Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla: grande riscontro di pubblico per gli incontri curati da Gerlando Gatto alla Casa del Jazz:

Una giornata grigia ha fatto da cornice alla serata di martedì scorso, sia letteralmente, data la pioggia battente su Roma in quel momento, sia metaforicamente parlando, a causa della prematura scomparsa del giornalista musicale Ernesto Assante, che il direttore della Casa del Jazz Luciano Linzi ha ricordato con un breve discorso all’inizio della serata, dedicata al terzo incontro del ciclo “L’altra metà del Jazz“ ideato e curato da Gerlando Gatto.
La prima protagonista della serata è stata la vocalist Sara Jane Ceccarelli, accompagnata dall’eccellente pianista tedesco Christian Pabst e dal fratello Paolo Ceccarelli alla chitarra elettrica.

Gatto, come di prammatica, le ha  chiesto se e come l’essere donna avesse influito sulla sua carriera; Sara Jane ha risposto raccontando la sua storia familiare: figlia maggiore di 4 figli, di cui tre maschi, non ricorda di aver mai sofferto di privazioni o discriminazioni di alcun tipo, grazie all’educazione egualitaria ricevuta in famiglia e, a suo dire, ciò le ha anche fortificato il carattere. Passando invece alla questione femminile in generale, ammette di aver compreso solo di recente il disagio provato dalle sue colleghe con le quali si è confrontata, disagio di cui, a suo dire, è necessario rendere consapevoli soprattutto gli uomini. Tale stato di cose è accentuato dal fatto che molti gruppi attuali, nonostante abbiano come leader una donna, siano formati quasi esclusivamente da uomini. D’altro canto corre l’obbligo di constatare che i gruppi formati da sole donne hanno la tendenza a sciogliersi più facilmente dei gruppi maschili, anche a causa di piccole rivalità tra le componenti. Infine sulla questione delle quote rosa, la Ceccarelli non esita a dichiarare che possono essere considerate come una forzatura nei confronti sia di uomini sia di donne; di qui la  fiducia che arriverà un momento in cui la presenza delle donne nel panorama jazz verrà considerata normale, senza forzature di alcun tipo.
Tornando alla sua storia personale, parla di come si sia avvicinata alla musica: suo padre, pianista, l’ha indirizzata a quell’ambiente fin dalla tenera età di tre anni (ci tiene a specificare, tuttavia, che per quanto riguarda l’ingresso nel mondo della musica si è trattato di un processo naturale, senza obblighi di alcun tipo da parte della famiglia). All’inizio studia con una maestra di pianoforte giapponese, di cui ricorda con affetto il complesso rituale di attese e respiri che precedevano l’esercizio vero e proprio: in seguito ecco l’avvicinamento con il fratello Paolo, con il quale è cresciuta musicalmente: tra i tanti possibili esempi, ha citato il fatto che insieme hanno diretto il Correnti Jazz Festival, svoltosi l’estate scorsa a Sigillo, in provincia di Perugia.
Parlando della sua musica, Sara afferma di essere ancora una compositrice in erba, ha infatti iniziato a scrivere solo una volta trasferitasi a Roma dalla natia Gubbio; riguardo al metodo compositivo lo stesso varia da brano a brano, ovvero può partire sia da un testo che da un giro di accordi proposto da un altro musicista. Riferendosi in particolare ai testi, non si può non convenire sul fatto che gli stessi rappresentino un po’ l’anello debole del jazz; incalzata da una domanda del conduttore su quali siano i suoi autori di testi preferiti nel mondo del jazz, la Ceccarelli cita i fratelli Gershwin.
Ad una nuova domanda da parte di Gatto sulla scena contemporanea italiana, Sara risponde con una riflessione molto interessante riguardo alla diversa concezione degli spettacoli per i giovani: a suo avviso, ormai il concerto è diventato un’esperienza visiva tanto quanto auditiva, se non di più; tuttavia si possono notare alcuni eventi dove la dimensione dell’ascolto prende completamente il sopravvento su quella dello spettacolo visivo. É il caso, ad esempio, del tanto criticato listening party organizzato da Kanye West e Ty Dolla Sign al Forum di Assago per promuovere il loro nuovo album ‘Vultures’; evento dal prezzo simile a quello di un concerto (dai 115 ai 207 euro circa), ma in cui non c’è stata alcuna esibizione dal vivo: infatti West e Ty Dolla Sign si sono limitati a saltare sullo scarno e semplice palco e a riprodurre i loro brani preregistrati, lasciando spazio al puro ascolto delle tracce – e personalmente chi vi scrive spera che questi non siano i concerti del futuro. A questo proposito, Sara propone un programma di educazione musicale fin dai più piccoli (come già enunciato la volta scorsa da Chiara Viola) per insegnar loro a distinguere la musica di sostanza da quella meramente superficiale. A questo punto Gatto ha espresso una critica molto dura sia nei confronti della RAI – dove in passato c’erano numerosi programmi dedicati al jazz mentre oggi, viceversa, è del tutto scomparso dalle onde sonore – sia nei confronti della scena contemporanea pop italiana e sull’uso dell’autotune nelle canzoni; Sara risponde  facendo notare come i musicisti jazz portino meno ascolti alle radio rispetto ad altri generi musicali, e come l’autotune sia uno strumento di cui si può fare un buon uso o abusare, come dimostrato da artisti come Kanye West, i Bon Iver, i Daft Punk o T-Pain.
Sempre riguardo alla sua musica, la Ceccarelli afferma che cantare ciò che si scrive sia una sfida maggiore rispetto a quando si interpretano standard jazzistici, ma che al tempo stesso, se il brano è gradito dal pubblico vi è una soddisfazione ben maggiore del normale.  Inoltre, sempre parlando delle sue composizioni, afferma di essere affascinata dalle varie lingue del mondo e dai vari colori che esse possono dare alla voce (Sara canta infatti in ben 10 lingue diverse, nonostante non le capisca tutte), ma di non avere il talento necessario a sentire naturale invece lo scat mentre improvvisa. Infine, a proposito del suo rapporto con la musica a livello professionale, racconta come all’inizio questa non fosse la sua occupazione primaria, essendo laureata in comunicazione aziendale, e prima di diventare musicista a tempo pieno lavorava in un’azienda di cibi di lusso; a seguito di un incontro con il compositore Bruno de Franceschi nel 2009 e di una crisi personale decide di mollare tutto per trasferirsi a Roma e studiare al conservatorio di Santa Cecilia: qui gli studi con Maria Pia de Vito e Paolo Damiani, fondamentali per la sua crescita umana e professionale.
I brani eseguiti sono stati I Forgot Love della stessa Sara, contenuto nell’album “Milky Way” della Parco della Musica; A Fior di Labbra, traduzione in italiano del brano Du bout des lèvres della cantante francese Barbara a cura di Sara e David Riondino; una rielaborazione di Children’s Song no. 3 di Chick Corea; il testo è della stessa Ceccarelli la quale aveva scritto all’Universal proprio per proporre questa elaborazione; contrariamente a quanto accade di solito, Corea pochi giorni prima di morire rispose alla mail della Ceccarelli approvando i suoi testi; di qui la comprensibile gioia dell’artista e la decisione di inserire il brano nel già citato album  “Milky Way” con arrangiamento di Edoardo Petretti e la scelta di omettere il pianoforte dalla registrazione.  A chiudere la prima parte della serata Lush Life, uno degli standard più conosciuti ma più difficili del song-book statunitense, letteralmente amato da Tony Scott che si definiva il migliore interprete di questo brano.
La seconda parte della serata è dedicata alla cantante calabrese Veronica Parrilla, accompagnata da Carlo Manna, pianista cosentino che il pubblico della Casa del Jazz aveva già avuto modo di apprezzare come accompagnatore di Marilena Paradisi, ospite di Gatto nella prima sezione del ciclo.

