Happiness, terzo cd dei friulani GreenTea inFusion: il sound della felicità è un’unione tra rituale e gioco

Happiness, una sensazione fulgida in uno stato di flusso presente, da notare l’assonanza con happening. Quando ci voltiamo diventa ricordo nostalgico di sorrisi ormai adombrati, quando ci proiettiamo al futuro diventa speranza sognante, ma abbassando lo sguardo appare ai nostri piedi una sagoma riflessa sul terreno, lì è l’unico luogo dove la felicità può esistere.

I GreenTea inFusion con quest’album stendono un morbido tappeto su cui gli strumenti si dispongono similmente a giocattoli da poter esplorare, il paradiso dei giochi situato oltre la siepe dell’infinito leopardiano per un bambino. Per il quartetto invece diventa l’occasione per esplorare gli infiniti possibili con un’energia endogena di fantasiose e sapienti commistioni tra le assortite collezioni di timbri ed effetti elettronici in campo. La traccia omonima all’album è emblema di questo spirito giocoso: un paesaggio simil-caraibico viene dipinto dalla cantabilità del sassofono di Gianni Iardino, dal giro danzante del basso di Pietro Liut, che diventa slap nel solo, e dalla vasta gamma di percussioni dal tiro incalzante di Maurizio Fabris. Sono soprattutto i volteggi delle manopole del synth di Franco Fabris a pilotare i frenetici cambi di rotta delle atmosfere sonore verso nuovi lidi, all’interno dell’isola che è il tappeto sopracitato. Nulla si frantuma in cocci di sperimentalismo totalizzante in questa formula, in quanto le metriche e le strutture restano immediate e modeste, un tracciato limpido su cui i rumori di onde e gabbiani di Sunsetting Hillside Moat, o il canto degli uccelli in Nueva Primavera, che fanno il verso al flauto in ingresso, sembrano posarsi con naturalezza. Se agli amanti del genere fusion mancheranno le articolate progressioni ritmiche che fanno sobbalzare, allora potranno ritrovarsi nel 5/4 che passa a un 6/4 di The Wind Blows To The West, ma ciò che lascia inevitabilmente stupefatti sono altri cardini, quali la semplicità nella resa sonora e la leggerezza distensiva del recitare una poesia sul vento che spira nel finale. Affabili sono anche le melodie, come nel rincorrersi di pianoforte e basso adornati dalle sferzate sui piatti e chimes di As Simple As You. Stimoli eterogenei che arricchiscono il gruppo in questa idea di ‘vivere fusion’, e non ‘essere fusion’, abitualmente un’etichetta stilistica che si appiccica sulle copertine.

L’atto di suonare è ritualistico, assioma manifesto in questo disco e nella formazione. Cha no yu, Gong fu cha, Masala Chai, Atay Bi Naa Naa, Tea Time: nomi di cerimonie del tè legate a più tradizioni del globo che mutano nella forma d’esecuzione e nella cultura, ma non nella sostanza. Un rito meditativo si stanzia in primo piano in introduzione a Wet Road, rovesciandosi a sfondo sulle parole di una preghiera hindi che svanisce nel silenzio dopo appena un sorso del tema al sassofono. Le percussioni e il sitar riaffiorano in un dialogo perpetuo con congegni musicali moderni, evocando un dinamico scivolare di note di tradizioni lontane senza frizioni, in una liquida eleganza. Il controaltare è il carattere solenne di Mistery, dove nulla scorre, una nebulosa declamazione contemplativa nel trittico di organo, sintetizzatore e Rhodes. I dieci brani dell’album, registrato presso il MasterStudio di Udine, hanno una loro limpida e netta identità sonora, eppure sono armonizzati da un filo rosso che li unisce. Non una sorpresa per gli amanti del tè, abituati al potere del singolo infuso di foglie che sprigiona nuovi sapori al palato in base alla temperatura dell’acqua e al loro tempo di macerazione. La cerimonia dei GreenTea Infusion si raffigura nello stile di una stampa di Hiroshi Nagai con colori sgargianti ed estivi, in stile city pop giapponese anni ’70 e ’80 sul cui orizzonte appare l’Oceano Pacifico, un limite. Lo sconfinato stagno d’acqua diventa un confine da travalicare con un’architettura arcuata di infiniti possibili che abbraccia il Giappone dei Casiopea, in brani come Outside e Two, passando per i Weather Report e chiudendosi con gli Earth, Wind & Fire in O’Rang3 (la ghost track del disco).
Che siano quattro tazzine sparse per il pianeta, quattro strumenti in uno studio di registrazione o quattro giocattoli su un tappeto, restiamo in bilico nel tempo dell’ascolto, tra il rituale e il gioco. Forse separarle non ha senso perché parte della medesima realtà, in fondo tutto il mondo è uguale a tè stesso.

