Gli Snarky Puppy al di là di ogni genere

 

Neanche l’atteso ottavo di finale tra Russia e Croazia ai campionati mondiali di calcio ha impedito ai fan degli Snarky Puppy di accorrere all’Auditorium Parco della Musica di Roma per assistere al concerto di una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni. Abbiamo scritto “una delle più interessanti formazioni apparse negli ultimi anni” e non “una delle più interessanti formazioni apparse nel mondo del jazz negli ultimi anni” per correttezza intellettuale.
In realtà gli Snarky Puppy sono una band del tutto atipica, per questo, quando si parla di loro, occorre scegliere bene i termini e accettare il fatto che con loro le categorie musicali generalmente utilizzate per definire la musica sono del tutto inutili.
Sotto certi versi gli Snarky Puppy ci hanno fatto venire in mente il pianeta Solaris descritto dallo scrittore polacco Stanislaw Lew e portato sugli schermi dal regista russo Andreij Tarkovskij (sul remake con George Clooney stendiamo un velo pietoso…). Come Solaris, gli Snarky Puppy sono una formazione in continua evoluzione, mai uguale a se stessa, estremamente cangiante nelle scelte musicali, ma capace di dare vita ai tuoi desideri più reconditi ed inespressi. Tanto per dare un’idea della difficoltà di catalogazione, nel 2014 il gruppo guidato dal bassista Michael League ha ottenuto con Something il Grammy Award come migliore performance rhythm’n’blues. Nel 2015 i lettori di Down Beat hanno eletto gli Snarky Puppy il Jazz Group of the Year mentre nel 2016 e 2017, rispettivamente, con Sylvia e Culcha Vulcha hanno ottenuto un Grammy come Best Contemporary Instrumental Album. Come se ciò non fosse sufficiente League ha trovato anche la maniera di produrre gli ultimi due album di David Crosby, Lighthouse e Sky Trail, regalando una seconda giovinezza al vecchio gigante della West Coast.

Non chiedeteci che genere suonano gli Snarky Puppy perché non sapremmo cosa rispondere. Li suonano tutti e tutti insieme, ma contemporaneamente non ne suonano nessuno. In questo operano una fusione tra generi, ma guai a definirli fusion. Immaginate la band come un enorme shaker musicale dove gli ingredienti sono miscelati in dosi diverse. Ad agitare il tutto è una possente sezione ritmica, con le batterie a dialogare sempre tra loro, il basso elettrico a tenere groove, spesso doppiati dalla mano sinistra di una tastiera. Al di sopra degli strati ritmici creati emergono improvvisamente assoli di chitarra elettrica, oppure è la sezione fiati che disegna linee soul, funk jazz, rock, giungendo anche a ricordare gli inni del Philadelphia sound.
Anche a livello di formazione il gruppo di Brooklyn (anche se formato a Dallas, Texas) non ha un assetto tipo. Sono infatti una trentina i musicisti che ne fanno parte, a rotazione. Come più volte ha affermato League, riferendosi agli Snarky Puppy, è più giusto pensare al concetto di una famiglia i cui componenti si frequentano, ma non necessariamente si vedono sempre tutti insieme. Per ogni strumento ci sono tre o quattro musicisti disponibili. I chitarristi sono tre, cinque i tastieristi, quattro i batteristi, sei i musicisti ai fiati. Anche la fase di composizione dei brani è molto originale. Chiunque può proporre una sua composizione che viene poi provata assieme. Nel corso di questa fase ogni musicista può portare cambiamenti o avanzare i suoi suggerimenti. Il brano viene eseguito sino a quando non viene trovata la giusta alchimia frutto del lavoro di squadra.

