mai ardua anche se la title track appare degna di particolare attenzione: brano molto delicato ed intimista racconta l’inverno, ovvero quello stato della natura in cui tutto pare fermarsi prima del risveglio primaverile. Per raccontarci tutto ciò l’artista alterna l’archetto al pizzichio delle dita sullo strumento e chiude il brano con la sua voce che si alza stentorea sull’accompagnamento strumentale.

Giovanni Maier, Massimo De Mattia – “Tilt – Improvised Concerto for Flute and Chamber Orchestra” – Artesuono

Ecco una preziosa realizzazione della Artesuono concepita per festeggiare la sua duecentesima produzione discografica: un cofanetto in edizione limitata di 300 copie, numerate a mano, contenente un CD audio, le tavole con le partiture pittoriche realizzate da Giovanni Maier, e le foto delle registrazioni scattate da Luca D’Agostino.
L’album è stato registrato dal vivo al teatro Revoltella di Trieste il 19 e 20 giugno 2019 durante il festival “Le Nuove Rotte del Jazz 2019”. Ora, al di là della bellissima confezione, la musica che viene proposta è di altissimo livello essendo stata concepita ed eseguita da due dei nostri migliori improvvisatori quali il flautista Massimo De Mattia e Giovanni Maier quest’ultimo nelle vesti anche di conduttore dell’organico comprendente musicisti e allievi del Conservatorio ‘G. Tartini’ di Trieste: Angelica Groppi, Rachele Castellano e Giovanni Dalle Aste (Viola), Simone Lanzi (Contrabbasso), Iva Bobanović (Chitarra classica), Piercarlo Favro (Chitarra), Anna Talbot (Arpa), Luigi Vitale (Vibrafono, Percussioni). Qui siamo nel campo della totale improvvisazione: la prassi esecutiva è quella della “conduction” per cui Maier fornisce agli esecutori una serie di comandi che fanno evolvere il flusso musicale in un senso piuttosto che in un altro. Certo questa tecnica produrrebbe frutti amari se non ci fossero artisti in grado di ben interpretarla: ecco Massimo De Mattia credo che sia in senso assoluto uno dei migliori del nostro Paese; improvvisatore dotato di una eccezionale musicalità è in grado di assorbire nella propria musica (e gliel’ho sentito fare personalmente) l’inaspettato cinguettio di un uccello così come il risuonare delle campane. Notevole anche il ruolo del vibrafonista Luigi Vitale che alterna un ruolo da solista a quello di rinforzo dell’orchestra. Partendo da queste premesse è facile capire come l’album, per chi sa ascoltare con orecchie e mente ben aperte, è da gustare nella sua interezza.

Michael Mantler – Coda, Orchestra Suite – ECM

Album davvero particolare questo di Michael Mantler, che si inserisce nel solco tracciato dal precedente album “Jazz Composer’s Orchestra Update” osannato dalla critica internazionale. Questa volta Mantler compie un’operazione ancora più audace; sceglie, nell’ambito della sua larga produzione, alcuni brani che considera particolarmente significativi e li riarrangia in forma di suite per farli eseguire da un’orchestra comprendente musicisti jazz e classici. Così i brani che ascoltiamo provengono dai seguenti album: “13 and ¾”, “Cerco un paese innocente”, “Alien”, “Folly Seeing All This”, “For Two” e “Hide And Seek”. Il risultato è semplicemente spettacolare grazie anche ai solisti di vaglia presenti in orchestra: Maximilian Kanzler acclamato come uno dei migliori giovani percussionisti e vibrafonisti del momento; il chitarrista Bjarne Roupé, membro fondamentale della Mantler’s Chamber Music and Songs Ensemble; il pianista austriaco David Helbock che a soli 37 anni è già un’icona della scena jazz europea… per non parlare dello stesso leader che si fa apprezzare, more solito, come eccellente trombettista. A tutto ciò si aggiunga la preziosa opera dell’Orchestra nel suo insieme (ben 26 elementi) e si avrà un quadro più preciso del perché si è definito spettacolare l’esecuzione di questa compagine. Tra i membri dell’orchestra da segnalare la presenza della croata violoncellista Asja Valcic che aveva già collaborato con Mantler nell’incisione dell’album “Jazz Composer’s Orchestra Update”. Coda è stato registrato al “Vienna’s Porgy & Bess Studio” nel settembre del 2019, e missato presso gli studi La Buissonne in Francia.

Mike Melillo – “In Free Association” – Notami

Il pianista americano Mike Melillo pubblica il suo nuovo album “In Free Association”, tratto da un radio-concerto effettuato nella primavera del 1974 in quartetto con Roy Cumming (contrabbasso), Glenn Davis (batteria) e Harry Leahey (chitarra). Essendo oggi impossibile ammirare ancora questo gruppo data la dipartita di Harry Leahey, l’ascolto di queste registrazioni, finora inedite, risulta ancora più interessante. La genesi del combo viene riassunta brevemente dallo stesso Melillo nelle note che accompagnano l’album. Apprendiamo, così, che inizialmente si trattava di un trio (senza Leahey) per cui Melillo componeva pezzi orchestrali e da camera sperimentali, Nel ’71, con l’arrivo di Leahey, il trio è diventato un quartetto che ha avuto un buon successo grazie alla qualità della musica proposta e che ritroviamo in questo album. In repertorio sei brani di cui tre scritti dal leader e gli altri tre vere e proprie perle del jazz come “Criss Cross” di Thelonious Monk, “Mimi” di Rodgers e Hart e “What’ll I Do” di Irving Berlin. Il tutto a costituire un insieme omogeneo e di grande livello. In effetti quello proposto dal gruppo è un Jazz senza se e senza ma, un jazz che si rifà agli stilemi del bop e dell’hard-bop con un Melillo che mette in evidenza le sue doti migliori. Un pianismo sorretto da una formidabile tecnica di base, che affronta con eguale bravura sia temi particolarmente complessi e sorretti da un ritmo veloce come “Criss Cross” e “See Hunt and Liddy” in cui si fa apprezzare anche la chitarra di Harry Leahey, sia brani più melodici come “A Little Piece” dello stesso Melillo e “What’ll I Do”. Impeccabile la sezione ritmica. Infine una notazione di carattere tecnico: nonostante si tratti di una ripresa da trasmissione radiofonica, la resa complessiva è più che accettabile.

Stephan Micus – “Winter’s End” – ECM

Ascoltare la musica del tedesco Stephan Micus (classe 1953) è come addentrarsi in una foresta incantata, impreziosita da episodi di rara bellezza. Episodi determinati dalle sorprese che in ogni sua avventura questo personaggio ci propone. In qualunque contesto si abbia la fortuna di incontrare l’arte di Micus, la mente vaga ben al di là del contingente, alla ricerca di un approdo che mai risulta facile trovare, e ciò indipendentemente dalla preparazione musicale di ciascuno. Siamo trasportati in un mondo “altro” in cui le certezze vacillano alla ricerca di un qualche appiglio sonoro che ci restituisca punti fermi, conoscenze a cui rifarsi. In effetti la musica di Micus non ammette di essere incasellata in un genere ben preciso per cui si mantiene ben lontana da qualsivoglia proposta commercialmente allettante. Più sopra si accennava alle sorprese che ogni volta il musicista ci riserva: questa volta la novità consiste nell’utilizzo di due strumenti presentati da Micus per la prima volta: il chikulo e il tongue drum. Il primo, come spiega lo stesso Micus nelle note di copertina, è uno xilofono basso del Mozambico utilizzato in gruppi che solitamente comprendono una dozzina di xilofoni, mentre il tongue drum è una scatola di legno originaria dell’Africa che può essere suonata con le mani o con le bacchette. Ora detta così non ci sarebbe alcunché di strano … salvo il fatto che Micus non è solo un compositore e un sorprendente polistrumentista ma un etnomusicologo costantemente in evoluzione e in viaggio, soprattutto in Asia e in Africa, con l’intento di scovare e studiare strumenti desueti, talvolta addirittura dimenticati. Una volta trovati, li modifica con nuove accordature prima di adoperarli, con risultati strabilianti. È impressionante il numero di strumenti che padroneggia, strumenti che si ascoltano nelle musiche originali di tutti i continenti. Ciò detto risulta facile immaginare la musica di quest’ultimo album in cui Micus, come al solito in assoluta solitudine, ci racconta a modo suo il fluire della vita attraverso il succedersi delle stagioni. Un album sicuramente impegnativo ma altrettanto certamente di sicuro interesse.

Mirabassi – Di Modugno – Balducci – “Tabacco e caffè” – Dodicilune

Così come nello sport non basta assemblare ottimi giocatori per fare una buona squadra, così nella musica non è detto che tre pur bravi musicisti riescano a produrre qualcosa di buono. Certo che se poi i tre musicisti rispondono ai nomi di Gabriele Mirabassi al clarinetto, Nando Di Modugno alla chitarra e Pierluigi Balducci alla chitarra basso le probabilità di ascoltare dell’ottima musica aumentano… e di tanto. Ed in effetti ottima musica è quella che si ascolta in questo “Tabacco e caffè” registrato sei anni dopo “Amori sospesi” che vedeva impegnato lo stesso trio. La linea ispirativa rimane sostanzialmente la stessa: una sorta di viaggio sulla rotta Mediterraneo, America del Sud attraverso un linguaggio originale in cui coesistono jazz, folk, tradizione classica. E non è certo un caso che in repertorio figurino nove brani di cui quattro composizioni originali rispettivamente di Mirabassi (“Espinha de truta”), Di Modugno (“Salgado”) e Balducci (“Tobaco y cafè” e “La ballata dei giorni piovosi”) e cinque riletture di brani più o meno celebri di Toninho Horta (“Party in Olinda”), Henry Mancini (“Two for the road”), Egberto Gismonti (“Frevo”), Guinga (“Ellingtoniana”) e della conclusiva “Choro bandido” firmata da Edu Lobo e Chico Buarque. Indipendentemente dal pezzo affrontato, l’interpretazione rimane calda, oseremmo dire intimista, con i tre che dialogano piacevolmente, in piena rilassatezza senza un solo momento in cui il trio sembra spinto verso lidi che non siano comuni ai tre. Interessanti le note di copertina di Gabriele Mirabassi in cui il clarinettista illustra l’importanza del tabacco e del caffè considerati vizi ma che in realtà “più di tutto sono modi di stare insieme. In Italia poi, veri fondamenti della cultura nazionale”.

Dino Plasmati, Antonio Tosques, Guitar Quartet – “On Air” – Caligola

Dino Plasmati chitarra, Antonio Tosques chitarra, Bruno Montrone organo e Marcello Nisi batteria sono i protagonisti di questa nuova produzione firmata Caligola. Particolarmente impegnativo il programma dal momento che comprende una serie di brani ‘storici’ con un solo pezzo originale scritto da Plasmati, “Boundless Energy”. Come recita il nome del gruppo, a indirizzare il tutto sono le due chitarre di Plasmati e Tosques suonate con tecnica tradizionale, senza cioè l’ausilio dell’elettronica, e questa “guida” si avverte ben certa per tutta la durata dell’album anche se non mancano, ovviamente, momenti in cui in primo piano sale l’Organo Hammond nelle sapienti mani di Bruno Montone; è il caso dell’original cui si faceva riferimento. Per il resto i due leader guidano il gruppo con mano sicura per nell’affrontare temi che sulla carta mal si prestano ad interpretazioni chitarristiche: è il caso ad esempio del brano d’apertura, “Airegin”, scritto da Sonny Rollins. Ma da questo punto di vista le sorprese non mancano: ecco quindi la convincente disinvoltura con cui eseguono “Your own Sweet Way” di Dave Brubeck o la delicatezza con cui cesellano “I’ve Accustomed to Her Face” di Loewe Lerner complice anche il bel lavoro di Montrone all’Hammond. O ancora la pertinenza di linguaggio con i ritmi sudamericani di “When Sunny Gets Blue” di Fisher-Segal, in cui si apprezza anche l’eccellente supporto di Nisi alla batteria. A chiudere una convincente interpretazione del colemaniano “Turnaround” eseguito dai due chitarristi senza sezione ritmica.