Alessandro Fadalti

Nerovivo di Evita Polidoro – Nero i giorni dispari e Vivo i giorni pari

Parlami di te. Dividi un foglio con una linea orizzontale e cospargi di nero solo la metà inferiore.
Prendi una classica Bic nera e scrivi dei tuoi beni nello spazio bianco e dei tuoi mali sopra la coltre di pece.
Non si riesce a leggere ciò che sta sotto, eppure vive, siccome esiste a prescindere dalla vista. Un disequilibrio tra la parte chiarescente dell’Io e quella che sprofonda in pullulanti atti rimossi e nascosti alla mente. Tuttavia, angolando la carta sotto la luce di una lampadina, brillano i riflessi di limpidi solchi scavati dalla penna. Il tratto disvela il suo contenuto e si avvia un processo di emersione dell’interiorità che smargina il confine netto tra due zone in antitesi, trovando una pacifica coesistenza sulla medesima superficie. “Per poi fuggire, sopra le nuvole, volare ai limiti, niente sole, nero vivo, nuvole e fuliggine.”

Un quieto urlo cantato da John di Leo, nella strofa di Nero Vivo dei Quintorigo, diventa una eco travolgente che Evita Polidoro, batterista e cantante, accoglie e trasforma nel suo primo album come band leader: Nerovivo, per l’etichetta Tuk Music di Paolo Fresu, in trio con i chitarristi Nicolò Francesco Faraglia e Davide Strangi. La carriera di Polidoro è una somma di occasioni colte e scelte per giungere a questo punto del 2024. Il triennio alla Fondazione Siena Jazz, le tournée con la cantante Dee Dee Bridgewater e Francesca Michielin e il Siena Jazz 2022 al fianco di Shai Maestro, Avishai Cohen e Matt Penman. Un’anima da rocchettara dichiarata, cui nocciolo si schiude nel privato in un ricco mondo di ascolti: pop, elettronica, trap, drill, new wave, punk, fino agli sperimentalismi di Alejandra Ghersi.
Le note incise sul calco nero dell’album sono la ricerca di un gusto timbrico-elettronico che mette i suoni su frequenze gravi in primo piano, con perpetui rumorismi e drone dei synth, riverberi, feedback e delay alla chitarra, lasciando spazio sia a ricchezze melodiche che a necessari respiri di vuoti e silenzi, un mix caro all’estetica post-rock. Una locandina che promette Thom Yorke, Alt-J, Bon Iver e Sigur Rós sul medesimo palco; special guests le limature jazzistiche e gli innesti ambient perfettamente in interplay tra le formazioni.

Commistioni che pulsano nell’eclettico batterismo della Polidoro, destreggiandosi esilmente tra rock, pop e jazz. In Black Mirror, il groove dal tiro rock si articola in un fraseggio libero ma coeso nel timing, uno stile esecutivo dei batteristi post-bop e venturi. Un moto turbinante dell’accompagnamento percussivo che si amalgama ai tratti scuri e onirici delle pennate di Faraglia e Strangi, ascrivibili a colonna sonora per l’omonima serie TV dalle tematiche distopiche. Simile attenzione ai crossover anche in Limerick, una raffinata poesia strumentale strutturata su quattro sezioni, dove cellule sonore della chitarra o della batteria in una stanza rimano per riemersione in quelle successive, in un continuo permutare della tessitura colma di impliciti da scovare con l’orecchio.

