Le recensioni di Gerlando Gatto

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UNO SGUARDO ALL’ESTERO

Wolfert Brederode – “Ruins and Remains” – ECM
Questa suite per pianoforte, quartetto d’archi e percussioni, ha un preciso significato storico in quanto è stata composta da Wolfert Brederode nel 2018, in occasione del centenario della fine della Prima Guerra Mondiale. Da quell’anno al 2021 quando la suite è stata registrata dal pianista Wolfert Brederode coadiuvato dal percussionista Joost Lijbart e dal gruppo d’archi olandese Matangi Quartet la composizione ha visto alcuni cambiamenti grazie alla stretta collaborazioni fra i musicisti. In effetti Brederode aveva avuto in passato occasione di collaborare sia con il Matangi Quartet sia con il percussionista presente nei suoi gruppi sin dal 2004. Lijbart è un esponente del “nuovo” jazz caratterizzato da una profonda e radicale improvvisazione ed è riuscito a portare questa cifra stilistica all’interno di composizioni che, pur privilegiando una certa ricerca melodica, non disdegnano di riservare spazi significativi all’improvvisazione. E, ad avviso di chi scrive, il pregio maggiore dell’album – e probabilmente del leader – è quello di aver saputo dare alla musica un’anima che riesce assai bene a coniugare l’espressività del pianoforte con il sound del quartetto e le capacità improvvisative di Lijbart. Ancora una volta, come fa rilevare Maria-Paula Majoor, componente del Matangi Quartet, fondamentale è risultato in sala di incisione il ruolo di Manfred Eicher, produttore nonché fondatore nel 1969 della ECM, il quale ha spinto sempre i musicisti a rimodellare la musica di modo che la transizione tra le parti improvvisate e quelle scritte fosse quasi impercettibile.

Ali Gaggl – “A Piece of Art” – ATS
Nonostante l’Austria abbia dato i natali a due grandissimi musicisti quali Joe Zawinul e Friedrich Gulda, negli ultimi anni poco conosciamo di quel che accade in quel Paese. Ben venga, quindi, l’ATS che ci presenta alcuni musicisti austriaci. Questo “A Piece Of Art” è l’ultimo album della vocalist e compositrice Ali Gaggl, vero nome Alberta Gaggl, nata il 15 Ottobre 1959 a Klagenfurt. Musicista a 360 gradi (ha studiato jazz e musica popolare al Conservatorio della città natale, specializzandosi in canto e in pianoforte oltre ad aver avviato una rilevante carriera didattica insegnando canto al Conservatorio di Trieste, alla Bruckner University di Linz e alla Summer Academy del Castello di Viktring) la Gaggl si è fatta ascoltare sia in Europa sia in Canada collaborando spesso con Kenny Wheeler e la Upper Austrian Jazz Orchestra. In quest’ultimo album, la Gaggl ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra i quali il sassofonista Wolfgang Puschnig, la Upper Austrian Jazz Orchestra – UAJO e il quartetto d’archi Koehne; in programma un repertorio assai variegato in cui accanto a sue composizioni, figurano standard come “In a Sentimental Mood” (accompagnata dal quartetto d’archi) e “God Bless The Child” con l’UAJO, forse il brano meno riuscito. Il clima che si respira ascoltando per intero l’album è quello di un solido mainstream sostenuto dall’abilità di tutti i protagonisti e specialmente della vocalist che appare perfettamente in linea sia quando è accompagnata dal solo trio di pianoforte (“Stund Up”), sia che canti con l’orchestra, sia che interpreti brani più leggeri (“C’est ci bon”), sia che si trovi immersa in un contesto ritmico più marcato come nei casi della title track e di “African Child” uno dei brani più originali dell’intero album.