Emanuele Sartoris, Daniele Di Bonaventura – “Notturni” – Caligola

Ancora un duo e ancora bella musica. Protagonisti Emanuele Sartoris al pianoforte e Daniele Di Bonaventura al bandoneon. Vista la struttura dell’organico, si poteva temere una certa staticità dell’album a discapito del possibile interesse dell’ascoltatore. Pericolo assolutamente evitato dai due artisti che invece sfoggiano una verve fantastica dando vita a otto composizioni originali scritte dai due singolarmente o in cooperazione, che tengono desta l’attenzione dalla prima all’ultima nota. Merito da un canto della bellezza dei temi tutti caratterizzati da un’accurata ricerca melodica, dall’altro dalla perizia strumentale dei due che pur non sfoggiando alcuna particolare ricercatezza tecnica, suonano comunque con grande partecipazione e intensità. Doti che non si affievoliscono – anzi – quando decidono di reinterpretare due notturni di Chopin vale a dire il Notturno op.9 n.1 e il Notturno op.9 n.2, che non a caso aprono e chiudono l’album. Insomma un disco più che interessante scaturito dall’incontro tra il pianoforte di Emanuele Sartoris, musicista che ben conosce anche la musica classica, e il bandoneon di Daniele di Bonaventura, uno dei maggiori interpreti internazionali dello strumento. Un disco che sembra quasi invitarci ad una sorta di viaggio interiore alla scoperta di ciò che è veramente importante. E ci piace chiudere questa breve presentazione citando le parole con cui il violoncellista di fama internazionale Mario Brunello conclude le sue preziose note di copertina: “Un viaggio slow, un cammino nel vissuto della musica, a cui si aggiungono le improvvisazioni e l’ispirazione di due formidabili e coraggiosi musicisti che hanno il talento sincero per avvicinarsi ed addentrarsi nella magica atmosfera dei Notturni”.

Thomas Strønen, Ayumi Tanaka, Marthe Lea – “Bayou” – ECM

Album d’esordio per questo trio composto dal batterista Thomas Strønen, dalla pianista Ayumi Tanaka e dalla clarinettista, vocalist, percussionista Marthe Lea. L’album si inserisce in quella corrente che a partire dagli anni ’70 ha portato il jazz norvegese ai massimi livelli delle scene jazzistiche internazionali. Vale a dire una musica che si rifà al patrimonio folkloristico delle popolazioni nordiche (in particolare norvegesi) declinata attraverso un linguaggio che incorpora elementi tratti dal jazz, dalla musica classica e ovviamente dal folk. Non a caso in programma ci sono dieci brani tutti scritti dai tre musicisti ma tutti basati sul folk norvegese. Quindi una musica delicata, intimista, che affronta spazi aperti quali sono quelli che si aprono alla nostra mente quando pensiamo ai paesaggi nordici. Ascoltare l’intero album è un’esperienza singolare tanto che ad un certo punto è come se il concetto spazio-temporale si perda per assorbici totalmente nell’atmosfera creata dai tre musicisti che denotano, improvvisando costantemente, un affiatamento non comune. D’altro canto la genesi del gruppo spiega la ragione di tale empatia: dapprima si trattava di un duo composto da pianista e batterista cui in un secondo tempo si è aggiunta Marthe Lea. I tre si sono, quindi, trovati assieme alla “Oslo’s Royal Academy of Music” dove per ben due anni hanno provato assieme ogni settimana alla ricerca di un quid che permettesse loro di suonare musica improvvisata. Evidentemente questo quid l’hanno trovato e così è nato questo “Bayou” frutto come afferma lo stesso Strønen di quelle esperienze: “Noi suonavamo sempre liberamente – afferma – mescolando elementi di musica classica contemporanea, folk, jazz, a seconda di come ciascuno di noi era ispirato al momento. Alle volte la musica era molto calma, delicata e minimalista: suonando assieme si sono generate alcune speciali esperienze”: Quelle stesse esperienze che si avvertono ascoltando l’album.

Trøen, Arbesen Quartet – “Tread Lightly” – Losen

La sassofonista norvegese Elisabeth Lid Trøen (eccellente anche al flauto) si presenta alla testa di un quartetto con Dag Arnesen al piano, Ole Marius Sandberg al basso e Sigurd Steinkopf alla batteria. Il repertorio è costituito da dieci brani di cui otto scritti dalla leader e due dal pianista. Due le linee direttrici dell’album: da un canto la ricerca della linea melodica, dall’altro la capacità di improvvisare sulla stessa. Per rendersi conto, ad esempio, della capacità dei quattro di tener fede a quanto sopra detto basta ascoltare “Just Thinking”: il brano si apre su tempo lento con una linea perfettamente riconoscibile ma dopo l’esposizione del tema con la Trøen al flauto ecco un assolo di pianoforte che si avventura nelle pieghe del brano per scoprirne e lumeggiarne ogni più nascosto anfratto mentre sul finale si riascolta il flauto della leader. “Sarah’s Bounce” si apre a tempo di marcia sospinta dalla batteria di Steinkopf il quale, nello scorrere del brano, dimostra di poter avere anche un approccio melodico allo strumento. In ogni caso il pallino resta nelle mani di sassofonista e pianista che dimostrano di essere complementari nel loro linguaggio dato che le sortite solistiche dell’una vengono riprese ed rilanciate a tutto tondo dall’altro. Altro brano particolarmente interessante “Partysvensken” che si distacca piuttosto nettamente dalle atmosfere degli altri brani data la sua vicinanza, in alcuni momenti, agli stilemi del free jazz. L’album si chiude con “Denne” il pezzo che maggiormente richiama le atmosfere nordiche grazie soprattutto ad un meditativo assolo del pianista; di rilievo anche l’assolo del bassista Ole Marius Sandberg. Ma a proposito di atmosfere nordiche, l’ascoltatore più attento non potrà non rilevare qua e là, spiccate influenze della musica popolare norvegese che tanta importanza ha avuto sulla musica di quel Paese grazie ad artisti quali Jan Garbarek e Terje Rypdal.

Blues Connection – “Italian Way to Feel Blues” – Notami

E’ con vero piacere che vi segnalo questo “Italian Way to Feel Blues” non solo per la validità del progetto ma anche perché è presente un musicista a cui sono legato da particolari legami affettivi, un organista che ho conosciuto quando ancora abitavo in Sicilia (quindi primissimi anni ’70) e che ancora a mio avviso non ha ottenuto i riconoscimenti che merita. Sto parlando di Pippo Guarnera nell’occasione non solo all’organo Hammond ma anche al pianoforte. Oltre a lui e ovviamente al leader Vince Vallicelli alle percussioni, troviamo Nahuel Schiumarini alla chitarra elettrica, Andrea Valeri alla chitarra acustica, Roberto Luti al dobro e Felice Del Gaudio al basso. Come si può facilmente intuire da quanto sin qui detto, la musica è trascinante con tutti gli artisti in grado di ritagliarsi importanti spazi di improvvisazione. Ecco quindi Pippo Guarnera primeggiare all’organo in “Art” di Vallicelli, per lasciare successivamente spazio alle chitarre di Schiumarini e Valeri nonché al dobro di Roberto Luti, il tutto sorretto da una metronomica sezione ritmica con batteria e basso che non sbagliano un colpo. Insomma musica che fa battere il classico piedino sia che si affrontino temi originali (ben sette sui nove proposti dall’album) sia che si rileggano pagine importanti come “After Hours” di Avery Parrish standard jazz tra i più eseguiti che venne registrato per la prima volta dal suo stesso autore con la Erskine Hawkins Orchestra, il 10 giugno 1940 o “Windy e Warm” di John D. Loudermilk considerato a ben ragione un classico del fingerstyle, ripreso da artisti di assoluto livello quali Chet Atkins, Doc Watson e Tommy Emmanuel.

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Massimo Barbiero – “Woland – Omaggio a ‘Il maestro e Margherita’” – Autoprodotto
Massimo Barbiero, batterista e percussionista, è senza dubbio uno dei musicisti italiani più coerenti e originali, senza che, a tutt’oggi, abbia ottenuto i riconoscimenti che merita. Anche questo suo ultimo album si inserisce nell’ambito di quelle produzioni di qualità cui l’artista ci ha abituati oramai da molti anni. L’organico è un trio con Eloisa Manera al violino ed al violino elettrico a cinque corde e Emanuele Sartoris al pianoforte. In repertorio dieci brani che sostanziano un omaggio a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, uno dei più importanti lavori del Novecento letterario, e “Woland” è uno dei nomi germanici del Diavolo, ed è anche il nome (in russo Воланд) di uno dei personaggi chiave di questo romanzo. Quindi un concept album in cui la sapienza compositiva di Barbiero trova ancora una volta il modo di esplicarsi appieno, anche se questa volta il carico compositivo è ripartito egualmente fra i tre artisti. Ammesso e non concesso che sia ancora importante definire ciò che si ascolta, incasellarlo in una cornice predeterminata, ebbene con la musica di questo album tutto ciò non è possibile. Non è jazz propriamente detto, non è musica colta nell’accezione del termine ma una sorta di percorso tra culture musicali diverse, alle volte molto diverse. E sta proprio qui la bravura dei musicisti che nulla concedono al facile ascolto riuscendo comunque a conquistare l’attenzione dell’ascoltatore sin dal brano d’apertura, “Abadonna” di Massimo Barbiero, in cui violino e pianoforte quasi si inseguono su un terreno accidentato che taluni hanno voluto accostare ad atmosfere impressioniste. In “Margherita”, sempre di Massimo Barbiero, è soprattutto il violino, ben supportato dal tappeto ritmico disegnato dal leader, a dettare le atmosfere del brano, questa volta più leggibili e narrative, in cui si avvertono echi sia di Vivaldi sia di Paganini. Di livello anche la suite in tre parti, di undici minuti, “Suite dei tre demoni” di Eloisa Manera, sempre in bilico fra scrittura ed improvvisazione, come del resto l’intero disco. La conclusione è affidata ad una composizione di Sartoris, “Pilato, potere temporale”, in cui il pianismo dell’autore si evidenzia in tutta la sua essenzialità, ben lontana da qualsivoglia esibizionismo.

Francesco Bearzatti / Carmine Ioanna – “Favolando” – artesuono 186
Carmine Ioanna, fisarmonicista d’origine irpina, e Francesco Bearzatti, sassofonista e clarinettista cresciuto nella provincia friulana, sono i “responsabili” di questo godibile album. Il titolo riflette la predilezione dei due artisti per raccontare, attraverso la musica, storie, in questo caso specifico ‘favole’. Il sodalizio nasce due anni or sono sulla base della comune volontà di improvvisare divertendosi e questa caratteristica si coglie appieno ascoltando l’album, declinato attraverso composizioni dei due artisti, un brano tratto dalla tradizione dell’Azerbaijan e tre improvvisazioni espressamente dichiarate come tali. Neppure per un attimo si avverte la sensazione che l’uno voglia prevaricare l’altro ma, sottolinea Ioanna, – siamo “due persone che si amano, si completano, non si sovrappongono mai perché vanno nella stessa direzione”. “Soprattutto c’è, secondo me, – ribadisce Bearzatti – una bella mescolanza di ego, nel senso che non c’è nessuno che sovrasta l’altro”. Una musica, quindi, che ci consegna due artisti in grado di improvvisare costantemente, mai perdendo il bandolo della matassa, anzi continuando a sviluppare un discorso sempre coerente e con tale intensità da non far rimpiangere la mancanza degli altri strumenti. Sassofono e fisarmonica, nella mani dei due artisti, riescono a produrre una massa sonora spesso di tipo orchestrale che si inserisce in una atmosfera davvero magica, “da favola” per riportarci al titolo dell’album, in cui si avvertono echi della musica popolare così come del jazz, della musica contemporanea, della world music. Il tutto, sottolinea ancora Bearzatti, per aprire delle piccole brecce, non già per fare musica di massa, e per puntare al grande pubblico.