A Roma gli Snarky Puppy si sono presentati in nove, con una formazione composta da due batterie, un basso elettrico, una chitarra elettrica, due fiati, una tromba e un sax tenore (a volte tre quando un tastierista lasciava il suo strumento e si aggiungeva alla sezione), tre tastiere. Un groove di basso di League ha dato il via a un concerto, purtroppo non impeccabile dal punto di vista sonoro. Spesso si sono udite distorsioni sui fiati, che sono un elemento fondamentale nel suono della band e il volume, generalmente troppo elevato, ha penalizzato la musica invece che esaltarla. Di solito questi problemi si risolvono dopo un paio di brani, ma purtroppo stavolta i fonici non sono riusciti a rimediare. Il rimpianto di non aver potuto ascoltare la musica degli Snarky Puppy al 100% delle sue possibilità è stato ben presto superato dall’entusiasmante prestazione del gruppo. Già al secondo brano, un lento con una parte di fiati alla Sketches of Spain, incastonato su una ritmica funk, ha indotto il pubblico all’applauso ritmico e ad accompagnare, cantando, i temi della band. Non ci era mai accaduto ascoltare la platea intonare dei temi strumentali. Kite, tratto da We Like It Here, è stato accolto da un’ovazione e così tutti i successivi brani proposti dal gruppo. L’entusiasmo del pubblico, in genere molto giovane, è stato autentico e trascinante. Nel corso della serata che è stata essenzialmente improntata al funk (perdonerete la semplificazione giornalistica) abbiamo provato ad analizzare le componenti del gruppo, così come al ristorante si cerca di individuare la ricetta o l’ingrediente segreto di un piatto che ci sta piacendo particolarmente. La base, come detto prima, è la ritmica, con le due batterie a portare i primi mattoni nella costruzione dei brani e il basso elettrico a iniziare l’innalzamenti del muro della struttura portante. Le tre tastiere avevano (perdonate ancora la banalizzazione) compiti ben precisi. La prima era essenzialmente ritmica e spesso doppiava le linee di basso di League. La seconda aveva un suono molto tagliente, anni Settanta, alla Chick Corea del periodo Return to Forever, mentre la terza (probabilmente un Hammond C-3) aveva una funzione più soul e groovy.  La chitarra elettrica era essenzialmente rock, mentre la sezione fiati (che meraviglia, l’avremmo voluta più ampia) agiva quasi come solista e aveva il compito di eseguire linee melodiche fossero esse improvvisazioni jazz o stacchi funk. Ogni volta che la sezione entrava in azione, le sue linee risultavano sorprendenti e capaci di trasformare il mood del brano, vuoi per la bellezza dei temi proposti vuoi per l’inatteso contrasto apportato rispetto alla generale dinamica del brano. In una intervista League ha spiegato di essere cresciuto ascoltando tantissimo pop, soul, rhythm’n’blues. La scuola jazz che ha frequentato gli ha insegnato le basi della teoria musicale, rendendolo capace di comporre musica con sensibilità pop, sebbene dotata di profondità. League non ha mai voluto essere il nuovo grande musicista jazz ma piuttosto essere un musicista che scrive musica unica, risultato della combinazione dei generi che ama. Da quanto abbiamo potuto ascoltare nel corso del concerto, League ha decisamente realizzato il suo obiettivo.

 

 

Marco Giorgi

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Con “Gente di Jazz” un’istantanea sul Jazz italiano negli ultimi anni

Nel 1973 Ian Carr, celebre trombettista fondatore e leader dei Nucleus, pubblicò un libro intitolato Music Outside – Contemporary Jazz in Britain nel quale riportò le sue conversazioni con personaggi emergenti e consolidati della scena musicale jazz britannica. Mike Westbrook, Jon Hiseman, John Stevens, Trevor Watts, Evan Parker, Mike Gibbs, Chris McGregor affrontarono a cuore aperto qualsiasi tema che ritenessero importante, dalle personali scelte artistiche, alle proprie aspirazioni (frustrate o non), alla endemica difficoltà di trovare sbocchi discografici sino a giungere alla triste realtà che, suonando solamente jazz, la vita non era facile. Riletto a distanza di anni, quel libro di interviste, fornisce molte più informazioni di qualsiasi altro trattato critico e ci restituisce un ritratto fedele e vivido del movimento jazz in Inghilterra dei primi anni Settanta.
Così come è avvenuto con Carr crediamo che Gerlando Gatto, autore di Gente di Jazz per l’editore Euritmica/Kappavu, abbia non solamente realizzato un libro di interviste, ma scattato un’istantanea sulla situazione del jazz italiano degli ultimi anni.
Molte intervista sono state realizzate nel corso delle varie edizioni di Udin&Jazz, festival di cui Gatto è assiduo frequentatore, e anche per questo molti sono i musicisti del nord est, storica fucina di talenti del jazz italiano, ad essere interpellati.
Gatto non si è limitato però solamente a dare voce ai jazzisti nazionali, ma ha anche inserito nel suo lavoro i suoi colloqui con musicisti di fama internazionale, quali Joe Zawinul, Mino Cinelu, McCoy Tyner, Martial Solal, Michel Petrucciani, Gonzalo Rubalcaba e Cedar Walton entrando spesso in dettaglio su aspetti meno noti della loro attività.

