Gilson Silveira in concerto al TrentinoInJazz

TRENTINOINJAZZ 2018
e
Valli del Noce Jazz
presentano:

Mercoledì 18 luglio 2018
ore 21:00
Piazza Padre Eusebio Chini
Segno (TN)

In caso di pioggia: Museo Padre Kino

GILSON SILVEIRA TRIO

ingresso gratuito

Proseguono gli appuntamenti dal vivo del TrentinoInJazz 2018 nelle Valli del Noce, stavolta con un focus – in verità mai assente nella lunga storia della programmazione del festival – sulla musica brasiliana, con un autentico asso: Gilson Silveira! A Segno (TN) si presenta in trio con il pianista Sergio Di Gennaro e il bassista Eddy Gaulein-Stef. Ad eccezione di qualche brano di Hermeto Pascoal, Thelonious Monk e Roberto Taufic, il trio propone composizione proprie che, per senso di appartenenza culturale, uniscono il linguaggio ritmico e melodico del Brasile alle cadenze armoniche e alla libertà di improvvisazione del jazz, un arrangiamento a sei mani consapevole che un concerto non è mai uguale al precedente.

Percussionista di Ipoema, nello stato del Minas Gerais, Gilson Silveira si è stabilito da molti anni in Italia, ha collaborato con moltissimi artisti italiani e star internazionali del calibro di Anna Torroja e Miguel Bosé, ha all’attivo anche collaborazioni con Chico Buarque di Hollanda e José Neto, con cantanti come Titane, Maurizio Tizumba, Marcos Buzana e tanti altri. In Europa ha lavorato fra gli altri con Marcella Bella, Franco Mussida, Tullio De Piscopo, Dom Um Romao, Giobbe Covatta, Flavio Boltro, Sergio Caputo, José Feliciano, Laura Fedele, Pitura Freska, Linea C, Mau Mau, Massimo Colombo.

Prossimo appuntamento con il TrentinoInJazz 2018 giovedì 19 luglio: Fabio Rossato a Sanzeno (TN), Leburn Maddox a Moena (TN).

Comincia ORTACCIO JAZZ 14′ edizione

E’ al via Ortaccio Jazz, già arrivato alla 14′ edizione. Si parte mercoledì 11 luglio. Noi di A proposito di Jazz abbiamo conosciuto dal vivo questo Festival l’anno scorso: Daniela Floris ha passato tre giorni in mezzo al Jazz, alla gente di Vasanello, ad un paese in fermento, assistendo ad eventi di grande livello organizzati da un gruppo di amici che sono riusciti a creare l’atmosfera giusta, in un posto incantato, e tutti ad ingresso libero.
Il programma di questa nuova edizione è ricchissimo. E vale la pena di affacciarsi su un Festival “alternativo” a quelli patinati e un po’ impersonali dell’estate. Sono i Festival che ci piacciono e che seguiamo volentieri, quelli che danno ossigeno al mondo del Jazz.  Nella piazzetta fervono gli ultimi preparativi

Qui sotto il programma  completo. Date un’occhiata!

ORTACCIO JAZZ 2018

14^ Edizione

11-15 LUGLIO 2018

VASANELLO (VT)

#OJ2018

INGRESSO GRATUITO

 

L’Ortaccio Jazz Festival è ai nastri di partenza. Mercoledì 11 luglio 2018 prenderà il via la quattordicesima edizione che si annuncia, anche quest’anno, densa di appuntamenti interessanti e di buona musica.

La rassegna è organizzata dall’Associazione Culturale “Messico e nuvole” con il patrocinio della Regione Lazio, della Provincia di Viterbo, del Comune di Vasanello e dell’Università Agraria di Vasanello. La manifestazione sarà ad ingresso gratuito e tutte le sere in attesa dei concerti offrirà la possibilità di degustazioni enogastronomiche in Piazzetta OJ nella ormai amatissima Cantina OJ

 

Cinque serate di grande jazz italiano da ascoltare nel cuore del centro storico di Vasanello.

 

PROGRAMMA 2018

11 LUGLIO          NTJO – New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini

12 LUGLIO          NOT A WHAT- FABRIZIO BOSSO GIOVANNI GUIDI

13 LUGLIO          STEFANO DI BATTISTA QUARTET

14 LUGLIO          FAR EAST TRIP – GIOVANNI FALZONE

15 LUGLIO          DEAR JOHN – FRANCESCO BEARZATTI

 

La direzione artistica è lieta di presentare il programma della 14° edizione di Ortaccio Jazz Festival.

SUONARE IL JAZZ. Cinque sere, cinque diversi modi di suonare la tradizione. Cinque diversi interpreti alle prese con autori, stili e generi del passato. Si parte dalle suggestioni musicali di Thelonious Monk, compositore e pianista dalle incredibili doti improvvisative, passando attraverso il confronto con le sonorità orientali della “Far East Suite” di Duke Ellington fino ad arrivare all’omaggio esplicito ed originalissimo ad uno dei più grandi sassofonisti della musica jazz: John Coltrane. Senza dimenticare il confronto con la tradizione melodica europea ed italiana.

Del resto se, come diceva Bill Evans, il jazz “is not a what, it’s a how” anche Ortaccio, nel suo piccolo, cerca di coglierlo.

DESCRIZIONE DEI CONCERTI

11 LUGLIO NTJO – New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini

Con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”.

Nel 2018 la New Talents Jazz Orchestra presenta il progetto musicale “Our Monk”, dedicato interamente a Thelonious Monk, artista eclettico e originale, che ha rappresentato la sfera bebop a New York.

Dagli anni ’40 ad oggi le sue composizioni sono tra le più suonate nel repertorio jazz, ma gli arrangiamenti pensati e realizzati ad hoc dai giovani talenti dell’orchestra daranno una propria visione della sua musica fuori dagli schemi strutturali. Il materiale compositivo di Thelonious Monk è il punto di partenza delle composizioni originali realizzate dall’orchestra, che opera trasformando i pattern e i riff originari in opere nuove, così da mantenere una linea stilistica unica, rendendo l’opera fluida e innovativa.

Solista per l’occasione sarà il giovane sassofonista Vittorio Cuculo, cresciuto tra le fila dell’Orchestra e talento ormai riconosciuto a livello nazionale.

La New Talents Jazz Orchestra è una formazione musicale nata nel 2012 sotto la guida del trombonista e arrangiatore Mario Corvini e costituita da 17 giovani talentuosi musicisti provenienti da varie regioni italiane.

Nei sei anni di attività la New Talents Jazz Orchestra ha proposto progetti molto differenti l’uno dall’altro, confrontandosi con il repertorio classico delle orchestre jazz fino ad arrivare alla presentazione di lavori originali. In questo percorso musicale numerose sono state le collaborazioni con musicisti di fama internazionale quale Enrico Pieranunzi, Stefano Di Battista, Roberto Gatto, Maurizio Giammarco, J. Girotto, ecc.

 

12 LUGLIO NOT A WHAT FABRIZIO BOSSO GIOVANNI GUIDI

Fabrizio Bosso, Tromba

Aaron Burnett, Sax Tenore

Giovanni Guidi, Pianoforte

Dezron Douglas, Contrabbasso

Joe Dyson, Batteria

Giovanni Guidi e Fabrizio Bosso hanno percorso strade molto diverse: Guidi pianista per anni alla corte di Enrico Rava, dopo alcune incisioni per CAM Jazz è   approdato alla blasonata etichetta ECM, con cui ha già registrato tre album da leader, Bosso, arrivato ai massimi vertici a livello mondiale del suo strumento, ha inciso da leader per Blue Note, Verve ed ora Warner. I due incontratisi durante la scorsa estate ad Umbria Jazz, dove hanno diviso il palco, l’uno con il quintetto di Enrico Rava e Tomasz Stanko, l’altro con il proprio progetto dedicato a Gillespie “ The Champ” , hanno pensato bene di unire le loro forze in una idea che li potesse spingere a oltrepassare i confini della loro personale ricerca musicale.  Per far ciò hanno voluto che il gruppo fosse completato da tre giovani talenti indiscussi del jazz newyorchese del calibro di Aaron Burnett, sax tenore che sta bruciando le tappe a New York (Wynton Marsalis, Esperanza Spalding, Kurt Rosenwinkel), Dezron Douglas affidabilissimo e propulsivo contrabbassista (Ravi Coltrane, Louis Hayes, Cyrus Chestnut) e Joe Dyson, tra i più richiesti giovani batteristi oggi in circolazione. Il gruppo, che prende spunto per la sua denominazione da una frase del grande Bill Evans “jazz is not a what, it is a how”.