Black Coffee & Martine Thomas – “Once Upon A Time” – Caligola 2273
Ecco un album raffinato, oserei dire in alcuni momenti sofisticato, in cui si privilegia senza remora alcuna la ricerca della bella melodia. Di qui un repertorio che spazia da alcuni temi cari agli appassionati di jazz (uno per tutti “My Favorite Things”), alla canzone francese, rappresentata da ben quattro titoli (“Et maintenant” di Gilbert Bécaud, “Ne me quitte pas” di Jacques Brel, “L’hymne à l’amour” di Edith Piaf e “La Bohème” di Charles Aznavour), dalla black music (“I Can’t Help It” di Stevie Wonder e Susaye Greene) ad esplicite reminiscenze blues (“Butterfly” di Herbie Hancock)… alle atmosfere vagamente brasiliane di “The Island” di Ivan Lins, Marilyn e Alan Bergman,… con l’aggiunta di due intermezzi strumentali “End of Chapter One e Two”. A cucinare questa gustosa ricetta sono la cantante americana di origini haitiane Martine Thomas che attualmente vive a Zara, coadiuvata dai Black Coffee, il trio croato costituito da Renato Švorinić, bassista e leader, dal pianista Ivan Ivić e dal batterista Jadran Dučić, cui si aggiungono come special guests Daniele di Bonaventura, bandoneon, presente solo in “Et maintenant”, e Massimo Donà, la cui tromba si ascolta in quattro tracce. Vista la varietà dei brani si potrebbe temere una certa disomogeneità dell’album. Invece “Once Upon A Time” mantiene una sua intrinseca coerenza derivante dal come il gruppo approccia la materia: innanzitutto la ferma volontà di rispettare le linee melodiche dei vari pezzi cui si aggiungono i sapidi arrangiamenti di Renato Švorinić e Ivan Ivić. E il discorso appare quanto mai evidente soprattutto nei quattro pezzi francesi interpretati con gusto ed eleganza dalla Thomas e impreziositi da arrangiamenti mai banali. In questo senso particolarmente apprezzabile è anche la versione di “I Can’t Help It” con un centrato assolo di Ivić al piano elettrico.

Felice Clemente – “Solo” – Crocevia di suoni 018
Affrontare la registrazione di un album per sole ance è impresa quanto mai difficile da cui sono usciti indenni solo alcuni grandissimi personaggi quali Sonny Rollins, Steve Lacy, Lee Konitz, Anthony Braxton. In questo album ascoltiamo un artista italiano, Felice Clemente, che usa sax tenore, sax soprano e clarinetto, in una registrazione effettuata nella chiesa settecentesca di Montecalvo Versiggia il 15 e 16 novembre del 2019. La scelta della location non è stata casuale o indifferente: in effetti, come acutamente sottolinea Paolo Fresu nelle note che accompagnano l’album, la dimensione armonica di un solo di sax e clarinetto si esplica nella magia dei rimandi di echi e riverberi, che traggono spunto dalla navata e dalle arcate di una chiesa o di una basilica. Quasi a dimostrare quanto il fitto dialogo tra gli strumenti e il luogo che li accoglie sia frutto di un “antico matrimonio che appartiene alla storia dell’uomo”. Ecco quindi come, grazie anche ad una presa di suono eccellente, sia possibile apprezzare in tutta la loro bellezza queste architravi sonore rette da echi, riverberi che solo in un ambiente come quello di una chiesa (ovviamente con caratteristiche particolari) sarebbe stato possibile ottenere. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se non ci fosse stata anche e soprattutto la valentia di Felice Clemente compositore, arrangiatore, esecutore di grande raffinatezza che ha voluto disegnare un percorso non facile attraverso un repertorio che parte da un classico del jazz, “Harlem Nocturne” di Hearle Hagen per concludersi con una libera improvvisazione, passando attraverso tre sue composizioni originali, e brani di Branford Marsalis, Godard, Morricone, Nuzzolese, Di Gregorio, Javier Perz Forte e Bach.

Cordoba Reunion – “Sì” – abeat 214
Ecco un altro gradevole album firmato Cordoba Reunion, ovvero il prestigioso quartetto costituito da musicisti tutti nativi della stessa città, Cordoba, ma residenti in paesi diversi (Francia, Italia e Argentina): Javier Girotto ai sassofoni, Gerardo Di Giusto al piano, Gabriel “Minino” Garay percussioni e batteria e Carlos “El Tero” Buschini basso e guembri. Registrato a Milano nel marzo del 2019, l’album contiene undici tracce di cui nove firmate dagli stessi membri del gruppo e due da Julien Lourau un sassofonista francese classe 1970. Come già nei precedenti album, “Argentina Jazz” del 2004 e “Sin lugar a dudas” del 2008, il gruppo si muove su direttrici molto ben individuabili: uno straordinario mix tra tanghi, milonghe e chacareras da un lato, jazz, improvvisazione, sperimentazione dall’altro. Evidentemente una impresa così difficile può essere intrapresa con un minimo di possibilità di successo solo se ad affrontarla sono musicisti che coniugano una spiccata personalità individuale con una capacità di rapportarsi ai compagni d’avventura. Ebbene i quattro musicisti in oggetto possiedono ambedue queste doti essendo tecnicamente molto ferrati ma allo stesso tempo capaci di condurre il discorso musicale sulla base di una profonda empatia. Risultato: un latin-jazz assolutamente coinvolgente che risponde ad un progetto musicale in cui la ricchezza ritmica della musica argentina, seppur ancorata al ricco patrimonio folklorico del Paese, dimostra come la stessa non sia solo tango e milonga, ma molto, molto di più.

Fausto Ferraiuolo – “Il dono” – abeat 212
La genesi di questo album viene esplicitata dallo stesso leader laddove afferma da un canto che il progetto è nato dall’incontro con Jeff Ballard conosciuto molti anni addietro durante una masterclass a Siena, dall’altro che “Il dono” è per lui quello dell’incontro, per cui “donare o ricevere sono due aspetti dello stesso gesto”. Gesto che si concretizza in questo album in cui il musicista napoletano, ben sostenuto da Aldo Vigorito al basso, suo ‘storico’ compagno d’avventure musicali, e dal già citato Jeff Ballard alla batteria (particolarmente importante la sua militanza nel trio di Brad Meldhau), presenta undici brani tutti di sua composizione, eccezion fatta per “O Impro Mio” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard), “Improtune” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard) e “Somebody Loves Me” (George Gershwin). I pezzi originali, per esplicita ammissione dello stesso pianista, sono dedicati alle persone a lui più care. La caratura dell’album appare evidente sin dal primo brano, “Fire Island”: i tre si muovono su un piano di assoluta parità ritagliandosi spazi appropriati (ad esempio in questo brano possiamo già gustare un preciso e gustoso assolo di Aldo Vigorito). Nasce da qui una musica che si inscrive nell’alveo del jazz canonico, con improvvisazioni serrate (particolarmente azzeccata quella sulla falsa riga di “O sole mio” trasformato in “O impro mio”), scambi trascinanti, ricerca di suadenti linee melodiche (particolarmente apprezzate da chi scrive quelle di “4 Septembre” e “C’est tout”) mentre in “Baires” specie nella parte finale si avverte una certa influenza ‘tanguera”. Infine “Improtune” si avventura su terreni contigui al free per tornare ad atmosfere più consuete con la convincente interpretazione del gershwiano “Somebody Loves Me”.

Tommaso Gambini – “The Machine Stops” – Workin’ Label 37
Ecco un’altra prima discografica: protagonista il chitarrista Tommaso Gambini torinese ma newyorkese di adozione, alla testa di un gruppo ad organico variabile composto dai suoi abituali collaboratori Manuel Schmiedel al pianoforte, Ben Tiberio al contrabbasso e Adam Arruda alla batteria cui si aggiungono l’alto sassofonista olandese Ben Van Gelder, il tenor sassofonista e compositore americano Dayna Stephens, il clarinettista Jacopo Albini e la flautista Anggie Obin. In scaletta sette brani tutti firmati dal chitarrista, e riferiti al racconto omonimo dello scrittore inglese Edward Morgan Forster del 1909, racconto che paradossalmente sembra avere molti punti di contatto con la tragica realtà di oggi. Forster parla di una Macchina inventata dall’uomo che prende il sopravvento sulla nostra stessa volontà; sostituite i termini Macchina con Virus e il gioco è fatto. Quindi, almeno sulla carta, si tratta di un concept album. Ma, come al solito in questi casi si pone l’interrogativo: è riuscita la musica a tradurre in suoni tali concetti? Francamente non del tutto; non ho sentito quel clima, cupo, drammatico che forse meglio si sarebbe attagliato alla situazione di cui sopra. Ad onor del vero, il brano d’apertura, anche grazie all’inserto parlato tratto dal volume in oggetto, riflette bene il clima dello stesso ma nei brani successivi è come se l’atmosfera si addolcisse e quindi la tensione si allentasse. Comunque, onestamente, non ho letto il racconto per cui potrebbe darsi che anche i successivi pezzi riflettano in qualche modo i contenuti dello scritto. Ma tutto ciò è abbastanza irrilevante in quanto poco toglie alla valenza dell’album che risulta apprezzabile: Gambini scrive bene, arrangia altrettanto bene e come chitarrista si è fatto ampiamente conoscere collaborando con jazzisti quali Antonio Sanchez, George Garzone, Miguel Zenon e non si lavora con personaggi del genere se non sei più che bravo.

Erroll Garner – “Octave” – Mack Avenue 02
Erroll Garner è sicuramente uno dei giganti della musica jazz. La “Octave Remastered Series”, prodotta da Peter Lockhart e Steve Rosenthal, continua a riproporre alcune delle perle di questo straordinario pianista. Questo ultimo album include nove pezzi tratti da tre album “That’s My Kick” registrato nel 1967 con Milt Hinton basso, Herbert Lovelle e George Jenkins batteria, José Mangual e Johnny Pacheco congas, Wally Richardson e Art Ryerson chitarra; “Up In Erroll’s Room” del novembre dello stesso 1967 con Ike Isaacs basso, Jimmie Smith batteria, Jose Mangual congas featuring “The Brass Bed”; e “Feeling Is Believing” del 1969 con Wally Richardson chitarra, Joe Cocuzzo, Jimmie Smith e Charlie Persip batteria, Jose Mangual congas, Jerry Jemmott e George Duvivier basso. Per chi conosce il jazz, credo bastino solo queste note per comprendere come si tratti di musica di assoluta livello, registrata quando il pianista di Pittsburgh stava vivendo uno dei suoi tanti momenti positivi. In particolare i brani contenuti nell’album ci mostrano un Garner alla testa di formazioni diverse ma che sempre sono in grado di seguire con partecipazione le idee del leader, il cui pianismo, smagliante, mai conosce un attimo di stasi, di indecisione. E siamo sicuri che anche l’ascolto di questo album aprirà una dialettica, a mio avviso del tutto inutile, tra chi considera Garner un assoluto genio musicale (ed io sono tra questi) e chi invece lo valuta pianista di eccellente tecnica ma troppo dedito a inutili virtuosismi.

