Ciao Dino “gran signore del jazz”

Se n’è andato anche lui dopo una vita straordinaria, dedicata alla musica: all’età di 94 anni ci ha lasciati Dino Piana uno degli artisti che ha contribuito in primissima persona con il suo trombone a scrivere la storia del jazz italiano. Anni attraversati con straordinaria raffinatezza, leggiadria, gentilezza. In effetti si può benissimo essere grandi musicisti senza per questo essere particolarmente simpatici: bene Dino Piana ha invece rappresentato quel che nel mondo “normale” si intende “Un vero signore”.

E per un momento lasciamo da parte i suoi meriti musicali per soffermarci sul Piana uomo: l’ho conosciuto parecchi anni fa ed una volta ho avuto l’onore di ospitarlo nel salotto di casa mia, assieme al figlio Franco, per una interessante chiacchierata sullo stato di salute del jazz italiano. L’ho sempre trovato, oltre che di una innata ed invidiabile eleganza, sempre disponibile, cortese, con il sorriso sulle labbra, bendisposto verso tutti… e soprattutto contento della vita di musicista. Talmente contento che queste qualità le ha trasmesse al figlio Franco, anch’egli persona e musicista di assoluto livello, al quale vanno le più sentite condoglianze mie personali e di tutta la redazione di “A proposito di jazz”… senza dimenticare la compagna di una vita che l’ha sempre sostenuto in questa innata passione.
Passione che si può ben riassumere in una frase che Dino pronunciò nel corso di un’intervista rilasciataci nel 2010: «Ti posso dire che io vivo la performance sempre allo stesso modo, e cioè, quando io vado a fare un concerto sono in uno stato… di follia. È una follia, una gioia, che diventano quasi un… un malessere, ecco». E per quei quattro o cinque che non conoscono Dino Piana, cerchiamo di riassumere in poche righe una carriera di oltre sessant’anni… Dino inizia il suo cammino nel 1959 quando si presenta al concorso radiofonico “La coppa del Jazz”, mettendosi immediatamente in luce come solista. Quindi entra nel quintetto Basso-Valdambrini e nelle orchestre radiofoniche e televisive, continuando l’attività jazzistica. Nella sua lunga carriera prende parte a numerosi festival nazionali ed internazionali fra cui: Comblain-la-Tour, Lugano, Berlino, Lubiana, Nizza… nonché a numerosi concerti per la RTF a Parigi, per la RTB a Bruxelles, per l’UER di Stoccolma, Oslo, Barcellona, Londra, Copenaghen. Ovviamente, sono  innumerevoli le collaborazioni con straordinari musicisti quali, tanto per fare qualche nome, Chet Baker, Frank Rosolino, Slide Hampton, Kenny Klarke, Charles Mingus, Pedro Iturralde, Paco de Lucia, George Coleman, Kay Winding, con il quale ha inciso il disco “Duo Bones”. Suona nelle Big Band di Thad Jones, Mel Lewis, Bob Brookmeyer. Il 12 maggio 1993  si esibisce in una reunion del sestetto “Basso-Valdambrini” alla Town Hall di New York.
Parallelamente, molti sono i dischi in cui è possibile ascoltarlo, sia come leader sia come side man; tra gli ultimi: “Reflections” a nome Dino & Franco Piana Ensemble e soprattutto “Al gir dal bughi” (il giro del Boogie) registrato nel 2019.
Ciao Dino chissà quante belle orchestre troverai lassù.

Gerlando Gatto

Life goes on Carla… ma senza la tua visione rivoluzionaria della musica niente sarà più lo stesso

