A CASA DI MONSIEUR SAX

  • Sax and the city

Il sax fu costruito nel 1840 dal belga Antoine-Joseph (meglio conosciuto come Adolphe) Sax. L’inventore era nato nel 1814 a Dinant, nella provincia vallona di Namur, località nativa del filosofo Davide di Dinant dove oggi sorge la preziosa Maison de Monsieur Sax (il museo, qui ritratto nelle foto di Franco Cozza, è sorto nella sua casa natale) manco a dirlo in rue Adolphe Sax.  La città, non lontana dall’abbazia di Leffe, racconta visivamente del proprio figlio illustre anche attraverso i megasassofoni installati sul ponte sul fiume Mosa. Degne iniziative per un personaggio che merita nei dizionari musicali una nota biografica a sé stante e che ad oggi conta una bibliografia notevole (ad es. cfr. DEUMM, Utet, 1984, Il Lessico IV, sub voce, e quanto a sitografia cfr. theoperaticsaxophone.com, note sub voce).  Sax, ancora giovane, si era trasferito a Bruxelles per studiarvi flauto e clarinetto e per seguire l’attività paterna di costruttore di strumenti.  Portatosi poi a Parigi, vi aveva brevettato l’invenzione del sax, partecipando all’ Esposizione del 1844 (alcune fonti sottolineano la presentazione ufficiale dello strumento alla Expo Universale del 1855). Si era agli albori di quello che, nel volume “Le sax” del 1955, M. Perrin definisce “Période Stagnante”, durato fino al conflitto del 1915/18, caratterizzato da una diffusione del sax in più ambienti militari.  Dopo l’iniziale “presa in carico” del sax dall’esercito francese Sax si era applicato nel perfezionare e ideare altri strumenti come il saxhorn, vicino al flicorno. In Italia la sua prima apparizione avveniva a Firenze, nel 1848, ad opera del clarinettista Giovanni Bimboni. Nel 1857 Sax era nominato professore di saxofono al Gymnase Musical di Parigi. Nonostante i numerosi riconoscimenti ottenuti, la sua attività avrebbe chiuso i battenti dopo varie vicissitudini anche causategli da concorrenti.  La sua morte, nella Ville Lumière, è datata 1894.

  • Dal “fronte” militare al versante classico.

Si diceva di un’epoca di fortune non fluenti per il saxofono. Peraltro, anche se associato alla musica di fanteria, la sua bella “pasta sonora” aveva incuriosito Rossini ed era stato “attenzionata” da Halèvy (Teatro all’Opèra di Parigi, 1852), Meyerbeer, Donizetti. Altrettanto avevano fatto autori classici come Kastner (varie trascrizioni di brani sinfonici e operistici) e Berlioz, suo ardente sostenitore (si veda il “Traitè d’instrumentation”) nonché Massenet, Delibes, Chabrier.
Oltre all’Europa, per quanto riguarda gli U.S.A., sul finire dell’800 lo strumento registrava un analogo utilizzo a livello bandistico militare. E’ il caso delle orchestre di fiati di John Philip Sousa e di Patrick Gilmore con le quali suonò Edward Abraham Lefebvre (1835-1911), “il Paganini del sassofono” (cfr.saxforum.it/I pionieri del sax). “Decisiva sarà l’azione dell’americana Elise Hall: a partire dal 1900 questa sassofonista e mecenate impone lo strumento negli Stati Uniti, commissionando partiture in particolare a Debussy, Caplet, Schmitt, d’Indy, Gaubert e Hurè” (cfr.  Bru Zane Mediabase.com, Risorse digitali sulla musica romantica francese, Il sassofono dal 1842 agli inizi del novecento).