Giulio Gentile / Emanuela Di Benedetto – “There’s no Place Like Home” – artesuono 192
Album d’esordio per il pianista Giulio Gentile e la vocalist Emanuela Di Benedetto che da giovani appassionati di musica Jazz, hanno poi studiato al dipartimento Jazz del Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara. Il duo nasce nel 2012 e si fortifica attraverso la partecipazione a numerosi festival, tra cui “MuntagninJazz”, “La Settimana Mozartiana”, il “Castelbuono Jazz Festival”, la rassegna “Sabato in Concerto Jazz” per “Archivi Sonori”. Presto arrivano anche i primi riconoscimenti come il Premio “BEST BAND” al “Bucharest International Jazz Competition 2016”, l’affermazione al “Premio Marco Tamburini 2016” per la sezione band mentre nel 2017 sono vincitori del “Premio Nazionale delle Arti” sezione Jazz tenutosi a Milano Logico, quindi, che si giungesse a questo primo album il cui organico è completato dal batterista Marcello Di Leonardo, dal bassista Luca Bulgarelli, dal sassofonista Manuel Trabucco e dal flicornista Jorge Ro. In repertorio otto brani con musica di Gentile e testi della vocalist. Tenendo conto che si tratta di una ‘prima’ assoluta, l’album presenta note positive riscontrabili soprattutto nella bella intesa tra voce e pianoforte, nella delicatezza dei temi proposti, nella eleganza con cui si manifesta l’amore per la musica e nell’attenzione con cui si guarda alla realtà di oggi. Ecco quindi un omaggio alla città di New York da parte di una giovane donna, una dichiarazione d’amore verso una natura che si vorrebbe più tutelata, un grido di dolore per la lontananza dell’amato/a, un ritratto dell’emigrazione ricco di poesia.

Dimitri Grechi Espinoza – “The Spiritual Way” – ponderosa 147
Nel panorama musicale internazionale Dimitri Grechi Espinoza si è oramai ritagliato uno spazio ben preciso grazie alla sua ricerca che conduce oramai da tempo e che si sostanzia nel progetto Oreb, il monte dove Mosé incontrò Dio. E credo basti questo solo elemento per capire la dimensione in cui opera il sassofonista. Anche questo suo ultimo lavoro, intitolato “The Spiritual Way” per la Ponderosa Music Records, si inserisce, dunque, in quella ricerca che attraverso la musica conduce all’estasi. In particolare in questo terzo volume di Oreb, Dimitri affronta il tema delle virtù spirituali, dando eco e risonanza a uno scritto della tradizione cinese che delinea un percorso di ascesi interiore. Il tutto espresso, ovviamente, attraverso una musica la cui particolarità può essere facilmente percepita se solo la si ascolti con un minimo di attenzione e cuore aperto. In compagnia del suo fido sax tenore, Dimitri ha inciso questo album nel febbraio del 2019 in una località del tutto particolare come il Battistero di Pisa di San Giovanni in Piazza dei Miracoli, un luogo che data la sua particolare acustica è risultato fondamentale per la riuscita dell’impresa. Ed in effetti l‘artista pone a base della sua ricerca anche il rapporto fra suono e spazio-sonoro e il suo significato spirituale. Il suono del sax si staglia stentoreo, preciso, nitido, straordinariamente coinvolgente, ricco di riverberi, che richiama altri grandi del passato primo fra tutti il John Coltrane nella versione più intimista e spirituale. Così il sassofonista ci trascina in un mondo “altro”, un mondo in cui noi tutti avremmo forse voglia di rifugiarci dato il terribile momento che stiamo attraversando.

Hiromi – “Spectrum” – Telarc 0081
Vulcanica, tecnicamente fortissima, semplicemente straordinaria: questi gli apprezzamenti che critici e pubblici di tutto il mondo hanno rivolto a Hiromi Uehara una delle più talentuose protagoniste della nuova scena jazz internazionale. La pianista giapponese (classe 1979) si è messa in luce già da bambina e durante tutti questi anni non ha fatto altro che studiare, suonare, studiare e suonare affinando una tecnica davvero strepitosa e migliorando notevolmente anche l’interpretazione. Queste doti vengono tutte in luce in questo album per solo piano registrato in Giappone nel settembre del 2019. E’ interessante sottolineare come questo sia solo il secondo CD registrato dalla Hiromi per piano solo dopo “Place to Be” del 2009 a conferma di quanto l’artista sia attenta a misurare le proprie capacità. E così “Spectrum” si segnala come una delle migliori prove della pianista che si conferma non solo strumentista in possesso di una conoscenza profonda della tastiera, capace di padroneggiare diversi linguaggi, ma anche interprete raffinata, attenta ad ogni aspetto della sua performance. Hiromi accarezza letteralmente ogni tasto dello strumento, dando a ciascuna nota un suo peso specifico cosicché l’esecuzione raggiunge livelli di profondità non facilmente eguagliabili. Cosa che si nota sia nei brani originali, sia nei pezzi già famosi come “Blackbird” di Lennon-McCartney, “Rhapsody in Various Shades of Blue” ovvero “Rhapsody in blue” corredata da varie interpolazioni, alcune originali altre tratte da “Blue Train” di John Coltrane e “Behind Blue Eyes” di Pete Townshend. Splendida la chiusura affidata ad un melodico “Sepia Effect”.

Karabà – “Viola” – emme record 1916
“Viola” è il secondo album dei Karabà, al secolo Alessandro Casciaro al pianoforte e compositore dei brani, Alberto Stefanizzi alla batteria e Stefano Rielli al contrabbasso.
Il gruppo si muove con grande intesa cementata dal fatto che i tre suonano assieme dal 2016 essendo riusciti, cosa non sempre scontata, a fondere le proprie forti personalità in un unicum assolutamente credibile. Anche perché Karabà si tiene ben lontano da sterili sperimentazioni muovendosi su terreni prettamente jazzistici, senza se e senza ma, un jazz indubbiamente moderno ma che nulla dimentica degli insegnamenti del passato. Il tutto agevolato, se non determinato, dalla buona penna di Alessandro Casciaro compositore di otto brani (su nove); l’unico pezzo non originale è “Tonight Tonight” che chiude il disco; si tratta di un riarrangiamento per piano solo del celebre brano degli Smashing Pumpkins che grazie all’estro di Alessandro Casciaro prende nuovo lustro, senza nulla perdere dell’originario fascino. Tornando alle composizioni di Casciaro, le stesse se da un canto esaltano la forza del collettivo, dall’altro offrono ad ognuno dei musicisti la possibilità di esporre appieno le proprie potenzialità. Così, sulla scorta di melodie ben disegnate e di armonizzazioni ricercate, Casciaro ha modo di esporre il suo pianismo sempre essenziale, ben sostenuto da una sezione ritmica affiatata, precisa e, come già detto, capace di prendere in mano il filo del discorso. I brani sono tutti gradevoli anche se personalmente ho preferito “Parco bello luogo” per gli espliciti richiami al bebop grazie soprattutto ad un poderoso assolo di Stefano Rielli e “Primavera 19” per la delicatezza della linea melodica.

Riccardo Morpurgo- “Kaleidoscopic” – artesuono 184
Morpurgo, Maier, Ricci – “” – Palomar records 58
Il pianista Riccardo Morpurgo è presente in due titoli usciti di recente.
Nel primo è alla guida del Mandala Trio completato da Alessandro Turchet al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, vale a dire una delle più affiatate e valide sezioni ritmiche che il jazz italiano possa vantare. Il nome del gruppo è di per sé indicativo: il termine “mandala” si riferisce alle culture buddiste e induiste, e si tratta di immagini geometriche usate per trovare l’equilibrio, l’essenza del proprio essere. Ecco, partendo da queste premesse il trio si avventura in un percorso piuttosto accidentato, declinato attraverso dieci composizioni dello stesso Morpurgo. L’intento è quello di trovare un equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione dal momento che, per esplicita ammissione dello stesso pianista, i tre alternano momenti di assoluta coerenza ad una struttura data a momenti in cui si svincolano da qualsivoglia legame e si lanciano in improvvisazioni totali. Evidentemente i momenti più interessanti sono proprio questi in cui Morpurgo e compagni si lasciano andare con risultati eccellenti sia per la bravura del leader sia per quella compattezza ed intesa batteria-contrabbasso cui prima si faceva riferimento. Quindi un disco non facile ma di sicuro interesse.
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Nel secondo album – “Mesmer” – Morpurgo è ancora in trio ma con Giovanni Maier al contrabbasso e Pietro Ricci alla batteria; l’album esce per la ‘Palomar records’ una piccola etichetta fondata e curata da Giovanni Maier, che lavora esclusivamente in autoproduzione e con tirature limitate. Questo “Mesmer” è dedicato quasi totalmente alle musiche di Paul Motian in quanto sei delle composizioni presentate sono del batterista (la settima è invece di Charlie Haden). Il risultato è più che eccellente data da un canto la valenza delle composizioni che lumeggiano al meglio la capacità di scrittura di Motian spesso non adeguatamente valorizzata, dall’altro la capacità del trio di renderle proprie e quindi di reinterpretarle in modo personale ma pertinente. Si parte con “Psalm” title track dell’omonimo album registrato nel dicembre 1981 dal gruppo comprendente Paul Motian, Bill Frisell alla chitarra, Joe Lovano al sax tenore, Billy Drewes ai sax tenore e alto, Ed Schuller al basso e si chiude con “Mesmer” tratto dall’album “Garden of Eden” del 2004. Per tutta la durata dell’album i tra si muovono quasi con cautela, rifuggendo da qualsivoglia esibizione di bravura tecnica e affidandosi molto all’interpretazione. Di qui una musica suggestiva, misurata, spesso eseguita per sottrazione senza che però venga compressa l’abilità individuale. Si ascolti ad esempio il magnifico duetto basso batteria in “Morpion” tratto dall’album “One Time Out” (Blue Note 1987).

Marius Neset, London Sinfonietta – “Viaduct” – ACT 9048-2
Il sassofonista norvegese Marius Neset (Bergen 1985) si ripresenta al pubblico del jazz alla testa del suo gruppo anglo-scandinavo (Ivo Neame piano, Jim Hart vibrafono, marimba e percussioni, Petter Eldh basso, Anton Eger batteria e percussioni) con il robusto supporto della London Sinfonietta, complesso di ben 19 elementi diretta da Geoffrey Paterson con cui Neset, sempre per la ACT, aveva già inciso nel 2016 l’album “Snowmelt”. Neset è a ben ragione considerato uno dei migliori jazzisti delle nuove generazioni tanto che la rivista Downbeat lo considera non solo uno dei più eccitanti artisti jazz del momento ma anche un musicista di straordinaria preparazione tecnica dotato altresì di una felice vena compositiva. Doti, queste, che risaltano evidenti anche da quest’ultimo album, contenente un paio di suite intitolate rispettivamente “Viaduct part 1” in 6 capitoli e “Viaduct part.2” in 4 elementi. Originariamente commissionata per il concerto d’apertura del Kongsberg Jazz Festival nel 2018, “Viaduct” ha offerto a Neset la fantastica opportunità di mostrare le molteplici facce del suo stile, così composito, ricco di richiami, colorito e soprattutto capace di convogliare numerosi input provenienti da fonti diverse. Il suo sassofono è sempre preciso, con un sound potente sia al tenore sia al soprano, che richiama sia il migliore Brecker sia il grandissimo Garbarek, capace di dettare le atmosfere che si respirano per tutta la durata dell’album. Certo, la bravura di Neset come sassofonista è indubbia, ma non sarebbe stata sufficiente a determinare la bontà dell’album se non fosse stata declinata attraverso le dieci composizioni originali dello stesso Neset che riescono a coniugare il jazz propriamente inteso, ricco quindi anche di improvvisazione, con la musica classica contemporanea.