  • Scrivere un ricordo di una tizia tosta qual era Carla Bley, sconfitta qualche giorno fa a 87 anni da un tumore al cervello, è tutt’altro che facile. È inimmaginabile una reductio artium di questa icona assoluta della musica contemporanea, essenza dell’improvvisazione, genio proteiforme, inarrestabile forza generatrice di pensiero.
    La sua arte è fatta di visionarietà, di intuizioni profonde e di una concezione rivoluzionaria della materia sonora.
    Il suo lascito di oltre 50 dischi, i suoi innumerevoli progetti, le sue lotte politiche sono la testimonianza della sua appassionata e diuturna ricerca di stimoli culturali, ricerca che è stata la fedele compagna di tutta la sua vita.
    Carla nasce a Oakland nel 1936. All’anagrafe è Lovella May Borg. Il padre Emil, insegnante di pianoforte, organista e maestro di coro di origini svedesi, la avvicina alla musica sin da bambina e già nell’adolescenza sente una forte attrazione per il jazz al punto che decide di trasferirsi a New York, in quegli anni la “terra promessa” per i musicisti di quel genere.
    È una ragazza molto determinata e per poter ascoltare gli amati e famosi jazzisti dell’epoca trova lavoro come cigarette girl al Birdland, storico locale jazz.
    Nel 1957 sposa il pianista canadese Paul Bley, del quale manterrà il cognome anche dopo il divorzio; la coppia si trasferisce a Los Angeles, dove Carla inizia a scrivere la sua musica, per poi ritornare a New York.
    Tre gli uomini fondamentali nella sua vita, tutti musicisti. Oltre a Paul Bley, si sposa con il trombettista e compositore austriaco Michael Mantler (padre della sua unica figlia Karen, anch’essa musicista, e con il quale fondò la Jazz Composer’s Orchestra) e infine con il contrabbassista Steve Swallow, sempre al suo fianco, dal 1991.
    Lei, in merito ai suoi uomini, ha dichiarato in un’intervista: «Non mi sono fatta indirizzare dagli uomini che amavo e con cui ho vissuto, ma ho imparato dai musicisti con cui ho collaborato».
    Una donna emancipata, forte, indipendente e intelligente, che ha sempre vissuto in modo anticonvenzionale. Io amo questa donna, di un amore che va ben oltre la musica… per quello che è stata, per quanto ci ha dato.

Non posso dunque che partire dalla sua monumentale opera prima, “Escalator Over the Hill” (EOTH) del 1971.
C’è tutta l’universalità della sua arte in questo triplo vinile: poesia, teatro, jazz soprattutto, ma anche pop, progressive coevo, elettronica, sonorità indiane…
Carla scrisse le musiche e il poeta Paul Haines i testi; il disco fu realizzato con la supervisione di Michael Mantler. Oltre cinquanta musicisti hanno collaborato a questo lavoro; vi figurano artisti quali Don Cherry, Paul Motian, Gato Barbieri, Enrico Rava (che la ricorda così nel suo libro  “Incontri con Musicisti Straordinari”: «Carla dirigeva l’orchestra. Era difficilissimo concentrarsi sulla musica perché Carla era veramente bellissima a quei tempi»), Roswell Rudd, Charlie Haden, John McLaughlin ma anche Sheila Jordan, Don Preston (ex Mothers of Invention di Frank Zappa), Jack Bruce dei Cream…
a Chronotransduction by Carla Bley and Paul Haines, così sottotitolarono il loro lavoro.
Un album incredibile, che richiese tre anni di lavoro e che inizia con “Hotel Ouverture”, dove l’assolo fuori tempo del sax tenore di Gato Barbieri è un urlo di una bellezza lancinante, quasi intollerabile…
Come lo è tutta la musica di Carla Bley.
Mentre è alle prese con la registrazione di EOTH, nel 1969 Bley mette la sua feconda vena compositiva al servizio del suo appassionato impegno politico, che sgorga fluentemente da ogni singola nota nello storico album “Charlie Haden, Liberation Music Orchestra”. Lo ricordate? In copertina c’erano tutti i musicisti, immortalati in uno scatto  immediatamente rivelatore della militanza politica, mentre reggevano uno striscione, come se stessero partecipando ad una delle tante manifestazione dell’epoca.
Oltre alle composizioni originali – tra le quali “Song for Che”, scritta da Haden e Coleman dopo la morte di Che Guevara, di cui Ornette registrò una prima e indimenticabile versione –  e le antiwar songs, nell’album sono inseriti anche alcuni canti di lotta del folklore iberico. Bley ne cura gli arrangiamenti che evidenziano la sua notevole capacità di accostare diversi generi musicali.

