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Facile e scontata l’equazione Brasile-Musica; come tutti i luoghi comuni, ha bisogno di essere smontata o dimostrata attraverso una “prova sperimentale”, un’esperienza. È ciò che mi è capitato nel breve soggiorno vissuto nella capitale economica e culturale della più estesa nazione sudamericana, agli inizi del luglio scorso.
L’equazione, in questo caso, prevede tre distinti passaggi. Il primo transita per la testimonianza sonora “silenziosa” quanto profondamente evocativa del Museu Afro-Brasil; il successivo scava nel rapporto tra musica e fotografia che, a sua volta, indaga la dimensione della spiritualità e della “natureza” presso i popoli del mondo. L’ultimo va a visitare un jazz-club paulistano, luogo dove la musica è presenza abituale per un pubblico costituito soprattutto di abitanti della metropoli brasiliana. Un breve viaggio nella memoria e nel presente, tra le arti: una rievocazione.

1.1 L’Africa nel Brasile, il Brasile nell’Africa: un museo identitario.
“Questo importantissimo museo situato nel Parque de Ibirapuera è davvero molto affascinante. Al terzo piano è esposta una collezione permanente che ripercorre cinque secoli di immigrazione africana (con qualche accenno ai 10 milioni di africani che persero la vita lavorando duramente per lo sviluppo del Brasile), mentre il primo ed il secondo piano ospitano mostre temporanee di vario genere dedicate all’Africa contemporanea” (“Brasile”, Lonely Planet 2014, p.233). Le scarne note della guida già inducono chiunque si occupi di cultura e musica afroamericane ad andare a visitare la struttura, immersa nel verde del più grande parco di São Paulo (due chilometri quadrati) che peraltro ospita avveniristici edifici di Oscar Niemeyer (l’architetto che progettò Brasilia): l’Auditorium, a forma di enorme vela bianca, e lo spazio espositivo “la Oca”, che assomiglia ad un’astronave.
Catturo dal diario scritto in presa diretta nei giorni paulistani. “Solito taxi e via verso il Parque Ibirapuera per visitare il Museu Afro-Brasil. Il parco, che avevamo visto di sera, appare diverso, pieno di ragazzini e giovani come allora ma immerso in una luce dai contorni nettissimi, dato che c’è un forte vento che ha spazzato via lo smog che soffoca di solito la città. Entriamo nel museo, quasi ospitato dal verde, e veniamo sommersi da una marea di canoe color nocciola: non sono “vere” ma è un allestimento moderno con due enormi stanze invase dai natanti e le pareti decorate con motivi geometrici realizzati con rose essiccate, scure. Un buon inizio, anche se l’aria degli addetti è placida e non sembra esserci molto transito di turisti.
Sbagliamo il “verso” e in pratica visitiamo il museo al contrario: non dalla schiavitù all’oggi ma in senso opposto. Le scritte sono solo in portoghese ma per me e Pino Ninfa (il fotografo, n.d.r.) non c’è quasi bisogno di informazioni: studiamo il mondo afrodiasporico da anni e, come per magia, esso si materializza in tutta la sua straordinaria vitalità ed in tutto il suo gioioso, policromo colore. Entrambi fotografiamo . Però dei flashes mentali li ho ancora, vivissimi: i brasiliani della modernità, dai gruppi musicali del primo Novecento (Pixinguinha e os Oito Batutas, Conjunto de Choro) ai campioni del calcio (Pelè, Garrincha, Jairzinho); il lavoro agricolo con un’infinità di attrezzi ed oggetti; le cerimonie sincretiche e allora spunta il “Bumba-me-boi” (il toro sacro) che Ninfa è andato pochi giorni fa a fotografare fino a Sâo Luís, nel Nordeste; la capoeira con i suoi bianchi abiti e gli strumenti; le divinità con tanti orishas ed un’infinità di statue e statuette fra cui spicca Iemanjá, sorta di Maria/Sirena/Divinità del Mare; le signore del candomblé; l’orchestra degli strumenti sacri, i tre tamburi ricavati da un solo tronco e che hanno ciascuno un’anima; le maschere africane e quelle afrobrasiliane…
Alcune tra le sale più impressionanti sono le due dedicate al commercio degli schiavi (avevo visto qualcosa di simile solo nel museo di Bordeaux, nel marzo 2014): la più grande è scura, poco illuminata, si ode lo sciabordare dell’oceano. Contiene lo scheletro di una nave negriera – a grandezza naturale – ma è ricostruita solo la stiva dove venivano caricati gli schiavi. Attorno, alle pareti, disegni, quadri, catene e strumenti di tortura vari: un incubo doloroso che prende forma ma mostra l’umanità dolente di coloro che venivano ridotti in cattività. Tutto il buio di questa sala si “riscatta” nei colori sgargianti e straripanti del resto del museo, dei vestiti, degli oggetti, degli strumenti che alla fine diventano di artisti africani contemporanei che si ispirano ad un ricchissimo passato. La seconda parte del museo è infatti dedicata a mostre temporanee di artisti africani o brasiliani odierni: ritornano figure e colori dalle radici del “Continente Nero” ma c’è un forte coefficiente di espressionismo, provocazione, installazione… “.