 

13 LUGLIO STEFANO DI BATTISTA QUARTET

Stefano Di Battista, sax alto e soprano

Andrea Rea, pianoforte

Daniele Sorrentino, basso

Luigi Del Prete, batteria

Torna a Ortaccio Jazz Festival uno dei più importanti sassofonisti della scena italiana ed internazionale. Stefano di Battista con il suo quartetto, ripercorrerà le tappe della sua carriera attraverso il repertorio dei suoi best-of! Il concerto è proprio da non perdere! Di Battista nasce a Roma da una famiglia di musicisti ed appassionati di musica. Ha iniziato a studiare il sassofono all’età di 13 anni in una banda di un piccolo quartiere, composta principalmente da ragazzini. E’ qui che, fino all’età di 16 anni, Stefano ha sperimentato quella che sarebbe diventata una delle qualità essenziali della sua musica: l’allegria. Durante questo periodo ha due incontri decisivi che lo indirizzano verso la sua vocazione: scopre il jazz, innamorandosi del suono “acidulo” di Art Pepper (“…immediatamente volevo suonare in quel modo… fu l’inizio della mia passione”) e incontra l’uomo che diventerà il suo mentore, il leggendario alto sassofonista Massimo Urbani (“lui era un mostro, suonava senza conoscere cosa venisse dopo. Istintivamente.”). La sua strada è ormai segnata: Stefano sarà un musicista jazz. Viaggerà in lungo e largo in Italia e nel mondo portando la sua musica e diventando uno dei musicisti di jazz italiani più famosi al mondo.

14 LUGLIO GIOVANNI FALZONE FAR EAST TRIP

Giovanni Falzone, tromba e arrangiamenti

Massimo Marcer, tromba

Massimiliano Milesi, sax tenore e baritono

Andrea Baronchelli, trombone e tuba

Alessandro Rossi, batteria

Giovanni Falzone, uno dei più interessanti e creativi trombettisti europei rilegge la Far East Suite di Duke Ellington accostando 4 brani della suite originale -Tourist Point Of View; Blue Bird Of Delhi; Blue Pepper; Amad – ad altrettante sue composizioni originali concepite e scritte come omaggio al pensiero musicale del Duca. Ne viene fuori un mix intrigante di old & new jazz con esplosioni di lontano oriente. Facendo un lavoro di ricerca compositiva convenzionale e non, Falzone ha cercato di miscelare il jazz con tutte le forme di scrittura e improvvisazione che durante il XX Secolo si sono avvicendate. Le composizioni sono caratterizzate da una forte componente ritmica e melodica, attraverso la quale il gruppo muove l’intero quadro sonoro. Fanno parte di questo progetto musicisti capaci e attenti con i quali il Leader ha instaurato un rapporto di complicità ed intesa musicale, grazie soprattutto alla loro sensibilità e capacità di muoversi in diversi contesti creativi.

 

15 LUGLIO FRANCESCO BEARZATTI DEAR JOHN

Francesco Bearzatti | sassofoni

Luca Colussi | batteria

Benjamin Moussay | tastiere, fender rhodes

Dopo la morte di John Coltrane, avvenuta il 17 luglio 1967, il mondo della musica si è come tutto sintonizzato sul suo stile del periodo di mezzo: quello del quartetto modale, il più accessibile ed euforico, profondamente legato a un’ispirazione spirituale.

Questo stile è diventato parte del linguaggio jazzistico ed è spesso ridotto a pura formula. E’ per questo che per MetJazz 2017 Francesco Bearzatti (1966) ha immaginato questo omaggio a John Coltrane. Perché Bearzatti viene stilisticamente da un mondo piuttosto lontano e vive un diverso rapporto tra la musica e valori civili. Eppure come sax tenore non può non fare i conti con Coltrane, con la sua energia, con l’alta aspirazione spirituale, con la lucida apertura di ricerca. Per questo l’omaggio di Bearzatti non può che essere personale ed eccentrico, fin dalla scelta della formazione, un trio rhythm’n’blues (il sound con cui Coltrane è maturato). Ci sono tutte le premesse per affrontare una pagina nuova su Coltrane.
Francesco Bearzatti ci ha abituato ad aspettarci l’imprevisto. Nel corso della sua carriera, ogni nuovo progetto ha costruito immagini inaspettate e sorprendenti: Thelonious Monk mescolato al rock’n’roll, una suite dedicata alla fotografa Tina Modotti, il sax che viene filtrato dall’elettronica fino a trasformarsi in una chitarra elettrica. Stavolta, ha scelto di rendere omaggio a John Coltrane, a cinquant’anni dalla morte, ma lo ha fatto a modo suo, scrivendo una lettera aperta al grande sassofonista. La formazione è un trio sax-batteria-Fender, che richiama le sonorità del soul-jazz e del rhythm’n’blues: quelle, guarda caso, con cui Coltrane esordì e crebbe, prima di lanciarsi nell’esplorazione introspettiva della musica e dello spirito. Lo accompagnano il batterista Luca Colussi e il tastierista francese Benjamin Moussay, un artista abituato a incrociare mondi sonori diversi, dal jazz alla classica, fino al rock e all’elettronica.

 

TESSERA SOCIO ORTACCIO JAZZ FESTIVAL

Vuoi diventare socio di OJ Festival? Anche quest’anno hai la meravigliosa opportunità di sottoscrivere la tessera SOCIO SOSTENITORE e vivere il festival in prima fila! Nelle due versioni GOLD (50 euro) e SILVER (20 euro) avrai diritto ad una consumazione gratis per sera. In più, per chi sottoscrive la tessera GOLD, anche uno sconto del 50% sull’acquisto della maglietta e un posto in prima fila per tutti i concerti. [PER AVERLA] Ti aspettiamo il mercoledì e il sabato presso l’ufficio “Informa Turismo” di via Roma a Vasanello.

Puoi anche prenotare la tessera inviando un messaggio a info@ojfestival.it oppure, con un SMS, ai numeri: 335 7533476 e 3342556798 e ritirarla la sera dei concerti al banco bar della piazza.

 

CANTINA OJ

 

 

Tutte le sere, prima dell’inizio dei concerti, si può comodamente cenare alla Cantina OJ. Aperta esclusivamente solo durante i giorni del festival. Piatti tipici della tradizione, alimenti a Km 0 e vino delle migliori cantine della zona.

Anche quest’anno il menù presenta delle grandi novità: oltre al piatto OJ che ormai è un must della Cantina (salumi, verdure grigliate, formaggi freschi e stagionati) si potranno gustare anche:

 

  • Prosciutto e melone
  • Friselle con pomodorini e mozzarella di bufala
  • Fieno al ragù
  • Farro con pomodori, olive e rucola
  • Cous Cous di verdure
  • Zuppa di moscardini
  • Porchetta
  • Fricciolose
  • Dolci secchi

 

CONTATTI

Associazione Culturale “Messico e nuvole”

Via G. Marconi, 46 – 01030 VASANELLO (VT)

mail: info@ojfestival.it – masterclass@ojfestival.it

web: www.ojfestival.it

info e prenotazioni: 335 7533476

 

#OJ2018
📍 Tutti i concerti sono gratuiti
📍 Kids friendly
📍 Cena con #CantinaOJ

 

INFO POINT
Vasanello Città > http://bit.ly/2qEcxOH
Come Arrivare > http://bit.ly/2qEcxOH
ORTACCIO JAZZ ☎ 348 5739663
tutti i Concerti http://bit.ly/OJConcert
Sito Web > http://ojfestival.it/
OJ Storia > http://bit.ly/2q0kPwh
Instagram > ortacciojazzfestival
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L’afflato del jazz rivitalizza sette “Borghi Swing”

Coniugare la musica di qualità con le eccellenze eno-gastronomiche e artigianali del nostro Paese: questo l’obiettivo di Borghi Swing, il nuovo progetto ideato e promosso da I-Jazz, l’associazione che riunisce alcuni tra i più noti e seguiti festival jazz italiani, con il sostegno del MiBACT. La manifestazione è stata presentata alla stampa specializzata nel corso di una conferenza stampa svoltasi venerdì 15 giugno nella Capitale.

Ad animare il progetto saranno sette Festival Jazz che si svolgono lungo tutto lo stivale in altrettanti Borghi particolarmente significativi per le loro caratteristiche storiche, paesaggistiche e culturali e che, da giugno ad agosto, ospitano una programmazione di eventi che include concerti di musica jazz, pop e world music; iniziative artistiche e culturali con visite guidate al patrimonio storico; percorsi nella natura ed escursioni in mare; viaggi nei sapori alla scoperta dell’enogastronomia locale. Tra gli artisti coinvolti grandi nomi del panorama nazionale come Stefano Cocco Cantini, Luigi Martinale, Daniele Dagaro Trio… e molti altri. Ma ci sarà spazio anche per le contaminazioni musicali e per grandi artisti internazionali come David Helbock, Johannes Bär, Andreas Broger, Robert Glasper, Terrace Martin, Christian Scott, Derrick Hodge, Justin Tyson, Taylor McFerrin, Ingrid Jensen, Jeremy Pelt, Aaron Parks. Dato il tenore ella manifestazione non possono mancare realtà musicali fortemente legate al territorio d’origine: Coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino e del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Torino, il BargaJazz Ensemble, la BargaJazz Orchestra, l’Udin&Jazz Big Band.

The Licaones

Robert Glasper

Ma entriamo più nello specifico e vediamo quali sorprese ci riservano i Borghi, richiamati in rigoroso ordine cronologico.