Carla Bley e Charlie Haden

Da appassionata dei Weather Report e soprattutto del bassista Jaco Pastorius, non posso esimermi dal ricordare che lei compose cinque brani per “Jaco”, disco registrato live per l’etichetta di Paul Bley nel 1974, con lo stesso Paul al pianoforte elettrico, Pat Metheny alla chitarra, Bruce Ditmas alla batteria. Un album che è uno scrigno di preziose improvvisazioni e composizioni avant e free jazz, dove la “mano” di Carla è inconfondibile.
Come dicevo all’inizio, non è possibile far stare tutta la discografia e i progetti di Carla Bley in questo spazio. Concludo quindi con “Life Goes On”, album ECM del 2020, la sua ultima incisione… un drumless trio con Steve Swallow al basso elettrico e Andy Sheppard al sax tenore e soprano, che ha ispirato anche il titolo di questo ricordo.

Carla Bley, Steve Swallow, Andy Sheppard

Il vinile, si articola in tre suite e la magia inizia con il brano che dà il titolo all’LP, dove il pianoforte avanza lento, sulle note basse, in una sinuosa trenodia blues ed apre la strada alla essenziale ma non meno sorprendente linea di basso, sulla quale s’inserisce il sax di Sheppard. Struggente e languido. «Volevo scrivere un blues semplice, ma non è venuto semplice – spiega Bley in un’intervista – È diventato più complicato man mano che andava avanti… come la vita». Già. Esattamente come la vita, sempre in salita…
La politica entra anche in questo lavoro, con la suite “Beautiful Telephones”,  una sorta di satira in musica liberamente ispirata all’allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e ai suoi primi commenti sull’arredamento dello Studio Ovale… sui suoi “bei telefoni” in primis!

In alcune parti, si individuano rimandi a melodie patriottiche americane, a Chopin e persino a “My Way”. Un’altra illuminante prova del suo eclettismo.
La terza e sicuramente più affascinante suite è Copycat, dove il perfetto interplay dei tre musicisti, dato dalla profonda conoscenza reciproca, permette loro di lasciarsi andare e di esprimersi in una geniale e riuscitissima ricerca della melodia perfetta.
Steve Swallow, l’amore della sua vita, che la chiamava affettuosamente “Bleythoven” disse: «È così sfuggente e in continua evoluzione. Tuttavia, è la mia eroina, e mi fermo qui».
Le sue cifre distintive, sono state proprio l’insondabilità, la sfuggevolezza, la sua ineguagliabile identità. La sua forza risiedeva nella sua inesauribile creatività; Steve Swallow l’aveva capito, tanto da paragonarla ad un’eroina, poetica, irriducibile, animata dalle passioni, all’ennesima potenza.

Carla Bley, Steve Swallow – ph: Antonio Baiano

Una geniale eroina moderna, bellissima, con quel caschetto biondo scarmigliato, che ha saputo sfidare le imposizioni e le convenzioni, che non si è piegata mai.
«Il pendolo del mondo è il cuore di Antigone», scriveva Marguerite Yourcenar in conclusione dello splendido racconto “Antigone o la scelta”.
Antigone, Carla… eroine di epoche diverse.
E come Steve Swallow, mi fermo qui.

Marina Tuni

Il jazz italiano non sarà più lo stesso senza Adriano Mazzoletti

Questa volta la notizia non è giunta inattesa. Qualche settimana fa un caro amico mi aveva telefonato da Milano annunciandomi che Adriano stava molto male. Poi, il giorno prima del decesso, Anna Maria Pivato mi ha mandato un breve messaggio dicendomi le stesse cose. La mattina di ieri un brevissimo post di Guido Michelone ci informava della dipartita di Adriano Mazzoletti.
Il fatto, come dicevo in apertura, che la notizia non sia giunta inattesa, non significa che non sia stata egualmente sconvolgente dal momento che conoscevo Adriano da circa 50 anni e avevo avuto con lui un rapporto di lavoro e poi di amicizia.
In queste ore molto è stato scritto sulla figura di questo personaggio, un uomo che aveva fatto della passione per il jazz una ragione di vita (senza per questo trascurare l’amata moglie Anna Maria), un uomo che si era affermato nel panorama internazionale come uno dei massimi esperti di musica jazz, soprattutto quella italiana, un uomo che aveva portato la RAI ad essere considerata una delle migliori emittenti pubbliche in materia di jazz. Peccato che andato lui in pensione, la RAI non sia riuscita in alcun modo a far rivivere il suo lascito abbandonando del tutto il Jazz e riducendo la propria presenza in campo musicale a livelli davvero infimi. E a quanto mi risulta, almeno fino al momento in cui scrivo queste note, nessun telegiornale si è occupato della morte di Adriano, al contrario della carta stampata e della rete.