Veronica esordisce parlando della sua vita musicale e descrivendo il canto come una modalità di espressione in lei insita, tanto che i genitori la iscrivono a concorsi di canto per gioco, le organizzano un concerto nel suo paese di Cirò Marina, in provincia di Crotone, a soli dieci anni (concerto che racconta di averla influenzata molto nel superamento della paura del pubblico e dell’ansia da palcoscenico); soddisfatti dei risultati, la incoraggiano ad iscriversi ad una scuola di canto gestita dalla maestra Erica Mistretta, che ricorda con molto affetto: infatti è stata quest’esperienza ad insegnarle ad apprezzare i suoi successi come i suoi fallimenti, a rilevare i suoi punti di forza come le sue lacune. Non solo: è stata la stessa maestra ad indirizzarla verso il canto jazz, dopo aver notato una sua tendenza a personalizzare le melodie cantate mentre eseguiva i brani del repertorio di Mina, e ad iscriversi al conservatorio jazz di Vibo Valentia, che inizia a frequentare a partire dall’ultimo anno del liceo scientifico e a cui decide di dedicarsi in toto a seguito della sua decisione di non iscriversi alla facoltà di Logopedia dopo aver superato il test. Si laureerà in canto jazz frequentando il triennio a Vibo, studiando con Daniela Spalletta, e il biennio a Messina con Rosalba Bentivoglio: due eccellenti vocalist e didatte siciliane. Riconosce a questo proposito che l’aver studiato sotto più insegnanti con scuole di pensiero così diverse l’ha arricchita molto.
Riguardo alla sua musica, illustra il suo intento stilistico, ovvero la ricerca di una commistione tra le tradizioni del jazz e le sonorità moderne. Questa concezione si vede anche nelle sue stesse composizioni: infatti racconta che ogni testo che scrive è autobiografico, che quando scrive assume anche una funzione da storyteller e che ogni brano musicale è una sorta di lezione da cui si può imparare qualcosa. Proprio parlando di messaggi Veronica illustra il suo progetto, il quartetto Above All nato circa un anno fa: il titolo non è un caso, infatti esso vuole comunicare un messaggio per cui nella società moderna dovrebbero sempre prevalere valori come lealtà, rispetto della diversità e amore. Infine cita come sue muse ispiratrici due cantanti: una del passato, Ella Fitzgerald, e una del presente, Samara Joy.
Ricollegandosi al discorso sulle tradizioni, esprime la sua opinione riguardo agli standard jazz, dichiarandosi contraria a quanti ritengono che gli stessi non andrebbero più suonati in quanto obsoleti.
Parlando del suo essere donna con specifico riferimento alla sua carriera, dice, un po’ in virtù della sua giovane età, e un po’ per il suo carattere che tende a non considerare il genere di una persona ma il suo carattere in sé, di non avere mai avuto problemi – inoltre considera che per quanto riguarda la scrittura sia le donne che gli uomini possono avere una stessa sensibilità, posizione condivisa anche da Susanna Stivali in uno degli scorsi appuntamenti.
Di fronte alla domanda di Gatto sul suo sentimento riguardo alla scena musicale italiana attuale, che il giornalista non manca mai di criticare, Veronica si mostra ottimista, illustrando come questo sia secondo lei solo un momento, ed esprime la speranza di tempi migliori. Infine, partendo dal brano Above All, omonimo del quartetto precedente menzionato, viene dedicato spazio alla relazione personale, oltre che professionale, tra Carlo e Veronica: entrambi esprimono fiducia nel loro rapporto e nella sua saldezza nonostante la separazione di coppie sia oggi all’ordine del giorno, e personalmente chi vi scrive non può che augurare loro il meglio per il futuro.
I brani scelti dai due artisti sono stati Infant Eyes di Wayne Shorter, I Can’t Give You Anything But Love, Above All, una loro composizione originale, e What Are You Doing With the Rest Of Your Life, una struggente melodia di Michel Legrand interpretata dalla Parrilla con sincera partecipazione tanto da non lasciare indifferente il numeroso pubblico che l’ha salutata con un intenso applauso.