A dar fuoco alle polveri, quasi in contemporanea, la Toscana e il Friuli Venezia Giulia. In particolare dal 20 al 24 giugno a Vicchio si volgerà “ETNICA”, manifestazione che tra l’altro punta a rafforzare l’identità culturale attraverso attività di interazione con vecchie e nuove comunità del territorio. Dal punto di vista musicale da segnalare l’apertura con il concerto di Danilo Rea e Gino Paoli mentre la chiusura sarà affidata ai “Fankoff” che festeggiano il loro XX anniversario ospitando Karima.

Fankoff

Mauro Costantini Bus Horn Band

Dal 22 al 24 giugno, il borgo di Marano e la sua suggestiva laguna ospitano la speciale apertura del Festival Udin&Jazz 2018 #takeajazzbreak, con questa nuova manifestazione, volta a scoprire e valorizzare il borgo marino con un’offerta culturale-musicale di alto profilo. Il progetto artistico, costruito ad hoc per valorizzare una significativa espressione del panorama jazzistico del Friuli Venezia Giulia, coinvolge anche nomi affermati della scena nazionale, come la storica formazione dei Licaones con Francesco Bearzatti, Mauro Ottolini, Oscar Marchioni, Paolo Mappa (24/6 h 20.30 Piazza Aquileia), Claudio Cojaniz, che proporrà un suggestivo  concerto per piano solo all’alba nella Riserva naturalistica Canal Novo (24/6 h 5:00), il progetto di Fantin-Zaninotto-Colussi dedicato a Thelonious Monk con il featuring del chitarrista americano Russ Spiegel (24/6 Piazza Savorgnan h 19:00).

A seguire, dal 6 all’8 luglio, in Piemonte, per l’esattezza a Bagnolo Piemonte e Racconigi (CN) si svolge “JAZZ VISIONS”. Un progetto che Luigi Martinale, direttore artistico della manifestazione racconta così: “Sin dalla prima edizione della rassegna abbiamo scelto come sede dei nostri concerti il meglio che ogni realtà coinvolta potesse offrirci: teatri, parchi, castelli, ma anche aziende che si trasformano per un giorno in sala da concerto. Il progetto Borghi Swing ci ha permesso di portare jazz, arte contemporanea ed eccellenze enogastronomiche nella piccola rocca medievale del Castello Malingri di Bagnolo Piemonte e nel maestoso Castello di Racconigi, una della grandi regge sabaude del territorio”.

Dal 7 luglio al l’11 agosto è in programma a Locorotondo, in provincia di Bari, il “LOCUS FESTIVAL” dedicato prevalentemente alle sonorità contemporanee. Così tra gli ospiti più attesi R+R=NOW, uno speciale dream-team con Robert Glasper, Terrace Martyn,Christian Scott, Derrick Hodge, Justin Tayson e Tayylor McFerrin. Altro attesissimo artista afroamericano del momento è Moses Sumney, mentre Rodrigo Amarante è californiano di adozione ma è un grande della musica brasiliana,

Moses Sumney

Dopo la singola data dell’8 luglio dal 17 al 25 agosto si svolgerà “Barga Jazz”; personalmente conosco questa manifestazione molto molto bene avendone curato l’ufficio stampa nelle primissime edizioni (e siamo negli anni ’80). Si tratta di un progetto che ha conservato negli anni tutta la sua validità dal momento che ha dato la possibilità a molti giovani di esprimere le proprie potenzialità di arrangiatori.

Dal 23 al 29 luglio si svolgerà a Fara in Sabina (RI) il “FARA MUSICA FESTIVAL”; di sicuro spessore il concerto conclusivo: Aaron Parks Trio with Kendrick Scott e Matt Brewer.

Infine dall’8 al 30 agosto è in programma a Diamante, in provincia di Cosenza, il “PEPERONCINO JAZZ FESTIVAL” manifestazione che ha oramai raggiunto una sua meritata notorietà grazie alla valenza dei programmi che nel corso degli anni sono stati presentati. “Il Peperoncino Jazz Festival – dichiara il direttore artistico Sergio Gimigliano – è una rassegna che coinvolge più di trenta località calabresi, sparse tra le cinque province, e racconta i luoghi di interesse storico e paesaggistico attraverso episodi concertistici d’eccellenza”.

Gerlando Gatto

THE EVOLUTION OF SOLO JAZZ PIANO – L’Aquila, 20 giugno 2018

THE EVOLUTION OF SOLO JAZZ PIANO
una lezione concerto sul lavoro di Bill Dobbins
progetto ideato da Michele Francesconi

Mercoledì 20 giugno 2018
Conservatorio Alfredo Casella dell’Aquila
Direttore Giandomenico Piermarini

Mercoledì 20 giugno 2018, il Dipartimento di Jazz del Conservatorio Alfredo Casella dell’Aquila, coordinato da Paolo Di Sabatino, presenta The Evolution of Solo Jazz Piano, progetto ideato da Michele Francesconi, docente di pianoforte jazz, e ispirato al celebre libro di Bill Dobbins, “Contemporary Jazz Pianist”.

Al progetto parteciperanno la classe di pianoforte jazz, Massimiliano Coclite (docente di canto jazz) e Massimiliano Caporale (docente di composizione e arrangiamento jazz).

Nella stessa giornata, sarà possibile visitare in anteprima la mostra curata da Luca Bragalini (docente di storia del jazz) insieme al collezionista Vittorio Castelli: un vero e proprio racconto dell’evoluzione del disco, dai 78 giri ai Long Playing a 33 giri, passando per i V-Disc della Seconda Guerra Mondiale e numerose rarità. La mostra verrà inaugurata giovedì 21 giugno, in occasione della Festa della Musica, ed è allestita nell’Auditorium del Conservatorio. Sarà possibile visitare l’esposizione fino ai primi di settembre.

La lezione-concerto prende in esame il quarto volume del “Contemporary Jazz Pianist” di Bill Dobbins, metodo pubblicato nel 1988 in quattro volumi. In questo volume vengono presentate 24 variazioni dello stesso tema (costruito sulle armonie dello standard All of Me) come potrebbero suonarlo, in piano solo, 24 pianisti della storia del jazz, da Scott Joplin a Richie Beirach. Dobbins divide il lavoro in due parti, usando come spartiacque il bebop: i primi dodici, quindi, considerati pre-bebop vengono ascritti ai Traditional Styles, mentre i secondi dodici vanno sotto la definizione di Modern Styles.

Bill Dobbins insegna Composizione e Arrangiamento jazz e dirige l’Eastman Jazz Ensemble e l’Eastman Studio Orchestra. Come pianista si è esibito con orchestre classiche e ensemble da camera sotto la direzione di Pierre Boulez, Lukas Foss e Louis Lane, tra gli altri, e ha suonato e registrato con musicisti come Clark Terry, Phil Woods, Dave Liebman e Peter Erskine. Nel 1972, ha vinto l’International Gaudeamus Competition per interpreti di musica contemporanea ed ha vinto numerosi concorsi di composizione jazz tra cui l’Ohio Arts Council e il National Endowment for the Arts. Dal 1994 al 2002, Dobbins è stato direttore principale della WDR Big Band di Colonia, in Germania. Nel 2002 è tornato ad Eastman, pur continuando a lavorare come direttore ospite della WDR Big Band e della Metropole Orchestra di Hilversum. Le scuole di jazz di tutto il mondo hanno adottato i suoi volumi di trascrizioni di assoli di piano jazz e i suoi libri didattici.

Il lavoro effettuato da Michele Francesconi, insieme alla classe di pianoforte jazz, vuole indagare i processi stilistici, compositivi, di fraseggio e di forma che Dobbins ha mutuato dai grandi pianisti della storia del jazz.

Le variazioni sono interamente scritte e per questo possono essere suonate da pianisti che non improvvisano. L’obiettivo si sposta così su quella che Dobbins, nella sua prefazione al lavoro chiama “convincing rhythmic feeling”, più che sulla perfezione o sulla velocità dell’esecuzione.

Dal lavoro portato avanti nel “laboratorio” emerge un concetto importante, vale a dire, il jazz e l’evoluzione degli stili pianistici sono spesso frutto di una crescita collettiva, il risultato degli interventi di molti artisti, più o meno noti, che hanno tramandato e modificato il modo di suonare e di improvvisare negli anni. La lezione è naturalmente anche l’occasione per un confronto informale. Nel corso della giornata, il pubblico avrà modo di intervenire per discutere insieme.