Sverre Gjørvad – “Here Comes the Sun” – Losen
È con vero piacere che presentiamo al pubblico italiano questo batterista norvegese in Italia sostanzialmente ancora sconosciuto, nonostante non sia più giovanissimo (classe 1966). Il musicista di Stathelle, cittadina nel comune di Bamble nella contea di Vestfold og Telemark, viceversa è ben noto in patria avendo collaborato con alcuni musicisti di rilievo come Live Maria Roggen, Ståle Storløkken, Mats Eilertsen e Nils-Olav Johansen. In questa nuova registrazione si ripresenta alla testa del suo gruppo storico completato da Herborg Rundberg piano, Dag Okstad basso, Kristian Svalestad Olstad chitarra cui si aggiunge Eirik Hegdal ai sax nel brano che conclude l’album, “Voi River”. Questo “Here Comes the Sun” chiude un ciclo di quattro CD dedicati alle quattro stagioni, registrati sempre con i medesimi musicisti. La stagione cui si riferisce questa volta è la primavera ed in effetti la musica rispecchia abbastanza bene il clima che si respira da quelle parti a partire da marzo, aprile. E questo è un discorso difficile da capire per chi non sia mai vissuto nel Nord Europa e non sia stato testimone di quello straordinario risveglio della natura che si registra in quel periodo. Così la musica del gruppo è vivace, sostenuta da un buon ritmo, con pianista e chitarrista in primo piano a supportare le concezioni del leader che si rispecchia appieno, anche come compositore, in tutte e trenta le composizioni attraverso cui sono declinati i quattro album di cui in precedenza.

Rolf Kristensen – “Invitation” – Losen
Eccellente chitarrista norvegese, nato a Kristiansand, nel 1961, ha già ottenuto in patria numerosi riconoscimenti di pubblico e di critica soprattutto come solista del gruppo Secret Garden. In questa nuova fatica discografica, Rolf ha chiamato accanto a sé molti musicisti tra cui alcuni vocalist da lui ritenuti tra i migliori del momento in Norvegia (Torun Eriksen, Hilde Hefte , Kari Iveland e Hilde Norbakken) e un altro celebre chitarrista Allen Hinds (The Crusaders, Roberta Flack, Randy Crawford, Natalie Cole)il quale, trovandosi in città durante la registrazione dell’album, accettò volentieri l’invito del leader ad unirsi al gruppo per incidere il classico di Corea “Crystal Silence” Per il resto il repertorio è di quelli che fanno tremare le vene ai polsi dal momento che si tratta di brani tutti tratti dal “Great American Songbook”. Ecco quindi uno dopo l’altro alcuni classici come “Blue in Green”, la title track…per chiudere con il già citato “Crystal Silence”. Si tratta, in buona sostanza, di una sfida che Rolf ha espressamente dichiarato di voler affrontare proprio per evidenziare in che modo la sua preparazione soprattutto la sua personalità gli consentono di affrontare questi brani apportando qualcosa di personale. Obiettivo raggiunto? Difficile dirlo…nel senso che sicuramente Kristensen interpreta assai bene tutti i brani, un po’ più difficile affermare che vi apporti qualcosa di veramente nuovo.

Maja Jaku – “Soul Searching” – ATS
Maja Jaku giunta al suo quarto album da leader, ha tutte le carte in regola per affermarsi nel pur vasto panorama del jazz europeo. Può innanzitutto vantare una solida preparazione di base avendo studiato, tra gli altri, con
Sheila Jordan, Mark Murphy, Jay Clayton e Andy Bey e nel suo curriculum figura la prestigiosa collaborazione con la band fusion di Gerd Schuller “Attack”. Questo nuovo album, creato tra San Diego e Vienna, si intitola significativamente “Soul Searching” ad indicare la precisa volontà della vocalist di rifarsi alle atmosfere tipiche della Blue Note anni ’70 declinando un repertorio abbastanza variegato. Principale responsabile il compositore e trombonista Dave Scott che ha scritto 3 composizioni mentre il trombettista americano Jim Rotondi ha contribuito agli arrangiamenti degli ottoni e due composizioni sono state co-scritte dalla stessa Maja Jaku. Il gruppo è completato da Sasa Mutic piano, Dusan Simovic basso e Joris Dudli batteria.
Per chi ama questo tipo di jazz l’album risulterà sicuramente interessante; per tutti gli altri detto che la Jaku ha molte carte da giocare, in alcuni passaggi si nota una qualche incertezza, una non perfetta padronanza della materia musicale che si può spiegare con la giovane età nella consapevolezza che in un futuro non lontano le cose non potranno che migliorare. Tra gli otto brani in programma particolarmente interessante “Be Real” mentre in “God Bless The Child” si apprezza una bella intro del trombettista Jim Rotondi. Un’ultima notazione: vi abbiamo presentato due vocalist austriache e ambedue hanno messo in repertorio quest’ultimo brano, scelta che non comprendiamo appieno data la difficoltà di interpretare al meglio una partitura entrata oramai nell’immaginario collettivo.