(Cedar Walton)

Gente di Jazz, quindi, risulta essere una miniera di informazioni per l’appassionato di jazz e, in generale, per chi si occupi di cultura e di spettacolo. Scopriamo così, che Stefano Battaglia ha una solida formazione classica e una conoscenza approfondita dei compositori del barocco, che il sassofonista udinese Francesco Bearzatti si è costruito una solida reputazione in Francia prima di essere conosciuto in Italia (nemo profeta in patria…), che Stefano Bollani non riesce a scindere tra jazz, improvvisazione, divertimento e spettacolo e che sa imitare molto bene Johnny Dorelli, che il contrabbassista Rosario Bonaccorso ritiene, come Leonardo da Vinci, che “la semplicità è il massimo della raffinatezza”.
Scorrendo ancora Gente di Jazz, apprendiamo di come il pianista siciliano Dario Carnovale abbia trovato la sua dimensione artistica nella tranquillità di Udine, di come Claudio Cojaniz intenda in maniera sociale il ruolo dell’artista in quanto “veicolatore di pensiero”, di come Massimo de Mattia sia stato ammaliato dai Delirium di Ivano Fossati e per questo abbia scelto il flauto come suo strumento, e di come il veneziano Claudio Fasoli, storico sassofono del Perigeo, aveva un sogno, ormai irrealizzabile, di suonare con Elvin Jones e Tony Williams. Dall’intervista con Enzo Favata emerge la sua concezione in un jazz che incontri l’anima etnica delle diverse località del globo, mentre da quella con Paolo Fresu apprendiamo che l’emozione del suonare talvolta fa scorrere delle lacrime sul volto del trombettista sardo.

(Paolo Fresu)

Il batterista romano Roberto Gatto confida all’autore il suo orgoglio per aver inciso con Chet Baker, un musicista che non amava molto i batteristi, mentre il suo compagno nei Lingomania, Maurizio Giammarco, racconta della sua eccezionale esperienza di direttore della Parco della Musica Jazz Orchestra (PMJO). Il chitarrista Antonio Onorato rivela di avere effettuato studi approfonditi sulla Napoli del 1700 e di conoscere bene tutti i musicisti di quel periodo, mentre il pianista Enrico Pieranunzi che ha fornito all’autore ben quattro interviste nel corso degli anni, confida il suo amore per Scarlatti. Enrico Rava ricorda che la sua carriera decollò dopo la registrazione per l’ECM dell’album The Pilgrim And The Star, mentre il pianista romano Danilo Rea rivela la sua ammirazione per la sintesi musicale tra tradizione e improvvisazione raggiunta dai musicisti dei paesi nordici. Infine, ultimo degli italiani, Giancarlo Schiaffini lancia un allarme sulla standardizzazione del linguaggio musicale e sull’omologazione della maniera di fare jazz.

(Enrico Rava)

Passando ai musicisti internazionali, Mino Cinelu racconta di aver parlato con Miles Davis dopo un concerto senza riconoscerlo, mentre il compianto Michel Petrucciani confida di amare Estate di Bruno Martino per la sua melodia e per le grandi possibilità di improvvisazioni che forniva. Gonzalo Rubalcaba racconta dell’importanza nel suo jazz della musica popolare cubana, mentre Martial Solal afferma di non credere nell’elettronica applicata alla musica. Anche Cedar Walton preferisce il suono acustico, mentre McCoy Tyner racconta della sua costante ricerca del nuovo. Chiude la serie delle interviste, ordinate in stretto ordine alfabetico, Joe Zawinul il quale svela che quando sopraggiunge l’ispirazione, la ragione cessa di operare.

(Joe Zawinul)

La lettura di Gente di Jazz è agile. I temi trattati nelle interviste mettono in luce la personalità dei vari artisti, le loro inclinazioni e rivelano la loro estetica musicale. Gatto ha il raro dono di riuscire a far parlare i musicisti, di metterli a loro agio cosicché questi possano davvero esprimere il loro pensiero senza remora alcuna. Questo aspetto è molto apprezzabile in quanto la spontaneità delle dichiarazioni raccolte da Gatto e le verità che queste contengono si trasmettono immediatamente al lettore e consentono a quest’ultimo di entrare in stretto contatto con la dimensione artistica dei musicisti.

Marco Giorgi per www.red-ki.com

(McCoy Tyner)

Le immagini sono di Luca A. d’Agostino/Phocus Agency ©

Peter Ind. Bass Guru

Peter Ind

Ricordo come fosse ieri che la prima volta che misi sul piatto il primo album di Lennie Tristano rimasi strabiliato da ‘Line Up’ per il tempo incredibilmente veloce dell’introduzione di contrabbasso. Quello che mi stupiva, prima ancora delle sovraincisioni che avevano fatto passare alla storia il brano, era l’incredibile pulizia del suono, la precisione con cui le note venivano pronunciate nonostante la velocità quasi disumana del tempo. Leggendo le note di copertina scoprii che al contrabbasso c’era un certo Peter Ind, il cui nome non mi diceva assolutamente niente. Appresi in seguito che si trattava di uno degli allievi di Tristano. Per qualche anno questa notizia bastò ad appagare la mia curiosità. Ogni volta che però ascoltavo disco del pianista italo americano mi imbattevo quasi inevitabilmente in Ind il cui approccio allo strumento era, alle mie orecchie, di una originalità non comune.