Successione degli interventi

Ore 10.30

SCOTT JOPLIN. suona FRANCESCO DI MARCO
JELLY ROLL MORTON. suona JACOPO PAOLUCCI
JAMES P. JOHNSON. suona MICHELE FRANCESCONI
WILLIE “THE LION” SMITH. suona MASSIMILIANO CAPORALE
EARL HINES. suona ALBERTO BIANCHI
FATS WALLER. suona MATTIA PARISSI
TEDDY WILSON. suona SEBASTIAN GIOVANNUCCI
DUKE ELLINGTON. suona MASSIMILIANO COCLITE

Ore 13.30

ART TATUM. presenta MICHELE FRANCESCONI
MEADE LUX LEWIS. suona ELEONORA LA PROVA
PETE JOHNSON. suona GIANCARLO GREGORI
JIMMY YANCEY. suona TIZIANO PATACCHINI
THELONIOUS MONK. suona SEBASTIAN GIOVANNUCCI
BUD POWELL. presenta MASSIMILIANO COCLITE
OSCAR PETERSON. suona MASSIMILIANO CAPORALE
ERROLL GARNER. presenta MATTIA PARISSI

Ore 16.30

LENNIE TRISTANO. presenta ALBERTO BIANCHI
BILL EVANS. suona JACOPO PAOLUCCI
CLARE FISCHER. suona MICHELE FRANCESCONI
JIMMY ROWLES. suona MATTIA PARISSI
CECIL TAYLOR. presenta MICHELE FRANCESCONI
CHICK COREA. suona SEBASTIAN GIOVANNUCCI
KEITH JARRETT. suona GIANCARLO GREGORI
RICHIE BEIRACH. suona TIZIANO PATACCHINI

Dave Douglas Quintet: quando il jazz cerca nuove strade

Dave Douglas 5et

Qualche anno fa, alla fine di un concerto all’Auditorium Parco della Musica di Roma, Keith Jarrett, rispondendo ad uno spettatore che gli chiedeva un secondo bis, rispose (cito quasi testualmente) “bisogna lasciare il teatro con ancora un po’ di appetito”. Allora lo criticai ma successivamente, con il trascorrere degli anni (e l’avanzare dell’età) ho rivalutato questa espressione e sono giunto alla conclusione che un concerto non deve andare oltre l’ora e mezzo, pena una caduta d’attenzione da parte di chi ascolta la musica, specie quando la stessa non è proprio semplice.

Questa premessa per dire che, al concerto di venerdì 9 febbraio sempre all’Auditorium Parco della Musica di Roma Dave Douglas forse non ha fatto la scelta migliore proponendo una lunga suite dedicata a Franco D’Andrea dopo aver già suonato, per altro molto bene, più di un’ora e venti. Intendiamoci: anche la suite è musicalmente valida ma il fatto di averla proposta alla fine del concerto, non ci ha permesso di seguirla con la dovuta attenzione.

Ciò detto occorre sottolineare come ancora una volta Dave Douglas si sia confermato musicista di classe superiore non solo per la sua personale abilità di strumentista e compositore, ma anche per la straordinaria capacità di assemblare dei gruppi di eccellenti solisti. Jon Irabagon, al sax tenore, ha vinto nel 2008 la “Thelonious Monk International Saxophone Competition”. Nato a Chicago nel 1979 ma di origini filippine, Jon si è imposto alla generale attenzione non solo come sideman ma anche come leader di propri progetti; il perché di tanto successo è apparso palese: innanzitutto una tecnica superlativa che va dalla sicura digitazione al perfetto controllo della dinamica, della respirazione, del bocchino, dell’ancia… con la capacità di spezzettare le frasi grazie ai perfetti colpi di lingua propria dei grandi sassofonisti; e poi l’enciclopedica conoscenza del jazz che gli consente di suonare di tutto e una fantasia che gli permette di seguire Douglas anche nelle più spericolate escursioni.

Non meno originale il pianismo di Matthew Mitchell, classe 1975; a ben ragione considerato anche uno dei migliori compositori del nuovo jazz newyorkese, Mitchell è membro del “Center for Improvisational Music” situato nella Grande Mela.

Proveniente dall’Australia (ma di sicure origini orientali) la contrabbassista Linda Ho si è costruita una solida reputazione suonando, tanto per fare qualche nome, con Joe Lovano, Steve Wilson, Vijay Iyer; accanto a Dave ha evidenziato tutta la sua classe costituendo, per tutta la durata del concerto, un solido punto di riferimento armonico… e non solo.

A completare il gruppo Rudy Royston (Fort Worth, Texas,1971) uno dei più rinomati batteristi della contemporanea scena musicale che, dopo tanti anni di gavetta, nel 2014 ha pubblicato il suo primo album da leader – “303” – grazie proprio a Dave Douglas ed alla sua etichetta Greenleaf.

Insomma, come si accennava, un gruppo di tutte stelle che hanno prodotto una musica non facile da definire, ricca di spunti, di tensioni, di cambi di atmosfera, di continui dialoghi, il tutto ricondotto ad unità da un Dave Douglas sempre in palla. Di solito la sua è una musica in cui l’equilibrio tra forma scritta e improvvisazione è costantemente in bilico ma che proprio per questo assume connotazioni affatto particolari; questa volta, invece, ci è parso di ascoltare una musica più strutturata che nel passato, in cui il ruolo della pagina scritta è preponderante e gli spazi per l’improvvisazione sono dettati da un leader sempre in perfetto controllo. Così basta un cenno ed ecco che i compagni d’avventura assumono il ruolo di solisti evidenziando tutte le loro potenzialità.

Dal canto suo Dave si è confermato esecutore e compositore di assoluto spessore; la sua voce rimane fresca, originale, quasi del tutto priva di vibrato, profondamente ancorata a quel movimento jazz che potremmo definire post bop. Di qui un fraseggio frastagliato, armonicamente complesso, ma scevro da quelle incursioni nel klezmer o nel free che avevano caratterizzato certe sue esibizioni. Quindi, da questo punto di vista, un jazz meno sorprendente ma non per questo meno affascinante ché le sorprese venivano da un canto da come gli altri componenti del gruppo si inserivano nelle volute disegnate dal leader, dall’altro da come Dave riusciva a riprendere in mano le redini del discorso senza la benché minima sbavatura, costruendo una miscela in cui tradizione e modernità si sposano per indicare una nuova probabile strada per gli sviluppi del jazz.

Oltre al già citato omaggio a Franco D’Andrea, Dave ha presentato un altro omaggio dedicato a Charles Mingus – “Self- Portrait in Four Dimensions” – con un chiaro riferimento a quel “Self-Portrait in Three Colors” comparso sull’album “Columbia” “Mingus Ah Um” del 1959, ed è stato davvero un bel sentire.

E, a proposito di bel sentire, la platea ha molto apprezzato le considerazioni espresse, tra un brano e l’altro, dal trombettista sull’attuale presidente degli States, Donald Trump, considerazioni che definire pungenti è usare un eufemismo!

Gerlando Gatto

La redazione di A Proposito di Jazz ringrazia Fabrizio Sodani per le immagini

I NOSTRI CD. TRA NOVITA’ INTERESSANTI E RIEDIZIONI DI LUSSO

Jon Balke, Siwan – “Nahnou Houm” – ECM 2572

Il pianista e tastierista norvegese si è oramai costruito una solida reputazione come artista capace di frequentare con eguale disinvoltura sia il jazz più moderno, sia la musica antica. Ed è proprio su quest’ultimo versante che si indirizza il suo progetto Siwan nato nel 2007 e sviluppatosi nel 2008. Nel 2009 il debutto per ECM, con l’album “Siwan” che vinse, tra l’altro, il “Jahrespreis der deutschen Schallplattenkritik”, il premio del migliore album dell’anno dai critici tedeschi. Ora Siwan si ripresenta con questo nuovo album caratterizzato dal cambio della vocalist: al posto di Amina Aloui dal Marocco troviamo Mona Boutchebak dall’Algeria. Ma il risultato non cambia di molto dal momento che le linee ispiratrici del progetto rimangono inalterate e cioè far coesistere musica araba, classica andalusa e barocco europeo anche se questa volta i testi, cantati in castigliano, vengono da fonti diverse: il poeta duecentesco Ibn al Zaqqaq, il mistico sufi trecentesco Attar Faridu Din, il drammaturgo madrileno Lope De Vega (1562-1635), San Juan de la Cruz (in realtà Juan de Yepes Alvarez, 1542-1591) carmelitano e doctor mysticus, patrono dei poeti di lingua spagnola. Dal punto di vista prettamente musicale Jon Balke ha voluto dare ancor maggior spessore alla formazione includendo il trombettista Jon Hassell mentre reduci dal primo album ritroviamo, oltre naturalmente a Balke, Helge Norbakken alle percussioni, Pedram Khaver Zamini tumbak e Bjarte Eike violinista e leader dell’ensemble barocco ‘Barokksolistene’. Date queste premesse si può facilmente comprendere come questa musica sia lontana dal jazz assumendo una sua specifica valenza nella straordinaria timbrica che Balke riesce a cavar fuori utilizzando tanti strumenti non del tutto consueti. Di qui la difficoltà di citare un brano in particolare anche si ci ha particolarmente colpiti l’esecuzione a cappella del canto tradizionale andaluso “Ma Kontou”. Insomma un album difficile da decifrare ma altrettanto difficile da trascurare.