Insomma, grazie anche a tutti questi contributi, anche chi nulla sapeva di Adriano si sarà fatta un’idea abbastanza precisa di chi fosse Mazzoletti: ricordo perfettamente che quando viaggiavo all’estero e incontravo qualche musicista, organizzatore, press-agent del mondo del jazz non c’era alcuno che non conoscesse, almeno di nome, Mazzoletti.
Ciò detto piuttosto che ripercorrere le innumerevoli tappe della prestigiosa carriera di Adriano, già illustrate da altri, preferisco incentrare questo mio ricordo per l’appunto sui miei ricordi personali, sulle molte vicende che a lui mi hanno legato nel corso degli anni. Insomma vorrei parlare di Adriano anche come uomo e non solo  come personaggio pubblico dal momento che anche come uomo ho avuto la fortuna di conoscerlo abbastanza da vicino e di volergli bene.
Io ho sempre sostenuto che nella vita nulla si fa se non si è in qualche modo, aiutati, accompagnati. Ecco, Adriano per me ha rappresentato il raggiungimento di un sogno.
Erano i primi anni ’70 ed io collaboravo con il GR3 come notista sindacale ma avevo nel cuore e nella mente il desiderio di conoscere Adriano Mazzoletti e di poter lavorare con lui. Confessai questo desiderio ad un collega della redazione che mi promise di fare qualcosa. Così qualche giorno dopo mi fissò un appuntamento con Mazzoletti il quale, dopo una mezz’oretta di colloquio, mi invitò a portargli qualche scritto in modo da poter valutare la mia preparazione. Non fu un colloquio facile: Adriano sapeva essere particolarmente duro ma anche particolarmente dolce e comprensivo; comunque la settimana dopo gli portai alcuni scritti e con mia grande sorpresa mi disse che sì, potevamo tentare. Mi chiese quale fosse un personaggio che io amavo particolarmente e mi invitò a studiare una puntata sull’argomento che avremmo presentato in diretta qualche sera dopo. Ricordo perfettamente che ero emozionatissimo; quando arrivò la sera prestabilita, lui mi disse che sarebbe venuto con me in studio… e bene fece. Al momento di parlare, quando si spense la luce e restò solo una lampadina rossa a segnalare che eravamo in diretta e che probabilmente all’ascolto c’erano migliaia di persone, la voce venne meno; Adriano intervenne e salvò la trasmissione. Subito dopo mi incoraggiò dicendomi che mi aveva accompagnato proprio perché temeva una eventualità del genere, molto comune. Comunque non si ripeté più, io entrai nel gruppo di lavoro ristretto di Adriano e trascorsi alcuni degli anni più gratificanti, della mia vita professionalmente parlando; ebbi, infatti, occasione di ideare e condurre moltissimi programmi nell’ambito di “RadioUno Jazz” e di qui anche a RadioTre e Rai International. In quel periodo Adriano mi insegnò praticamente tutto ciò che c’era da sapere sul come condurre una trasmissione radiofonica, insegnamenti che ho ben serbato e che sono stati preziosi nel corso della mia carriera.
All’inizio degli anni ’80 un’altra straordinaria avventura: Adriano fece nascere in rapida successione le riviste “Blu Jazz”, “Jazz”, “Jazz, blues & around” in cui, spronati anche dall’indicibile entusiasmo di Anna Maria, tutti noi collaboratori trovammo lo spazio ideale per esprimere le nostre idee.
Finita anche questa impresa e andato in pensione, mai si è interrotto il rapporto con Adriano e Anna Maria: da amicizia singola si è trasformata in amicizia di famiglia e non è quindi un caso se la scomparsa di Adriano ha colpito profondamente anche mia moglie e mio figlio.
Ciao Adriano, sono sicuro che anche lì dove andrai riuscirai a organizzare qualche buon concerto. Un abbraccio sincero