1.2 L’Africa nel Brasile, il Brasile nell’Africa: suoni antichi e presenti.
Un percorso nel percorso è quello che si sofferma sui molti strumenti musicali presenti nelle sale del Museu Afro-Brasil. In uno spazio dedicato alle feste, ad esempio, compaiono appaiati cavigliere con campanelli (Gunga, si usano nelle “festas corno” Congada), il Reco Reco (intagliato nella canna di bambù, con la sua bacchetta da sfregamento, che si impiega nel samba come nei riti del candomblé), le tre campane metalliche dell’Agogò (si suonano con una bacchetta anch’essa metallica; si utilizzano in varie feste: Carnaval, Maracatu, Congada ecc.).
Nella stanza seguente quadri e oggetti produttori di suono testimoniano la presenza di danze nelle campagne: un balaphon di evidente origine africana (ha lamelle in legno e zucche svuotate come risuonatori), numerosi Reco Reco colorati e con impugnature figurative antropomorfe, bastoni con dischi metallici o in legno, una piccola chitarra a quattro corde cioè l’antenato del cavaquinho (strumento caratteristico nel samba, insieme alla chitarra ed alle percussioni). Del resto la citata foto di “Pixinguinha e os Oito Batutas, Conjunto de Choro” (1918-1927) ritrae ben cinque strumentisti a corda, un sax alto, un percussionista con Reco Reco ed un batterista con un set simile a quello dei coevi jazzisti nordamericani delle origini. Pixinguinha, dal canto suo, partecipava a Rio de Janeiro a delle autentiche “jam sessions” in casa di Tia Ciata insieme a musicisti leggendari come Donga, Sinho e João da Baiana. Eseguivano lundu, maxixe, choro, marce e batuque e all’interno di questo insieme di generi musicali il samba venne precocemente delineando le sue caratteristiche (Luca Mercuri “Samba: un itinerario antropologico-sonoro tra Africa e Brasile”, tesi di laurea triennale presso il Conservatorio “L.Refice” di Frosinone di cui sono stato relatore e che mi ha profondamente illuminato).
