L’intervista pubblicata su Doppio Jazz, portale per la divulgazione del jazz

Tempo di lettura stimato: 4 minuti

Pubblichiamo con grande piacere una nuova intervista al nostro direttore Gerlando Gatto, in cui racconta la genesi e le motivazioni che hanno portato alla pubblicazione dell’instant-book “Il Jazz italiano in Epoca Covid”.
L’intervista, pubblicata sul portale “Doppio Jazz”, è stata realizzata da Guido Michelone, docente di Storia della Musica Afroamericana al Master in Comunicazione Musicale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Popular Music e Storia ed Estetica del Jazz presso il Conservatorio Vivaldi di Alessandria. (Redazione)

Questo è il link a Doppio Jazz e di seguito la trascrizione dell’intervista.

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// di Guido Michelone //

Alcuni mesi fa, autoprodotto, esce un interessantissimo volume “Il jazz italiano in epoca covid”, scritto o meglio curato da Gerlando Gatto, tra i più autorevoli critici italiani, ormai specializzati in libri di interviste, come dimostrano anche i due precedenti “Gente di jazz” e “L’altra metà del jazz”. In questo nuovo Gatto intervista 41 noti jazzmen italiani – Angeleri, Ascolese, Bearzatti, Bosso, la DeVito, Favata, Fresu, la Marcotulli, Piana, Tucci per citarne solo alcuni – in piena emergenza Covid affinché essi raccontino il loro lockdown e il loro modo di vivere un’esperienza per tutti senza precedenti. Ne parla direttamente l’Autore in un dialogo molto preciso e molto franco.

-Gerlando, quali sono i motivi che ti hanno spinto a scrivere il libro?
“Scusa se la prendo da lontano ma è importante per rispondere compiutamente alla tua domanda. Nella mia vita io ho sempre fatto il giornalista; sono diventato professionista nel 1974 e da allora mi sono guadagnato da vivere facendo il giornalista ‘economico’ nel senso che oltre a non essere particolarmente esoso, mi occupavo di economia. Trattando una materia così delicata posso affermare con orgoglio che mai ho ricevuto una smentita o una querela. A questo punto ti starai chiedendo: ma tutto questo che c’entra con il libro? C’entra in quanto è rimasto forte in me il desiderio di documentare, di raccontare i fatti come li vedo, a differenza di quanto fanno oggi i miei colleghi che scendono in campo lancia in Testa non già per raccontare fatti, ma per distruggere l’avversario politico ovviamente in linea con gli interessi dell’editore.

-E quindi hai voluto differenziarti nell’affrontare la professione giornalistica?

A ciò aggiungi il fatto che il jazz è sempre stato la mia passione, un universo in cui rifugiarmi e trovare quella bellezza fuori difficile da riscontrare. Da quando sono in pensione ho abbandonato l’economia e mi occupo solo di musica. Partendo da queste considerazioni, durante il periodo del lockdown, quando non si sapeva bene cosa fare, con un governo che stentava a trovare una via precisa, ho sentito forte l’esigenza non già di esprimere un mio parere, ma di documentare una realtà, quella dei tanti musicisti di jazz italiani che stavano vivendo un periodo così terribile. Ecco, il libro nasce da questa esigenza di far conoscere al di fuori del nostro microcosmo jazzistico la situazione di una importante categoria di artisti”.

-Il tuo è forse l’unico instant book italiano sul jazz: condividi l’inserimento in questa ‘categoria che ha spesso (come nel tuo caso) una valenza positiva?
“Onestamente non so cosa dirti. Probabilmente è vero: è un instant book e non mi pare siano stati pubblicati altri documenti di questo tipo su questa triste vicenda; ciò detto se lo consideri un fatto positivo, lo prendo come un complimento e ti ringrazio”.

-Come hanno reagito gli intervistati alle tue richieste?
“Devo confessarti che avendo programmato di porre delle domande a volte scomode, a volte potenzialmente irritanti, ho scelto con una certa cura i personaggi da intervistare. Di qui la preferenza in primo luogo di artisti che conosco da molti anni e con i quali c’era una confidenza tale da potermi consentire di porre certe questioni. Per il resto sono andato un po’ ad intuito e devo dire che mi è andata bene perché non ho trovato un solo jazzista che si sia rifiutato di rispondermi o che lo abbia fatto con fastidio o insofferenza”.

-Hai notato se i jazzisti hanno amato di più certe domande rispetto ad altre?
“Quelle che hanno amato di più sono state le seguenti: ”È soddisfatto di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?”; “Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo cosa chiederebbe?”. Rispondendo a queste domande hanno, infatti, avuto modo da un canto di esprimere tutto il carico di frustrazione che si viveva in quel momento, dall’altro di poter almeno dire a chiare lettere quali fossero le aspettative e cosa si aspettassero dal Governo da molti considerato in quei momenti, a torto o a ragione, completamente assente”.

-Quali sono i tratti comuni che accomunano i jazzmen italiani durante il lockdown?
“Devo dire che i tratti comuni erano veramente pochi per i motivi che spiegherò tra poco. Comunque un tratto che accomuna quasi – e sottolineo la parola quasi – tutte le risposte è la speranza in un domani migliore. Tornando al perché dei pochi tratti in comune, ciò deriva dal fatto che gli intervistati si possono grosso modo dividere in tre categorie con vissuto e interessi molto diversificati. Così ci sono alcuni grandi del jazz italiano (Rava, Fasoli, D’Andrea, Intra…) che hanno avuto una carriera splendida e che poco hanno sofferto, almeno dal punto di vista economico, per le ristrettezze causate dalla pandemia; ci sono poi molti musicisti nella fascia di età compresa tra i 40 ei 60 anni che se la sono cavata abbastanza bene anche perché molti di questi insegnano nei Conservatori; chi invece se l’è vista brutta sono i tanti giovani che senza concerti e senza insegnamento non hanno avuto molte occasioni di guadagno”.

-Che conclusioni puoi trarre oggi (a pandemia finita o quasi) sulla situazione di allora (2 anni fa) e su quella odierna (post-Covid)?
“Purtroppo nessuna conclusione particolarmente ottimistica. Ricordo che in quel periodo, forse per consolarci vicendevolmente, ci dicevamo che ne saremmo usciti tutti più buoni, più comprensivi. Ecco, devo constatare che nulla di tutto ciò è avvenuto sul piano umano: ne siamo usciti tutti più incazzati, se mi consentite il termine. Dal punto di vista prettamente musicale, l’unica nota positiva è che in qualche modo si è ripreso a fare musica dal vivo. Con quali esiti? Anche al riguardo non vedo grandi luci… ma qui mi fermo perché non voglio farmi più nemici di quanti già non ne abbia”.

-Gerlando, altro, infine, da aggiungere sul libro?
“Solo che mi è costato molta fatica in quanto rivolgere domande tipo “Come riesce a sbarcare il lunario?” o “Vive da solo o in compagnia?” non è stato particolarmente facile specie in certe situazioni. Comunque penso sia valsa la pena. Ma questo probabilmente devono dirlo altri”.

Cfr.: Gatto Gerlando, “Il jazz italiano in epoca covid”, GG, Roma, 2021, pagine 219, s.i.p.
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