Alessandro Fadalti recensisce Antropocene dei Kossiga: una “biopsia” sullo stato di salute dell’improvvisazione libera contemporanea

Tempo di lettura stimato: 5 minuti

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?
Una recensione del free jazz hardcore dei Kossiga che funge da violenta lama per tagliare una questione che non invecchia mai riguardo la forma e l’improvvisazione, permettendoci di fare una breve biopsia sullo stato di salute dell’improvvisazione libera contemporanea.

Se esistesse nel mondo un cannocchiale talmente lungo da poter ammirare il passato e guardare alla storia del nostra pianeta, dall’antropocene ad oggi, potremmo scorgere un lungo filo conduttore che ha intessuto l’umanità da quando ha iniziato a creare e manipolare gli oggetti. Il concetto di forma è il filo d’Arianna citato, qualcosa di così potente da aggrovigliarsi con gli altri milioni che compongono la nostra realtà. Questa permette alla grafite delle nostre matite di tracciare dei solchi su un foglio che possono circonvolgersi in uno spazio reale come nei ritratti, o in uno immaginario creato dalla nostra fantasia. Possiamo notare una ricorrenza quasi archetipica di alcuni modi attraverso cui si manifesta la forma, parlo di giustapposizioni, accostamenti armonici, contrasti, simmetrie e lascio al lettore completare la lista per non scrivere un fastidioso ecc… Pensiamo a quanto le figure ci condizionino anche nel nostro piccolo quotidiano: una nuvola informe e passeggera può diventare nella nostra mente un cane o una gazzella. Questa esperienza è chiaramente qualcosa di soggettivo, ma teniamo a mente come la ricerca della forma sia invece qualcosa di puramente oggettivo. Nella musica il discorso non fa eccezione, sotto la doccia canticchiamo motivetti di un ritornello di otto battute e in un momento di noia percuotiamo le ginocchia imitando un groove di batteria costruito su due battute, non importa quanto veloce lo facciamo, tanto l’autobus che stiamo aspettando non arriverà prima! L’idea di ciclicità e ripetizione in musica sono due approcci primordiali che sintetizziamo schematicamente all’interno di una battuta, generando quindi una forma.
Questa pomposa riflessione dai toni di uno psicologo gestaltista che parla d’arte è necessaria per parlare di quelle musiche in cui la forma viene messa in discussione. Il disco Antropocene dei Kossiga, uscito nel novembre 2022 per l’etichetta Superpang è un album che a mio parere restituisce un possibile spaccato del rapporto tra improvvisazione libera nel jazz odierno e le sue forme. Dal primo ascolto si percepisce una forte impronta free jazz, tuttavia è possibile scovare un elenco di influenze, scomodando il punk, il prog, la noise, l’hardcore e altre etichette in una tiritera di generi affibbiati. Sottolineo come sia importante parlare di influenze siccome lo spirito del jazz è sempre stato quello di arricchirsi sia di stimoli sonori esterni, che provengono dal contesto in cui l’artista vive, sia di quelle pulsioni interne derivate dalle proprie esperienze: un mix che ha reso questa musica sempre al passo coi tempi e affascinante. Possiamo leggere questo atteggiamento musicale nel duo di Alessandro Cartolari (sax baritono) e Andrea Biondello (batteria), infatti provengono da un retroterra jazz, dove l’improvvisazione libera simboleggia soltanto la cuspide di una lunga amicizia che trova base solida già in Tesa Musica Marginale (2004) del gruppo Anatrofobia. La formazione sax e batteria non è una novità nel free jazz, il rimando più old school che mi viene in mente è sicuramente l’album Interstellar Space (registrato nel 1967 ma pubblicato nel 1974) di John Coltrane e Rashied Ali dove la flessibilità ritmica del batterista di Philadelphia si concilia con il bisogno espressivo dell’ultimo Coltrane, un Apollo 11 che ci porta oltre la luna, esplorando il resto del sistema solare. Se Interstellar Space ci lancia in un viaggio nello spazio, l’album dei Kossiga ci riporta al nostro pianeta. Infatti, l’Antropocene è il periodo geologico attuale della Terra e il videoclip di lancio dell’album, a cura di Cinzia Bertodatto, parla apertamente dello stato in cui riversa. La tracklist si compone di sette brani registrati in presa diretta presso il Rubedo Recordings di Torino per mano di Manuel Volpe. Ogni pezzo si chiama Modulo, una parola che lega indissolubilmente il mondo musicale a quello architettonico, un’armoniosa congiunzione che da forma a un pianeta d’improvvisazioni.
Seguendo la scia della metafora geometrica possiamo immaginare una piattaforma triangolare in cui troviamo tre modi di guardare a come i due improvvisatori costruiscono la loro forma. Un palco inusuale per struttura, dove al primo angolo ci sono brani come Modulo 11, Modulo 5 e Modulo 7. Questi ci offrono un breve assaggio del significato di Modulo, ovvero una figura, in questo caso musicale, che viene contornata e fa da base ossessiva e ripetitiva. In questi tre brani si percepisce questo eterno ritorno della figura iniziale, ma la particolarità sta nel modo in cui essa muta, evolvendosi in maniera inaspettata. Se Modulo 11 è una linea molto dritta in tal senso, già in Modulo 5 si nota una sorta di gaussiana in cui minuto dopo minuto il suono degenera arrivando a un climax del sax con un timbro granulare e rumoristico che implode su se stesso, lasciando infine spazio a un silenzio dipinto dai colpi delle bacchette sui piatti che rallentano fino a sparire. Modulo 7 è una spirale dalla potenza centrifuga, veniamo spinti tramite un tempo vorticoso fuori dal centro, verso i margini con un intermezzo rallentato scandito da colpi secchi, simili ai drop nel metal in cui il pubblico sarebbe legittimato a fare headbanging. Come ogni vortice il tutto ripiomba nel caos. Modulo 1 invece ci guida in un’altra espressione di forma, quella che si plasma nel dialogo tra due strumenti: la voce dell’interplay. I due personaggi in scena si muovono in un chiacchierare che crea un movimento tensivo di allontanamento e avvicinamento tra due linee che nel loro separarsi creano delle distanze acusticamente percettibili, simili a un contrappunto distinto, mentre nel loro avvicinarsi creano delle frenetiche masse sonore. Non dissimile dal modo in cui Modulo 3 ci presenta il rapporto dialogico nelle improvvisazioni libera, ma qui la batteria si riserva il ruolo di un pittore che crea uno sfondo puntillistico su cui si muovono le figure del sax rispetto alla collisione di pennellate di Modulo 1.

