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Oggi, martedì 28 settembre, saranno 30 anni esatti dalla morte di Miles. Lo ricordiamo con un appassionato ricordo di Claudio Donà che ha avuto modo di conoscerlo personalmente non solo come appassionato ascoltatore ma anche come organizzatore. (Redazione)

Miles Davis è senza dubbio il jazzista che più di ogni altro ha influenzato il mio percorso musicale. L’ho incrociato in tre distinte fasi della mia vita: prima da appassionato, poi da critico musicale ed infine da organizzatore di concerti.
Ho incontrato Miles a metà degli anni ’70 come molti altri ragazzi della mia generazione passati dal rock al jazz grazie a quei giovani talenti inglesi che ci hanno preso per mano e traghettato in un mondo musicale sconosciuto quanto affascinante. Passare dai King Crimson, Soft Machine e da Ian Carr al Davis di “Bitches Brew” è   stato inevitabile   quanto   scioccante. Sono   quindi   andato   a ritroso, non senza fatica, con l’aiuto dell’unica rivista, Musica Jazz, dei pochi libri disponibili, ma soprattutto dei dischi. Dopo “Bitches Brew” e “In a Silent Way”, i miei primi album del Miles acustico sono stati “Sorcerer” e “Porgy&Bess”: un’illuminazione! Ed infine la dolorosa scoperta che Davis s’era ritirato e non suonava più…

Ho rincontrato Davis come critico del mensile Musica Jazz e del quotidiano Il Gazzettino nell’aprile 1982 a Roma. Ritornava in tour dopo un ritiro durato sette   interminabili anni. Erano previste due serate ed io avevo comperato i biglietti per   entrambe, scendendo nella capitale con un manipolo di amici appassionati. Nei successivi nove anni e fino alla sua morte non ho mai perso alcun suo concerto nel nord Italia, né le sue storiche esibizioni a Umbria Jazz, sia quella del 1984 a Terni che quella del 1985 allo stadio Curi di Perugia. Qui riuscii a infiltrarmi tra i fotografi; ero sul prato, sotto il palco ed ho visto la sua ombra passarmi vicino. Giacca damascata nera,  larghi pantaloni bianchi, tromba laccata di rosso: un’emozione indescrivibile!
Ho avuto poi la fortuna di avvicinarmi a Miles due volte come organizzatore e socio di Caligola, nel luglio 1986 a Mira (duemila persone in visibilio, ma per noi un vero e proprio “salasso economico”…) e nel febbraio 1988 alla Fenice, in un concerto promosso nell’ambito del Carnevale. A Venezia Davis s’è fermato due giorni ed  ha voluto incontrare alcuni pittori della nostra zona nel salone del palazzo dov’era ospitato.

In quegli anni la sua grande passione, dopo la musica, era la pittura; dipingeva moltissimo. Ognuno aveva portato le sue opere, ma lo colpì in particolare Luigi Voltolina, fra l’altro un mio caro amico. Ha chiesto di conoscerlo ed è passato nel suo studio prima di partire.
Occhi penetranti ed impenetrabili allo stesso tempo, bianchi su un volto nero pece,  uno sguardo capace di fulminarti: è uno dei  ritratti di Miles dipinti da Voltolina che si potevano ammirare nella sua casa di Malibù, un grande quadro ad olio citato e mostrato con orgoglio dalla figlia Cheryl nel docufilm di qualche anno fa  “The Miles Davis Story”.
L’ultimo ricordo è legato ad un incontro imprevisto, avvenuto due mesi prima della   sua scomparsa, nella suite dell’albergo in cui alloggiava, dopo il suo ultimo concerto italiano del 24 luglio 1991 a Castelfranco Veneto. Voltolina non parlava inglese, era con me al concerto e Davis aveva chiesto, attraverso il suo manager, d’incontrarlo.   Sono quindi salito nella stanza del trombettista con l’amico Luigi, nell’immeritata veste di traduttore. Le gambe mi tremavano, ma non c’è stato poi bisogno di tradurre molto, perché i due sono rimasti quasi mezz’ora a parlarsi con la pittura… Miles in mutande, su un letto pieno di fogli con schizzi e disegni. Quell’artista che sul palco   qualche ora prima m’era sembrato enorme, quasi immortale, si presentava ora come un uomo fragile e stanco, con una gamba ridotta a metà dell’altra (per i vari interventi all’anca, più volte sostituita). Sulla scena Davis, come i grandi ballerini, si trasformava,  appariva più grande di quello che era. I pantaloni sempre larghi, così come i vestiti chiassosi e luccicanti ne nascondevano la fragilità fisica, che avevo già intravisto nel 1988 alla Fenice, quand’era stato costretto dopo solo un’ora ad interrompere il concerto  – lui che di solito era invece generoso – e nessuno aveva capito perché. La band lasciata sola sul palco a inventarsi un finale non programmato e lui chiuso nel camerino, dove s’era di corsa rifugiato con il massaggiatore, per dei dolorosi crampi che sembravano non voler passare.
Quello che più mi ha colpito di Miles Davis è la sua capacità, forse unica nella storia   del jazz, di rinnovarsi mettendosi sempre in discussione, ricercando, ​attraverso il gioco, il rischio e l’errore, se mai fosse stato necessario. Quando un progetto sembrava giunto all’apice e avrebbe potuto vivere ancora a lungo sulla scia del successo  acquisito, ecco  che il trombettista lo abbandonava e prendeva un’altra strada, imprevista ed inaspettata, quasi mai facile e sicura, rimettendosi in gioco ma soprattutto mandando in crisi gli appassionati che avevano invece bisogno di certezze.
Come Pablo Picasso, Miles ha attraversato molti e diversi movimenti stilistici, anche storicamente distanti, riuscendo a rimanere sempre all’apice della creatività e del successo: il be–bop, il cool–jazz, l’hard–bop, il jazz modale, il quasi–free, il jazz   elettrico. Sono proprio i fans, spesso, a voler congelare l’artista per cercare di farne, quand’è ancora in vita ed in pieno fervore creativo, l’icona immutabile di un passato che non può più ritornare.
Prendo a prestito, per chiudere questo mio personale ricordo, alcune illuminanti riflessioni di mio fratello Massimo Donà, celebre filosofo ma anche eccellente trombettista di jazz e, come me, “davisiano sfegatato”, frasi tratte da un suo breve saggio del 2015 «La filosofia di Miles Davis» (Mimesis). “… nelle pratiche artistiche, non è mai l’opera da fungere da vero e proprio fine della creazione. I grandi creatori della storia l’hanno continuamente testimoniato… l’artista sembra interessato solo a riavviare il processo creativo; perché la natura comunque incorniciata dall’opera si darà ai suoi occhi come già da sempre “morta”. Da cui il bisogno di ricominciare e di mettersi nuovamente all’opera, di tornare a “fare”, e di re-innescare un processo produttivo…”

Claudio Donà

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