Beniamino Gatto

Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Wayne Shorter: quando si dimentica il personale per mettersi al servizio della musica

Come ricordare degnamente Wayne Shorter? Più che intervenire personalmente, ho creduto fosse opportuno rivolgermi ad un grande artista che ben conosce la musica di Wayne, uno dei più grandi sassofonisti europei della cui amicizia mi onoro oramai da qualche decennio: Maurizio Giammarco
G.G.

Accolgo con piacere l’invito dell’amico Gerlando a dire due cose su Wayne Shorter, una figura che è stata per me fondamentale sotto ogni aspetto.
M.G.

*****

Con la dipartita di Wayne Shorter se n’è andato uno degli ultimi, grandi protagonisti del Jazz “storico”: parlo di quei musicisti che seppure nati prima della seconda guerra mondiale sono stati comunque a diretto contatto con i maestri del Jazz di ogni epoca. Ne sono rimasti in vita ancora pochissimi.

Ma Wayne è stato più di un protagonista “importante” della storia del Jazz, direi piuttosto un protagonista “speciale”. Perché al di là delle sue universalmente riconosciute doti musicali Wayne è stato (o forse sarebbe meglio dire “è” ancora) una grande anima e un grande spirito. E i grandi spiriti, per nostra fortuna, rimangono. E’ in fondo questa la principale caratteristica che rende alcune figure immortali. Pensiamo ad Armstrong, Ellington o Coltrane… sono forse le loro specifiche note che ricordiamo (ben inteso… ci ricordiamo anche quelle) o non è piuttosto lo spirito che le ha ispirate e rese vitali (e continua ancora a farlo)? La statura dei musicisti citati (solo a titolo esemplare) è infatti addirittura cresciuta nel tempo, e sono sicuro che la stessa sorte toccherà anche a Shorter.

Non a caso Shorter è stato da subito talmente bravo che non ha dovuto faticare per trovare lavoro. E’ stato il lavoro a trovare lui. Una roba da far crepare d’invidia qualsiasi musicista. Ha infatti passato la prima metà della sua carriera da gregario. Un gregario di lusso, ben inteso. Dopo un periodo di tirocinio in fondo piuttosto breve entrò nei Jazz Messenger di Art Blakey (1959-64), diventandone subito direttore musicale e scrivendo per questo gruppo un notevole numero di brani. Dal ’64 al ’69 è con Miles Davis, nel quintetto di Jazz forse più importante della seconda metà degli anni sessanta, e i brani che porta al gruppo segnano un ulteriore sviluppo del suo stile compositivo. Partecipa alla “svolta elettrica” ma anche “free oriented” del suo leader. Dopo una breve pausa fonda i Weather Report con Zawinul e Vitous, un gruppo che ha monopolizzato le sue energie dal 1972 al 1985. L’ultimo gruppo di Jazz che è riuscito a riempire i Palasport, come successe in un memorabile concerto a Roma che non dimenticherò mai. Pur avendo registrato dischi a suo nome fin dal 1958 è solo con la chiusura dei Weather che Shorter, cinquantenne, intraprende una carriera concertistica in proprio. Nella seconda metà degli anni Ottanta escono i suoi dischi per la Columbia, che documentano un’ulteriore svolta estetica (in cui le nuove sonorità, anche elettriche, della musica jazz-rock-fusion sono dirette con un approccio registico di natura colto-classica), e infine la conclusione col suo fantastico quartetto degli ultimi anni, coronazione finale, sintesi suprema di tutto il suo passato estetico-musicale, insieme ad alcuni lavori per grande organico. Ma andare nel dettaglio ci porterebbe ora troppo lontano: troppo ci sarebbe da dire.

