Tempo di lettura stimato: 5 minuti

Blue Note logo

Prendetela come una provocazione, ma siamo proprio sicuri che la Blue Note sia la migliore etichetta di jazz? Ci siamo spesso fatti questa domanda. Abbiamo lavorato per anni in casa discografica e abbiamo potuto vedere in azione e studiare i meccanismi di marketing che, se ben calibrati, portano a innalzare la reputazione e la considerazione di questo o quell’artista, di questa o quell’etichetta. Se guardiamo al campo della musica classica a tutti viene in mente l’esempio della Deutsche Grammophon. Pochi sanno che la gloria di questa label si deve a un’azzeccata campagna di marketing che ne incensava la qualità tecniche di registrazione, nonché alla presenza di un colosso del calibro di Herbert von Karajan, il primo direttore d’orchestra divo. Sulla qualità di registrazione della DG lasciamo la parola agli audiofili (personalmente preferiamo di gran lunga il suono della Decca, che fu la precedente regina… detronizzata).

Marco Giorgi
www.red-ki.com

Tornando al jazz, chiunque può ricordare che fino all’inizio degli anni ’70 la Blue Note era un’etichetta come tutte le altre, sotto il profilo della sua notorietà. Poi improvvisamente, grazie alle mirate ristampe giapponesi e all’opera di valorizzazione del catalogo, la Blue Note cominciò ad ascendere nuovamente in termini di notorietà. L’impennata dei prezzi sul mercato collezionistico delle prime stampe originali ha fatto il resto. Oggi la Blue Note è una sorta di oggetto del desiderio. Dato però che la gloria delle etichette dovrebbe essere conquistata grazie alle registrazioni che hanno prodotto e non all’opera del marketing e/o a fattori casuali o di moda, proviamo a individuare un metodo di valutazione, partendo dai grandi artisti, dalla musica e dal “roster”, cioè il gruppo dei musicisti sotto contratto su cui l’etichetta può contare. Prendiamo allora in considerazione dieci giganti del jazz: Duke Ellington, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Thelonious Monk, Bud Powell, Miles Davis, John Coltrane, Sonny Rollins, Charles Mingus, Ornette Coleman,. Quali memorabili session hanno prodotto per la Blue Note? Analizziamo con calma.

1. Duke Ellington non è mai stato un artista Blue Note. Il bellissimo trio Money Jungle, con Charles Mingus e Max Roach era originariamente un disco United Artists ed è ora su etichetta Blue Note solo grazie all’acquisizione del catalogo UA.

2. Charlie Parker ha inciso i suoi capolavori per la Savoy e la Dial

3. Dizzy Gillespie ha lasciato tracce minime su Blue Note e in un periodo non certo di massima creatività

4. Thelonious Monk è testimoniato su Blue Note nei suoi lavori iniziali e poi a intermittenza sino al 1958. Merito comunque alla Blue Note di aver notato questo artista, per i tempi, così fuori delle righe.

5. Bud Powell al contrario di Monk è molto ben rappresentato e ha lasciato a questa label le sue pagine più lucide e geniali.

6. Miles Davis ha per la Blue Note incisioni del 1952, 1953, 1954. I dischi epocali come Birth the cool appaiono su etichetta Capitol, mentre Kind Of blue, In a Silent Way e Bitches brew furono tutti incisi per la Columbia. Davis partecipa al bellissimo Somethin’ else che però è un progetto di Cannonball Adderley

7. John Coltrane registrò il favoloso Blue Train, e lascio a voi la scelta se considerarlo superiore, inferiore o pari a A love supreme, Giant Steps o Ascension.

8. Sonny Rollins ha inciso diversi ottimi dischi per la Blue Note, i due a suo nome (vol. 1 e vol. 2), i due Live at the Village Vanguard, Newk’s time, ma non i leggendari Saxophone Colossus e The Bridge, che rispettivamente furono pubblicati per la Prestige e per la RCA

9. Charles Mingus, quasi a farlo apposta ha girato molte etichette. Ha lasciato Pithecantropus erectus, Ah hum e The clown alla Atlantic, Tijuana Moods alla RCA, East coasting alla Bethlehem, Mingus Dinasty alla Columbia, Mingus Mingus Mingus e The black saint and the sinner lady alla Impulse!, ma niente alla Blue Note.

10. Ornette Coleman ha inciso per la Blue Note i splendidi due live al Golden Circle, più, in studio New York is now e Love call, dischi che amiamo profondamente, ma che non sono certo i lavori per cui verrà ricordato.