Enrico Pieranunzi – “Frame” – Cam J 7955 2
Enrico Pieranunzi è musicista colto e in quanto tale ‘aperto’ verso tutte le altre forme artistiche. Nel passato, anche recente, ne abbiamo avuto prova evidente riscontrando la sua profonda predilezione per il cinema e le colonne sonore. Si ricordi, ad esempio, il concerto organizzato il 20 febbraio scorso dall’Ambasciata d’Italia e dall’Istituto di Cultura Italiana a Washington in occasione del centenario della nascita di Federico Fellini, con Enrico Pieranunzi, accompagnato da Luca Bulgarelli al basso e da Mauro Beggio alla batteria, impegnato in un repertorio interamente dedicato alle colonne sonore del maestro romagnolo. In questo album l’interesse del pianista romano è rivolto alle arti figurative: immaginatevi una galleria d’arte in cui sono esposti i capolavori di Pollock, Hopper, Picasso, Paul Klee, Rothko, Matisse e Mondrian; Enrico si sofferma dinnanzi ad ogni quadro e disegna, in splendida solitudine, con le note del pianoforte o alla celesta, un affresco da inserire in una ipotetica ‘cornice’, “Frame” per l’appunto. L’effetto è quanto meno intrigante: Pieranunzi non si smentisce e la sua arte pianistica rifulge sempre luminosa sia che si avventuri in stupefacenti e trascinanti avventure magari con illustri partner d’oltre oceano, sia, come in questo caso, che si rivolga di più al suo coté intimista regalandoci una serie di bozzetti che illustrano meglio di mille parole le sue riflessioni determinate dai pittori sopra citati. Un’ultima considerazione: capita sempre più spesso che la data di pubblicazione di un disco sia di molto posteriore alla sua incisione; ad esempio questo album è stato registrato nel 2012 ma pubblicato solo nel febbraio di questo non felicissimo 2020.

Andreas Schaerer, Hildegard Lernt Fliegen – “The Waves Are Rising, Dear!
Già altre volte, questa testata si è occupata di Andreas Schaerer sottolineandone le innumerevoli virtù e la capacità di interpretare più parti in commedia dal momento che la sua arte gli consente di fare non solo ciò che hanno fatto i più grandi vocalist del jazz, ma di esibirsi come “beatboxer”, di imitare vari strumenti e di improvvisare con uno scat inventivo e trascinante. Questa volta lo svizzero di Berna si presenta alla testa del suo gruppo “Hildegard Lernt Fliegen” il più creativo e originale progetto musicale che la Svizzera abbia potuto offrire in questi ultimi anni. In effetti una performance del gruppo è sempre qualcosa di straordinario dal momento che è difficile stabilire se si tratti di un concerto jazz, rock, rap, di cabaret, di musica da circo (si ascolti, ad esempio il brano d’apertura “Dripping Pint”) con incursioni sempre misurate anche nel mondo dell’elettronica. Ad assecondare le acrobazie vocali di Andreas cinque solisti di eccellenza quali il trombonista e tubista Andreas Tschopp, i sassofonisti Matthias Wenger e Benedikt Reising (che si ascoltano rispettivamente anche al flauto e al clarinetto basso), il bassista Marco Muller e Christoph Steiner alla batteria e alla marimba. Il tutto rinforzato, purtroppo in un solo brano “Embraced By The Earth” dalla presenza del celebrato fisarmonicista francese Vincent Peirani e dalla intensa voce di Jessana Némitz. Così la musica scorre impetuosa, tutt’altro che banale, lontana da qualsivoglia piacevolezza superficiale in cui l’ascoltatore è coinvolto nella sua totalità, mente e corpo, emozione e intelletto. Da questo punto di vista è difficile scegliere in particolare qualche brano anche se personalmente ho maggiormente apprezzato il già citato pezzo in cui si ascoltano anche Peirani e la Némitz e il brano di chiusura “Love Warrior: Part I-IV” che si muove su coordinate più spiccatamente jazzistiche.

Ian Shaw – “Integrity” – abeat 01
Il cantante, pianista e songwriter inglese Ian Shaw è considerato, insieme a Mark Murphy e Kurt Elling, uno dei migliori cantanti jazz di sesso maschile di tutto il mondo. Lo evidenziano i tanti riconoscimenti ottenuti in questi anni: miglior Vocalist Jazz ai BBC Jazz Awards nel 2007 e nel 2004, e nomination nella categoria Miglior Vocalist del Regno Unito ai JazzFM Awards nel 2013… In questo album Ian è accompagnato da un trio italiano composto da Alessandro Di Liberto al piano, Tommaso Scannapieco al basso ed Enzo Zirilli alla batteria. In programma accanto ad alcuni grandi classici ‘leggeri’ come “People”, cavallo di battaglia di Barbara Streisand dal film “Funny girl” del 1964 (arrangiato per l’occasione da Di Liberto), e “Smile” di Charlie Chaplin arrangiata da Enzo Zirilli, ecco alcuni standards del jazz tra i meno battuti come “Use me” di Bill Withers che chiude l’intero disco. In tutti i brani risalta evidente il ruolo svolto dagli strumentisti che riescono a intessere un tappeto ritmico-armonico in cui si inserisce con assoluta pertinenza la voce di Ian Shaw che, dal canto suo, evidenzia una maturità espressiva non comune. Di solito quando si ascolta un disco il cui leader è un cantante (indipendentemente dal sesso) la formula è quella del vocalist con accompagnamento. In questo caso la situazione è completamente diversa in quanto il gruppo appare perfettamente coeso e si muove all’unisono dando ad ognuno la possibilità di mettersi in evidenza. Certo, Ian Shaw è la stella dell’album e la sua prestazione è assolutamente all’altezza dei suoi precedenti album che hanno giustificato, nel tempo, i riconoscimenti cui in apertura si faceva riferimento. I brani sono tutti notevoli con una preferenza, del tutto personale, per il celeberrimo “Smile” di Charlie Chaplin.

Djime Sissoko, Djama Djigui – “Kabako” – Caligola 2272
Tutti conosciamo Baba Sissoko; ebbene Djime è il di lui nipote che vive a Bamako in Mali. Come si dice buon sangue non mente e anche questo artista è degno della massima attenzione. Si badi bene, però: la sua musica non è quella sorta di jazz fortemente contaminato dall’Africa che ha reso famoso Baba; qui siamo sul terreno della musica africana, meglio maliana, lontana da qualsivoglia contaminazione e proprio per questo di grande fascino. Djime si presenta alla testa del suo gruppo, “Djama Djigui” una formazione assolutamente particolare in quanto composta da fratelli, cugini, vicini che sono cresciuti assieme, discendenti della grande famiglia dei Griot Sissoko, tra cui ovviamente il più volte citato Baba. L’album, oltre della maestria del leader al ngoni (strumento a corda proprio dell’Africa occidentale) e al tama (strumento a percussione sempre dell’Africa occidentale) e dello straordinario affiatamento del gruppo, si avvale della splendida voce della moglie di Djime, Aichata Bah. Oltre a quella di Aichata, si possono altresì ascoltare le voci di Baba in “Ma Kono Djarabi” e in “Djumara Djeli”, di Sadibuou Kanté in “Djuku Ya Magnie” e di Samba Tourè in “Anka Miri”, tutti in veste di ospiti. Particolarmente significativo il brano che chiude l’album,”Tama solo”, in cui Djime Sissoko evidenzia tutto il suo virtuosismo per l’appunto al tama. “Kabako”, oramai l’avrete già capito, ci conduce in un meraviglioso viaggio attraverso il Mali grazie alla sua musica che affonda le proprie radici nella tradizione di quella terra.

Warren Wolf – “Reincarnation” – Mack Avenue1169
L’ afroamericano Warren Wolf, anche attraverso i suoi quattro precedenti album pubblicati per la Mack Avenue tra il 2005 e il 2016, si è affermato come uno dei migliori vibrafonisti degli ultimi anni e in questa nuova incisione ha chiamato accanto a sé giovani sideman e alcuni veterani. Con lui ecco quindi Brett Williams al Fender Rhodes ed al pianoforte, Richie Godds al basso elettrico e su “Livin’ the Good Life” al contrabbasso, Mark Whitfeld su due brani alla chitarra, Carroll “CV” Dashell III alla batteria ed alle percussioni e due cantanti che si alternano: Imani-Grace Cooper e Marcellus “bassman” Shepard. L’album è sostanzialmente incentrato sul R&B, sul soul e su una fusion di qualità, mentre dal punto di vista dell’ispirazione, il fattore dominante è l’amore declinato attraverso le sue mille sfaccettature; è lo stesso Wolf a chiarirlo: “Questo è un album sull’amore e la musica che mi fa stare bene – spiega Wolf – A questo punto della mia carriera, volevo solo dimostrare che posso essere versatile ed esprimermi in molti stili diversi”. Così ad esempio “For Ma” è dedicato alla madre, Celeste Wolf, deceduta nel 2015, “Sebastian e Zoë” è un delicato omaggio ai suoi due bambini più piccoli, mentre “Come And Dance With Me” è stata scritta per la moglie che è una ballerina. Da quanto sin qui detto, risulta evidente come l’album riuscirà particolarmente gradito a quanti amano la black music nella sua accezione più ampia. Tuttavia, ad opinione del vostro recensore, uno dei pezzi meglio riusciti è “Sebastian and Zoe” in cui Shepard , con espliciti riferimenti a Barry White, dialoga con Imani-Grace Cooper facendo rivivere quelle atmosfere che hanno segnato per molti di noi gli anni ’70.

I NOSTRI CD. Jazz internazionale Tante le novità di rilievo

John Abercrombie – “Open Land” Meeting J. Abercrombie – DVD ECM 675
Prodotto e filmato dal regista Arno Oehri (artista multimediale e filmmaker del Liechtenstein) e dal produttore Oliver Primus (musicista e articolista svizzero) questo documentario, al di là delle intenzioni degli autori, si è purtroppo trasformato in un omaggio alla memoria dal momento che l’artista è scomparso nell’agosto 2017, pochi mesi prima che l’opera fosse ufficialmente presentata. Ovviamente ciò nulla toglie alla valenza della produzione che, anzi, ci offre l’occasione per ricordare e riflettere sulla figura di un musicista straordinario non sempre valorizzato in base ai suoi meriti. La tecnica scelta dagli autori per raccontare il chitarrista è quella che personalmente prediligo, vale a dire far parlare direttamente il personaggio. Così i due sono andati ad intervistare Abercrombie nella sua casa e si son fatti raccontare le vicende principali della sua vita e della sua arte. Così ci restituiscono oltre che l’artista anche e forse soprattutto l’uomo Abercrombie, con le sue aspirazioni, i suoi desideri, il suo amore per la moglie Lisa…e perché no le sue paure come quando il 7 dicembre del 2003 si incendiò la sua casa con la conseguente perdita di quasi tutto ciò che possedeva. Il risultato è un ritratto vivido, a tratti toccante, di un artista che ha saputo coniugare la musica con la vita di tutti i giorni. Dal punto di vista musicale, il brano forse più interessante è “Another Ralph’s” registrato al Tangente Club di Eschen (Liechtenstein) nel 2014 dal trio comprendente, oltre ad Abercrombie, Adam Nussbaum alla batteria e
Gary Versace all’organo Hammond (i due sono anche intervistati in merito al loro rapporto umano e professionale con Abercrombie). Tra gli altri momenti degni di nota da ricordare l’esibizione a New York in quartetto con Rob Sheps al sax, Eliot Zigmund alla batteria e David Kingsnorth al basso.