Al pari di tutti i musicisti della mia generazione, abbiamo seguito in tempo reale tutti gli sviluppi della musica di Shorter, e per tutti noi è stata una lezione continua. Il suo stile sassofonistico è stato semplicemente inimitabile, anche perché basato fondamentalmente sulle soluzioni super-sorprendenti della sua mente compositiva (nel suo caso più che mai va sostituito il termine improvvisazione con quello di composizione estemporanea). L’unica lezione che puoi trarre dallo stile sassofonistico di Shorter è: impara tutto e lavora d’ingegno (…se ce l’hai…) e suona quello che meno ci si aspetta! Punto.

Un discorso diverso riguarda l’aspetto compositivo. Studiare, capire, imparare, fagocitare e digerire la musica di Shorter è semplicemente indispensabile per chiunque voglia approfondire seriamente il Jazz composto, o concepito o realizzato, nel secondo dopoguerra. Le sue composizioni hanno esplorato ogni aspetto strutturale e ogni paradigma formale del possibile mantenendo al contempo un’impronta stilistica inconfondibile. Un’impronta basata su alcune costanti fondamentali: melodie semplici (cantabili) spesso di matrice pentatonica (il blues) e generalmente prive dei classici stilemi sincopati del be-bop; stesse note melodiche che cambiano prospettiva rispetto all’armonia che cambia sotto di esse: tessuti armonici di essenza modale che si muovono per gradi spesso cromatici o congiunti in modo originale sfruttando le cadenze classiche solo al momento opportuno e il minimo indispensabile; uso del ritmo come fattore jolly sia nella composizione delle melodie che nell’invenzione di riff (l’Africa che ogni tanto fa capolino).

Questa (semplice?) miscela ha prodotto melodie indimenticabili, venate da un perenne senso di nostalgia e da tinte di un’essenza di blues distillata e sublimata all’estremo (come aveva cominciato a fare già Ellington).

Da temi diventati classici a esperienze free Shorter ha esplorato di tutto, in una evoluzione continua anti-manieristica che ha ereditato, o più probabilmente semplicemente condiviso, con Miles.

Per chi come me, ma come tanti altri specialmente europei, la composizione ha rappresentato un mezzo fondamentale per trovare una propria dimensione musicale, la lezione di Shorter è stata di influenza assolutamente primaria.

Ma c’è un aspetto che mi preme ora sottolineare. Dal periodo dei Weather in poi Wayne è stato molto poco interessato a produrre dei veri e propri assolo secondo i parametri convenzionali del mainstream. E’ stato viceversa interessato a una musica collettiva (una caratteristica che era del Jazz dei nonni), in cui i contributi individuali emergono solo se ritenuti necessari alla musica che si sta collettivamente costruendo. Ecco allora che due semplici note di Shorter, messe al punto giusto e con l’intenzione e il suono giusto, valgono come e forse di più di un intero solo. Gesti sonori di uno spirito che cerca di emergere nel frastuono assordante di un mondo mediatico gestito da mezzi di distrazione di massa, un frastuono che rende questo momento storico una barzelletta di pessimo gusto. Un frastuono che ritiene la notizia della scomparsa di una grande anima come la sua non così importante per il telegiornale che ho appena finito di vedere qualche attimo fa.

E’ dunque paradossale che la statura di un musicista cresca ancora di più nel momento in cui questo musicista cerca di trovare la sua vera dimensione nel tutto. Nel momento in cui, in vera e propria pratica, dimentica il personale per mettersi al servizio della musica e basta. Ora Wayne si è definitivamente ricongiunto al tutto, un momento in cui la sua pratica spirituale buddista lo aveva probabilmente ben preparato. E anche in questo abbiamo tutto da imparare.

Maurizio Giammarco

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

Torna il grande Jazz sotto i cieli di Roma

Dopo un periodo di relativa stasi per motivi facilmente individuabili, Roma è tornata ad essere attrattiva per gli passionati di jazz. Così da un canto l’Auditorium (con pochi ma eccellenti appuntamenti) dall’altro la Casa del Jazz con la sua consueta rassegna estiva, stanno fornendo ai cultori del jazz parecchi appuntamenti degni di rilievo, su alcuni dei quali mi soffermerò qui di seguito.