Gerlando Gatto

Grande jazz al Festival di Palermo: il SJF in programma dal 23 giugno al 2 luglio

Cari amici, il team di “A Proposito di Jazz” è lieto di comunicarvi una nuova iniziativa che speriamo possa risultare di vostro interesse, la nostra inchiesta su: il Jazz in Sicilia.
L’Isola presenta, in effetti, molti aspetti paradossali ma ce n’è uno che riguarda da vicino il nostro microcosmo. Non c’è dubbio alcuno che la Sicilia sia una delle più belle terre da visitare: un clima splendido, una cucina tradizionale di grande spessore, bellezze storiche, artistiche e naturalistiche su cui non è necessario spendere ulteriori parole. A fronte di tutto ciò, la situazione lavorativa è drammatica… e non da oggi. Il nostro direttore appartiene a quella categoria di chi, alla fine degli anni ’60, fu costretto a stabilirsi a Roma per trovare soddisfacenti condizioni di lavoro.
Dal punto di vista jazzistico, oggi come ieri, la Sicilia è terra fertile di talenti: sono davvero tantissimi i jazzisti siciliani che si sono fatti onore anche al di là delle Alpi. Eppure, nonostante le difficili condizioni lavorative cui prima si faceva riferimento, molti artisti, anche dopo esperienze vissute altrove, hanno preferito ritornare alla terra d’origine per stabilirvisi definitivamente.
Ecco questa inchiesta tende a scoprire quali sono “i segreti” che hanno così fortemente condizionato moltissimi musicisti… ma anche a darvi conto di ciò che di importante accade nell’Isola. Il tutto ovviamente senza alcuna pretesa di esaustività.
Ci pare quindi opportuno iniziare questa avventura presentando la terza edizione del Sicilia Jazz Festival che si terrà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio.
Seguirà una vasta serie di ritratti, recensioni discografiche, interviste che abbiamo condotto su larga scala avvicinando molti musicisti che abitano in Sicilia senza però trascurare quanti, e sono una minoranza, hanno fatto una scelta diversa.
Buona lettura! (Marina Tuni, redazione APdJ)
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Si svolgerà a Palermo dal 23 giugno al 2 luglio la terza edizione del Sicilia Jazz Festival, promosso ed organizzato dalla Regione Siciliana – Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo, frutto della collaborazione con il Comune e l’Università degli Studi di Palermo, la Fondazione the Brass Group e i Conservatori di Musica siciliani
La manifestazione sembra avere tutte le carte in regola per bissare il successo degli anni scorsi; in effetti, come abbiamo spesso sottolineato specie in questi ultimi tempi, un Festival Jazz a nostro avviso si giustifica solo se in strettissima relazione con il territorio nel cui ambito insiste. Insomma non solo musica ma anche valorizzazione di tutto ciò che il territorio stesso rappresenta, quindi spazio ai talenti locali, forti richiami alle tradizioni culturali, alle testimonianze archeologiche, ai prodotti della terra e via discorrendo.
Ecco, il festival siciliano risponde appieno a questo tipo di peculiarità: per quanto concerne i talenti locali saranno presenti anche quest’anno con numerose esibizioni i dipartimenti jazz dei conservatori “Vincenzo Bellini” di Catania, “Arcangelo Corelli” di Messina, “Alessandro Scarlatti” di Palermo, “Antonio Scontrino” di Trapani, e “Arturo Toscanini” di Ribera al cui interno spiccano come special guest i nomi di Paolo Damiani e Nicky Nicolai.