Tornando alle sale del Museu Afro-Brasil, ce ne sono svariate dedicate alla capoeira con filmati, statue, quadri, immagini e strumenti. Spiccano i berimbau, il pandeiro, l’agogó a due campane ed un tamburo atabaque cui assomigliano molto le congas. Ritualità e spiritualità si intrecciano profondamente nella danza/forma di lotta che è la capoeira e gli strumenti rimandano alla cultura africana degli Yoruba che molto ha donato a quella afroamericana (dal Nord passando per i Caraibi e giungendo al Brasile). In un’ampia sala (con, tra l’altro, pannelli sul commercio triangolare) appaiono i tre tamburi definiti “Os instrumento da Orquestra Sacra Afro-brasileira”, gli “atabaques”. Cito ancora lo studio di Luca Mercuri. “Ad essi vengono attribuite delle caratteristiche umane, spesso gli viene dato un nome e sono considerati in tutto e per tutto degli oggetti sacri. Viene utilizzata una particolare cura nella loro costruzione che è scandita da un complesso sistema di procedure. Ad esempio le pelli che vengono usate nella costruzione degli atabaques spesso sono state tratte dai corpi di animali sacrificati. Nel momento in cui viene istituito un terreiro hanno luogo delle cerimonie durante le quali si donano offerte agli strumenti e in alcuni casi si sparge sulle loro sommità il sangue di animali sacrificati, considerato anch’esso come una fonte di vita. Le percussioni, infatti, hanno di per se stesse una voce e un potere i quali devono essere nutriti; al di là quindi della cerimonia del “battesimo” si praticano annualmente nei loro confronti delle cerimonie volte ad alimentarli al fine di mantenere inalterato il loro potere. Il valore sacro di queste percussioni non cessa di esistere alla fine delle cerimonie, infatti quando non vengono utilizzate vengono coperte e sorvegliate con molta cura. (…)All’interno di questo repertorio musicale si può notare una chiara origine africana sia per l’utilizzazione di parole in lingua Yoruba per quel che riguarda l’aspetto vocale sia per la presenza al suo interno di strutture ritmiche complesse che derivano in maniera molto evidente da strutture musicali africane. Sebbene non ci sia una diretta parentela di tipo musicale, come vedremo, tra le ritmiche che caratterizzano le esecuzioni liturgiche del Candomblè e il samba, se non per l’utilizzazione dell’agogo, mi sembra comunque importante sottolineare quanto sia essenziale all’interno della cultura musicale afrobrasiliana il carattere percussivo, dato che proprio da esso ciò che si andrà sviluppando come samba urbano trae la propria forza.”
Il pannello “MUSEU AFRO BRASIL Um conceito em perspectiva” come la lirica “Uma história diferente” di Paulinho da Viola che campeggiano all’inizio ed alla fine della sezione storica del percorso ne illustrano l’impianto concettuale. Come spiega il principale curatore ed animatore Emanoel Araujo “la creazione del Museu Afro Brasil è il risultato di più di due decadi di ricerche e mostre che illustrano la “ancestralità nera” di coloro che effettivamente erano e sono neri in Brasile (…) il museo unisce Storia, Memoria, Arte e Contemporaneità, facendo confluire insieme tutte queste dimensioni in un singolo discorso (…)”; presenta quindi le eredità dell’Africa affinché ci si possa specchiare contemplando anche la lotta strenua di una parte della popolazione del Brasile che è stata sfruttata e marginalizzata ma ha mantenuto la sua identità. D’altro canto c’è un museo contemporaneo in cui l’odierna “black people” può indagare sé stessa con un fondamentale contributo per i cittadini brasiliani bianchi e neri e “per il beneficio delle generazioni a venire”.
È chiaro che in quest’ampia dimensione gli strumenti afrobrasiliani rivestano un ruolo di enorme importanza.

2. Il sacro e la natura: un itinerario tra le foto “globali” di Pino Ninfa e la musiche di Dino Rubino e Rino Cirinnà.
Seconda tappa sonora è dedicata dall’Istituto italiano di Cultura di São Paulo – diretto da Renato Poma – alla “Italia in Jazz”. Nel sempre vivo e pulsante Centro Cultural São Paulo in rua Vergeiro si concentrano una serie di proposte: la mostra fotografica di Pino Ninfa “Come un conto chamado jazz”, quarantadue scatti che sintetizzano un percorso fotografico fortemente narrativo; una “conferência” di chi scrive su “Il Brasile nel jazz italiano (Rava, Bollani, De Vito, Mirabassi, Stilo, Casini…): collaborazioni, riletture, immaginari sonori tra i due paesi latini”; il concerto multimediale “Viaggio tra spirito e natura”: scatti di Ninfa, musiche dal vivo di Dino Rubino (piano e flicorno) e Rino Cirinnà (sax tenore ed elettronica).