Il 10 luglio, alla Cavea dell’Auditorium, appuntamento con Gregory Porter. Sono oramai parecchi anni che conosco ad apprezzo questo vocalist e ancora una volta la sua performance ha corrisposto in pieno alle mie aspettative. La sua musicalità, il feeling che riesce a trasmettere agli ascoltatori, il suo senso del ritmo, il modo in cui riesce ad interpretare qualsiasi testo sono davvero straordinari. E non è certo un caso che la sua carriera artistica sia costellata da grandi successi e riconoscimenti tra cui due Grammy Awards per Miglior Album Vocale.

Per celebrare un decennio di successi, Gregory Porter ha pubblicato “Still Rising”, un doppio album contenente 34 tracce tra brani inediti, covers, duetti e una selezione speciale delle sue canzoni più amate. Ed è proprio sul repertorio di quest’ultimo doppio album che si è incentrata la performance romana. Ben coadiuvato da Hip Crawford al piano, Tivon Pennicott al sax tenore, Emanuel Harrold alla batteria, Jahmal Nichols al basso elettrico e Ondrej Pivec all’organo (gli stessi che l’hanno accompagnato nella già citata ultima fatica discografica) Porter ha dato ancora una volta un saggio di bravura proponendo una musica in cui era facile scorgere echi di soul, di gospel, di blues, financo di pop, mescolati in un unicum tanto originale quanto suggestivo. Ed è stato a tratti entusiasmante sentirlo duettare con alcuni dei suoi compagni di viaggio in un concerto tutto sommato breve ma di grande intensità.
Ascoltando Porter viene naturale un parallelo con i nostri giovani rampanti: beh, penso che ai vari San Giovanni, Albe, LDA, Ultimo e via discorrendo non farebbe male ascoltare qualche disco di chi sa cantare veramente bene. Ma questo è un tema che mi sollecita oramai da tempo e su cui prima o poi vorrò intervenire.

Il 13, sempre alla Cavea, appuntamento con una vera e propria leggenda del jazz: Herbie Hancock. Spesso si adopera la parola “leggenda” in modo esagerato ma nel caso in questione non v’è dubbio alcuno che il termine sia più che appropriato. Non è questa la sede adatta per sintetizzare un curriculum assolutamente straordinario; basti solo dire che l’artista di Chicago, oggi ottantunenne, ha attraversato, sempre da protagonista, generi e mode come performer, compositore, arrangiatore, produttore, scopritore di talenti, inventore di nuove tendenze, senza mai perdere una coerenza di fondo. A Roma si è presentato alla testa di una band eccezionale completata da Terence Blanchard alla tromba, Lionel Loueke (chitarra), James Genus (basso) e Justin Tyson (batteria). Ascoltare un concerto di Hancock è come rivivere, in sintesi, buona parte della storia del jazz dal momento che questo artista ha sviluppato un’estetica giocata sempre su una sorta di doppio binario: da un canto virtuoso pianista del jazz acustico, dall’altro estimatore se non fondatore del funky elettronico. E questi due aspetti della sua personalità sono apparsi evidenti anche nel concerto romano; così in una prima parte abbiamo ascoltato alcuni classici del jazz come il sempre verde “Footprints” di Wayne Shorter, un altro giovanotto di 89 anni, omaggiato da Hancock che si alternava al piano e alle tastiere non disdegnando un ricorso mai esagerato al vocoder (ma che comunque se non ci fosse stato nulla avrebbe tolto alla validità del concerto). Nella seconda parte Hancock si richiamava al suo coté più funky e chiudeva il concerto con “Chameleon” brano tratto dal celebre album “Head Hunters” del 1973, scatenando l’entusiasmo del pubblico che si è accalcato a ballare sotto il palco.

E veniamo adesso ai concerti alla Casa del Jazz.

