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Nicola Angelucci – “The first one”

Nicola Angelucci – “The first one”

Nicola Angelucci – “The first one” – Via Veneto Jazz 067
Nell’ambito dei musicisti, a livello internazionale, Nicola Angelucci è batterista ben conosciuto avendo suonato tra gli altri con Enrico Pieranunzi, Steve Grossman, Sonny Fortune, Wess Anderson, Jeremy Pelt, Joel Frahm, Andy Gravish e soprattutto Benny Golson che lo considera espressamente il miglior batterista europeo. Così dopo tanti anni di gavetta e ben 25 album come sideman, Nicola intraprende la carriera da leader grazie a questa opportunità offertagli dalla gloriosa etichetta Via Veneto Jazz. E bisogna subito dire che questa chance Angelucci se l’è meritata ampiamente dando vita ad un album di buona fattura. Intendiamoci: nulla di nuovo sotto il sole, ma una musica fresca, frizzante, densa di contenuti abbastanza facilmente individuabili. In effetti Angelucci si propone anche come autore firmando ben sei dei nove brani presenti dell’album ( gli altri tre sono composizioni di Rainger, Monk e S.Chan/J.Styne) e già in questo accostamento si delinea l’intento del batterista: proporre un jazz che sia saldamento ancorato ai valori più genuini della musica afro-americana ma con uno sguardo rivolto al futuro, così come solo artisti quali Monk riuscivano a fare. Di qui una ricca carica di swing, una certa varietà di situazioni musicali, e soprattutto una ricerca sulla dinamica e sul gioco d’assieme che alle volte assume i connotati di sound orchestrale stupefacente ove si tenga conto che al di là del cambio di organico, si tratta sempre di un quartetto. In effetti accanto ad Angelucci , Roberto Tarenzi al pianoforte, Paolo Recchia al sax alto e soprano e Francesco Puglisi al contrabbasso (ovvero la formazione base) possiamo ascoltare , in veste di ospiti, Sam Yahel all’organo Hammond e al piano, Jeremy Pelt alla tromba, Kengo Nakamura e Johannes Weidenmueller al contrabbasso, tutti perfettamente integrati nel discorso musicale condotto da Angelucci. (Gerlando Gatto)

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Camera Ensemble – “Camera Ensemble” – Helikonia 0210
Camera Ensemble è un nuovo gruppo che si presenta al pubblico con un lavoro di rilievo. Già l’organico è una sorta di manifesto della via che il gruppo intende perseguire: con Giovanni Palombo alle chitarre, Gabriele Coen al clarinetto e sax soprano, Benny Penazzi al cello, Andrea Piccini alla batteria e percussioni, il combo vuole coniugare suoni antichi e suggestioni moderne in una proposta assolutamente originale dato che tutti i brani sono originali. I quattro hanno scritto composizioni in cui il gusto della linea melodica prevale nettamente su tutto il resto mentre preziosa appare la ricerca sul sound fortemente intriso di quella dimensione cameristica che si ritrova nel titolo sia del gruppo sia del CD. E il risultato, come si accennava all’inizio, è di eccellenza: l’ascoltatore attento può rinvenire tracce di musica etnica, di jazz, di musica improvvisata, il tutto filtrato attraverso la squisita sensibilità di questi artisti che non tendono a stupire quanto ad esprimere compiutamente sé stessi. Così è davvero un piacere ascoltare come il violoncello di Penazzi si sposi magnificamente con i fiati di Coen e la chitarra di Paolombo mentre Piccini provvede a fornire un tappeto ritmico mai soverchiante ma sempre presente e soprattutto di estrema eleganza. Insomma un album di rara eleganza che si fa ascoltare dal primo all’ultimo istante e, soprattutto, che ti fa venir voglia di riascoltarlo ancora una volta.. cosa, credetemi, oggi più unica che rara. (Gerlando Gatto)

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Luca Garro – “Double red street “