Per quanto riguarda le location, anche questa terza edizione del Sicilia Jazz Festival vuole rivolgersi alla valorizzazione di luoghi particolarmente significativi per riscoprirli nella loro pienezza storica e culturale in quanto la musica è un linguaggio universale, da tutti compreso senza limiti di età e di genere, senza limiti di appartenenza e di razza. Prova ne sia l’altra importante novità di quest’anno costituita dal fatto che verranno realizzati alcuni spettacoli a Palazzo Butera, per valorizzare ancora di più le bellezze storiche e monumentali della Sicilia.
Ma tutto ciò non avrebbe senso compiuto se non fosse accompagnato da un programma musicale di sicuro livello.
Anche da questo punto di vista, il Festival non ha alcunché da invidiare ad altre situazioni grazie alla scelta oculata degli organizzatori che hanno previsto per il capoluogo siciliano un cast davvero eccellente. Ma la bontà del Festival non si gioca solo sui grandi nomi, dal momento che saranno proposti più di 100 concerti, di cui 10 produzioni orchestrali originali in scena in alcuni siti del centro storico di Palermo quali Palazzo Butera, Palazzo Chiaramonte Steri, il Complesso Monumentale Santa Maria dello Spasimo, il Real Teatro Santa Cecilia e il Teatro di Verdura di Villa Castelnuovo. Sono previste altresì 4 prime assolute di produzioni inedite appositamente commissionate.
Ma vediamo, seppure a grandi linee, cosa ci propone il SJF con specifico riferimento alle “stelle” di primaria grandezza: apertura venerdì 23 giugno allo Steri con Marcus Miller, fuori abbonamento; seguiranno, tutti al Teatro di Verdura, i concerti di Diane Schurr il 24 giugno; Bob Mintzer il 25 giugno; Gregory Porter il 26 giugno; Anastacia il 27 giugno; Al McKay – Earth Wind & Fire Experience il 28 giugno; Judith Hill il 29 giugno; Dave Holland il 30 giugno; Manuel Agnelli il 1 luglio; The Manhattan Transfer il 2 luglio.
Tutti questi concerti saranno accompagnati dall’Orchestra Jazz Siciliana diretta, volta per volta, da Carolina Bubbico, Giuseppe Vasapolli, Dave Holland, Bob Mintzer, Domenico Riina, Antonino Pedone, Gianna Fratta e Vito Giordano.
Nel corso della conferenza stampa di presentazione, sono stati presentati anche alcuni dati a significare l’importanza della manifestazione. In particolare da segnalare un incremento del 104% per gli abbonamenti realizzati con ben 955 del 2023 al 3 maggio ; ed ancora le entrate di botteghino (dati SIAE) di € 88.802,00 il primo anno, € 147.643,22 con un incremento del 66,26% il secondo anno e € 129.741,00 al 3 maggio scorso per il terzo anno; il numero complessivo degli eventi è stato di 56 nel 2021, 100 nel 2022 con un incremento del 78.57% e 107 nel 2023 con un incremento del +7 % rispetto all’anno precedente; il numero di giornate lavorative dei musicisti residenti è di 693 nel 2021, 1.118 nel 2022 con un incremento del 61.33 % e 1.365 nel 2023 con un incremento del 22.09 %; non si deve trascurare anche il numero di prime esecuzioni assolute con un incremento nel 2023 del 33,33%.
Insomma ci sono tutte le premesse affinché anche l’edizione di quest’anno sia un grande successo.

Gerlando Gatto

Lettera aperta al Presidente della RAI

Caro Presidente,

Le indirizzo questa lettera aperta ben sapendo che con tutta probabilità non la leggerà o che comunque se la caverà con una alzatina di spalle. E farà male.

Non so quali siano i suoi contatti con il pubblico degli utenti ma forse saprà che il canone, unitamente alle tasse automobilistiche, è tra i balzelli più odiati degli italiani. Per quanto riguarda la RAI i motivi di malcontento sono davvero tanti, troppi ma non pare ci sia l’intento di cambiare strada.

Comunque Le segnalo l’ultimo episodio in ordine di tempo che ha indignato me e molti di coloro che professionalmente si occupano di Musica.