Il 12 luglio una vecchia e cara conoscenza del pubblico romano: John Scofield. Il chitarrista può a ben ragione essere considerato una delle massime espressioni della chitarra jazz degli ultimi decenni. Musicista eclettico, voglioso sempre di sperimentare strade nuove, questa volta si è presentato con un progetto del tutto nuovo, “Yankee Go Home”, con cui torna alle radici del rock americano, riscoprendo classici fra il folk e il rock’n’roll. Accanto a lui Jon Cowherd (pianoforte e tastiere), Vicente Archer (contrabbasso)e Josh Dion (batteria). E’ lo stesso Scofield a illustrare il senso di questo nuovo progetto, non senza elogiare i suoi compagni di viaggio: “L’idea –afferma Scofield – è di coprire successi americani/rock e canzoni folk jazz, più alcuni dei miei brani originali scritti in quel modo. Mi sto riconnettendo con molte delle mie radici Rock ‘n Roll da adolescente, naturalmente colorate dai miei 50 anni di pratica Jazz…. Questi ragazzi sono straordinariamente versatili, altrettanto bravi quando si tratta di suonare in modo interattivo e creativo. Stiamo esplorando rock, funk, country, jazz e musica libera e ci divertiamo moltissimo. Sono entusiasta di questa collaborazione”. Risultato raggiunto? Assolutamente sì; il repertorio, comprendente brani tra gli altri di Bob Dylan, Neil Young, Grateful Dead, B.B. King, Buddy Holly, viene declinato attraverso quella maestria strumentale che ben conosciamo oramai da tanti anni. Scofield è sempre lì a tessere le fila del discorso, con un solismo preciso, elegante, raffinato mai soverchiante cosicché tutti i suoi compagni di viaggio hanno la possibilità di mettersi in luce. I vari pezzi vengono riletti alla luce di quelle esperienze cui lo stesso Scofield faceva riferimento ridando loro una sorta di nuova linfa e il pubblico dimostra di apprezzare con lunghi appalusi a scena aperta. Immancabile il bis: un coinvolgente blues che evidenzia come Scofield rimanga solidamente ancorato anche alle radici della musica afro-americana.

Il 21 uno dei concerti inseriti nell’ambito della rassegna, tutta dedicata alle nuove tendenze e, dunque, alle più interessanti proposte di jazz contemporaneo. Un mondo affascinante, in cui si incontrano jazz, soul, funk, hip-hop, elettronica e spoken word.
In particolare giovedì 21 di scena il batterista Makaya McCraven produttore e batterista emergente, definito da Down Beat come uno dei più influenti musicisti del prossimo decennio.
In effetti Makaya McCraven, figlio di Stephen McCraven, batterista di Archie Shepp tra gli altri, è tutto questo e molto di più: americano di Parigi classe ‘83, iniziato alla musica jazz dal padre, cresciuto tra gli altri con la formazione derivante dal già citato Shepp, inizia a collaborare con artisti del calibro di Kris Delmhorst e gli Apollo Sunshine, prima di stabilire un suo complesso con il bassista Junius Paul, il chitarrista Matt Gold e il trombettista già attivo autonomamente Marquis Hill, formazione con cui si è presentato alla Casa del Jazz, per un concerto che ha soddisfatto appieno le più rosee aspettative.

La band inizia a suonare senza presentare alcunché; McCraven è uomo di poche parole, e non si concede quasi mai pause, tranne una ogni tre pezzi circa per presentare e ringraziare la sua band e per annunciare – qualche volta – il nome del prossimo pezzo. Per il resto è stata una serata di pura musica ed energia: non solo di McCraven, il cui vigore era pari alla sua abilità – mai sentito un batterista che suonasse per circa un’ora e mezza, senza mai smettere di percuotere pelli e piatti con tanta ininterrotta energia – ma anche di tutti gli altri musicisti, che durante il concerto si cimentavano con diversi tipi di percussioni. Altra nota di merito va alla varietà di brani suonati: si passa da pezzi ormai diventati standard del jazz, come “Autumn in New York”, Frank’s Tune” di Frank Strzier o “A Slice of the Top” a pezzi originali di McCraven, come “In These Times”, “The Bounce!” e un inedito tratto dal suo prossimo album in uscita a settembre.
Riguardo alla performance dell’”archeologo del beat”, (come si definisce lo stesso batterista), essa nel suo complesso si basava su due punti di forza: la leadership di McCraven, che con grande forza e precisione trascinava sia i suoi musicisti sia il pubblico durante le esibizioni, nonché l’approccio inedito da DJ dello stesso McCraven specie nelle sue composizioni: infatti in gran parte dei brani veniva ripetuto un leitmotif al basso, che diventava il vero centro motore della situazione, attorno a cui venivano aggiunte gradualmente la batteria, la chitarra, la tromba e varie percussioni; in seguito si passava ad una graduale elaborazione dei motiv aggiunti alla linea di basso che, rimanendo sempre costante, forniva all’ascoltatore un filo rosso che legava le varie elaborazioni e improvvisazioni e un senso di familiarità all’interno della composizione. Quest’operazione coniuga a mio parere il processo creativo di numerose canzoni house, dance ed EDM con l’improvvisazione tipica del jazz: inoltre l’enfasi posta sulle percussioni nel concerto è caratteristica anche dei beat dei brani hip hop, dove il ritmo della base è cruciale per orientare il rapper durante il brano in questione.