  • Fiato al jazz

Il sax stava prendendo strade i cui esiti difficilmente monsieur Adolphe avrebbe potuto prevedere.  Stava gradualmente “mutando pelle” di strumento da fanfara a strumento “aperto” allargante il raggio d’azione a teatri e sale da concerto, per poi brillare nella folgorante “saxophone craze” negli anni Venti.  C’è chi crede – scrivono Francois e Yves Billard – che nella microstoria del sax, intestina alla più generale storia del jazz, si configuri  un’evoluzione lineare  secondo cui  “Coleman Hawkins e, a minor titolo, Lester Young  dominerebbero il mondo del sax tenore negli anni trenta. Verso la metà degli anni Quaranta la nuova rivoluzione interna al jazz, il bebop, mette in primo piano un altro sassofonista, stavolta un altista, Charlie Parker” (cfr. Entrèe des saxophones, “Les Cahiers du Jazz”. Saxophones, 9, 1996).  In realtà gli inizi, per quanto tardivi, anche sulla spinta di parate e orchestre ambulanti. risalgono all’epoca del New Orleans. Dal N.O. provenivano Sidney Bechet e Barney Bigard (quest’ultimo, nel ’19, suonò il tenore nell’orchestra jazz di King Oliver). E comunque prima di Hawkins (e Johnny Hodges) andrebbe segnalato Frankie Trumbauer , antesignano del cool (e Benny Carter).  A livello di orchestre quella di Fletcher Henderson (con cui, fra gli altri, suonò Ben Webster) aveva assegnato ad una sezione di cinque sax “un’unità omogenea ed autonoma capace di dialogare a mò di solista con il resto dell’orchestra” (cit.). Va precisato, fra le righe, che dai ruggenti Twenties ad oggi si è ad un secolo e passa di storia del sax jazzistico visto che, ad esser precisi, era stato John Joseph ad immetterlo in una formazione jazz già nel 1914.  Nei ‘30s, quelli della swing-era, aveva inizio, scrive ancora Perrin, la fase “ragionata” del sax quella, cioè in cui negli organici di grandi bandleader come Whiteman o Ellington si stabilizzavano le sezioni di sax con innalzamento del livello di abilità e bravura dei solisti mentre, con Benny Carter e Louis Jordan, si evidenziava la figura del sassofonista-bandleader!
Scrive Geoff Dyer in “Natura morta con custodia di sax” ((Instar, 1993) che “era stato Hawk a fare del tenore uno strumento jazz, a definirne il carattere: corpulento, stentoreo, imponente”. E, in effetti, anche guardando ai ‘40s e al bebop si constata l’ulteriore affinarsi dei modi di esecuzione-interpretazione e di sperimentazione di sonorità funzionanti da trait d’union spesso virtuosistico fra ispirazione ed espressione, anima e tecnica, per un suono identitario da adattare ai vari stili che si sarebbero avvicendati anche nella seconda parte del Novecento, con cool, free, jazz-rock, hard-bop, fusion a seguire.   Un manuale come “The Jazz Handbook” di Barry McRae (Longman, Uk, 1987), censendo secondo prassi le figure per blocchi decennali, riporta nel secondo novecento le schede di  John  Coltrane, C. Adderley, O. Coleman, Davern, Dolphy, Getz, Griffin, Konitz, McLean, Mulligan, Pepper, Rollins, R. Scott, Sims (nei ’50s);  Jarman e Mitchell dell’AEoC, Ayler, Gato Barbieri, Braxton, Hill, Kirk, Lacy,  Sanders,  Shepp, Surman, Turrentine, G. Washington (nei ’60s);  Bluiett, Blyte, S. Coleman, Garbarek, Lake, Murray, E. Parker, Pine, Rivers, Threadgill, Shorter (nei 70/80s). Si tratta di un’elencazione che ovviamente andrebbe integrata ed aggiornata inserendo almeno i vari Desmond, Gordon, Woods, Hemphill, Braxton, Henderson, D. Redman, Ware, Cohn, Farrell, Brecker,  Zorn,  Berg, Grossman, Garrett,  B. Marsalis, Lovano, Sanborn, J. Carter, J. Redman, K. Washington … magari optando per una suddivisione per “appartenenza” stilistica e non solo per collocazione temporale. Sono inoltre da  rilevare le diramazioni di sassofonisti sul territorio compresi i latinoamericani (D’Rivera…), gli africani (Dibango…), gli europei  (da Lars Gullin a Portal, Doneda, Coxhill, Breuker e, dopo Mobiglia, fra gli italiani “storici”, Schiano, Genovese, Basso, Maestri, Urbani, Oddi…) con relativa “nidiata” di nipoti e pronipoti musicali; e le ramificazioni in generi come la musica da ballo (v. in Italia il caso esemplare di Fausto Papetti) così come nella  popular, nel r&b e soul e nello stesso pop internazionale in cui  si sono affermati solisti quali  Dick Parry e Candy Dulfer.

  • Cent’anni di “saxitudine”

Dal secolo romantico al secolo breve. Si è accennato al ruolo del sax nella musica moderna nella prima parte del novecento quando un musicista quale Debussy componeva la “Rapsodie for saxophone and orchestra” e Ravel lo inseriva nel “Bolero” ma anche fuori dalla Francia si contano compositori come Villa Lobos e Glazunov per l’uso di quella strumentazione in propri lavori (cfr. Luca Mozzillo, Il sassofono è davvero uno strumento classico? musyance.com). Dicasi analogamente di Webern (Quartetto op. 22 per cl. Sax, v, pf), di Stravinskij e del suo “Ebony-Concerto”  del 1945, dei lavori di respiro jazzistico di Gershwin (“Rapsody in Blue”, 1924; “Porgy and Bess”, 1935).  Quantomeno degni di citazione sono, dal secondo dopoguerra in poi, musicisti contemporanei come Luciano Berio, Betsy Jolas, Anatol Vieru e altri che hanno continuato a pensare musica per/con saxofono. Non sassofono, come sottolineava nel 1993 Livio Cerri, nel saggio “Discussioni sul jazz”, “per non tradire la memoria dell’inventore dello strumento”.  Una buona ragione per non disperdere dalla radice lessicale del termine il riferimento a chi seppe costruirlo così ibrido e sensuale e nel contempo intimo o risonante, nervoso o compassato a seconda di che musica comunicare.  Un oggetto sonoro che ne ha fatta di strada da quando, nel 1875, il Grande Dizionario Universale di Pierre Larousse lo aveva definito inferiore  al clarinetto  “per la qualità e l’ampiezza del suono”! E che, in mano a musicisti straordinari, si è piazzato sulla parte di podio per anni occupata dalla tromba, a far da bandiera alla musica jazz. A vanto, ancora post mortem, di chi ne animò il corpo con un soffio vitale.

Amedeo Furfaro