Ieri, 2 marzo, è andato in onda su RaiUno un ricordo di Lelio Luttazzi. In studio, ovviamente, l’onnipresente vedova Luttazzi (seconda moglie del Maestro); peccato che i curatori del programma si siano dimenticati di invitare anche la figlia di Luzzatti, Donatella, affermata artista (vocalist e chitarrista) che porta avanti l’eredità musicale del padre oltre ad aver scritto un eccellente libro sulla figura di Lelio. Che dice, sarebbe stato il caso di sentire anche lei o qualche altro fattore ne ha vietato la partecipazione? Se così fosse sarebbe grave e credo che lo scrivente, nella duplice veste di giornalista che segue queste materie nonché di semplice abbonato RAI abbia tutto il diritto di sapere perché ancora si commettono simili cappellate (per usare un eufemismo).

In attesa di una risposta assai improbabile.

Cari e ossequiosi saluti

Gerlando Gatto

Wayne Shorter: quando si dimentica il personale per mettersi al servizio della musica

Come ricordare degnamente Wayne Shorter? Più che intervenire personalmente, ho creduto fosse opportuno rivolgermi ad un grande artista che ben conosce la musica di Wayne, uno dei più grandi sassofonisti europei della cui amicizia mi onoro oramai da qualche decennio: Maurizio Giammarco
G.G.

Accolgo con piacere l’invito dell’amico Gerlando a dire due cose su Wayne Shorter, una figura che è stata per me fondamentale sotto ogni aspetto.
M.G.

*****

Con la dipartita di Wayne Shorter se n’è andato uno degli ultimi, grandi protagonisti del Jazz “storico”: parlo di quei musicisti che seppure nati prima della seconda guerra mondiale sono stati comunque a diretto contatto con i maestri del Jazz di ogni epoca. Ne sono rimasti in vita ancora pochissimi.

Ma Wayne è stato più di un protagonista “importante” della storia del Jazz, direi piuttosto un protagonista “speciale”. Perché al di là delle sue universalmente riconosciute doti musicali Wayne è stato (o forse sarebbe meglio dire “è” ancora) una grande anima e un grande spirito. E i grandi spiriti, per nostra fortuna, rimangono. E’ in fondo questa la principale caratteristica che rende alcune figure immortali. Pensiamo ad Armstrong, Ellington o Coltrane… sono forse le loro specifiche note che ricordiamo (ben inteso… ci ricordiamo anche quelle) o non è piuttosto lo spirito che le ha ispirate e rese vitali (e continua ancora a farlo)? La statura dei musicisti citati (solo a titolo esemplare) è infatti addirittura cresciuta nel tempo, e sono sicuro che la stessa sorte toccherà anche a Shorter.

Non a caso Shorter è stato da subito talmente bravo che non ha dovuto faticare per trovare lavoro. E’ stato il lavoro a trovare lui. Una roba da far crepare d’invidia qualsiasi musicista. Ha infatti passato la prima metà della sua carriera da gregario. Un gregario di lusso, ben inteso. Dopo un periodo di tirocinio in fondo piuttosto breve entrò nei Jazz Messenger di Art Blakey (1959-64), diventandone subito direttore musicale e scrivendo per questo gruppo un notevole numero di brani. Dal ’64 al ’69 è con Miles Davis, nel quintetto di Jazz forse più importante della seconda metà degli anni sessanta, e i brani che porta al gruppo segnano un ulteriore sviluppo del suo stile compositivo. Partecipa alla “svolta elettrica” ma anche “free oriented” del suo leader. Dopo una breve pausa fonda i Weather Report con Zawinul e Vitous, un gruppo che ha monopolizzato le sue energie dal 1972 al 1985. L’ultimo gruppo di Jazz che è riuscito a riempire i Palasport, come successe in un memorabile concerto a Roma che non dimenticherò mai. Pur avendo registrato dischi a suo nome fin dal 1958 è solo con la chiusura dei Weather che Shorter, cinquantenne, intraprende una carriera concertistica in proprio. Nella seconda metà degli anni Ottanta escono i suoi dischi per la Columbia, che documentano un’ulteriore svolta estetica (in cui le nuove sonorità, anche elettriche, della musica jazz-rock-fusion sono dirette con un approccio registico di natura colto-classica), e infine la conclusione col suo fantastico quartetto degli ultimi anni, coronazione finale, sintesi suprema di tutto il suo passato estetico-musicale, insieme ad alcuni lavori per grande organico. Ma andare nel dettaglio ci porterebbe ora troppo lontano: troppo ci sarebbe da dire.