 

Il 23 la Casa de Jazz proponeva un quesito intrigante: può la sofisticata poetica di un Pieranunzi coniugarsi con l’incredibile carica energetica di Antonello Salis? In altri termini possono coesistere due musicisti stilisticamente quasi all’opposto, uniti solo dalla grande passione e dedizione alla musica? Ciò perché il concerto in programma prevedeva per l’appunto un duo di piano composto da questi due artisti che mai avevano avuto modo di incontrarsi sul palco. Grande attesa, quindi, e non a caso grande affluenza di pubblico…ripagato da un concerto sicuramente interessante. Seduti l’uno di fronte all’altro i due hanno suonato per circa un’ora e mezza sciorinando un’intesa che non era facile prevedere. Spesso si partiva da un tema che veniva sviluppato, esaminato, sviscerato fin nelle sue più intime pieghe e quindi riproposto in una veste totalmente diversa che traeva nelle capacità improvvisative dei due nuova linfa vitale. E questa volta non si può dire che l’uno si sia piegato alle esigenze dell’altro in quanto ambedue hanno sviluppato appieno le proprie tematiche che finivano con l’incontrarsi su un terreno ben frequentato sia da Enrico sia da Antonello: l’improvvisazione pura o forse meglio la capacità di creare musica strada facendo. In effetti, oltre che partire da un dato tema, i due si sono spesso avventurati anche sul foglio bianco, vale a dire cominciando a suonare senza conoscere il punto di approdo, con una maestria che solo pochi posseggono.
Ed è stato lo stesso Pieranunzi a svelare come la musica eseguita sia stata tutta improvvisata. Tra i brani eseguiti, da ricordare una sempre suggestiva “Moon River” di Henry Mancini, una “Well, you needn’t” di Thelonious Monk che nulla ha perso dell’originario fascino, una memorabile versione di “Naima” di John Coltrane, nonché un sentito omaggio ad Ennio Morricone con “Il clan dei siciliani”.
E a conferma della splendida atmosfera che si respirava sul palco, Pieranunzi è apparso particolarmente in forma anche quando ha intrattenuto il pubblico con sagaci commenti sulla “strumentazione” di Antonello (tra cui una latta di tonno Callipo) e con un sentito ricordo della sua esperienza a fianco di Morricone.

Ed eccoci alla serata di lunedì 25. Mi reco alla Casa del Jazz al solito orario e noto immediatamente una sorta di novità: una fila interminabile di auto parcheggiate sul marciapiedi a indicare una straordinaria affluenza di pubblico. Cosa che verifico subito: i giardini della Casa del Jazz sono letteralmente invasi da una massa di giovani festanti in attesa dell’evento: il concerto di “Sons of Kemet”.
La band inglese è giunta a Roma preceduta da una formidabile campagna di stampa che la indicava come una delle massime espressioni del cosiddetto nu jazz; a richiamare il pubblico anche la considerazione che si trattava dell’ultima tournée del gruppo che nei prossimi mesi dovrebbe sciogliersi. Insomma tutto pronto per un grande successo di pubblico… che puntualmente è arrivato.

Guidati dal funambolico sassofonista Shabaka Hutchings, il quartetto (completato dal basso tuba di Theon Cross e ben due batterie nelle mani di Eddie Hick e della giovanissima e bravissima Jas Keyser in sostituzione di Tom Skinner in tour con Thom Yorke) ha sciorinato una musica di grande intensità, basata sul fitto tappeto ritmico intessuto dalle due batterie su cui svolgevano i loro interventi i due fiati. In particolare il sax del leader, spesso effettato con delay o reverberi, non disegnava lunghe linee melodiche ma intonava frasi ritmiche e frammenti melodici ripetuti più volte mentre il basso tuba contribuiva in maniera determinante a completare il tessuto ritmico delle due batterie. Il tutto ‘condito’ da un volume molto, molto elevato a creare una musica che raggiungesse l’obiettivo di portare al massimo l’eccitazione dell’uditorio e di coinvolgerlo in una sorta di rito collettivo in cui i richiami all’Africa erano ben evidenti. Si tenga presente che il concerto si è sviluppato su una linea di continuità ininterrotta tranne due momenti in cui Shabaka Hutchings ha imbracciato un flauto di legno per intonare una splendida melodia di origine africana e il tubista si è espresso in solitudine. Obiettivo raggiunto? Quanto al coinvolgimento direi proprio di sì… anche se non al cento per cento. Nel senso che, ad esempio, il vostro cronista non si è sentito coinvolto dalla musica dei Sons of Kemet. Ed il perché non è difficile da spiegare: avendo avuto la fortuna di ascoltare anche dal vivo alcuni dei più grandi musicisti  – per intenderci quelli che hanno scritto davvero la storia del jazz – non è facile lasciarsi impressionare da qualcuno che pur suonando bene non raggiunge quei vertici cui prima si faceva riferimento. Quanto ai messaggi che questa musica così aggressiva intende veicolare, ci viene in soccorso lo stesso Shabaka Hutchings affermando che “Black to the Future (ultimo album del gruppo) è un poema sonoro di invocazione del potere, del ricordo e della guarigione. Raffigura un movimento, quello della ridefinizione e riaffermazione di cosa significa lottare per il black power”. Ma anche sotto questo aspetto non riusciamo a vedere una grande novità dal momento che il jazz come musica di protesta non è certo cosa di oggi.
Quindi ben vengano gruppi del genere ma se mi si dice che questa è la nuova strada che il jazz si avvia a percorrere devo confessare che il jazz dei prossimi anni non mi avrà tra i suoi massimi sostenitori. Ovviamente la cosa poco importerà ai più ma a mio avviso il ruolo di un cronista-critico non è quello di affermare sempre che tutto va bene, ma anche di esprimere qualche perplessità, sempre motivandole, è ovvio.