Il fotografo ha preparato per i jazzisti ed il pubblico nove sequenze con il proposito di mostrare aspetti del sacro e del rapporto uomo/natura in numerosi luoghi del pianeta. Due sequenze sono state costruite con scatti realizzati in un reportage effettuato pochi giorni prima della performance: nella Serra da Capivara (Piauí, nel NordEste, dove ci sono le pitture rupestri, circa 30.000, più antiche del continente americano) e a São Luis de Maranhao, sede delle coloratissime feste tradizionali del “Bumba-meu-boi”. Le foto di Ninfa sono state proiettate su grande schermo, amplificandone la valenza evocativa e la potenza iconica. In sintonia si muovevano le musiche, sempre ispirate, di Rubino-Cirinnà che hanno viaggiato tra le chiese copte etiopiche, le township del Sudafrica, i riti della settimana santa a Trapani, il deserto “lunare” della Dancalia, la Serra de Capivara, la travolgente festa di Nostra Signora di Milagros a Lima (Perù), Katmandu, Addis Abeba e, in conclusione, la São Luis del “Bumba-meu-boi”. Nel trasformare in suono le immagini – o nel crearne una proiezione acustica – i due jazzisti hanno usato materiali di repertorio, composizioni originali ed improvvisazioni, servendosi talvolta di basi campionate, in una perfetta sinergia fra arti e strumenti. Su tempo lento e meditativo si sono distesi motivi quasi coltraniani (chiese copte), mentre il fraseggio si è fatto ritmato e melodico sullo scorrere delle ancestrali pitture rupestri; incalzante il crescendo sonoro ambientato a Lima quanto iterativo ed ipnotico il dialogare tra piano e tenore (con base percussiva preregistrata) nelle vie di Katmandu. Delicato come un arabesco il dialogo tra flicorno (Rubino) e sax tenore nel via vai di Addis Abeba; riconoscibili alcuni brani montati con gusto e sensiblità nel fluire del racconto. “Malaika” (per le township sudafricane), “O Que Sera” (sugli scatti della devozione trapanese), “Pata Pata” (per le vivide foto dei riti del Bumba-meu-boi”).
Da anni Pino Ninfa lavora alla multimedialità, collaborando con decine di jazzisti, da Franco D’Andrea a Paolo Fresu. La bella performance in nove episodi sul sacro e la natura a São Paulo è un significativo punto di arrivo e di partenza: foto straordinarie e musica vibrante nonché sensibile che ruota, avvolge, comprende e amplifica le immagini. Dino Rubino è sempre ispirato ed incisivo, Rino Cirinnà controlla e guida senza lesinare il suono statuario del suo sax tenore, la performance è di altissimo livello, con Ninfa in scena al suo computer – un vero e proprio trio – ed il sacro che scorre da Trapani a Katmandu, da Lima a São Luis.

3.Il JazzB e Rogério Botter Maio: un club paulistano per musica di sintesi, tra Brasile e Jazz
Considerando la popolazione dell’area metropolitana, São Paulo ha venti milioni di abitanti ed è la terza città più popolosa del mondo. Le sue cifre sono vertiginose: 150 tra centri culturali e musei; 12.500 ristoranti che offrono cucine di 52 paesi diversi; 400 tra teatri e cinema sperimentali; 15.000 locali. “Il cuore costantemente pulsante di questa metropoli non dorme mai, parente stretta di Londra e di New York, può rivelarsi stressante anche per i festaioli più incalliti, ma d’altra parte trasmette l’energia di cui si ha bisogno per partire alla scoperta di una delle città più grandi del mondo” (“Brasile”, Lonely Planet 2014, p.217).
Per la musica dal vivo (sia Musica Popular Brasileira, MPB, che jazz) i locali consigliati sono lo “Studio SP” (un grande spazio culturale alternativo), il “Bourbon Street Music Club” (luogo che propone jazz e blues e che ha ospitato musicisti come Ray Charles e B.B.King) ed il “Baretto” (locale che ha spesso in cartellone i grandi nomi del jazz e del folk brasiliano).
Nella mia personale esperienza a São Paulo ho visitato un raccolto jazz-club nel quartiere Higienópolis, il luminoso “JazzB”. Due sale contigue, dall’alto soffitto, al piano strada di un palazzo; vetrate sulla via, mattoncini a vista e strutture in cemento, arredamento in legno, atmosfera calda ed avvolgente, il “JazzB” ha uno spazio-palco, un lungo bancone bar, una ventina di tavoli e tavolini. Vi si mangia (dalle zuppe alla tapioca fritta) e beve ma il fulcro è la musica, con un pubblico soprattutto di paulistani, giovani e non solo.