Keith Jarrett – “Bordeaux Concert” – ECM
Ascoltando album come questo si riaccende il rammarico per l’impossibilità di ascoltare nuove imprese di colui che a ben ragione può essere considerato uno dei massimi pianisti del secolo scorso. Questa volta Jarrett viene ripreso durante un concerto svoltosi all’Auditorium dell’Opera National di Bordeaux il 6 luglio del 2016, nell’ambito di quel tour europeo che aveva portato l’artista ad esibirsi, tra l’altro, a Budapest, Vienna e Monaco. Venendo a quest’ultimo album, dobbiamo confessare che recensirlo è impresa davvero ardua in quanto su Jarrett molto, moltissimo è stato scritto e “Bordeaux Concert” non fa altro che ribadire tutto ciò che già si conosceva. Vale a dire un artista straordinario sotto le cui dita il pianoforte assurge a vertici difficilmente raggiungibili. Jarrett suona con straordinaria lucidità e quindi con pieno controllo della materia sonora che si sviluppa seguendo una logica ben precisa, non ardua da individuare specialmente per chi ben conosce Jarrett. Ecco quindi la sua capacità di suonare frasi già conosciute ma in modo totalmente nuovo grazie soprattutto alla costante ricerca di nuove cellule melodiche. Quindi non è certo un caso che la stampa internazionale abbia accolto l’album con grande rilievo sottolineando a più riprese sia il carattere intimistico della musica sia la bellezza delle parti estese che si collocano in una dimensione altra lontana dallo spazio e dal tempo. Da sottolineare come l’album è declinato attraverso tredici parti senza titolo ma numerate con cifre romane, parti che si allacciano perfettamente l’una all’altra pur nella diversità d’ispirazione sì da costituire un lungo straordinario, entusiasmante e commovente discorso sonoro.

Jean-Charles Richard – “L’ètoffe des reves” – La Buissonne
Come l’album “Canto” più sopra recensito, anche questa nuova produzione del sopranista e baritonista Jean-Charles Richard può definirsi ‘jazz da camera’, ove con tale definizione si intenda riferirsi ad una musica organicamente costruita con pochi mezzi e soprattutto scritta con sobrietà ed eleganza. Oltre al sassofonista nell’album è possibile ascoltare il pianista Marc Copland, la vocalist Claudia Solal e il violoncellista Vincent Segal. E a nostro avviso è proprio Copland, unitamente al leader, a conferire una precisa cifra stilistica all’intero album declinato attraverso undici composizioni. I due dialogano sempre con empatia disegnando atmosfere che sembrano collocarsi al di fuori del tempo e dello spazio, una dimensione in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono; si ascolti, ad esempio “Giverny” o “Desquartes”… anche se in realtà queste caratteristiche si evidenziano in tutte le esecuzioni. Eccellente anche la prestazione della vocalist Claudia Solal moglie del sassofonista e figlia del celebre Martial; Claudia interpreta con pertinenza “Ophélie Death” (in cui si mette in musica i versi dell’Amleto) e la “Title track” (con testo tratto dalla Tempesta shakespeariana) ambedue porte in inglese e “Ophélie” (con versi di Rimbaud) cantata viceversa in francese.
Ma questi rimandi alla letteratura attraversano un po’ tutto l’album così come i richiami a musicisti di altre epoche quali Olivier Messiaen, Igor Stravinsky, Claude Debussy. L’album si chiude con “Weeping Brook” un pezzo di bravura del leader al sax baritono.