Smaltita la sbornia dell’“Afrofuturism” (così viene definita la musica di Sons of Kemet da chi se ne intende), ecco il 27 sempre alla Casa del Jazz, la giovane e brava sassofonista Nubya Garcia, reduce dallo straordinario successo ottenuto dal suo primo album “Source” su etichetta Concord. Bel concerto questo con una musica sì proiettata verso il futuro ma sempre memore di ciò che il jazz ha rappresentato fino ad oggi. Anche la Garcia viene fuori dalla tumultuosa scena londinese di questi ultimi anni affermandosi passo dopo passo come una delle strumentiste più preparate e fantasiose del pur vasto panorama. In effetti Nubya frequenta il sax da tanti anni riuscendo così a raggiungere una tecnica tutt’altro che banale, una tecnica comunque sempre messa al servizio dell’espressività e di una concezione musicale fortemente inclusiva dal momento che nelle sue performances sono ben riscontrabili echi di jazz spirituale, dub, reggae, ritmi latini e suoni africani. Così il concerto si è sviluppato lungo modalità contrassegnate da notevoli assolo non solo della leader ma anche del pianista-tastierista Alastair MacSween mentre la sezione ritmica (Daniel Casimir contrabbasso e Sam Jones batteria) forniva un supporto sempre preciso, puntuale, propositivo. E a proposito di ritmo, da sottolineare la sensualità dei ritmi colombiani rinverdita dalla Nubya nella riproposizione di uno dei brani più riusciti dell’intera serata, “La Cumbia Me Está Llamando”, scritta con il trio colombiano al femminile “La Perla”.

Gerlando & Beny Gatto

Michele Sperandio, Tino Tracanna e Francesco Saiu al TrentinoInJazz

Sabato 16 ottobre 2021

ore 18.00
Ca’ del Garda
Frazione Loppio
Mori (TN)

MICHELE SPERANDIO JAZZ QUARTET

Michele Sperandio batteria,
Ludovico Carmenati contrabbasso,
Simone Maggio pianoforte
Massimo Morganti trombone.

info, prenotazioni: 328 6324447

ore 21.00
Distilleria Marzadro
Via Per Brancolino, 10
Nogaredo (TN)

Tel.:+39 0464 304554

MONK DUET

Tino Tracanna sassofoni
Francesco Saiu chitarra elettrica

ore 20.00: Visita guidata con degustazione itinerante
ore 21.00: concerto
Biglietto: 10 € (pagamento all’ingresso)
Prenotazione obbligatoria tramite e-mail o telefono:
eventi.marzadro@gmail.com / Tel. 0464 304554
greenpass obbligatorio

Sabato 16 ottobre doppio concerto per Jazz & Wine/Suono di-vino, il ciclo di eventi del TrentinoInJazz 2021 legato al jazz e alla degustazione di vini in cantine prestigiose, promosso nel circuito nazionale jazz&wine in collaborazione con il Circolo Controtempo.

Alle 18.00 a Mori (TN) appuntamento con il Michele Sperandio Jazz Quartet, presenza ideale a Cà del Garda dove suonerà in mezzo al vino e alle opere d’arte nel nuovo spazio espositivo inaugurato da pochi mesi. Cà del Garda offrirà gratuitamente un aperitivo e una degustazione di vino. Il progetto del batterista marchigiano si ispira al jazz modale degli anni ’60: brani di Miles Davis, Herbie Hancock, Joe Henderson, Wayne Shorter e altri vengono adattati alle influenze musicali odierne. Un lavoro legato alla tradizione ma con una forte componente contemporanea; gli arrangiamenti di Sperandio valorizzano l’impatto ritmico della musica e la ricchezza timbrica del quartetto.

Alle 21.00 alla Distllleria Marzadro, dopo la degustazione itinerante, torna al TrentinoInJazz uno dei giganti del jazz italiano, il grande Tino Tracanna. Il fiatista sarà sul palco con il chitarrista Francesco Saiu in un progetto speciale dedicato a Thelonious Monk intitolato Monk Duet. Tracanna e Saiu si confrontano con il suo affascinante repertorio, consapevoli di dover fare i conti con una musica caratterizzata da armonie complesse, dense di progressioni cromatiche e fraseggi frastagliati su idee ritmiche originalissime, talvolta imprevedibili. Le sue composizioni diventano il punto di partenza: «Un laboratorio permanente di ricerca musicale dove esplorare con grande libertà espressiva un personale mondo sonoro, in un continuo dialogo tra le parti».