Luca Garro – “Double red street “

Luca Garro – “Double red street “ – Tetraktys Music 055
Ancora un disco di jazz italiano nuovo ed interessante: il protagonista è il pianista Luca Garro che per l’occasione ha messo su un settetto completato da Marco Fior tromba e flicorno, Valentino Finoli sax soprano e clarinetto basso, Francesco Bianchi sax alto e tenore, Walter Pandini sax baritono e tenore, Emanuele Garro contrabbasso e Enrico Santangelo batteria. Musicisti tutti che si sono conosciuti frequentando le classi musicali al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano dirette da Tino Tracanna. Di qui l’idea di costituire una formazione stabile e l’incisione di questo album. Il risultato è assolutamente positivo. Il gruppo si muove con una eccellente compattezza denotando un sound strumentale di rara efficacia in cui si incastonano gli assolo dei vari musicisti tutti in possesso di una ottima preparazione di base. A ciò si aggiunga l’intelligenza con cui è stato concepito l’album: cinque pezzi che possono essere letti tutti come un tributo ad Herbie Hancock, mentre il terzo brano “Double Red Suite” è una vera e propria suite in quattro movimenti in cui l’omaggio al grande musicista è ancora più esplicito dato l’utilizzo di alcuni dei suoi temi più famosi quali “Maiden Voyage”, “Jessica” e “Cantaloupe Island”, un utilizzo, comunque, sempre discreto e pertinente. Tanto di cappello quindi a Luca Garro che ha dimostrato di possedere anche ottime capacità di scrittura che potranno portarlo lontano se le premesse di questo album saranno adeguatamente rispettate. (Gerlando Gatto)

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Keith Jarrett/Charlie Haden – “Jasmine”

Keith Jarrett/Charlie Haden – “Jasmine”

Keith Jarrett/Charlie Haden – “Jasmine” – ECM 2165
Non sono molti gli artisti di cui si può essere certi che non deluderanno: Keith Jarrett appartiene a questa strettissima cerchia e la conferma viene dal suo ultimo album ,”Jasmine”, registrato in duo con Charlie Haden al contrabbasso nel marzo del 2007. In realtà il pianista di Allentown dal vivo ha accusato qualche raro passaggio a vuoto: ricordo ,ad esempio, poco tempo fa un recital all’Auditorium di Roma in cui per tutto il primo tempo Jarrett si dilungò in una sorta di lunghissimo monologo senza soluzione di continuità francamente non esaltante. Viceversa su disco mai ha sbagliato un colpo a cominciare da quel “Don Jacoby – Swinging Big Sound (Decca DL 4241)” in cui appare un Jarrett ancora diciassettenne, fino ai nostri giorni, a questo “Jasmine” che a mio avviso è un vero gioiellino. Lo si ascolta tutto d’un fiato e poi si ha voglia di risentirlo una volta … e ancora una volta, per tornare a gustare quel passaggio, per approfondire quel fraseggio, quella sfumatura, quell’invenzione tematica. Il fatto è che l’album si impernia su due grandissimi musicisti che non solo rappresentano il meglio nel rispettivo ambito ma evidenziano anche il piacere di suonare assieme in una sorta di rappresentazione sonora della “gioia musicale”. In realtà i due non si conoscono certo da ieri: nei primi anni ’70 ebbero modo di collaborare a lungo in quello che fu definito il quartetto americano di Jarrett che incise anche parecchi album di straordinaria fattura come “Fort Yawuh” del ’73. Poi nel ’76 il gruppo si sciolse e per oltre 30 anni i due non ebbero più modo di collaborare. L’occasione si ripresenta nel ’77: il regista Reto Caduff ha girato un film documentario “Rambling Boy” sulla vita e la carriera di Charlie Haden. Jarrett viene invitato a partecipare al filmato e qualche mese dopo, nel marzo 2007, invita Charlie nella sua abitazione nel New Jersey. Nel corso di quattro giorni i due suonano nello studio di registrazione di Keith e “Jasmine” ne è il risultato. Probabilmente rilassati anche dall’ambiente “domestico” i due suonano in tutta scioltezza , nulla dovendo dimostrare e si lasciano andare alla propria ispirazione evidenziando una delicatezza ed una levità difficilmente riscontrabile nei precedenti album. Il gusto per la melodia è quanto meno evidente anche se non mancano approfondite esplorazioni delle possibili variazioni armoniche; il pianismo di Jarrett è in questa occasione solare anche se mai banale mentre il contrabbasso di Haden evidenzia quel suono pieno, robusto che tutti gli appassionati amano tanto. Così i due duettano, scambiandosi il ruolo di prima voce, mentre la musica scorre fluida e convincente. Alla luce di queste considerazioni si spiega anche il repertorio basato su ballads, alcune delle quali molto conosciute come “Body and soul” o “Don’t ever leave me” mentre “One Day I’ll Fly Away” è tratta dal repertorio pop essendo stata portata al successo da Randy Crawford. (Gerlando Gatto)

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Luca Lo Bianco – “ Ear Catcher”

Luca Lo Bianco – “ Ear Catcher”