Steve Tibbets – “Hellbound Train: An Anthology” – ECM 2CD
Le antologie non figurano in cima alle nostre preferenze…a meno che non si tratti di qualcosa di particolare. Ed è proprio questo il caso dal momento che si tratta di un tributo riservato ad un artista tanto originale quanto riservato. Molti anni sono passati da quel lontano 1977 quando Steve pubblicò il suo primo album ma l’artista ha sempre tenuto fede a quelle che sin dall’inizio sono state le direttrici su cui ha impostato la propria ricerca: i continui riferimenti etnici, impiego di una strumentazione del tutto particolare ivi compresi i nastri magnetici, l’alternarsi di momenti estatici ad altri molto più terreni. In repertorio 28 brani tratti dagli album che l’artista ha realizzato per l’ECM in un lungo lasso di tempo. Ovviamente molti i musicisti che si ascoltano accanto al polistrumentista leader, ma la musica ruota sostanzialmente intorno a Steve che suona la chitarra, il dobro (o chitarra resofonica), la kalimba e le percussioni. Due le notazioni che si possono fare per rendere più agevole l’ascolto: la sequenza dei brani non è cronologica e i brani scelti rispecchiano assai bene la multiforme personalità del leader. Molti sarebbero i brani da segnalare all’attenzione del lettore, ma andremmo ben oltre i limiti che riserviamo ad ogni recensione per cui basti sottolineare come i curatori sono riusciti a tracciare un ritratto esaustivo dell’artista.

DUE NOTE DI CLASSICA

Margherita Porfido – “Da Gesualdo a Piccinni – Musicisti del Sud Italia dal 1500 al 1700) DiG 2 CD
Margherita Porfido – “Margherita’s Miniatures” – DiG
In questi due album, editi da DiG (Digressione) abbiamo l’opportunità di ascoltare e ammirare una delle più complete clavicembaliste italiane. Nata ad Altamura, Margherita Porfido comincia a studiare musica sin da giovanissima diplomandosi in pianoforte e clavicembalo. A partire dal 1983 si dedica completamente allo studio del clavicembalo soprattutto con riferimento alla musica Rinascimentale-Barocca ed a quella contemporanea, prediligendo il repertorio solistico e di solista con orchestra.
Nel primo album, “Da Gesualdo a Piccinni”, impreziosito da un esauriente libretto vergato da Alessandro Zignani, scrittore, musicologo e germanista di grande spessore, possiamo ascoltare una serie di brani che risultano assolutamente indispensabili per capire a fondo la musica tra ‘500 e ‘700 del meridione d’Italia. Il repertorio, infatti, comprende tra l’altro la “Canzon francese del principe” di Gesualdo Da Venosa, la “Salve Regina” di Rodio, composizioni di Giovanni Salvatore, Giovanni Maria Trabaci, i balli e le danze di Antonio Valente e Bernardo Storace, fino alle “Tre Sonate e Una Toccata” di Niccolò Piccinni. In buona sostanza si tratta di uno straordinario viaggio attraverso le note che ci conduce alla scoperta, o forse sarebbe meglio dire alla riscoperta, di autori purtroppo non particolarmente eseguiti ma che risultano fondamentali per lo sviluppo della musica colta nel nostro Paese.
Diverso il secondo CD, “Margherita’s Miniatures”, in cui la clavicembalista affronta un repertorio variegato, molto diverso dal precedente, con autori non accademici, e con l’ausilio di un artista proveniente da altri ambiti quali Pino Minafra alla tromba e al didgeridoo. Ad onta di queste discrepanze, l’album mantiene una sua ben precisa unità di fondo data dal clavicembalo della Porfido che riesce ad interpretare tutte le partiture con maestria dimostrando come anche uno strumento oggettivamente “antico” possa misurarsi con linguaggi moderni. Ecco quindi che si parte con le “Danze popolari romene di Béla Bartok per approdare a “Les fastes de la grande et ancienne MXNXSTRXNDXSX” di François Couperin, in cui si ascolta il jazzista Pino Minafra al didgeridoo. In mezzo ancora un autore classico come Erik Satie ma soprattutto esponenti della musica moderna quali Eugenio Colombo, Fred Van Hopve, Keith Tippett, Livio Minafra, Michel Godard, Daniel Pinkham, Nino Rota e Gianluigi Trovesi. Ed è proprio al confronto con questi ultimi che si manifesta in tutta la sua bravura la Porfido che riesce ad adattare il suo strumento alle necessità espressive dei vari brani senza che gli stessi perdano un’oncia dell’originario fascino. Particolarmente suggestivo “Romeo e Giulietta” di Nino Rota anche per la presenza di Pino Minafra alla tromba, musicista che, come sottolinea Ugo Sbisà nelle note che accompagnano l’album, proprio in veste di trombettista si fa desiderare oramai da lunga, troppo lunga, pezza