Vi suona il quintetto del contrabbassista, bassista e compositore Rogério Botter Maio – un jazzista che è anche vissuto in Italia – e presenta il suo quinto album (tra i precedenti “Prazer da espera” e “Tudo por um ocaso”, apprezzati da Hermeto Pascoal e Toninho Horta; www.bottermaio.com).
Il gruppo ha un’originale front-line con trombone ed armonica (Vitor Lopes), cui si aggiungono piano (Nelson Aires), contrabbasso e batteria (Marcio Dhiniz). I pezzi, sempre introdotti con marcata comunicatività dal leader, sono articolati in più sezioni e costruiti su ritmi variegati che alternano scansioni jazz e brasiliane. Ampi gli spazi per contrabbasso e basso elettrico che nella trama hanno un ruolo spesso tematico e solistico, insomma una musica d’autore raffinata ma diretta, effusiva, carica di atmosfera quanto di relax.
Variata la struttura dei brani che dimostrano una sapiente e personale rielaborazione dei linguaggi jazzistici e del ricchissimo patrimonio melodico-ritmico (passato e presente) della MPB. Ad esempio dopo un’introduzione di contrabbasso parte un pedale per contrabbasso e trombone su cui si distende un tema per armonica e trombone, nel frattempo liberatosi dal pedale; cambia la scansione da jazzistica a bossanovistica e Botter Maio esegue un pregevole solo con l’arco. Ancora un’esecuzione ma in quartetto (senza armonica) e con il basso elettrico che – doppiato dalla voce – espone un cantabile tema e, negli sviluppi, lo strumento sarà protagonista di un veloce solo ispirato a Jaco Pastorius. Si torna al quintetto con un’introduzione poliritmica cui contribuiscono tutti gli strumenti; nello sviluppo il solo di contrabbasso si snoda su un pedale per trombone ed armonica e l’armonica stessa è protagonista di un intervento solistico notevole per gusto sonoro e perizia tecnica.
La musica, a modo suo, rispecchia la metropoli brasiliana, capitale della cultura e della progettualità, l’atmosfera è intima e complice. Verso la fine del set, Rogério Botter Maio invita via via alcune cantanti per eseguire con il gruppo degli standard brasiliani (“Aguas a beber”) ma con arrangiamenti che le vocalist non conoscono, un’usanza del luogo che testimonia la diffusa pratica della “parceria”. Intervistando Maria Pia De Vito – nel giugno scorso per preparare la mia “confêrencia” – la cantante, che ha collaborato con Guinga e Chico Buarque, così dichiarava: “Intanto avere a che fare con i brasiliani è avere a che fare con un concetto fondante nel loro modo di lavorare che è la “parceria”, la partnership, diremmo noi; la parceria significa quando ad esempio Edu Lobo e Chico Buarque producono delle cose insieme. Questa è una cosa usuale in Brasile, c’è un grande scambio lì. È molto diffuso un generalizzato senso di partecipazione”.
Finito il primo set, nell’intervallo, mi viene presentato il contrabbassista-leader che mi regala un Cd mentre io insisto per comprarne un altro; ci si scambiano biglietti da visita e opinioni sul concerto. Poi vado a cercare un taxi (forse il principale mezzo di trasporto per un turista a São Paulo) per tornare in albergo. La vettura solca la città appena meno trafficata che di giorno e l’autista è cordiale e ciarliero, come quasi tutti e parecchi sono di origine italiana.
Gli originari del Bel Paese rappresentano la più grande comunità italiana al di fuori dell’Italia ed altrettanto vale per i giapponesi. Un milione sono i paulistani di origine tedesca e ragguardevoli comunità sono quelle di origine cinese, armena, lituana, greca, siriana, coreana, polacca e ungherese. Se il jazz è nato dal melting pot statunitense, quello brasiliano è ancora più composito e rivela come le identità – al di qua e al di là del “black” Atlantic – si definiscano nel crogiolo e nella fusione arricchente dell’incontro e dell’interdipendenza.
Le tre cartoline sonore da São Paulo sono state inviate e speriamo che il tempo non sbiadisca la forza dei loro colori.

© foto Luigi Onori

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