Django Bates’ Beloved – “The Study Of Touch” – ECM 2534

Ecco un disco di jazz senza se e senza ma dal momento che vi si trovano tutti quegli elementi che comunemente identificano questo genere: innanzitutto straordinaria abilità tecnica di tutti i musicisti, ritmo, groove, improvvisazione, controllo della dinamica, interplay …e poi un repertorio che ha come stella polare la musica di Charlie Parker. Protagonista il trio del pianista inglese Django Bates completato dallo svedese Frans Petter Eldh al contrabbasso e dal danese Peter Bruun alla batteria. Dopo alcune diversificate esperienze discografiche che lo hanno visto, tra l’altro, nella triplice veste di musicista, arrangiatore e direttore della Frankfurt Radio Big Band in “Saluting Sgt. Pepper” (Edition Records, 2017), Django ritorna al suo vecchio trio costituito nel 2005, quando insegnava al Copenhagen’s Rhythmic Music Conservatory, formazione con cui ha già inciso due album, “Beloved Bird” (2010) e “Confirmation” (2012), entrambi per la Lost Marble ed entrambi tributi espliciti a Charlie Parker, mentre in questo terzo CD il grande sassofonista rimane lì, quasi sullo sfondo, ad indicare la strada che il trio deve percorrere. Ecco quindi undici brani, di cui nove composti da Bates, solo un brano di Parker – “Passport” – e un altro di Iain Ballamy. La musica è spigolosa, serrata, incalzante in cui l’intesa gioca un ruolo di primo piano: interessante notare al riguardo come delle undici tracce di “The Study Of Touch” ben cinque – “We Are Not Lost, We Are Simply Finding Our Way”; “Sadness All the Way Down”; “Senza Bitterness”; “Giorgiantics”; “Peonies as Promised” – fossero già presenti nel precedente album “Confirmation” ad indicare, con tutta probabilità, la volontà di Bates di tornare sui suoi passi per meglio profittare dell’intesa raggiunta con i suoi partners ed espandere così i confini musicali del trio.

Anouar Brahem – Blue Maqams – ECM 2580

Con questo album, pubblicato in occasione del suo sessantesimo compleanno, Anouar Brahem si esprime con stilemi ancora più vicini al jazz propriamente detto, in ciò agevolato dai superlativi compagni di viaggio: Django Bates al pianoforte (su cui vi abbiamo riferito proprio nella recensione precedente) Dave Holland al contrabbasso e Jack DeJohnette alla batteria, come a dire una delle migliori sezioni ritmiche che il jazz possa vantare. In repertorio nove composizioni dello stesso Brahem (di cui due – “Bahia” e “Bom datano 1990 – mentre le altre sono state composte tra il 2011 e il 2017) a sugellare una prova tra le migliori che lo specialista di oud ci abbia finora regalato. Tutto l’album poggia sulla volontà, chiaramente espressa da Brahem, di far interagire il sound della combinazione pianoforte-oud con una vera e propria sezione ritmica jazz. Di qui la scelta di Dave Holland con il quale Anouar aveva inciso venti anni fa l’album “Thimar” in trio con John Surman, di Jack DeJohnette (con il quale viceversa Anouar mai aveva inciso) per la delicatezza e sottigliezza con cui si esprime su piatti e pelli mentre per il pianista la scelta è caduta non già sul partner di sempre (da più di trent’anni) François Couturier ma su Django Bates per la sua liricità e il tocco portentoso. Scelte giuste? A posteriori si può ben dire di sì. La musica scorre fluida a coniugare input provenienti dalle armonie del jazz europeo, dalla tradizione musicale araba, dalle splendide melopee brasiliane, dai ritmi africaneggianti in un costante e ricercato equilibrio fra tradizione e modernità, tra pagina scritta e improvvisazione. E quanto tale equilibrio sia perfetto lo dimostra il fatto che è davvero difficile, se non impossibile, stabilire quali siano le parti scritte e quali quelle improvvisate. Un’ultima notazione: i «Maqams» richiamati nel titolo dell’album sono un riferimento al sistema modale della musica tradizionale araba.

John Coltrane – “Giant Steps” – Green Corner

In termini strettamente musicali non ci sarebbe certo bisogno di presentare quest’album ché si tratta di uno dei capolavori inciso da John Coltrane nel maggio del 1959 alla testa di un quartetto comprendente i pianisti Tommy Flanagan e Wynton Kelly, il contrabbassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. Dal punto di vista storico, fu il suo primo album per la Atlantic Records e il primo interamente costituito da proprie composizioni, nonché l’insieme di registrazioni che segna il definitivo passaggio di Coltrane dall’hard-bop al modale. Insomma una musica che sicuramente tutti gli appassionati di jazz conservano gelosamente nella loro discoteca per cui ci permettiamo di rivolgerci soprattutto a quanti si sono avvicinati al jazz da poco: se ancora non possedete questo album è l’occasione buona per averlo. Non ve ne pentirete dal momento che ascolterete alcune vere e proprie perle della discografia jazzistica di tutti i tempi quali, tanto per citare qualche titolo, la dolcissima “Naima” e il classico “Mr. P.C.”. Al di là della valenza artistica, l’album edito in un numero limitato di copie, presenta un interesse specifico per i collezionisti in quanto presenta i medesimi brani incisi in versione sia mono sia stereo. In effetti, negli ultimi anni ’50, presso le grandi case discografiche era abitudine abbastanza comune registrare ambedue le versioni di uno stesso titolo, differenziandoli con i numeri di riferimento. Ciò perché all’epoca lo stereo era una innovazione molto recente e quindi i relativi mezzi di riproduzione non erano molto diffusi; sappiamo bene come poi sono andate le cose: il mono è andato nel dimenticatoio. Senonché in questi ultimi anni molti esperti e gli stessi musicisti hanno rivalutato il suono mono come più fedele rispetto all’originale. Di qui la scelta di pubblicare le due versioni e sicuramente troverete il raffronto molto, molto interessante.

John De Leo, Fabrizio Puglisi – “Sento doppio”

Album molto interessante questo “Sento doppio” che vede come protagonisti il vocalist romagnolo di Lugo, John De Leo, (al secolo Massimo De Leonardis), una delle figure più rappresentative della nuova scena musicale italiana, e il pianista catanese Fabrizio Puglisi cui si aggiunge in due brani il ben noto trombonista Gianluca Petrella. L’album è disponibile sia in cd che in vinile e nelle due versioni è diversificato da brani alternativi e inedite bonus track. Quali i motivi di interesse cui si faceva riferimento in apertura? Innanzitutto la bravura dei due protagonisti: De Leo è oramai artista maturo, ben consapevole delle proprie possibilità espressive per cui riesce a modulare la sua voce, ad utilizzarla in maniera ora aggressiva ora più dolce ma sempre conferendole mille colori, mille sfumature che la rendono strumento dalle infinite possibilità. E questo tipo di approccio alla musica si sposa perfettamente con il fraseggio di Puglisi, tutt’altro che scontato, grazie anche al modo particolare in cui riesce a preparare il pianoforte. In secondo luogo la scelta del repertorio: 8 brani di cui sei originals cui si sommano una medley di due pezzi composti da Bernstein e Coltrane e la celebre “Crepuscule with Nellie” di Thelonious Monk. Ebbene, sia che affrontino le proprie partiture sia che si misurino con brani già noti, la cifra stilistica dei due non muta: contrariamente a quanto avviene solitamente, qui non si ascolta una voce accompagnata da uno strumento, ma un ensemble nell’accezione più completa del termine. Ovvero due strumenti che si sostengono a vicenda, che si lasciano guidare anche dalle proprie capacità improvvisative e che riescono a produrre un sound unico, originale, a tratti di grande fascino. Quasi inutile sottolineare come gli interventi di Petrella siano sempre di assoluto livello.

Martin Denny – Hypnotique – Jackpot 48778

Afro-Desia – Jackpot 48779

Questi due album sono consigliati soprattutto ai più giovani non tanto come valenza musicale quanto come valore documentaristico sì da avere contezza di quanta musica, diversa per stili e ispirazione, è stata composta nel microcosmo del jazz o comunque di universi a questo linguaggio assimilabili. Siamo alla fine degli anni’50, per la precisione nel 1957, e sulle scene compare un album significativamente intitolato “Exotica”. Responsabile Martin Denny un pianista e compositore newyorkese che intraprende la carriera musicale negli anni cinquanta durante la sua permanenza nelle Hawaii. Proprio ispirato dalla musica di queste isole, Martin inventa una ricetta per palati non troppo esigenti: mescolare ritmi latini, lounge jazz, musica hawaiana, canti di uccelli e strumenti poco conosciuti come il koto (cordofono di origine cinese), ensemble di percussioni di origine indonesiana e le campane dei templi birmani a disegnare atmosfere per l’appunto esotiche. L’iniziativa ottiene un buon successo: nel ’57 esce “Exotica” seguito a stretto giro di posta da altri tre LP, “Exotica 2” sempre del ’57, “Primitiva” e “Forbidden Island” ambedue del 1958. I CD che presentiamo oggi contengono, invece, produzioni del 1959: il primo due album “Hypnotique” e “The Enchanted Sea”, il secondo altri due lp “Afro-Desia” e “Quiet Village”; ambedue le riedizioni presentano come bonus tracks brani tratti dagli altri LP registrati tra il 1957 e il 1959. Fra le trenta tracce non poteva mancare “Quiet Village” di Les Baxter che raggiunse le vette delle classifiche di Billboard e che è stato l’unico brano di grande successo inciso da Denny. L’artista muore il 2 marzo del 2005 all’età di novantatré anni, dopo aver ottenuto nel 1999 il Lifetime Achievement Award da parte della Hawaii Musicians Association per il contributo dato alla diffusione e conoscenza della musica hawaiana