Tiriamo le somme. Dei dieci più grandi jazzisti di sempre la Blue Note può contare su Bud Powell, parzialmente su Monk, incidentalmente su Rollins, Coleman e Coltrane. I veri capolavori si riducono solamente alle tracce registrate da Bud Powell. Paradossalmente, secondo il criterio che abbiamo seguito, la Blue Note registrò più capolavori nella sua fase in cui al suo roster mancavano quegli artisti (Herbie Hancock, Lee Morgan, Hank Mobley, Art Blakey, Jimmy Smith, Joe Henderson, Jackie McLean, Wayne Shorter, Dexter Gordon e via dicendo) che l’avrebbero resa famosa .

Sia ben chiaro, non stiamo sostenendo che la Blue Note sia da buttare e che non abbia prodotto ottima musica. Quello che si contesta è il luogo comune di considerarla la “regina del jazz”. La vera forza di questa label è stata quella di aver creato un suono, grazie al quale poté imporre il suo marchio, così come è sarebbe avvenuto negli anni Ottanta con la ECM. Negli anni Cinquanta la Blue Note lottava alla pari con altre etichette come la Prestige e la Savoy, ad esempio, ma con una differenza sostanziale che avrebbe posto le basi del suo successo: diversamente dalle sue concorrenti pagava ai musicisti due giorni di prove prima della registrazione. Questo permetteva agli artisti di conoscersi, studiare le parti e ragionare su quanto avrebbero poi registrato. Una volta in studio si realizzava musica ben ponderata che quasi mai assunse il sapore di blowing session. Un secondo elemento di forza della Blue Note fu quello di identificare i giovani artisti più promettenti del momento e di registrarli con continuità, anche con session intervallate solo da pochi giorni. Negli anni Cinquanta non era abitudine delle case discografiche firmare, in campo jazz, contratti di esclusiva che legassero l’artista per un determinato numero di incisioni in studio e/o per un determinato numero di anni. La Blue Note scelse una via non ancora battuta, quella di realizzare moltissime session con lo stesso nucleo di musicisti. I primi dati positivi del mercato mostrarono che la scelta era stata azzeccata. Dopo un disco di successo si poteva attingere a una session temporalmente vicina a quella che aveva incontrato il favore del pubblico. Questo faceva sì che la nuova pubblicazione non fosse troppo dissimile dalla precedente e non deludesse il pubblico. Chi compra un disco, infatti, lo fa nella speranza che sia come quello che in precedenza gli era piaciuto e non gradisce, di solito, un’evoluzione artistica troppo accentuata. Contemporaneamente si ottenne anche l’effetto di “sedimentare” un tipo di suono, cosa che identificò l’etichetta newyorkese come la realtà che produceva proprio quel sound particolare.Quando il periodo dell’hard bop giunse al termine emersero altre realtà e iniziò la decadenza. Nel nuovo ambiente la Blue Note non fu più in grado di riproporre la sua formula vincente ed entrò in un lunghissimo cono d’ombra.

Tirando le somme possiamo affermare che in certi periodi, per una serie di coincidenze (abbondanza di materia prima artistica, bravura del management, ricettività del pubblico, condizioni storiche propizie e, non da ultima, un pizzico di fortuna), alcune etichette incarnano il suono del proprio tempo. La Blue Note negli anni Cinquanta, la Impulse! negli anni Sessanta, la CTI negli anni Settanta, l’ECM negli anni Ottanta, la Verve negli anni Novanta, nuovamente la Blue Note e la Verve assieme (con i loro progetti ammiccanti al pop) nel primo decennio del nuovo millennio hanno dato vita a un sound facilmente identificabile. Tutte quante hanno basato la loro fortuna su un ristretto numero di musicisti che hanno dettato la linea artistica.

In conclusione secondo noi non ha senso di cercare di identificare la “regina delle etichette”, a meno che non lo si faccia per gioco. Nessuna label è mai stata in grado egemonizzare la scena per un lunghissimo periodo. Noi amanti del jazz siamo in genere persone che vanno al sodo e che badano ai contenuti. Mettiamo un CD nel nostro lettore o un vinile sul piatto del giradischi, chiudiamo gli occhi e giudichiamo, al di là delle… etichette, se quello che stiamo ascoltando è un prodotto artisticamente valido o meno.

Articoli scelti per te:

Ti è piaciuto l'articolo? Lascia un commento!

Commenti

commenti

Shares