Anni più tardi mi capitò di acquistare un disco di Ind intitolato “Improvisation”, in cui il contrabbassista suonava in perfetta solitudine, sviluppando le sue improvvisazioni su una base di basso incisa in precedenza. L’album era meraviglioso e mi indusse a fare delle ricerche su quel musicista e a mettermi a caccia di altre sue incisioni.
Inevitabilmente, come spesso accade nel jazz, quando si comincia a scavare sotto la superficie, si scoprono mondi sconosciuti e ci si imbatte in quei cosiddetti “personaggi minori” che di minore, rispetto ai “grandi”, hanno solamente la notorietà. Peter Ind appartiene a questa categoria e deve la sua collocazione “eccentrica” nella storia del jazz, a precise scelte artistiche che gli hanno impedito di scendere a compromessi. Ind ha scelto di privilegiare la musica e l’improvvisazione e per questo si è avventurato sulla strada impervia dell’arte a tutti i costi.

Proprio per questo, la sua vita, i suoi incontri musicali, la sua intera vicenda artistica ci sembrano di particolare interesse e degni di essere raccontati.

Peter Indr pimo piano

Gli inizi
Peter Ind è nato in Inghilterra, a Uxbridge, il 20 luglio 1928. Sin dall’infanzia apprese i rudimenti del pianoforte e del violino. All’età di quattordici anni lasciò la scuola per lavorare in un ufficio, ma ben presto si rese conto che suonare con una dance band gli permetteva di guadagnare in una sola sera la paga di una settimana. La famiglia lo incoraggiò e così la musica divenne la sua vita. Cominciò a lavorare assiduamente con formazioni che, in tempo di guerra, dovevano tenere alto il morale della popolazione provata dai continui bombardamenti nazisti. L’incontro con il jazz americano avvenne tramite la BBC che nella sua programmazione dava rilievo all’orchestra di Glenn Miller. La musica del maggiore dell’USAAF fu una vera rivelazione che svelò al giovane Ind la differenza tra il jazz delle orchestre da ballo inglesi e il jazz americano. Anche se il linguaggio della musica afro americana non gli era familiare, Ind aveva imparato ad improvvisare grazie alla gavetta fatta proprio nelle formazioni di cui era stato pianista. Tuttavia il giovane artista sentiva il bisogno di razionalizzare il suo approccio alla musica e così cominciò a frequentare il Trinity College of Music di Londra. Fu questa l’occasione di affiancare al pianoforte il contrabbasso, dato che i corsi prevedevamo l’apprendimento anche di un secondo strumento. Così nel 1944 Ind comprò il suo primo contrabbasso e cominciò a esibirsi in concerto come bassista. Attorno al 1947 Ind divenne un professionista a tutti gli effetti, lavorando stabilmente in un “Palais de Dance” di Londra.

Ind E Duke Jordan

L’incontro con Tristano
Nel 1949 Ind mise per la prima volta piede negli Stati Uniti, arrivando a New York con la Queen Mary, nave per la quale lavorava come musicista di bordo per una paga da fame. Per diciotto mesi fece la spola tra i due lati dell’Oceano e ne approfittò per entrare in contatto con l’ambiente jazz della Grande Mela. Conobbe Lennie Tristano e prese lezioni nella sua casa di Flushing, Long Island. Il pianista italo americano, che aveva perso la vista da bambino, suonava con una cerchia ristretta di musicisti tra cui il bassista Arnold Fishkin. Una sera, del 1950, Tristano chiese a Ind di esibirsi con lui al Birdland dato che il bassista titolare era indisponibile. Ind non possedeva la tessera del sindacato artisti e pertanto non aveva il diritto di suonare nei locali di New York. Ciò nonostante accettò e rischiò una multa salata pur si suonare con l’artista più straordinario del momento. La serata andò bene e Ind cominciò ad accarezzare l’idea di lasciare la Gran Bretagna e di stabilirsi negli Stati Uniti.