Tom Hewson – “Essence” – CamJazz 7912-2

Inglese, vincitore del Nottingham International Jazz Piano Competition 2014, Tom Hewson è al suo secondo album per la CamJazz ma con una differenza sostanziale. Nel primo, “Treehouse” del 2013, il pianista si esibiva in trio con Lewis Wright al vibrafono e Calum Gourlay al basso, mentre in questo “Essence”, registrato a Vienna, si avventura nella delicata impresa del piano-solo. Ora ben si conoscono le difficoltà insite nell’affrontare una prova del genere e occorre dire che Tom ne esce bene. Certo, niente di veramente nuovo sotto il sole, ma la conferma di un musicista maturo, che riesce a farsi valere non solo come strumentista ma anche come compositore. Non a caso delle undici tracce del disco ben otte sono sue, cui si aggiungono tre brani rispettivamente di Kenny Wheeler, Charles Mingus e John Taylor. Il pianismo di Hewson è interessante soprattutto dal lato armonico in quanto riesce a creare atmosfere sempre diversificate, fluide cui si aggiungono un controllo assoluto sulle dinamiche e sul ritmo, una propensione melodica sempre presente, percepibile in ogni momento, una continua ricerca timbrica e un tocco magistrale che transita facilmente dal delicato al fortemente percussivo. Il tutto supportato da una forte personalità che si estrinseca compiutamente anche quando il pianista inglese interpreta i tre brani altrui cui prima si faceva riferimento. Si ascolti al riguardo il celeberrimo “Goodbye Pork Pie Hat” di Charles Mingus porto con grande partecipazione mentre, per quanto concerne i brani originali, particolarmente azzeccata la title-track di sicura fascinazione.

Alberto La Neve, Fabiana Dota – “Lidenbrock” – Manitu Records

E’ stato pubblicato il 5 dicembre scorso questo “Lidenbrock – Concert for sax and voice”, il nuovo progetto discografico del sassofonista/compositore cosentino Alberto La Neve e di Fabiana Dota, emergente vocalist napoletana su cui si può certamente puntare. Si tratta di un concept album ispirato dalla figura di Otto Lidenbrock, personaggio che nel noto romanzo fantastico di Jules Verne “Viaggio al centro della Terra” riveste il ruolo del personaggio chiave. Di qui una sorta di viaggio sonoro, una suite divisa in quattro parti, tutte composte da Alberto La Neve, che ripercorrono le tappe fondamentali del romanzo: la prima “Dèpart” ovviamente riferita alla partenza da Amburgo; la seconda “Island” racconta l’arrivo dei viandanti nel punto indicato da Verne come ingresso al centro del mondo; la terza, “Sneffels”, è riferita al vulcano attraverso le cui viscere si arriva al mare sotterraneo; “Retour” infine racconta del faticoso ritorno ad Amburgo. Edito dalla giovane etichetta Manitù Records, l’album è difficile da classificare in quanto i due musicisti dialogano con grande disinvoltura disegnando strutture al cui interno trovano posto, sapientemente mescolate, suggestioni derivanti da loop machine, multi effetti e momenti improvvisativi sempre sorretti da un intento descrittivo che il più delle volte raggiunge l’obiettivo. Certo, come più volte sottolineato, affidare alla musica un intento descrittivo è impresa quanto mai rischiosa ed in effetti anche questa volta ci sono dei momenti di stanca, ma nel complesso l’album ha una sua valenza che ne giustifica l’ascolto.

Massimo Manzi – “Excursion” – Notami

Massimo Manzi è tra i più apprezzati batteristi italiani, eppure era da ben dieci anni che non firmava un album come leader. Per questa sua nuova impresa, Massimo ha chiamato Domingo Muzietti alla chitarra e Massimo Giovannini al basso con l’aggiunta di Echae Kang, un’eccellente violinista e vocalist coreana dotata di una solida preparazione di base conseguita nel campo della musica classica. L’album, va detto subito, è quanto mai godibile dal primo all’ultimo minuto grazie al perfetto affiatamento che il trio, guidato da Manzi, è riuscito ad ottenere con la Kang, Così il violino della Echae si sposa magnificamente con il sound del trio creando un’atmosfera davvero intensa, velata spesso da una nota di suggestiva malinconia, non rinunciando ad un gusto retro particolarmente evidente nel brano “Domingo’s Waltz” in cui il richiamo ai gruppi guidati da Stephane Grappelli e Django Reinhardt è evidente. Ma, a parte questa particolarità, il quartetto si muove attraverso un repertorio fatto in massima parte da brani originali scritti soprattutto dal chitarrista Domingo Muzietti con l’aggiunta di alcuni standards affrontati sempre con consapevolezza ed originalità. Della Kang abbiamo già detto; gli altri componenti il gruppo sono tutti jazzisti di vaglia. In particolare Massimo Giovannini al basso si fa notare per il continuo sostegno fornito all’ensemble mentre Domingo Muzietti, come già accennato, ha modo di evidenziare non solo una squisita capacità strumentale ma anche una bella vena compositiva caratterizzata da una costante ricerca melodica; da sottolineare anche la grande intesa con Massimo Manzi cementata da tanti anni di fruttuosa collaborazione. Infine Manzi non è certo una scoperta: il suo drumming preciso, il suo gusto, la sua esperienza, la capacità di ascoltare i compagni di viaggio sono tutti lì, basta ascoltare con attenzione.

Mattias Nilsson – “Dreams of Belonging” – Mattias Nilsson 01

Ecco uno di quei pochi dischi che, appena finito, hai voglia di reinserire nel lettore per scovarne ogni minimo dettaglio, ogni recondita nuance, ogni piega nascosta nell’affascinante pianismo. Mattias Nilsson, svedese classe 1980, si inserisce a buon diritto nel filone dei grandi pianisti ‘nordici’ ossia di quegli straordinari musicisti che sono riusciti a produrre una musica originale caratterizzata dall’incontro fra la tradizione jazzistica e l’humus particolare del Nord Europa, quell’humus fatto di spazi immensi, grandi silenzi e quindi una dolce soffusa malinconia… il tutto condito da una tecnica superlativa data l’importanza che quei Paesi attribuiscono all’educazione musicale. Non a caso Mattias ha ricevuto nel 2013 il prestigioso premio “Swedish Harry Arnold Scholarship”. Questo “Dreams of Belonging” rappresenta il suo debutto discografico come leader e presentarsi, discograficamente parlando, con un ‘piano-solo’ è impresa quanto mai coraggiosa viste le insidie sempre presenti in performances di questo tipo. Ma, evidentemente, Nilsson si conosce assai bene per capire di essere pronto e i fatti gli hanno dato ragione. Come si accennava in apertura, l’album è delizioso, godibile dal primo all’ultimo istante, con le dita di Mattias che volano sulla tastiera a produrre una musica leggera (ma nell’accezione positiva del termine), ossia non appesantita da inutili orpelli, da vani esercizi di retorica stilistica. Il pianista svedese si appalesa così com’è, sensibile, preparato, non immune dal fascino che proviene sia dalla sua terra sia dal jazz. Così in repertorio figurano otto pezzi tratti dalla tradizione svedese, tre composizioni originali di Mattias e una cover di John Hartford “Gentle on My Mind”; in quest’ambito particolarmente suggestiva la title-track.

Northbound – “Northbound” – Cam Jazz 7917-2

Northbound è l’insegna del trio composto da Tuomo Uusitalo al piano, Olavi Louhivuori alla batteria (ambedue finnici) e dall’americano Myles Sloniker al basso, cui nell’occasione si aggiunge l’anglo-canadese Seamus Blake al sax tenore. Ecco, quindi, nuovo di zecca un quartetto che ha molte frecce al suo arco. Innanzitutto la bravura dei singoli: si tratta di quattro musicisti giovani ma che hanno ottenuto significativi riconoscimenti a livello internazionale. In secondo luogo – ed è forse quel che più conta – le modalità espressive. Il quartetto si esprime, infatti, su livelli che potremmo definire introspettivi con armonie spesso dissonanti, linee melodiche tutt’altro che facili od orecchiabili e ritmi inusuali. Di qui una musica spesso sghemba, difficile da prevedere, ma sempre ben equilibrata, con un costante controllo delle dinamiche, frutto di un continuo scambio tra i musicisti che si affidano all’estro del momento, all’empatia che si manifesta in sala di incisione, per assumere alternativamente il controllo delle operazioni. Non c’è quindi alcun leader ma quattro jazzisti che si avventurano su terreni inesplorati in cui il viaggio è di per sé più importante della meta da raggiungere (ammesso che la stessa sia stata programmata). L’assenza di un leader non ci esime, tuttavia, dal sottolineare la costante ricerca timbrica e coloristica di Olavi Louhivuori, batterista-percussionista tra i migliori della nuova scena europea, mentre Seamus Blake dimostra ancora una volta perché su di lui si appunti l’attenzione di importanti etichette. Tra i brani, tutti frutto dei componenti il trio, una menzione particolare la meritano “Gomez Palacio” per il gustoso assolo di Myles Sloniker al basso e il ¾ di “Pablo’s Insomnia”.