Luca Lo Bianco – “ Ear Catcher” – Fitzcarraldo Records Fitz 102
Luca Lo Bianco e’ un giovane contrabbassista che vanta pero’ gia’ una notevole esperienza, e in questo cd davvero bello mostra una creativita’ notevole, che emerge prepotentemente nonostante la scelta stilistica sia quella, in quasi tutti i brani, di tenere graniticamente sia con il contrabbasso acustico che con quello elettrico degli ostinati ritmici che sono la base per il librarsi delle note degli altri strumenti. Questa scelta e’ tanto piu’ apprezzabile quando si pensa che evidentemente il fine di questo giovane compositore strumentista (quasi tutti i brani sono originali) non e’ certo quello di emergere a discapito degli altri ma quello, nobile, di creare musica. Ed in effetti Lo Bianco riesce benissimo nel suo intento, complici naturalmente anche i bravi artisti di questa compagine abbastanza inusuale (basso, chitarra, violoncello e batteria), in cui la continua ricerca armonica e ritmica da luogo a brani veramente interessanti. “Girl with a red bike” , ad esempio, vede appaiati inizialmente chitarra e contrabbasso all’ unisono su una batteria secca e decisa, lasciando poi spazio all’ unione tra sax soprano all’ unisono con il violoncello: questi dualismi di timbro che si incrociano creano una piacevole ed energica tensione – tensione positiva che troveremo fino alla fine del cd. Il ruolo del contrabbasso e’ sempre fondamentale e da’ il colore e la originale peculiarita’ ai brani : vedi l’ ostinato in “Overnight”, tanto incalzante e muscolare insieme alla batteria quanto e’ morbido il sax e creativa la chitarra; oppure il caso di “They are still watching us”, con Lo Bianco generosamente dedito a disegnare sfondi quasi ossessivi ed angoscianti che contrastano con i lirismi del violoncello. In generale la ritmica fornisce la struttura fondamentale e lo spunto caratteristico per la creativita’ degli altri, non rinunciando mai a soli molto belli, come ad esempio quello di batteria energico e leggero allo stesso tempo, quasi un frullare di ali, di Giambanco in “Zulu Dream”.
La cosa davvero interessante e’ che questo ruolo fondante del basso – e anche della batteria – , lungi dall’ essere ripetitivo e stucchevole, al contrario crea atmosfere molto molto variate, suggestioni emotive diversissime ma sempre intense, scardinando il luogo comune che la sezione ritmica abbia una funzione solo di accompagnamento. Anche se Lobianco rimane sul low profile rinunciando ai virtuosismi vistosi, cio’ che arriva all’ orecchio e’ ben piu’ che un giro armonico / ritmico. In questo senso l’ udito e’ stimolato al massimo e spiega il senso preciso allo stesso titolo (“Ear catcher” ) del cd. Dunque ad esempio in “Afternoon/ a kind of “ la struttura portante e’ ancora una volta garantita dal contrabbasso, e il violoncello canta malinconico sui toni gravi, fino all’ inserirsi del clarino in un dialogo quasi contrappuntistico; poi la batteria introduce un tema ritmico ad incedere quasi tragico militaresco, che si impasta con il violoncello, in un incedere drammatico che parla di ineluttabilita’.
Che altro chiedere ad un giovane musicista oltre a creativita’, misura, tecnica ed energia? (Daniela Floris)

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Paul Motian – “Lost in a dream”

Paul Motian – “Lost in a dream”

Paul Motian – “Lost in a dream” – ECM 2128
Vi state ancora arrovellando su che cosa ancora oggi possa definirsi jazz? Ascoltate questo album e ogni dubbio svanirà: questo è jazz, un jazz di eccezionale fattura, su temi splendidi eseguiti da musicisti straordinari, registrati in un momento di particolare creatività durante una settimana di concerti al Village Vanguard di New York nel febbraio del 2009. La formazione è un trio di all stars in quanto accanto al batterista ci sono Chris Potter al sax tenore e Jason Moran al piano. Un trio, quindi, senza contrabbasso ma la cui assenza non si avverte minimamente dato lo straordinario lavoro sia del pianista sia del batterista che si fa notare altresì come compositore avendo firmato ben nove dei dieci brani presentati (il decimo “Be careful it’s my heart” è di Irving Berlin). Anzi direi che forse in questo album il lato di Motian che maggiormente viene evidenziato è proprio quello compositivo: tutti i pezzi sono magnifici, su tempo medio-lento, dotati di una struggente tenerezza a volte sconfinante nella malinconia. Di qui l’esigenza di un interprete che sapesse tradurre questi sentimenti in musica: grande, quindi, la performance di Chris Potter che in questo album offre probabilmente la sua prova più significativa quanto a maturità, sincerità d’espressione e capacità di calarsi perfettamente anche nel mood voluto da altri. Mood che prende anche Jason Moran perfettamente a suo agio e facitore di musica fresca, misurata, a tratti inebriante, sempre sia nelle vesti di accompagnatore sia in quelle di prim’attore. Quanto al Motian batterista nulla potremmo aggiungere a quanto già si conosce sull’arte di questo straordinario musicista capace di colloquiare con la sua batteria da pari a pari, con qualsivoglia altro strumento. (Gerlando Gatto)