In questi due casi risalta all’udito la ferocia con cui si crea una tensione che spinge i corpi dei musicisti quasi al limite, volando su un tempo un tempo schizofrenico. Da un lato abbiamo il suono del sax baritono con le note che vengono aggredite, riverberate, saturate e distorte, un urlo grave che sembra provenire da uno strumento fatto di ruggine, un effetto timbrico che viene sostenuto dalla batteria con le continue e ossessive rullate, gli accenni di blast beat, i groove spezzati e quei colpi violenti sui piatti dal bordo fino alla campana. Le atmosfere piene di momenti sospesi e silenzi in cui la mente può deviare verso la contemplazione non sono assenti in quest’album. In Modulo 9 e Modulo 15 lo spazio si riempie di suoni onirici che crescono e svaniscono nel nulla grazie al sax che si alterna ai rumori feltrati della batteria che sfiora con delicatezza i piatti e piega le pelli su cui vibrano degli ululati lontani. In Modulo 9 il tempo si annulla in un pulviscolo di suoni rendendo impercettibile qualsiasi forma in quasi tutto il pezzo, ma costruendo un climax tensivo che porta a un finale denso, ma in Modulo 15 è l’opposto. In quest’ultimo possiamo udire dei vaghi echi di swing che scompaiono con la stessa velocità con cui appaiono, in un percorso di lenta ma continua dissoluzione sia delle figure che della dinamica. Il suono scivola verso un luogo lontano e nebbioso dove ogni figura che prima ci appariva definita diventa sfumata e dei contorni ormai non resta che una vaga sagoma.
In ognuno dei tre approcci con cui i Kossiga parlano il linguaggio dell’improvvisazione rimane lampante come la forma emerge sempre nel momento in cui esiste uno spazio e un tempo in cui ci muoviamo, non importa se sia stabile o meno. Ci piace raccontare come Il free jazz sia uno di quei capisaldi di espressione di massima libertà, la fuoriuscita anarchica da ogni schema e regola, nonostante non sia vero; il che non toglie magia alla musica, anzi! I Kossiga sono l’esempio di come la free form non è veramente free nel risultato, ma in quanto frutto di un modo di pensare che è libero. Cartolari e Biondello con Antropocene riescono a rimandare a una loro prospettiva personale di forma libera modulo dopo modulo. Io stesso scrivendo queste parole sono vittima della ricerca di una forma, ho provato a capire perché i moduli fossero tutti dispari e mancasse il numero 13. Mi piace tuttavia lasciare alla recensione dei margini definiti, ma privandola di alcuni tasselli piuttosto che darne una spiegazione. In sintesi, questa maledetta forma è ovunque e non c’è via di fuga, nemmeno “facendo le cose a caso” come alcuni sostengono… o almeno nel nostro pianeta, dall’antropocene ad oggi, semplicemente non ci siamo ancora riusciti.

Alessandro Fadalti ©

Articoli scelti per te:

Ti è piaciuto l'articolo? Lascia un commento!

Commenti

commenti

Shares