Gino Paoli, Danilo Rea – “Tre” – Parco della Musica Records

Amate la canzone francese, eseguita in forma quasi minimale, con arrangiamenti che profumano di jazz? Bene, allora questo è un album imperdibile. Si tratta del terzo CD inciso dal duo Danilo Rea pianoforte e Gino Paoli voce, che fa seguito a “Due come noi che…” e “Napoli con amore” e a, nostro avviso, si tratta dell’album migliore della trilogia. I due hanno scelto un repertorio straordinario incidendo dodici brani tutti di spessore e dovuti ad alcuni tra i migliori compositori francesi del genere quali Charles Trenét, Jacques Breil, Gilbert Becaud, Joseph Kosma, Jack Prévert, Leo Ferrè cui si aggiungono “Non andare via” e “Col tempo”, tradotti in italiano dello stesso Gino Paoli. L’album ti prende sin dalle primissime note e disegna atmosfere di rara suggestione, velate da una diffusa malinconia che la voce di Paoli e il raffinato pianismo di Rea rendono al meglio. Intendiamoci: qui di jazz ce n’è poco, ma poco importa dal momento che la musica è ottima indipendentemente dal suo tasso di ‘jazzità’. Il fatto è che i due protagonisti non devono certo dimostrare alcunché. Gino Paoli è uno dei più grandi cantautori italiani ed è stato tra i primi ad introdurre nel nostro vocabolario musicale la canzone francese, mettendo così la sua arte al servizio di altri. Danilo Rea è uno dei migliori pianisti che l’intero Vecchio Continente possa vantare e che ha trovato la sua peculiare cifra stilistica proprio nel saper padroneggiare, al meglio, il mix tra jazz e altre musiche, soprattutto canzoni e arie liriche. Di qui la grande sicurezza con cui i due hanno affrontato – e superato – questa prova pur impegnativa che, almeno per il momento, dovrebbe concludere questa prestigiosa e fruttuosa collaborazione.

Salvatore Pennisi – “Jexx Machina”

Dopo“Braintrain” del 2012, segnalato in questa stessa rubrica, Salvatore Pennisi si ripresenta con questo album davvero particolare sia negli intenti sia nei risultati. Per capire appieno l’album bisogna innanzitutto evidenziare come Pennisi, oltre che musicista a tutto tondo, è ingegnere elettronico e professore ordinario all’università di Catania dove insegna microelettronica. Di qui il suo interesse per le nuove tecnologie cui si è rivolto per la realizzazione di questo CD. In effetti, come spiega lo stesso Pennisi, se si esclude il valido contributo di Giuseppe Asero al sax registrato in studio, tutto il resto della musica è stato realizzato dallo stesso Pennisi all’interno di un computer. Insomma una sorta di sfida tendente a dimostrare come sia possibile generare “jazz dalla macchina” (da cui il titolo), ricreando mediante la tecnologia suoni acustici per farli convivere con suoni puramente digitali e far confluire il tutto in atmosfere di musica “viva”. Obiettivo raggiunto? Se si ascolta il disco senza le premesse sopra dette, non si ha la sensazione di una musica scaturita da un computer. Quindi sotto questo aspetto Pennisi ha perfettamente raggiunto lo scopo. Ciò detto si tratta di musica qualitativamente rilevante? A parte qualche momento di stanca, inevitabile in un’operazione siffatta, l’album si ascolta con piacere evidenziando alcune punte di eccellenza come in “Sparks” e la title track sorretti da una trascinante carica ritmica o nel suggestivo “A Tangible Thought”. Da sottolineare, infine, come Pennisi non dimentichi il contesto in cui si trova ad operare; di qui l’inserimento di una frase pronunciata da Paolo Borsellino nel giugno del 1992, in cui si salutava con soddisfazione la marcia indietro del Consiglio Superiore della Magistratura che aveva deciso di rimettere in piedi il pool antimafia.

Pollock Project – “Speak Slowly Please!” – Behuman Records

Questo è il quarto album del Pollock Project che da trio è diventato quartetto; così accanto al leader, il pianista, percussionista e compositore Marco Testoni, ritroviamo Elisabetta Antonini (voce, live electronics) e Simone Salza (sassofoni e clarinetto) cui si aggiunge il chitarrista svedese Mats Hedberg. Special guests: Primiano Di Biase al piano, Giancarlo Russo e Guido Benigni al basso. In programma sette originali di Testoni (uno con il testo della cantautrice irlandese Kay McCarthy) e due omaggi a Miles Davis (“So What”) e Frank Zappa (“Watermelon In Easter Hay”). Il risultato è ancora una volta notevole: innanzitutto è rimasto ben strutturato l’equilibrio del gruppo che continua a muoversi con un sapiente e misurato uso dell’elettronica cui si contrappone il sound della voce e degli strumenti acustici, puzzle in cui si inserisce senza problema alcuno il chitarrista svedese Hedberg. All’inizio l’album richiama il sound dei Weater Report poi, nel secondo brano, ecco il richiamo ai Gotan Project … ma il clima è rotto da un intervento di Salza dopo di che, come altre volte, il gruppo si avvia ad assumere quella sua precisa identità che avevamo riscontrato nei precedenti album. Così la musica si mantiene eterea a soddisfare sia l’amante di sonorità più moderne, più caratterizzate dall’elettronica, sia l’appassionato di jazz grazie soprattutto alle sortite solistiche di Simone Salza. E queste caratteristiche il gruppo le conserva anche quando esegue brani assai impegnativi come il davisiano “So What” preso a tempo veloce e impreziosito da una superba performance di Elisabetta Antonini. Comunque il brano che ci ha maggiormente convinti è la title-track una ballad che la dice lunga sulla capacità compositive di Testoni e sulle possibilità interpretative del gruppo.

Maciek Pysz, Daniele Di Bonaventura – “Coming Home” – Caligola 2232

Ecco un album sorprendente! Non si può, infatti, dire che un duo costituito da chitarra (acustica ed elettrica) e bandoneon, nelle mani rispettivamente di Maciek Pysz polacco di stanza a Londra e Daniele Di Bonaventura marchigiano di Fermo, si ascolti ogni giorno. Così come non si può certo dire che la musica prodotta dai due sia banale. La verità è che ci troviamo dinnanzi ad un CD di estrema raffinatezza in cui due specialisti dei rispettivi strumenti si incontrano per fondere le loro voci e dar vita a un qualcosa di sorprendente, per l’appunto. Qui c’è tutta la poesia che la musica possa comprendere, c’è l’empatia che si sviluppa tra due artisti pure di estrazione così diversa ma uniti dal comune amore per i paesaggi, per le atmosfere distese, per le melodie tratte dal folklore, per il tango. Di qui il titolo dell’album, “Coming Home”, un “Ritorno a casa” che viene vissuto dai due musicisti con motivazioni probabilmente diverse ma con lo stesso atteggiamento, lo stesso amore per ciò che si è momentaneamente lasciato ma che si ritrova con dolce piacere. Di qui un repertorio di undici brani tutti originali composti dai due con alcune punte di eccellenza raggiunte laddove i due suonano tango. Senza sapere che gli autori dei brani sono due europei, si potrebbe benissimo pensare che questi tanghi siano stati scritti da argentini tanto forte è la potenza espressiva della musica che sembra nata proprio nei sobborghi di Buenos Aires. Insomma non è un caso che Peter Jones del “London Jazz” l’abbia definito il miglior disco dell’anno.

Thomas Strønen – “Lucus”– ECM 2576

E’ un clima decisamente cameristico quello che si avverte ascoltando le prime note di “La Bella” il brano d’apertura di questo eccellente lavoro. Protagonisti il batterista norvegese Thomas Strønen con Ayumi Tanaka al pianoforte, Hakon Aase al violino, Lucy Railton al violoncello e Ole Morten Vågan al contrabbasso. Da jazzista aperto, intelligente e tutt’altro che conformistica, Thomas abbandona le atmosfere che solitamente caratterizzano il jazz del Nord Europa per addentrarsi su terreni diversi, molto più vicini alla musica colta contemporanea senza tuttavia dimenticare del tutto il background jazzistico. E a scelta dei compagni di viaggio è del tutto in linea con questo obiettivo: Ayumi Tanaka è una giovane pianista giapponese che ha studiato a Oslo, Hakon Aase è un raffinato violinista dalle brillanti capacità improvvisative, Lucy Railton è consideratauna delle migliori violoncelliste del momento mentre Ole Morten Vågan è contrabbassista di punta della nuova scena norvegese. Forte di tali individualità, Strønen, contrariamente ai precedenti album, si è abbandonato ad una scrittura più aperta, cioè ad una scrittura che contemporaneamente consente al leader di esplorare vari territori e lascia ai solisti maggiore libertà a seconda di come sentono la musica al momento in cui si esprimono. E il risultato è sorprendente: il gruppo manifesta un’impeccabile coesione in cui scrittura e improvvisazione si equilibrano in modo da tenere sempre ben viva l’attenzione dell’ascoltatore. I brani sono tutti scaturiti dall’inventiva del leader e presentano, quindi, una forte omogeneità anche se particolarmente interessante ci è parso il pezzo che dà il titolo all’album.

