A Roma applausi per Branciamore Blaiotta e Canale-Spinello

Tanto buon jazz a Roma: tra domenica 7 aprile e sabato 14 aprile abbiamo assistito ad alcune performance di eccellente livello presentate alla Casa del Jazz e al Teatro Studio dell’Auditorium.
Ma procediamo con ordine.

Domenica pomeriggio alla Casa del Jazz, in programma il piano-solo del siracusano Francesco Branciamore. L’artista si è affermato nel panorama internazionale come batterista di straordinario talento, collaborando con alcuni dei più bei nomi del jazz italiano e internazionale quali Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Pier Favre, Paul Rutherford, Michel Godard, Enrico Rava, Gianluigi Trovesi, Enrico Intra, Eugenio Colombo, Paolo Fresu. Negli ultimissimi anni ha deciso di cambiare strada e misurarsi con il pianoforte, strumento certo non facile da affrontare. Dopo un periodo di studi ecco i risultati: due album, in ordine cronologico «Aspiciens Pulchritudinem» del 2018 e «Skies of Sea» del 2021. Ed è proprio da queste due produzioni che Branciamore ha tratto la maggior parte dei brani presentati a Roma.
Il pianismo di Branciamore è abbastanza particolare: intendiamoci, nessuno sforzo di stupire l’ascoltatore né tanto meno di evidenziare una tecnica prodigiosa. Dinnanzi allo strumento, il pianista è come se mettesse a nudo la sua natura. Di qui una musica che magari dapprima ti lascia indifferente ma che poi, con il trascorrere dei minuti, ti entra dentro proprio perché hai la sensazione di ascoltare un moto dell’animo. Francesco non ha timore di evidenziare il suo essere tendente alla malinconia, ma lo fa con gusto con misura, senza esagerare. Anche la natura dei brani è funzionale a questo disegno. Brevi bozzetti di circa tre minuti con Branciamore impegnato a mai perdere il filo del discorso che si svolge con straordinaria continuità senza che l’ascoltatore percepisca un attimo di stanca, peggio ancora di dejà vu.
Molti i momenti particolari anche se ci ha particolarmente colpiti il sentito omaggio al leader del gruppo EST, il compianto Esbjörn Svensson, “Thinking to EST”.

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Ed eccoci lunedì sera all’Auditorium Parco della Musica, Teatro Studio, per il doppio concerto del quintetto di Danilo Blaiotta e del gruppo Moonari.
Danilo Blaiotta è di sicuro uno dei personaggi più interessanti affermatosi in questi ultimi tempi. Pianista, compositore, arrangiatore, scrittore ha da poco pubblicato un interessante album dal titolo suggestivo e altamente simbolico “Planetariat”. Due sono le fonti che hanno ispirato questo album: il poeta della controcultura americana -nonché uno dei massimi esponenti dell’era post-beat generation- Jack Hirschman, scomparso circa un anno fa e conosciuto personalmente dal pianista; l’esigenza di denunciare le innumerevoli storture che Blaiotta percepisce nella società di oggi. La sua, in effetti, è musica “sociale” nel senso che, come sottolinea lo stesso artista, non si limita ad osservare ma va ben oltre denunciando “un certo assenteismo dai problemi di carattere sociale come conseguenza di un appiattimento culturale che ci condanna a poca riflessione”. Di qui undici brani che ci parlano di problemi tanto attuali quanto drammatici: la situazione a Gaza, lo sfruttamento continuo e costante dell’Africa, la follia dei computer della Borsa di New York, i numerosi attacchi in Medio Oriente da parte dell’organizzazione militare del patto atlantico, una dedica alla Madre Terra, l’assurdità di chi è pagato per uccidere un altro uomo, altra dedica questa volta a Gino Strada, un breve Requiem per le morti nel Mediterraneo, un omaggio alla resistenza del popolo greco nei confronti dell’ingerenza economica da parte di Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale, a chiudere, un grido di dolore e di pietà della parte sfortunata del mondo nei confronti dell’oppressione militare, economica e bancaria del capitalismo moderno. Come si nota un vero e proprio cahier de doléance delle gravi storture che attanagliano il mondo. Ovviamente si può essere più o meno d’accordo con le tesi sostenute da Blaiotta ma in questa sede ci interessa molto di più la sua musica.
Bene, partendo da queste premesse, anche ciò che abbiamo ascoltato all’Auditorium conferma le ottime impressioni che l’album ci aveva suscitato: a nostro avviso non c’è alcun dubbio circa l’onestà intellettuale del compositore. La sua musica non ha – e non può avere – alcunché di consolatorio ma si svolge dura, spigolosa, quasi senza un attimo di tregua con i cinque perfettamente in linea, pronti ad assecondare le intenzioni del leader, pronti ad unirsi a quella sorta di grido di dolore che la musica, a volte lancinante, evoca. Tutto bene, dunque?
Non proprio. Come si accennava, parte integrante del progetto sono le liriche di Jack Hirschman che si possono ascoltare in ben sette degli undici pezzi e che contribuiscono non poco alla valenza del progetto. Bene, abbiamo usato il termine “ascoltare” ma del tutto impropriamente in quanto, per una non felice presa di suono, le poesie recitate con passione dalla vocalist Valentina Ramunno, sono state praticamente inascoltabili, con ciò orbando il set di un elemento davvero importante. E questo dimostra ancora una volta come un concerto sia la risultante di più fattori tra cui i tecnici del suono che non sono certo all’ultimo posto.