Arild Andersen – “In-House Science” – ECM 2594
Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Arild Andersen a Stavanger, in Norvegia, nell’oramai lontano 1983 quando già era considerato un astro nascente della nuova scena scandinava. Sono passati tanti anni e Arild ha confermato appieno tutte le premesse di quei tempi essendo considerato, oggi, uno dei migliori e più innovativi bassisti dell’intero panorama jazzistico. E questo CD ne è l’ennesima riprova… se pur ce ne fosse stato bisogno. Registrato il 29 settembre del 2016 in un luogo storico quale il museo Villa Rothstein a Bad Ischl in Austria, Andersen capeggia un formidabile trio completato da Tommy Smith al sax tenore e dal “nostro” paolo Vinaccia alla batteria. Quindi un trio che fa a meno di uno strumento armonico senza che ciò abbia la minima influenza sulla qualità della musica. I tre si muovono all’insegna di una empatia totale, con Arild che detta i tempi, Smith che sfoggia un fraseggio elastico, vivace, sempre in linea con le atmosfere volute dal leader (autore, tra l’altro, di tutti e sei i brani in programma) e Vinaccia che si esprime con la solita maestria producendo un volume sonoro denso e trascinante. Di qui una musica che si dipana per tutta la durata dell’album con grande scioltezza passando da atmosfere romantiche, sognanti, a climi più torridi ai confini dell’avanguardia, sempre impreziosita dalla massima attenzione alla più piccola sfumatura. E per avere un’idea di quanto si sta dicendo, basta ascoltare attentamente, in rapida successione “North Of The Northwind” dai toni soffusi e il sax di Smith a ricordare a tratti l’espressività propria di Gato Barbieri, e “In-House” in cui i tre scatenano una vera e propria tempesta sonora con un Andersen che sfoggia una padronanza dello strumento davvero non comune e un Vinaccia che ancora una volta evidenzia il perché sia considerato dai musicisti nordici un sodale imprescindibile.

Maxime Bender – “Universal Sky” – Cam Jazz 7924-2
Per avere una chiara idea di ciò che Maxime propone basta rifarsi alla definizione da lui stesso coniata circa il jazz che ama: “con meno swing e più pop”. Quindi un linguaggio che intende allontanarsi dal jazz canonico per affrontare nuovi lidi. In ciò il multistrumentista lussemburghese (sax tenore, sax soprano, flauto, pianoforte) è coadiuvato nell’occasione da Manu Codjia alla chitarra, Jean-Yves Jung all’organo Hammond B3 e Jérôme Klein alla batteria. Etichette a parte, il risultato è ancora una volta positivo. In repertorio dieci brani di cui otto scritti dallo stesso Bender e gli altri due rispettivamente dal compositore americano Justin Vernon e dal batterista del gruppo Jérôme Klein, quindi una prova di piena maturità per Bender anche come compositore. Ed in effetti i brani sono tutti ben strutturati, altrettanto ben arrangiati, sostenuti da un gruppo quanto mai coeso che riesce ad eseguire in grande scioltezza sia le parti obbligate sia quelle improvvisate tanto che risulta oggettivamente difficile distinguerle. Ogni singola nota è come distillata sapientemente, avendo riguardo a dove andrà a collocarsi, Di qui anche una ricchezza timbrica, dinamica e di atmosfere che prende l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota dell’album. Ecco quindi il clima sognante, onirico di “Dust Of Light” (con il chitarrista Manu Codjia in bella evidenza) cui si contrappone la forza ritmica di “Missing Piece”, ecco “Fly” con l’Hammond in grande evidenza mentre in “Infinity” è il sax di Bender a disegnare la sinuosa linea melodica… e via di questo passo in un continuo alternarsi di ruoli che evidenzia quella compattezza cui prima si faceva riferimento.

Ketil Bjørnstad & Anneli Drecker – “A Suite Of Poems” – ECM 2440
La genesi di questo toccante album è illustrata chiaramente dallo stesso Bjørnstad nelle note che accompagnano il CD laddove ci racconta che, durante le sue più che frequenti nottate passate in albergo, riceveva poesie inviategli dall’amico Lars Saabye Christensen dalle varie località che il poeta e scrittore norvegese era solito visitare. Dopo averle custodite per anni, il pianista ha pensato di rivestirle di musica, di affidarne l’interpretazione alla voce di Anneli Drecker eccellente vocalist norvegese, originaria della città di Tromsø, sulla scena oramai da più di vent’anni e già collaboratrice di artisti quali Jah Wobble e Hector Zazou. I titoli dei pezzi sono di per sé esplicativi: ecco quindi l’apertura affidata a “Mayflower, New York”, seguita da “Duxton, Melbourne” e giù fino al conclusivo “Schloss Elmau”. Da quanto sin qui detto risulta abbastanza chiaramente il tipo di musica che si ascolta nell’album tenendo ben presente che Ketil Bjørnstad è pianista capace di interpretare con eguale bravura e partecipazione musica classica, jazz e folk. Bjørnstad cerca quindi, il più delle volte riuscendoci perfettamente, di ricreare con la sua musica le atmosfere suggeritegli dall’amico Christensen e legate alle località visitate. Ecco l’intimismo di “L’Hotel” e di “Lutetia” legati ad una romantica e nostalgica Parigi, ecco il sapore blues di “Astor Crowne, New Orleans”, ecco l’atmosfera vagamente orientaleggiante di “Mayday Inn, Hong Kong”. Insomma un ‘altra prova di grande maestria da parte di Ketil Bjørnstad che ha operato anche una scelta felicissima nel chiamare accanto a sé una interprete come Anneli Drecker capace di dare un peso specifico ad ogni singola sillaba, ad ogni parola, rendendo così giustizia a dei testi di per sé quanto mai significativi.

Art Blakey – “Moanin” – Green Corner – 100901 2 CD
In altra occasione ho illustrato il perché molte case discografiche, in un certo periodo del passato, abbiano preferito immettere sul mercato copie in versione sia stereo sia mono. Ecco, questi due album appartengono per l’appunto a questa serie di registrazioni effettuate ad Hackensack il 30 ottobre del 1958. More solito, in questi casi il doppio album conserva intatto il suo valore sia storico sia musicale. Dal primo punto di vista è la prima volta che la versione mono viene prodotta su CD. Quanto alla valenza della musica non credo ci sia chi dubita della stessa. Si tratta, in effetti, della terza edizione dei Jazz Messengers comprendente artisti quali Lee Morgan alla tromba, Benny Golson nella duplice veste di tenorista e compositore (molti dei brani sono suoi), Bobby Timmons al piano e Jymie Merritt al contrabbasso. Come bonus le sole due alternate tracks tratte dalla seduta del 30 ottobre 1958 e non comprese nell’originario LP, e altri quattro brani registrati dalla stessa formazione durante un concerto all’Olympia di Parigi nel novembre, dicembre dello stesso 1958. Esaurite queste delucidazioni, resta ben poco da dire se non che si tratta di registrazioni davvero imperdibili; basti citare l’entusiasmante “Moanin” di Bobby Timmons e la trascinante “Blues March” di Benny Golson così aderente allo spirito delle marching band di New Orleans. Insomma una ghiotta occasione per chi ancora non avesse queste registrazioni nella propria discoteca.

Rainer Böhm – “Hydor” Piano Works XII
La ACT può vantare una lunga e ricca tradizione in fatto di pianisti dal momento che per l’etichetta hanno inciso personaggi internazionali del calibro di Joachim Kuhn, Esbjorn Svensson e Michael Wollny… tanto per citare qualche nome. Coerentemente con tale impostazione, il produttore Siggi Loch ha creato una collana di album dedicati al piano solo, “Piano Works”, giunta al suo tredicesimo volume. Il nuovo protagonista è Rainer Böhm. Nato a Ravensburg nel sud della Germania nel 1977, Böhm è considerato dai critici tedeschi uno dei migliori pianisti jazz del suo Paese, ma non ha ancora raggiunto una notorietà a livello internazionale. Ecco, quindi, una buona occasione per farne conoscenza. Il suo è, in effetti, un pianismo maturo, consapevole, un linguaggio che coniuga brillantemente una eccellente tecnica pianistica con notevoli capacità espressive. Frutto, tutto ciò, non solo di una squisita sensibilità ma anche di un approfondito studio della letteratura pianistica globalmente intesa. In effetti Böhm si è fatto conoscere in patria soprattutto per gli adattamenti in termini jazzistici dei grandi classici quali Verdi, Wagner, Beethoven e Bach. In questo album Böhm si fa notare anche come eccellente compositore (tutti i tredici brani del disco sono a sua firma), e proprio attraverso questi pezzi l’artista evidenzia la sua capacità di assorbire molto di ciò che i grandi pianisti del passato ci hanno lasciato. Così nel suo stile è possibile rintracciare echi della tradizione classica così come del jazz soprattutto di quello nord-europeo senza che tutto ciò si ripercuota minimamente sull’originalità della proposta.

Jakob Bro – “Bay Of Rainbows” – ECM 2618
L’album è il frutto delle registrazioni effettuate nel luglio del 2017 al club Jazz Standard di New York; protagonista il trio del chitarrista danese Jakob Bro (1978), con il bassista Thomas Morgan e il batterista Joey Baron. L’album assume una doppia importanza nella vita di Bro in quanto da un lato è il coronamento di un sogno più volte espresso dall’artista (registrare un album live a New York), dall’altro è il primo disco live da lui registrato per la ECM. Bro non si lascia sfuggire l’occasione e dà vita ad un album eccellente confermando, anche come autore (tutte e sei le tracce dell’album sono sue composizioni), quanto già di buono si era ascoltato nelle sue precedenti produzioni: una musica nitida, costruita quasi per sottrazione, con la chitarra del leader a imbastire eteree trame sonore ben sostenute da una sezione ritmica esemplare per leggerezza e pertinenza. Così la musica si sviluppa come su un tappeto di nuvole, sorvolando diversi territori senza atterrare completamente. L’andamento generale è quindi piuttosto rarefatto anche se in alcuni brani assume una più concreta matericità: si ascolti, ad esempio, l’unico inedito “Dug” dove l’accompagnamento sostenuto della sezione ritmica si coniuga con una fraseggio chitarristico sicuramente non etereo come nei precedenti brani, ai limiti del free, oseremmo dire. Sottolineavamo come “Dug” fosse l’unico inedito in quanto gli altri brani erano già stati incisi da Bro nei suoi precedenti album. Tornando a “Bay Of Rainbows” il brano che più ci ha colpiti è stato “Evening Song” (già presente in “Balladeering”, Loveland Records, inciso nel 2008 ma pubblicato l’anno successivo in cui Bro capeggiava una all stars comprendente l’altro chitarrista Bill Frisell, Lee Konitz sax alto, Ben Street basso e Paul Motian batteria). L’album si chiude con una differente versione del brano d’apertura, “Mild”.