Nel 1951 Ind ottenne il visto di immigrazione e si stabilì a New York. Ai tempi Ind ricorda come non fosse particolarmente difficile ottenere il visto a patto, naturalmente, che non si fosse comunisti. Fu il sassofonista Warne Marsh a dargli inizialmente una mano e a trovargli un posto dove vivere. Ind ricorda il periodo a cavallo tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta come il momento più democratico della storia del jazz. I musicisti neri cominciavano ad essere apprezzati per come meritavano e anche i bianchi erano bene accetti, a condizione che sapessero suonare. Lee Konitz, Warne Marsh, Gerry Mulligan, Red Mitchell, Billy Bauer, Sheila Jordan, Sal Mosca, Stan Getz e il sottovalutato trombonista Willie Dennis appartenevano a questa categoria. Tutti frequentavano la casa di Tristano e dal pianista apprendevano concetti musicali innovativi che andavano nella direzione di una musica globale. Da Tristano si suonava il mercoledì e il sabato. Le session andavano avanti per tutta la notte. Il linguaggio musicale del pianista italo americano andava ben oltre il be bop e rappresentava un duro scoglio da superare per ogni batterista. Il pianista chiedeva che la pulsazione musicale non venisse mai interrotta a qualsiasi costo. Ma erano ben pochi coloro che ci riuscivano. Più volte Tristano affermò che la sua sezione ritmica ideale era quella composta da Jeff Morton e Peter Ind. Una volta, per permettere a Tristano di suonare in trio anche quando erano impegnati in tour con Lee Konitz e Sal Mosca, i due registrarono dei nastri con la base ritmica di contrabbasso e batteria. Nel 1955, all’interno dell’album “Tristano”, il pianista utilizzò due di quei nastri pre registrati che divennero ‘Line Up’ e ‘East 32nd Street’. Successivamente questo metodo di registrare basi con l’assenza dello strumento solista fu commercializzato in una serie di dischi editi per la serie “Minus One” destinati agli studenti.

Ind ricorda anche degli aneddoti divertenti su Tristano che lo coinvolsero personalmente assieme a Warne Marsh che era una persona particolare, con la testa perennemente tra le nuvole, completamente avulso dalla realtà che lo circondava. Se questo aspetto poteva essere accettato da chi lo frequentava e gli voleva bene, talvolta poteva però costituire un problema.
Dopo avere suonato tutta la notte, Willie Dennis, Marsh, Tristano e Ind presero un taxi per arrivare a Penn Station da dove il pianista italo americano avrebbe dovuto prendere la metropolitana che lo avrebbe riportato a casa. Mentre Dennis e Ind aspettavano in macchina, Marsh accompagnò Tristano al binario del treno. Il giorno dopo Tristano si lamentò molto perché lo sbadato Marsh lo aveva messo su un treno sbagliato… Per tutta risposta lo stralunato Marsh rispose che avrebbe riflettuto sulla cosa…

Ine e TRistano

L’ambiente newyorkese
L’ambiente effervescente della New York di inizio anni Cinquanta era ideale perché i musicisti entrassero in contatto tra di loro. Ind ricorda di avere suonato con un giovanissimo Miles Davis, che allora aveva una personalità ben diversa da quella che avrebbe sviluppato in seguito. Il suono della sua tromba, però, era già particolare e immediatamente riconoscibile.
Ind strinse una profonda amicizia con Roy Eldridge e si vedeva spesso con Charlie Mingus che era estasiato dalla maestria dell’inglese di suonare le note alte. Mingus non aveva mai incontrato musicisti bianchi che sapessero suonare in quel modo, dotati cioè di basi classiche e con una visione che oltrepassava i singoli generi musicali. Questa era proprio l’essenza della lezione di Tristano che esortava i suoi allievi a imparare a suonare un brano in ogni tonalità e ad esercitarsi a riprodurre gli assolo degli altri musicisti per avere la padronanza assoluta della propria improvvisazione e non essere condizionati e pertanto limitati dalla logica del proprio strumento. Ind aveva conosciuto Mingus nel 1949 nel negozio di contrabbassi di Noah Wulfe nella West 49 Street. L’inglese, forte della sua formazione classica, aveva imparato ad eseguire contemporaneamente le due voci delle Invenzioni a Due Parti di Johann Sebastian Bach. Fu proprio mentre stava suonando questa composizione che Mingus entrò nel negozio. Questi rimase folgorato da quello che stava ascoltando. L’amicizia nacque immediatamente. Per tutta la vita Mingus avrebbe considerato Ind come un guru.