Joona Toivanen Trio – XX – CamJazz 7920-2

Ancora un pregevole album frutto della collaborazione tra l’etichetta italiana CamJazz e i musicisti finlandesi: “XX” è il titolo dell’album inciso a Cavalicco nel maggio del 2017 dal trio del pianista Joona Toivanen completato da Tapani Toivanen al contrabbasso e Olavi Louhivuori alla batteria. I lettori di questa rubrica ricorderanno, probabilmente di come ci siamo già occupati di questo eccellente pianista recensendo sia “At My Side” e “Novembre” rispettivamente del 2008 e del 2014 sempre con la stessa formazione, sia il piano solo “Lore Room” del 2015. In ognuna di queste occasioni avevamo espresso un giudizio assai positivo su Joona sorprendente in ambedue i contesti: trio e piano solo. Quindi la bontà di questo nuovo “XX” per lo scrivente non è certo una novità; anzi! Il trio conferma tutto ciò che di buono aveva evidenziato nei precedenti lavori: la band ha raggiunto un livello di sintesi notevole riuscendo a far convivere le peculiarità del jazz nordico (umori, sapori, una certa malinconia di fondo) con gli stilemi della tradizione jazzistica propriamente detta. Ma probabilmente il merito maggiore del trio consiste nell’esprimersi con grande semplicità sì da far apparire la loro musica estremamente fruibile senza essere banale.
Il trio si muove con grande leggerezza evidenziando una perfetta empatia che consente loro da un canto di preservare quella purezza del suono che da sempre costituisce una delle caratteristiche peculiari del trio, dall’altro di proseguire la ricerca sulla linea melodica e sulla cantabilità con un perfetto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione. Si ascolti al riguardo sia “Robots” dalle suadenti linee melodiche sia “Mt. Juliet” un vero e proprio gioiellino che chiude l’album, impreziosito da un fitto dialogo pianoforte-contrabbasso.

Tiziano Tononi-“Trouble No More… All Men Are Brothers”- Long Song Records

C’era molta attesa attorno a questa nuova produzione di Fabrizio Perissinotto affidata ai Southbound guidati con perizia dal batterista, compositore, arrangiatore Tiziano Tononi. “Trouble No More… All Men Are Brothers” è una sorta di concept album essendo interamente dedicato alla musica degli Allman Brothers, gruppo di culto che soprattutto negli States rappresenta una vera istituzione. In effetti sia Tononi sia Perissinotto da sempre hanno estrinsecato la loro passione verso la musica di questo gruppo. Così nel 2015 le comuni idee cominciano a sedimentarsi in un progetto ben definito; durante la permanenza a New York per la registrazione di “The Brooklyn Express – No Time Left” dello stesso Tononi, i due incontrano il bassista newyorkese Joe Fondam uno degli elementi di spicco della scena newyorkese avendo tra l’altro collaborato con Anthony Braxton; Fonda è d’accordo e così passo dopo passo Tononi costruisce la formazione chiamando accanto a sé alcuni tra i migliori musicisti italiani quali, tanto per fare qualche nome, Piero Bittolo Bon al sax alto, clarinetto e flauto, Emanuele Parrini violino e viola, l’eccellente e poliedrica Marata Raviglia alla voce e come special guest il compagno di mille battaglie, Daniele Cavallanti, che ci regala un centrato assolo in “Soul Serenade”. Come al solito, quando ci si avventura in un’impresa del genere, l’interrogativo è sempre lo stesso: come omaggiare la musica di un gruppo con una sua precisa identità stilistica? La strada scelta da Tononi è coraggiosa e non a caso ha pagato: il batterista ha completamente ristrutturato la strumentazione sostituendo le due chitarre originariamente nelle mani di Duane Allman e Dickey Betts con due sassofoni mentre al posto della chitarra slide ecco il violino di Emanuele Parrini con la fisarmonica di Carmelo Massimo Torre al posto dell’organo. Insomma un completo ripensamento del modo di eseguire quella musica pur restando fedele alla stessa con un organico che marcia a tutto gas evidenziando una splendida intesa ed una forte capacità improvvisativa di tutti i musicisti chiamati all’assolo. Al riguardo eccezionale come sempre Joe Fonda strepitoso sia in fase di accompagnamento sia in versione solistica.

David Virelles – “Gnosis” – ECM 2526

Altro album, targato ECM, di non immediata lettura ma di indubbio fascino non solo per la qualità musicale ma anche per il progetto che la sottende. Protagonista David Virelles a be ragione considerato uno dei più interessanti pianisti cubani comparsi sulla scena negli ultimi anni. Contrariamente a molti suoi colleghi, Virelles si è dedicato allo studio della musica tradizionale afro-cubana riattualizzandola alla luce della sua ‘moderna’ sensibilità e quindi di un linguaggio improvvisativo contemporaneo. Di qui una serie di album quali “Continuum” (Pi Recordings, 2012) in collaborazione con il vocalist e percussionista Roman Diaz, “Mbókò” (ECM, 2013) e “Antenna” (ECM, 2016). Il titolo scelto per quest’ultimo album, inciso a New York nel maggio 2016, ma concepito nel 2014 ed eseguito in prima mondiale nel novembre 2015 al Music Gallery di Toronto, è “Gnosis” proprio ad evidenziare il riferimento ad una conoscenza collettiva antica, di natura esoterica. L’organico è piuttosto ampio con il leader coadiuvato innanzitutto dal compagno di altre avventure, il vocalist e percussionista Romàn Diaz, e poi un contrabbasso, due fiati, un ensemble di percussioni, una viola e due violoncelli e due voci aggiunte. Di qui una serie di brani che richiamano atmosfere assai diversificate: da “Erume Kondò” di chiara impronta tradizionale al successivo “Benkomo” in cui, specie all’inizio, la musica si fa più rarefatta, il colloquio tra piano e percussioni minimale, il clima molto più vicino alla musica contemporanea anche se inframmezzato da interventi vocali che richiamano un retaggio ancestrale afro-cubano. E questo alternarsi si avverte in tutto il disco: da un lato le percussioni e gli interventi vocali guidati da Ramon Diaz di chiara derivazione africana, dall’altro un contesto classico-contemporaneo disegnato da Virelles che si afferma non solo come pianista ma anche come compositore firmando tutti i brani dell’album. Infine, elemento da non trascurare, la pagina scritta riveste in “Gnosis” un’importanza determinante anche se, ovviamente, non mancano momenti in cui l’improvvisazione la fa da padrona.

Michael Wollny Trio – “Wartburg” – Act 9862-2

La genesi di questo album è ben illustrata da Michael Wollny nelle note che accompagnano l’album per cui preferiamo soffermarci su altri elementi. Innanzitutto la personalità del leader. Punta di diamante della Act, il pianista di Francoforte, passo dopo passo, si è imposto alla generale attenzione di pubblico e critica, grazie ad una tecnica sopraffina e ad una squisita sensibilità che lo porta ad improvvisare con grande naturalezza. Ed è proprio il riferimento all’improvvisazione la cifra che caratterizza lo stile del tedesco. La sua visione della musica è ampia, paragonabile – afferma lo stesso Wollny – al modo in cui parliamo: prima di pronunciare le parole noi non sappiamo esattamente cosa diremo, si tratta, cioè, di una continua improvvisazione. Ecco, lo steso discorso può farsi per la musica nel senso che quando si comincia a suonare può esserci un qualche punto di riferimento circa la melodia, il ritmo e l’armonia ma poi, il risultato finale, dipende da tutta una serie di fattori difficilmente ipotizzabili. E questa alea, questo piacere di rischiare si avvertono tutti ascoltando l’album che alla perfetta empatia già consolidata tra il pianista e i suoi abituali partners (Christian Weber al contrabbasso e Eric Schaefer alla batteria) aggiunge la piena, convinta adesione al progetto di Emile Parisien al sax soprano in due brani. Ma, ovviamente, è il leader a menare la danza: il suo è un pianismo privo di risvolti virtuosistici ma di sicuro ben sorretto da anni di studio cosicché, ad esempio, perfetta appare la padronanza della dinamica e fluido l’incedere nonostante, come si accennava, il linguaggio non sia dei più semplici. Un’ultima ma non secondaria considerazione: Wollny conferma le sue capacità compositive dal momento che molti dei brani sono stati da lui scritti.