Miles Davis – “Jazz Track” – Poll Winners 27385
Prima di illustrare brevemente il contenuto di questo album, credo sia importante sottolineare il perché vi sto proponendo molti album della serie “Poll Winners”. In effetti l’etichetta “Poll Winners” dedica il proprio catalogo alle ristampe di quei titoli recensiti dalla rivista ‘Down Beat’ con il massimo dei voti (cinque stelle). Tale premiazione è talmente significativa e importante che molti di questi album diventano spesso dei veri classici. Le nuove edizioni presentano la versione integrale degli album originali a cinque stelle***** con l’aggiunta di brani di altri titoli dello stesso autore all’apice del proprio successo artistico. La raccolta comprende, quindi, vere e proprie pietre miliari della storia del jazz prodotte dai più grandi musicisti del genere, tra cui va senza dubbio annoverato questo “Jazz Track” che nelle sue componenti essenziali ha costituito una parte essenziale nella storia di Miles Davis e quindi del jazz nella sua interezza. Il CD è idealmente suddiviso in tre parti: i primi dieci brani contengono la colonna sonora del film francese “Ascensore per il patibolo” registrata nel dicembre 1957 a Parigi da Miles Davis con il batterista statunitense Kenny Clarke e altri due musicisti locali capitanati dal pianista René Urtreger (Barney Wilen sax tenore e Pierre Michelot basso). I successivi quattro brani sono tratti dalle sedute di registrazione del 26 maggio del 1958 quando Miles Davis rinnovò il suo sestetto con Bill Evans al posto di Red Garland e la riammissione nel gruppo del contralto di Julian Cannonball Adderley che veniva così ad affiancare il sax tenore di John Coltrane; la sezione ritmica era completata dal batterista Jimmy Cobb al posto di Philly Joe Jones e da Paul Chambers al basso. Gli ultimi 3 sono bonus e provengono dalla seduta del 16 marzo 1956, protagonista un quintetto con Davis, Sonny Rollins sassofono tenore, Tommy Flanagan pianoforte, Paul Chambers contrabbasso, Art Taylor – batteria

Mathias Eick – “Ravensburg” – ECM 2584
Tutto all’insegna della ricerca melodica questo album del trombettista norvegese Mathias Eick che dopo aver collaborato con alcune delle formazioni norvegesi più interessanti e innovative (Motif, JagaJazzist, Motorpsycho and Lars Horntvedt) è approdato in casa ECM dando vita a questo suo quarto album da leader (dopo “The Door”, “Skala” e “Midwest”). La più importante novità di questo CD è data dalla presenza del violinista, anch’egli norvegese, Håkon Aase, messosi già in luce collaborando con la formazione di Thomas Strønen. In effetti tromba e violino dialogano magnificamente conferendo al gruppo un sound del tutto particolare e ben sostenuto dal resto del gruppo formato da Andreas Ulvo piano, Audun Erlien basso elettrico e due batteristi, Torstein Lofthus e Helge Andreas Norbakken (quest’ultimo anche alle percussioni) che interagiscono con sapiente equilibrio. Ma il protagonista resta senza alcun dubbio Mathias: il suo linguaggio appare allo stesso tempo antico (molti e ben individuabili i richiami al jazz propriamente detto) e attuale (nel suo stile evidenti le influenze da un canto della musica classica contemporanea, dall’altro della new age intesa soprattutto come un genere in cui si mescolano echi provenienti da culture diverse come quelle indiane, ebree e magrebine)… cui si aggiungono echi della cultura scandinava presenti nella maggior parte dei musicisti nordici. Insomma un universo di riferimento assai vasto e variegato che Eick padroneggia assai bene anche dal punto di vista compositivo dal momento che tutti e otto i brani in programma sono dovuti alla sua penna. Brani che, ferma quella ricerca melodica cui prima si faceva riferimento, alternano atmosfere intimiste, oniriche a climi più materici, terrene.

Sheila Jordan – “Lucky to be me” – abeat 185
Sheila Jordan è una di quelle rare artiste di cui parlano tutti bene: pubblico, critica, colleghi. E questo album non fa certo eccezione alla regola. La vocalist americana, che raggiunse una fama internazionale aggiungendo le parole alla musica di Charlie Parker, è amata ed apprezzata anche in Italia dove ha registrato live questo album l’11 novembre del 2016 a Castellanza (MI) accompagnata da Attilio Zanchi al contrabbasso, Roberto Cipelli al piano e Tommaso Bradascio alla batteria. Da quanto sin qui detto si deduce facilmente che si tratta di un ottimo album che mette in luce da un canto le indiscusse qualità vocali di Sheila, dall’altro la capacità dei musicisti italiani di stare a fianco, validamente, anche delle più importanti stelle del firmamento jazzistico internazionale. E la valenza di Zanchi e compagni è testimoniata dalla stessa Jordan la quale, riferendosi al titolo dell’album, afferma di aver “chiamato questo disco ‘Lucky to be me’ non solo perché è uno dei brani, ma perché mi sento veramente fortunata nella vita ad avere amici e musicisti così meravigliosi, che si divertono a fare musica con me, ad organizzare tour e registrazioni. Sono come una famiglia e mi sento fortunata ad averli con me in questa vita”. Ed è bello avvertire come un’artista che nella sua vita ha conosciuto tantissimi successi, sia ancora sorretta da un tale entusiasmo ed una così grande voglia di cantare, di appassionare il pubblico. E la cosa risulta ancora più straordinaria ove si tenga conto che la Jordan, nata nel 1928, a Detroit, Michigan, frequenta le scene da molti anni avendo debuttato da bambina: poco più che adolescente lavorava già nei club di Detroit. Da allora non si più fermata inanellando una serie di performances – sia live sia su disco – davvero straordinarie. E per quei quattro o cinque che ancora non la conoscessero, ecco questo album è un’ottima occasione per avere un piccolo saggio di chi è Sheila Jordan.

Janne Mark – “Pilgrim” – ACT 9735-2
Questo “Pilgrim” ci presenta la vocalist danese Janne Mark in una sorta di nazionale danese completata dal pianista Henrik Gunde Pedersen, dal bassista Esben Eyermann, dal batterista Jesper Uno Kofoe, dal chitarrista ‘lap steel’ Gustaf Ljunggren cui si affianca, per esplicita volontà della vocalist, il trombettista norvegese Arve Henriksen.
L’album ha una sua specificità che lo pone al di fuori di qualsivoglia schema con cui al difuori della Scandinavia siamo abituati ad ascoltare la musica jazz. Ciò perché Janne Mark scrive, oggi, inni, cosa assolutamente inconsueta…da noi ma del tutto normale al Nord ove questo genere ha una grande importanza costituendo la fonte di molte canzoni. In particolare in Danimarca la tradizione dell’inno è sostanzialmente agraria in quanto la maggior parte della popolazione viveva in campagna e quindi gli inni venivano da quella realtà. Oggi le cose sono ovviamente cambiate e la Mark scrive musica in cui alla tradizione agraria aggiunge l’input derivante dalla realtà urbana; per completare il tutto la vocalist rivolge lo sguardo anche al jazz (proprio per questo ha chiamato Arve Henriksen) giungendo ad un unicum davvero irripetibile. Ed è la stessa Mark ad illustrare il senso della sua poetica affermando che “la musica di Pilgrim è scritta per quanti non hanno alcuna familiarità con la chiesa ma anche per quanti, viceversa, conoscono assai bene la religione”. Ed in effetti ascoltando le dieci tracce dell’album, a farla da padrona è una musica riflessiva, che trasporta l’ascoltatore in una dimensione ‘altra’, lontana dalle problematiche dell’oggi, della vita di tutti i giorni, trasmettendo un senso di pace che difficilmente ritroviamo nelle espressioni artistiche attuali. Insomma un album che ci fa conoscere una musicista di grande spessore, affascinante, matura, dotata di una squisita sensibilità e di una grande capacità di scrittura e ci conferma Arve Henriksen come una delle personalità più spiccate dell’odierno panorama jazzistico del Nord Europa.

Thelonious Monk Quartet – “Monk’s Dream” – Green Corner 100899 2 CD
Anche questo doppio album fa parte della serie “The Stereo & Mono Versions” cui si faceva cenno a proposito dell’album di Art Blakey. Questa volta il protagonista è Thelonious Monk alla testa del suo celeberrimo quartetto con Charlie Rouse al sax tenore, John Ore al basso e Frankie Dunlop alla batteria. In programma il primo LP che Monk, dopo la fine della sua collaborazione con la Riverside Records, incise per la Columbia. “Monk’s Dream”, prodotto da Teo Macero, registrato alla fine del 1962 e pubblicato nel 1963, divenne nel corso degli anni l’album più venduto di Monk e fu determinante nella scelta del Times Magazine di dedicargli una copertina nel 1964. Originariamente l’LP conteneva otto pezzi, di cui cinque originali di Monk, cui si aggiungono “Body and Soul” di Green- Heyman-Sour-Eyton, “Just a Gigolo” di Caesar-Brammer-Casucci e “Sweet and Lovely” di Arnheim-Tobias-Lemare; le esecuzioni sono affidate al quartetto eccezion fatta per “Just a Gigolò” e “Body and Soul” affidate al piano solo di Monk. In questa riedizione come bonus troviamo quattro ‘alternative trakes’ tratte dalle stesse sedute di registrazione dell’ottobre-novembre del 1962, le prime versioni in studio di Monk della maggior parte dei brani dell’album e una versione per pianoforte dal vivo del 1961 di “Body and Soul”. A Questo puto credo non ci sia molto altro da aggiungere: si tratta di grande musica, di alcune delle pietre miliari del jazz che ci raccontano del genio di un grandissimo pianista e compositore quale Thelonious Monk.

Wolfgang Muthspiel – “Where The River Goes” – ECM 2610
Questo album è la logica prosecuzione di “Rising Grace” pubblicato nel 2016; non a caso la formazione è quasi identica dal momento che accanto al chitarrista austriaco ritroviamo Brad Mehldau al pianoforte, Ambrose Akinmusire alla tromba e Larry Grenadier al contrabbasso mentre Eric Harland alla batteria sostituisce Brian Blade.
Ma, come si dice, cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia per cui la musica si mantiene su livelli di assoluta eccellenza grazie, soprattutto, alla valenza del gruppo in quanto tale. Non si tratta, cioè, di cinque grandi musicisti che messi assieme producono buona musica dato il loro peso specifico individuale, ma di cinque artisti che decidono di unirsi per dar vita a qualcosa di nuovo, qualcosa che abbia una propria identità senza per questo trascurare il talento di ognuno. Il tutto impreziosito dalle capacità compositive del leader chitarrista che firma tutte le composizioni in programma eccezion fatta per “Blueshead” di Mehldau e “Clearing” improvvisazione collettiva dell’intero gruppo. E l’improvvisazione non è certo elemento secondario in queste registrazioni caratterizzate da un eccellente equilibrio tra parti scritte e spazio lasciato all’estro dei singoli. Ecco ad esempio il contrabbasso di Grenadier impegnato in un trascinante assolo nel già citato “Blueshead” mentre Muthspiel evidenzia il proprio talento in tutti i brani con una menzione particolare per il pezzo di chiusura, “Panorama”. Ma è l’atmosfera generale del disco che incanta, un’atmosfera in cui la bellezza della linea melodica si impone su tutto grazie soprattutto a Brad Mehldau e Ambrose Akinmusire che riescono ad interpretare al meglio le intenzioni del leader-compositore.

Barre Phillips – “End To End” – ECM 2575
Un album di solo contrabbasso non è certo di facile ascolto anche se ad eseguirlo è un fuoriclasse come Barre Phillips. In buona sostanza si tratta dell’ennesima prova senza rete di uno dei più grandi solisti di tutti i tempi, un artista che, ad onta dei suoi ottantatre anni, pur non avendo alcunché da dimostrare, si lancia in una impresa temeraria come questa. D’altro canto chi conosce Barre Phillips, chi ha imparato ad apprezzarlo negli anni anche attraverso le sue numerose collaborazioni con musicisti d’avanguardia quali Dave Holland, Paul Bley e Evan Parker, non si stupirà più di tanto nel constatare come Barre abbia deciso di imbarcarsi in questa ardua operazione. Risultato? Certo molto dipende da come si ascolta questo tipo di musica: per i tradizionalisti sarà d’obbligo storcere il naso, per chi preferisce stilemi più all’avanguardia si tratta di un’opera assolutamente straordinaria. Barre evidenzia ancora una volta non solo una tecnica sopraffina ma un rapporto quasi simbiotico con lo strumento che lo porta ad esprimersi compiutamente nei tredici brani in repertorio. Quindi la necessità da parte dell’ascoltare di immergersi totalmente nell’universo sonoro immaginato da Phillips per gustarne appieno ogni minimo risvolto e comprendere ciò che l’album rappresenta per il contrabbassista. Al riguardo è lo stesso artista, nelle note di copertina che accompagnano l’album, a chiarire come si tratti della “fine di un ciclo, non un riassunto, ma l’ultima pagina di un diario iniziato cinquant’anni fa”. L’album è diviso in tre parti: “Quest” (comprendente i primi cinque brani); “Inner Door” (con i successivi quattro) e “Outer Window” (gli ultimi quattro). Nonostante la presenza di un unico strumento, le atmosfere sono assai variegate passando da momenti lirici ad altri caratterizzati da una maggiore fisicità con in primo piano sempre tecnica ed espressività