Peter INd Studio

Le collaborazioni
Un musicista della levatura di Ind non ebbe difficoltà a stringere legami con la parte più creativa del jazz newyorkese. L’inglese si esibì spesso in duo al Café Bohemia, con Oscar Pettiford al violoncello, ma anche con Paul Bley e Al Levitt. Questo trio aveva come base il The Pub Club di Long Island, un locale in cui gli unici bianchi erano quelli che si esibivano sul palcoscenico. Nonostante l’affiatamento raggiunto, quando Bley incise il suo primo album, chiamò al basso Percy Heath. Dopo due session non completamente soddisfacenti, però, il pianista sentì la necessità di registrare altri brani e decise di chiamare Ind, che accettò. Finì però che la casa discografica si rifiutò di pagare la session straordinaria e Ind, oltre a ricevere un misero compenso, subì anche la beffa di vedere che sul disco erano stati attribuiti a Heath la maggior parte dei brani di cui, invece, era stato protagonista. 
Se l’ambiente della New York dell’inizio degli anni Cinquanta era favorevole alla creazione artistica, dal punto di vista economico le cose erano ben diverse e i musicisti d’avanguardia non se la passavano bene. L’unico che non aveva il problema di arrivare a fine mese era Warne Marsh che aveva una famiglia economicamente solida alle spalle. Per gli altri musicisti del giro di Tristano la situazione era ben diversa. Konitz, per esempio, nonostante la fama crescente non riusciva a mantenere la famiglia. Con Ind trovò un posto al British Information Center del Rockfeller Center che mantenne fino a quando non ottenne una scrittura fissa con l’orchestra di Stan Kenton. Molti ritennero la scelta di Konitz un compromesso, ma Ind ritiene che alcuni dei migliori assolo il sassofonista li abbia effettuati proprio con l’orchestra di Kenton. A volte nel jazz accade che due personalità agli antipodi entrino in qualche modo in sintonia e producano, inaspettatamente, grande musica.

Ind e Marsh

Lo spartiacque
Anche Ind aveva un’ottima reputazione di musicista e, nonostante artisti della levatura di Dave Brubeck, Woody Herman, Red Norvo lo volessero includere nelle proprie formazioni, si dovettero rassegnare davanti ai cortesi no dell’inglese per il quale la frequentazione con Tristano e Konitz valeva più di qualsiasi ingaggio. La musica di quegli artisti premiati dal successo commerciale appariva a Ind del tutto banale se paragonata a quella di Tristano. Tutto ciò oggi ci può sembrare scontato se pensiamo che nel 1951, Ind stava lavorando con Tristano a nuove forme d’espressione, in qualche modo rivoluzionarie. Passtime e JuJu, furono i brani risultanti dalle sperimentazioni in cui, per la prima volta nel jazz, venne utilizzata la tecnica della sovra incisione e che entreranno a far parte del leggendario album di Tristano “Descent Into The Maelstrom”. Fu un momento importante che simbolicamente costituì uno spartiacque tra il jazz commerciale e quello votato alla ricerca, all’improvvisazione e alla sperimentazione. I nuovi ritrovati tecnici, che offrivano la possibilità di registrare su una propria traccia, di riascoltarsi ed eventualmente correggere errori e imperfezioni rappresentò una vera rivoluzione. Le limitazioni dello strumento vennero improvvisamente superate e le strade dell’esecuzione dal vivo e della registrazione in studio si separarono definitivamente. Furono molti gli artisti che sperimentarono le potenzialità della registrazione multi traccia e ci fu chi, come il grande pianista classico Glenn Gould, trovò inutile continuare ad esibirsi, quando un’incisione in studio poteva risultare virtualmente “perfetta” e superare i problemi legati all’acustica della sala da concerto, al posizionamento dell’ascoltatore e agli inevitabili rumori di sala. Il pianista arrivò addirittura a incidere dapprima le parti per la mano sinistra e successivamente per la mano destra. I take migliori di ciascuna parte venivano poi scelti e uniti per dare vita al brano che sarebbe poi ascoltato su disco.
Anche Ind non rimase insensibile al fascino che scaturiva delle nuove tecnologie. Nel 1953 cominciò a interessarsi delle tecniche di registrazione e acquistò il suo primo registratore professionale, prologo dell’apertura di uno studio d’incisione che divenne attivo a partire dal 1957.

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Tommy Flanagan nelle “Overseas sessions”