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Tavolazzi-Pozzovio Quintet – “Stand Up ..one more time”

Tavolazzi-Pozzovio Quintet – “Stand Up ..one more time”

Tavolazzi-Pozzovio Quintet – “Stand Up ..one more time” – Helikonia 0310
Ecco un altro bel disco della Helikonia dedicato al jazz italiano: questa volta i protagonsti sono il pianista Daniele Pozzovio, Ares Tavolazzi al contrabbasso, ancora Gabriele Coen al sax tenore e soprano, Federico Turreni al sax alto e soprano e Leonardo Cesari alla batteria.
Devo confessare che alla fine dell’ascolto ero di ottimo umore, merito evidente della musica contenuta nel CD, un jazz fresco, originale, raffinato che aveva colto nel segno, un jazz in cui nonostante si avverta la lezione dei grandi del passato (Mingus soprattutto) presenta una cifra stilistica complessiva di assoluta originalità grazie sia alla qualità dei singoli sia alla bontà dei brani composti dagli stessi componenti il quintetto. In tale veste ho particolarmente apprezzato il lavoro di Daniele Pozzovio che con questo album ha evidenziato una piena maturità dal punto di vista sia esecutivo sia compositivo. Dotato di una eccellente tecnica di base, Daniele evidenzia in ogni circostanza un pianismo brillante, mai ripetitivo, un painismo in cui la linea melodica si sposa egregiamente con una ricerca armonica mai banale, il tutto condito dalla capacità di mettersi anche al servizio dei compagni d’avventura. Tra questi spicca come al solito Ares Tavolazzi, musicista che pur avendo già dato moltissimo, in ogni nuova occasione mostra una voglia di suonare ed un entisasmo genuino che solo un vero artista può avere. Splendida l’interazione tra i due fiati mentre il supporto ritmico di Leonardo Cesari è sempre pertinente. I brani sono tutti godibili con una preferenza per il brano d’apertura che da il titolo al CD. (Gerlando Gatto)

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The Georgi Sareski Quartet – “Myau Myau”

The Georgi Sareski Quartet – “Myau Myau”

The Georgi Sareski Quartet – “Myau Myau” – Sjf Records – SJF 121
Come piu’ volte si e’ detto, basta girare l’ angolo, (in questo caso basta arrivare nella non troppo lontana Macedonia) , che si scopre un serbatoio vitalissimo e nuovo di musica, jazz si, ma che si nutre anche di sonorita’ tradizionali che non annullano ma implementano esponenzialmente un genere che per definizione e’ aperto, anzi fondato sull’ incontro tra culture diverse. Se a questo aggiungiamo che il chitarrista protagonista di questo cd inusuale, divertente e di ottimo livello – Georgi Sareski – e’ diplomato alla Berkeley , il “jazz” – anche se non quello comunemente inteso, e’ garantito.
E cosi’ ci si ritrova ad essere piacevolmente colpiti da “Zagreb” , in due versioni, una con in aggiunta il sax tenore di Justin Keller, curioso brano che alterna i due episodi contrastanti: quello di sapore “balcanico” a struttura tradizionale , mediato specialmente nella prima versione dal suono modernissimo scelto nella tastiera, e quello “swingante” , quasi a significare i due aspetti e le due culture coesistenti di un unico mondo geografico.
Ma si vola anche in altri ambiti, per esempio quello un po’ “psichedelico” di “ Mad cowboy robot”, singolare misto tra futuro sperimentale, passato, prossimi anni 70 e stilemi chitarristici blues americani, oppure ci si ritrova a ricordare un po’ la chitarra distorta di Jimi Hendrix in “Course breaker “, con un sottofondo di blues. Blues che ritroviamo, particolarissimo, nella bella “Blues for me”, dalla struttura quasi tradizionale: quasi, perche’ la tradizionalissima chitarra e’ impastata con suoni elettronici , mentre tastiera (Dzijan Emin) e contrabbasso ( Oliver Josifovski ) perseverano, con grande cura stilistica nelle dissonanze. E ancora, in “Ashkalija” il suono ritmico diventa africano e jazzistico quando passa alla batteria (Goce Stevkovski ) , mentre la tastiera simula un acutissimo flauto tradizionale, che ricorda (o riproduce) melodicamente lo stilema orientale – balcanico.
Una ricchezza di suoni che lungi dall’ esaurirsi qui fa incuriosire e ben sperare anche sui lavori futuri di questo eclettico compositore e dei suoi bravissimi musicisti. (Daniela Floris)

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