Antonio Sanchez & Migration – “Lines in The Sand” – Cam Jazz 7940-2
Come ho già avuto modo di esprimere in diverse occasioni, non credo molto nella musica “politica” vale a dire in quelle espressioni musicali che ancor prima del contenuto artistico pongono in evidenza quello politico. Ma, come ogni buona regola, anche questa soffre le sue brave eccezioni e “Lines in The Sand” è una di queste. In effetti l’album per specifica ammissione dello stesso batterista, si pone come uno specifico atto d’accusa contro la politica posta in essere da Donald Trump nei confronti degli emigranti che arrivano dal Messico, terra d’origine di Sanchez. Nel libretto che accompagna l’album, Sanchez dichiara di sentirsi un uomo fortunato perché la sorte, oltre a concedergli affetti familiari e un’istruzione gli ha consentito di vivere un quarto di secolo in un Paese che ha saputo accettare il suo talento. Purtroppo gli Stati Uniti di oggi non sono quelli del 1993 quando Antonio si stabilì a New York: alla Casa Bianca è la demagogia a dettar legge. Come accennavo credo fortemente all’onestà intellettuale di Sanchez in quanto dopo aver ottenuto quattro Grammy Awards, una nomina per un Golden Globe e aver collaborato con alcuni dei più grandi jazzisti di sempre (Chick Corea, Charlie Haden, Gary Burton, Toots Thielemans, Pat Metheny tra gli altri) non ha certo bisogno di ricorrere a certi mezzucci per affermare le proprie qualità. E d’altro canto la stessa musica da lui proposta in questo “Lines in The Sand” trasuda tristezza, protesta, ferma volontà di non accettare passivamente questo stato di cose. Dal punto di vista più strettamente musicale, quello proposto da Sanchez è un mix di jazz contemporaneo, rock, elettronica e altre influenze, il tutto declinato attraverso la bellezza delle linee melodiche e un perfetto equilibrio tra sonorità acustiche e suoni elettronici. In questo ambito particolarmente efficace risulta l’affiatamento del gruppo completato da John Escreet piano e tastiere, Matt Brewer al basso, Chase Baird al sax tenore, Thana Alexa alla voce sua compagna nella musica e nella vita, cui si aggiungono in due brani Nathan Shram alla viola e Elad Kabilio al cello.

Ida Sand – “My Soul Kitchen” – ACT 97362
E’ proprio vero che la musica non conosce confini e così eccoci in Svezia per apprezzare una vocalist svedese che canta con pertinenza soul e funky. Si tratta di Ida Sand accompagnata da “Stockholm Undeground” ovvero un quintetto all stars comprendente Jesper Nordenström organo Hammond, synt e tastiere, Henrik Janson chitarra elettrica, Lars DK Danielsson basso elettrico, Per Lindvall batteria e Magnus Lindgren sax tenore e baritono, flauti e clarinetto con in più alcuni ospiti illustri tra cui Nils Landgren trombone e vocale. In repertorio brani, tra gli altri, di Al Green, Stevie Wonder, Ray Charles e The Meters cui si aggiungono alcuni original della vocalist e reinterpretazioni, sempre in chiave soul, di composizioni firmate da John Fogerty e Mike Shapiro. Il risultato, come si accennava, è ottimo in quanto la Sand aderisce perfettamente ai canoni non solo estetici della soul-music. Le sue interpretazioni sono una palese dimostrazione di come ella ami questo genere musicale riuscendo a coglierne l’intima essenza. D’alto canto bisogna riconoscere che in Svezia il soul gode di molta popolarità e che altri artisti vi si sono dedicati con successo; come non ricordare, al riguardo, quel Nils Landgren che con la sua “Funk Unit”, per esplicita ammissione della stessa Sand, ha avuto una indiscussa influenza sul suo stile vocale. Comunque tornando alla Sand, questo suo quarto album si differenzia notevolmente dai precedenti in cui aveva esplorato le vie del jazz, del blues e del folk, coronando un vecchio sogno. In ciò perfettamente coadiuvata dai musicisti scelti per accompagnarla tra cui particolarmente rilevante il ruolo di Magnus Lindgren non solo come solista ma anche come arrangiatore delle parti riservate ai fiati.

Woody Shaw – “Tokyo ‘81” – Elemental 5990429
E’ il 7 dicembre 1981 e il trombettista-flicornista Woody Shaw si esibisce a Tokyo con
Steve Turre trombone e percussioni, Mulgrew Miller piano, Stafford James basso e Tony Reedus batteria. La session viene registrata e adesso è a disposizione di tutti noi. A chi conosce minimamente la storia del jazz, non sfugge l’importanza di Woody Shaw artista che forse non ha ottenuto tutti i riconoscimenti che avrebbe meritato. Nonostante una vita piuttosto breve – scomparve all’età di 45 anni – Woody è considerato da buona parte della critica l’ultimo musicista che sia riuscito ad elaborare un nuovo linguaggio improvvisativo sulla tromba. E queste registrazioni ne sono l’ennesima conferma. Woody suona magnificamente, senza un attimo di stanca, dando nuova linfa a pezzi già ultra battuti. Si ascolti, ad esempio, con quanta maestria interpreti il celeberrimo “’Round Midnight” di Monk perfettamente coadiuvato dal suo quartetto che evidenzia un’intesa difficile da non aggettivare come ‘perfetta’. Turre e Miller seguono le improvvisazioni del leader con il pianista che esplora tutte le possibilità armoniche insite nel brano e Turre che sfoggia il suo solismo così fluido e spesso contrastante con le asperità del linguaggio di Shaw. L’album presenta sette tracce di cui l’ultima, “Sweet Love Of Mine” dello stesso Shaw, registrata live a L’Aia il 14 luglio del 1985 dalla Paris Reunion Band comprendente, oltre al leader, Jimmy Woode al basso, Billy Brooks alla batteria, Kenny Drew al piano, Johnny Griffin al sax tenore, Nathan Davis al sax tenore e soprano, Slide Hampton al trombone e Dizzy Reece alla tromba.

Omar Sosa, Yilian Cañizares – “Aguas” – Otà Records
Il pianista cubano Omar Sosa si è fatto conoscere dal pubblico italiano grazie alle collaborazioni con Paolo Fresu. Abbiamo, quindi, imparato ad apprezzare un musicista colto, sensibile, che lavora quasi per sottrazione, un musicista che mai fa ricorso a virtuosismi puntando, piuttosto, a trasmettere stati d’animo, emozioni. Di qui un pianismo che accarezza le melodie con un andamento ritmico solo all’apparenza semplice ma in realtà mai banale e del tutto coerente con il contesto in cui si inserisce. E questo nuovo album non fa che confermare queste doti. Omar, nell’occasione, suona con la violinista e vocalist Yilian Cañizares, nata a L’Avana nel 1981, e il percussionista Inor Sotolongo, nato anch’egli a L’Avana nel 1971, ma oggi residente in Francia sin dal 2001. Omar e Yilian si sono conosciuti nel corso delle rispettive tournée nel vecchio continente e non c’è voluto molto per scoprire un idem sentire che li ha condotti alla realizzazione di questo album. In repertorio undici tracce scritte da Omar Sosa e Yilian Cañizares e riflette appieno le vedute musicali dei due artisti. Così se Omar Sosa non nasconde la nostalgia per la sua isola rivendicando l’importanza delle tradizioni musicali cubane da cui deriva la sua musica “contemplativa, piena di umiltà, dignità e pace”, la vocalist pone l’accento sulla necessità di “mettere da parte te stessa e il tuo ego” per far sì che la musica possa prendere vita. Così quanto si ascolta in “Aguas” è un mix perfettamente riuscito tra il jazz e la musica tradizionale cubana con qualche rimando anche alla musica classica. Sosa disegna un tappeto melodico- ritmico di rara e moderna lucentezza mentre la Cañizares dimostra di saper improvvisare sia con la voce sia con il violino. Prezioso anche il lavoro del percussionista Sotolongo mai invadente. Tra i vari brani particolarmente rilevanti “Milonga” impreziosito da un assolo di Sosa e ““La Respiracion”

Steve Tibbetts – “Life Of” – ECM 2599
Steve Tibbetts incise il suo primo album nel 1977; nel 1981 l’album d’esordio con la ECM; da allora il chitarrista è divenuto uno degli artisti più presenti nel catalogo della casa tedesca tanto da impersonare, si potrebbe dire, l’estetica voluta da Manfred Eicher. Un’estetica basata sulla raffinatezza, sulla purezza del suono, su una certa atmosfera ‘globalista’ con l’esplicito richiamo a popoli e strumenti esotici. E tutta la carriera di questo personaggio è stata caratterizzata da tali elementi, con la costante di una ricerca che mai si è soffermata sui traguardi raggiunti. Di qui un costante allargamento degli orizzonti musicali di Tibbetts che strada facendo ha trovato nel percussionista Mark Anderson un partner ideale cui, nell’occasione di quest’ultimo album (il nono per ECM), si aggiunge Michelle Kinney (cello, drone). Il risultato è ancora una volta eccellente. L’album si articola attraverso una serie di bozzetti che lasciano all’ascoltatore la possibilità di viaggiare con la fantasia e immaginare luoghi e situazioni. Così non mancano i riferimenti alla musica medioevale, al blues, ma anche a quei luoghi lontani del sud est asiatico, quali il Bali e soprattutto il Nepal dove ha lungamento soggiornato conoscendo il vocalist monaco buddista Chöying Dolma con il quale ha inciso due stupendi album intitolati “Chö” e “Selwa”. E ascoltando anche la musica di “Life Of” non si può non riconoscere come non solo i suoni, ma anche qualcosa di molto più profondo, insito nella spiritualità di quei luoghi, sia rimasta per sempre impressa nell’anima del chitarrista del Minnesota. Anche di qui la ricchezza espressiva della sua chitarra Martin a 12 corde mentre il piano assume spesso coloriture simili ad un gamelan; immancabili alcune campionature che richiamano gong balinesi. Come già accennato, fondamentale anche l’apporto del percussionista Mark Anderson che introduce elementi ritmici tutt’altro che consueti mentre la Kinney, per utilizzare le stesse parole di Tib betts “è capace di portare la struttura musicale del brano come su una nuvola”.

Mark Turner, Ethan Iverson – “Temporary Kings” – ECM 2583
Sicuramente uno dei dischi più interessanti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi. Uno accanto all’altro un grandioso tenor-sassofonista quale Mark Turner che abbiamo imparato a conoscere sia per le numerose collaborazioni con gruppi di eccellenza quali il Billy Hart Quartet (in cui suonava anche Iverson), e il trio con il bassista Larry Grenadier e il batterista Jeff Ballard, sia per i progetti che lo hanno visto leader, ed un pianista quale Ethan Iverson che ha raggiunto eccezionali livelli di notorietà (assolutamente meritati) con i “Bad Plus” da cui si è staccato negli ultimi tempi. Questa formula del duo senza sezione ritmica è particolarmente rischiosa in quanto praticamente i due artisti sono costretti a muoversi senza rete, inerpicandosi per sentieri impervi da loro stessi immaginati e costruiti. Di qui una musica che definire cameristica non è certo una forzatura: le influenze del cool-jazz sono evidenti – e non solo per la riproposizione di un brano di Warne Marsh, “Dixie’s Dilemma” – così come evidenti appaiono i richiami alla musica colta del Novecento. Tutto ciò crea un’atmosfera generale del tutto atipica e intrigante, grazie anche ad una continua ricerca timbrica e ad un contrapporsi di linee tracciate dai due musicisti che mai scadono nel banale. In repertorio, oltre al già citato brano di Marsh, sei pezzi del sassofonista e due del pianista, tutti declinati attraverso una profonda intesa che trova, forse, nel pianismo di Iverson il suo maggior punto di riferimento. Gli interventi pianistici sono sempre perfetti quanto a tempismo e coerenza con il discorso che si vuol portare avanti, dando così a Turner l’opportunità di librarsi leggero, etereo con il suo bellissimo sound.