EP tommy Flanagan Overseas sessions 2

Lo confesso. È la passione per la musica, i dischi e il collezionismo a orientare i miei spostamenti e decidere delle mie vacanze. Così seguendo il flusso migratorio del vinile pregiato mi sono ritrovato nella Svezia centrale tra boschi e laghi, a metà strada tra Göteborg e Stoccolma, per la fiera più freak del mondo. Ogni anno a giugno, in occasione del solstizio, come per celebrare un rito pagano, venditori e collezionisti di tutto il mondo si radunano in riva a un lago, montano le tende e, approfittando delle ventiquattro ore di luce al giorno, comprano e vendono ininterrottamente LP, 45 giri e in generale qualsiasi cosa che possa riprodurre un suono. I prezzi vanno su e giù a seconda del tasso alcolico del momento e l’affare lo fa chi regge meglio il mix tra birra e vodka.
In questo contesto fuori dal mondo e dal tempo, mentre cercavo di accaparrarmi qualche raritá che arricchisse la mia collezione, improvvisamente mi sono accorto di Tommy Flanagan che mi sorrideva. Era un ragazzo giovane un po’ stempiato, in giacca e cravatta, con barba e baffi e l’occhio vispo di chi ha giá capito tutto della vita. Flanagan mi guardava dalla copertina di due dei tre rarissimi extended play (dischi 7″ a 45 giri multi traccia) editi dall’etichetta svedese Metronome. Nel terzo EP, che completa la serie, il pianista è invece immerso nei suoi pensieri, con un filo di fumo che sale dalla sigaretta tenuta elegantemente tra indice e medio della mano destra. Foto non posate ma rubate per strada da Bengt H. Malmquist, fotografo ufficiale della Metronome, il cui vero sogno era quello di diventare un chitarrista jazz. Il suo contributo alla storia della musica, invece, lo avrebbe dato attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, tramandandoci i visi felici degli artisti americani di passaggio in Svezia, così come quelli dei grandi jazzisti svedesi, da Lars Gullin ad Arne Domnerus, da Bergt Hallberg a Rolf Eriksson.

Marco Giorgi
per www.red-ki.com

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Intervista a Mariko Hirose. Dalla chitarra alla direzione di big band

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Nel corso di un nostro recente viaggio in Giappone abbiamo colto al balzo l’occasione di andare ad assistere a un concerto al leggendario Pit Inn a Tokyo. Nel ballottaggio tra due possibili eventi, quello di Mariko Hirose & Purple Haze e quello di Vincent Herring abbiamo optato per il primo, spinti dalla curiosità di assistere all’esibizione di una giovane artista alla guida di una big band.

Il concerto, che abbiamo recensito su questo blog nel luglio scorso, ci ha colpiti sotto vari aspetti, tanto da indurci, una volta tornati in Italia, a contattare i responsabili del Pit Inn, che ringraziamo, a cui abbiamo cortesemente chiesto di metterci in contatto con Mariko Hirose. Ne è nata questa intervista in cui abbiamo cercato di fornire un ritratto della personalità e del mondo musicale della giovane artista. 
Mariko Hirose ha 24 anni ed è nata ad Ibaraki nella prefettura di Kanto e sin dalla prima infanzia ha ascoltato jazz, genere amato dai suoi genitori. Dai sette ai quindici anni ha studiato violino e poi chitarra sotto la guida del Toshiki Nunokawa sin dai tempi del liceo. Ha studiato poi composizione e arrangiamento con Yoshihiko Katori. Entrambi i suoi maestri sono jazzisti affermati in Giappone. Prima di avere terminato gli studi la Hirose avuto occasione di esibirsi con Kiyoto Fujiwara, uno dei migliori bassisti del Giappone, all’interno della Jump Monk Bass Band Special. Nel 2012 si è diplomata al Jazz Department del Senzoku Gakuen College of Music. Il progetto di Mariko Hirose and Purple Haze nasce nel 2011, preludio all’album “Differentiation” pubblicato recentemente, nel 2014. In precedenza la giovane musicista si è dedicata all’insegnamento della chitarra e ad apparizioni come musicista nei club giapponesi. 
“Ho studiato chitarra per molti anni” ci dice la Hirose “e ci sono molti chitarristi che amo come Jim Hall, John Scofield, Wolfgang Muthspiel, Oz Noy, Kurt Rosenwinkel e Ryo Kawasaki. Li ritengo dei musicisti unici capaci di creare composizioni interessanti. Apprezzo particolarmente Ryo Kawasaki, che ha suonato con la Gil Evans Orchestra e Oz Noy, membro della band Gil Evans Centennial Celebration. Apprezzo molto questi due musicisti, perché è difficile lasciare il segno quando si è in una band composta da molti elementi, ma loro ci riescono”.

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In ricordo di Charlie Haden e Lorin Maazel

di Luigi Onori – La scomparsa di Charlie Haden – l’11 luglio scorso a Los Angeles – non giunge improvvisa, essendo stato colpito da una lunga e grave malattia. E’ vero, però, che il maglio anagrafico sta portando alla fine dell’esistenza tanti musicisti che hanno rappresentato, per la generazione dei cinquantenni a cui appartengo, degli “eroi” musicali ed umani, dei “padri sonori”: vederli andar via uno dopo l’altro crea dolore ma bisogna guardare con fiducia ed amore all’eredità che ci hanno lasciato, alla tanta musica che possiamo sentire ancora.