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Domenica 13 eccoci nuovamente alla Casa del Jazz per ascoltare la vocalist Sonia Spinello in trio con Eugenia Canale al pianoforte e Achille Succi al sax alto, clarinetto e clarinetto basso.
In programma la presentazione dell’album “Flow” cofirmato da Sonia Spinello e Eugenia Canale, ed uscito recentemente per l’abeat.
Due i presupposti su cui si fonda l’intero progetto: da un lato un’accurata ricerca timbrica, dall’altro la possibilità di un’improvvisazione estemporanea considerata come il filo conduttore dell’intero impianto narrativo.
Per quanto concerne il primo elemento, Spinello e Canale collaborano oramai da parecchio tempo e il loro connubio artistico è in grado di produrre frutti copiosi. Le abilità pianistiche della Canale (grande tecnica, speciale senso estetico, gusto per il non usuale) si fonda perfettamente con il canto della Spinello che già in passato aveva dimostrato di intendere la voce come una sorta di sussurro dell’animo, una forma dolce, gentile, di comunicare stati d’animo, emozioni. Di qui una musica delicata, introversa, che poco concede allo spettacolo ma molto alla riflessione, una musica che ti induce a riflettere, a meditare, a cercare un rapporto più stretto con la propria spiritualità… ove se ne sentisse il bisogno, cosa tutt’altro che scontata.
Così è facile avvertire la musica come un flusso che si sviluppa costantemente senza una precisa scrittura: come accenna la stesa Spinello, nell’album si lascia che la musica prenda forma dall’ascolto reciproco e fluisca trasformandosi continuamente. Come conseguenza tra l’ascolto del disco in cui figurano molti ospiti e il live non si avverte molta differenza anche perché Achille Succi, con i suoi centrati interventi – anche in questo caso senza alcuno sfoggio di tecnica fine a sé stessa – riesce a dare il giusto colore a situazioni non banali.
Insomma un gran bel concerto che conferma appieno quanto di buono abbiamo già scritto sul conto della Spinello la cui collaborazione con Eugenia Canale siamo sicuri darà ancora risultati apprezzabili.

Gerlando Gatto

Roberto Ottaviano mai delude

Non sono certo moltissimi, oggi, i musicisti che mai deludono, gli artisti che non sbagliano un colpo sia nelle produzioni discografiche sia negli eventi live. Bene, tra questi pochi c’è sicuramente il sassofonista Roberto Ottaviano il quale giorni fa si è esibito alla Casa del Jazz di Roma alla testa del suo quintetto ‘Eternal Love’ con Marco Colonna al clarinetto basso, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Ermanno Baron alla batteria in sostituzione di Zeno De Rossi.

L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti europei, un sassofonista e un band-leader che non ha ancora raccolto tutto ciò che effettivamente merita. In effetti Ottaviano ha sviluppato un linguaggio del tutto personale in cui il gusto per l’improvvisazione si coniuga da un lato con la profonda conoscenza delle tradizioni jazzistiche dall’altro con la ferrea volontà di guardare sempre avanti. Il tutto impreziosito da una tecnica che gli consente di esprimere compiutamente i sentimenti, le sensazioni del momento che, proprio per questo, riescono a smuovere nell’ascoltatore un mondo di emozioni.

Il concerto di Roma è stato salutato dalla folta partecipazione di un pubblico numeroso che ha seguito con entusiasmo la musica eseguita da Ottaviano e compagni. Musica che come recita il titolo del suo ultimo cd – “People” – è una sorta di inno alla pace, alla tolleranza, alla concordia universale. Ma non solo ché il musicista ci tiene a lumeggiare un altro elemento della sua poetica: la necessità sociale di denunciare ciò che non va. Dall’osservazione dell’umanità, con tutti i suoi pregi e difatti, nasce questo album in cui Roberto ha voluto raccogliere alcuni dei momenti salienti del gruppo durante le sue esibizioni nel tentativo di “disegnare ritratti di questa umanità fatta di persone incontrate realmente e virtualmente, persone che ci hanno dato qualcosa, i loro luoghi ed i loro respiri».

Nelle circa due ore di concerto, Ottaviano ha presentato quasi per intero il contenuto del disco vale a dire quattro delle sue cinque composizioni originali (Mong’s Speakin’, Hariprasad, Homo Sum e Ohnedaruth) e i brani At The Wheel Well di Nikos Kypourgos, Gare Guillemans di Misha Mengelberg e come bis, Caminho Das Águas di Rodrigo Manhero e African Marketplace di Abdullah Ibrahim.

Ora, a prescindere dai contenuti sociali sopra esposti, la musica in sé è semplicemente superlativa. L’intesa tra i cinque è perfetta e anche l’apporto singolo è in linea con la cifra generale del gruppo. E l’empatia che si respira all’interno di “Eternal Love” è dimostrata dal fatto che a Roma la mancanza del batterista titolare Zeno De Rossi non è stata avvertita più di tanto data la facilità, la spontaneità con cui Ermanno Baron si è inserito. Insomma un quintetto davvero straordinario in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente disegnato dal leader.

Gerlando Gatto