Valentin Silvestrov – Maidan – ECM
Il significato di questo album va ben al di là del fatto squisitamente musicale in quanto si inserisce a pieno titolo nella più drammatica vicenda che il mondo sta vivendo dopo la Seconda guerra mondiale. Valentin Silvestrov, nato nel 1937 a Kyiv, è considerato il compositore più significativo in Ucraina e queste registrazioni, effettuate nel 2016 dal Kyiv Chamber Choir diretto da Mykola Hobodych, durante un concerto tenuto presso la cattedrale di San Michele, nella capitale ucraina, ne sono la palese testimonianza. La sua è una musica sobria, riflessiva, che rispecchia perfettamente l’anima di un popolo nel tentativo perfettamente riuscito di coniugare le cose semplici della vita con il senso più profondo della bellezza del mondo e degli umani sentimenti. In tal senso Silvestrov è sempre rimasto una sorta di cronista in musica della storia della sua terra. Ed è proprio in questo senso che l’album assume quella valenza di cui in apertura. In effetti il compositore, dopo i moti ucraini del 2004 (noti come la Rivoluzione arancione) e le proteste di Maidan (Majdan Nezaležnosti – Piazza Indipendenza, la piazza centrale di Kiev capitale dell’Ucraina) contro l’influenza russa nel 2014, si è rivolto più apertamente a temi politici e religiosi. Di qui una serie di pezzi raccolti sotto l’insegna “Maidan-2014”, per coro a cappella. (Il suo tredicesimo movimento è la “Preghiera per l’Ucraina”). Adesso la situazione per Silvestrov si è fatta davvero pesante: poco dopo l’invasione russa dell’Ucraina, ha dovuto lasciare la sua città natale e vive a Berlino da allora. Parallelamente dopo l’inizio della guerra, la musica di Silvestrov viene eseguita spesso al di fuori dell’Ucraina ottenendo sempre grandi successi di pubblico e di critica e portando la fama dell’autore a vertici mai raggiunti in precedenza. Dal punto di vista squisitamente artistico, la musica si fa apprezzare particolarmente per come riesce ad esprimere atmosfere assai diverse transitando da momenti corali maestosi ad altri in cui sembra prevalere una sensazione di dolorosa partecipazione, ad altri ancora in cui si avverte una grande dolcezza. Di qui anche le diverse strutture del coro che ora si avvale solo di alcune sezioni, ora interviene per intero nella sua maestosità, altre volte ancora si affida ad alcune voci soliste. Insomma, un piccolo capolavoro che va ascoltato con il massimo rispetto.

Gerlando Gatto

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