Così, in questa soleggiata mattina di luglio, ascolto “The Montreal Tapes” del 1989 in trio con la tromba di Don Cherry e la batteria di Ed Blackwell e mi godo l’assolo di Haden su “The Sphinx”, un tema di Ornette Coleman. Vado, poi, con il pensiero agli incontri (discografici e non) che ho avuto con Haden: i dischi free con il quartetto di Ornette, gli album e i recital della Liberation Orchestra, una mezza intervista a Barga Jazz, i concerti con l’Historic Quartet del padre del free, il Quartet West, il duo con Pat Metheny… Ma questi sono ricordi personali: c’è bisogno di qualcosa di più storico-informativo per ricostruire – soprattutto per chi poco o nulla lo conosca – la vicenda e la figura di un jazzista militante che è stato al fianco dei “giganti” (l’ultimo album è in duo con Keith Jarrett, “Lat dance” Ecm) ed è stato grande egli stesso.

Nato in una famiglia di musicisti nello Iowa nl 1937, Charlie Haden cresce a Springfield (nel Missouri e “Beyond the Missouri Sky” si chiamerà l’album del 1996 registrato con Metheny), terra di musica country & western. Scopre il jazz ed il contrabbasso e va a studiarli a Los Angeles (Westlake College of Modern Music). Nella West Coast si concretizzano le prime, importanti e seminali collaborazioni con i pianisti Paul Bley ed Elmo Hope ma soprattutto con Ornette Coleman (1959-’62 ; duetta con Scott LaFaro in “Free Jazz”) che il giovane contrabbassista aiuterà notevolmente nel dare fisionomia definitiva ad una musica rivoluzionaria e libera. Per due anni sarà fuori dal giro (problemi di droga) ma tornerà a fianco di Coleman anche in organici con due contrabbassi, insieme a David Izenzon. Haden, pur forgiato dall’esperienza free, ha bisogno di spazi che vadano oltre i gruppi di Ornette e lo si ritrova in altri contesti, sempre contrassegnati dalla ricerca musicale e dall’impegno socio-politico. Eccolo nella Jazz Composer’s Orchestra e nel 1969 – coadiuvato da Carla Bley – nella Liberation Music Orchestra di cui è leader e ispiratore: la copertina dell’album Impulse (con lo striscione rosso) ed i brani che evocano Che Guevara e la guerra civile spagnola sono nell’immaginario di tanti appassionati. Nella big-band, tra gli altri, Gato Barbieri, Dewey Redman, Don Cherry, Roswell Rudd, Paul Motian ed Andrew Cyrille. La Liberation Music Orchestra vivrà ulteriori stagioni negli anni ’80 e nei successivi decenni, con album sempre ispirati e critici rispetto ai problemi del mondo, dalla guerra alle dittature: tra gli altri “Dream Keeper” (Polydor, 1990) e “Not In Our Name” (Universal France, 2005).

Stabili le sue collaborazioni con Alice Coltrane (1968-’72) e Keith Jarett (1967-’75), nel quartetto di repertorio colemaniano Old And New Dreams prima di stabilirsi nel 1979 in California, un ritorno nella West Coast. Nel 1986 forma un trio, poi diventato quartetto, il Quartet West che (come precisano Philippe Carles e Jean-Louis Comolli) <<consoliderà la notorietà internazionale del contrabbassista, anche grazie ad una lunga serie di incisioni che ripercorrono con sguardo nostalgico il jazz degli anni ’40 e ’50, legandolo spesso alle musiche da film e con una vena malinconica molto accentuata>> (“Now Is the Hour”, Verve/Gitanes 1996; “The Art of the Song” con Shirley Horn e Bill Henderson, Universal 1999). Charlie Haden non mancherà, tuttavia, di continuare a collaborare con artisti consolidati – da Joe Henderson ad Abbey Lincoln – e giovani (come, a fine anni ’80, l’innovativa pianista Geri Allen in un trio con Paul Motian alla batteria).

Mentre scrivo c’è un assolo – sempre dai “Montreal Tapes” – su “Lonely Woman” e mi accorgo di non aver parlato del “suono” di Charlie Haden. Il suo contrabbasso era sempre carico di energia; pastoso o asciutto, univa spinta ritmica e cantabilità (in gioventù era stato cantante) con un suono unico scaturito dall’esperienza (era praticamente un autodidatta). Altro merito di Haden è quello di aver trasformato in repertorio <>. Tutto ciò diventa nuovo repertorio, è oggetto di arrangiamenti, è base per assoli spesso ispirati e meditativi, a volte malinconici. Una musica fatta di emozione, cuore, progetto, razionalità e passione e che il settantaseienne Charlie Haden lascia in eredità a tutto il mondo, specie il Terzo Mondo per cui – con lo strumento formidabile della musica – ha spesso lottato.

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