Al pari di tutti i musicisti della mia generazione, abbiamo seguito in tempo reale tutti gli sviluppi della musica di Shorter, e per tutti noi è stata una lezione continua. Il suo stile sassofonistico è stato semplicemente inimitabile, anche perché basato fondamentalmente sulle soluzioni super-sorprendenti della sua mente compositiva (nel suo caso più che mai va sostituito il termine improvvisazione con quello di composizione estemporanea). L’unica lezione che puoi trarre dallo stile sassofonistico di Shorter è: impara tutto e lavora d’ingegno (…se ce l’hai…) e suona quello che meno ci si aspetta! Punto.

Un discorso diverso riguarda l’aspetto compositivo. Studiare, capire, imparare, fagocitare e digerire la musica di Shorter è semplicemente indispensabile per chiunque voglia approfondire seriamente il Jazz composto, o concepito o realizzato, nel secondo dopoguerra. Le sue composizioni hanno esplorato ogni aspetto strutturale e ogni paradigma formale del possibile mantenendo al contempo un’impronta stilistica inconfondibile. Un’impronta basata su alcune costanti fondamentali: melodie semplici (cantabili) spesso di matrice pentatonica (il blues) e generalmente prive dei classici stilemi sincopati del be-bop; stesse note melodiche che cambiano prospettiva rispetto all’armonia che cambia sotto di esse: tessuti armonici di essenza modale che si muovono per gradi spesso cromatici o congiunti in modo originale sfruttando le cadenze classiche solo al momento opportuno e il minimo indispensabile; uso del ritmo come fattore jolly sia nella composizione delle melodie che nell’invenzione di riff (l’Africa che ogni tanto fa capolino).

Questa (semplice?) miscela ha prodotto melodie indimenticabili, venate da un perenne senso di nostalgia e da tinte di un’essenza di blues distillata e sublimata all’estremo (come aveva cominciato a fare già Ellington).

Da temi diventati classici a esperienze free Shorter ha esplorato di tutto, in una evoluzione continua anti-manieristica che ha ereditato, o più probabilmente semplicemente condiviso, con Miles.

Per chi come me, ma come tanti altri specialmente europei, la composizione ha rappresentato un mezzo fondamentale per trovare una propria dimensione musicale, la lezione di Shorter è stata di influenza assolutamente primaria.

Ma c’è un aspetto che mi preme ora sottolineare. Dal periodo dei Weather in poi Wayne è stato molto poco interessato a produrre dei veri e propri assolo secondo i parametri convenzionali del mainstream. E’ stato viceversa interessato a una musica collettiva (una caratteristica che era del Jazz dei nonni), in cui i contributi individuali emergono solo se ritenuti necessari alla musica che si sta collettivamente costruendo. Ecco allora che due semplici note di Shorter, messe al punto giusto e con l’intenzione e il suono giusto, valgono come e forse di più di un intero solo. Gesti sonori di uno spirito che cerca di emergere nel frastuono assordante di un mondo mediatico gestito da mezzi di distrazione di massa, un frastuono che rende questo momento storico una barzelletta di pessimo gusto. Un frastuono che ritiene la notizia della scomparsa di una grande anima come la sua non così importante per il telegiornale che ho appena finito di vedere qualche attimo fa.

E’ dunque paradossale che la statura di un musicista cresca ancora di più nel momento in cui questo musicista cerca di trovare la sua vera dimensione nel tutto. Nel momento in cui, in vera e propria pratica, dimentica il personale per mettersi al servizio della musica e basta. Ora Wayne si è definitivamente ricongiunto al tutto, un momento in cui la sua pratica spirituale buddista lo aveva probabilmente ben preparato. E anche in questo abbiamo tutto da imparare.

Maurizio Giammarco