Le rifiniture jazz e le sonorità ambient spirano nelle quattro “Arie” del disco, come uno spirito errante che aleggia su tutta la tracklist. Stupefacenti nel modo in cui rovesciano il ruolo convenzionale dell’ambient da significato a significante. Infatti, Arie di pioggia ha per struttura generatrice un immaginifico paesaggio plumbeo disegnato con cupe nuvole di synth, arpeggi e frasi melodiche allacciati tra le chitarre e condite da gocce d’acqua nelle sferzate con le spazzole su piatti e pelli della batteria. Un incedere atemporale del brano in cui il cumulonembo sonoro si dirada solo verso il finale. I neri più profondi sono espressi in Arie dimenticate, un gioco d’improvvisazione tra le due chitarre che diventano l’una evanescente fantasma acustico dell’altra, e in Arie morte con i solenni rintocchi dissonanti sulle corde, simili a campane funebri. Il finale dell’album, Arie ricordate, è un risveglio della coscienza, in cui le rimembranze tratte dalle arie precedenti distendono i pulviscoli neri, senza snaturarne il senso.

In Extra-Ordinary e In Your Head, s’incastrano pezzi di puzzle in frasi verticali scritte sul foglio da cui siamo partiti, un testo che prende vita con la vocalità dolce e pulita di Evita Polidoro. Leggiamo un diario di spontanea intimità che racconta le difficoltà nel mantenere i rapporti umani a noi cari, in una quotidianità sempre meno ordinaria e il funambolico rapporto tra la realtà dentro la nostra testa e quella fuori. I sintetizzatori modulari e sampler di Ruggero Fornari e Stefano Bechini creano in questi brani un perfetto connubio con le atmosfere del trio: un tepore inquieto, così avviluppante tra suono e parola da non poterlo concepire come ossimoro. La stessa Polidoro parlando di Nerovivo spiega questa sincrasi: “Nerovivo è quello che mi passa per la testa. È il contrasto continuo nel vivermi la vita: nero i giorni dispari e vivo i giorni pari.” Pari e dispari potrebbero avere un ironico corrispettivo nella posizione della “Arie” che dividono la tracklist: prima e terza contro sesta e ottava, quali di queste metà è la parte nera del foglio? Forse entrambe?
Con Nerovivo, il trio testimonia quanto il jazz odierno sia per sua natura agglomeratore e mediatore delle forze sonore interiori ed esteriori dei musicisti. Il jazz ci ha trasmesso un’idea di approccio musicale aperto verso il superamento dei confini attraverso l’estemporaneità di stimoli globali coevi e passati, ossia suonare evitando di cristallizzarci su manifesti neromorti.

Alessandro Fadalti ©

Parrhesiastes di John Zorn – Una landa franca di musiche in comunione

Una parola nuova al giorno è una di quelle tendenze che ci fa sentire più acculturati per qualche ora con delle spicce informazioni su termini spesso desueti, dimenticandoli perché mal s’incastrano alla nostra piccola isola sociale di quotidianità. Con un magheggio metalinguistico questo incipit diventa un’antipatica parresia sui tempi moderni e sul linguaggio. Ecco la parola del giorno: parresia, ossia un’attività verbale in cui il parlante esprime la verità in modo diretto, evitando qualsiasi tipo di tecnicismo retorico ma esponendosi al rischio nelle relazioni con se stesso e gli altri attraverso la critica. Questa definizione in linea coi nostri tempi ci viene regalata dalle lezioni del filosofo Michel Foucault, ma nasce dalla democrazia ateniese e in particolare nelle parole di Socrate che esaltava la parresia come una questione di vita o di morte nella lotta politica agli autoritarismi. Si sente la mancanza della parresia nella contemporaneità se pensiamo a quanto il linguaggio con cui cerchiamo di porre delle verità sia disunito e infettato dal confusionario rumore bianco della retorica dei social, dove il dialogo è una tarantella di parole persuasive e visioni distorte ed egocentriche della realtà.

Le arti fanno da specchio e antitesi a questi dilemmi sociali e nella ricerca di un crogiolo linguistico che ci accomuni è difficile non imbattersi nella figura di John Zorn.
Personaggio a cui assocerei molti poli, come polistrumentista, poliglotta, poliedrico assieme a neologismi sgangherati come policompositore, polifilosofo e poliletterato. Da quasi un decennio ha scelto di darsi anima e corpo unicamente alla composizione per svariate formazioni, assumendo il ruolo di prestigiatore che sfila dal cilindro annualmente dai tre ai quattro album pregni di quel senso di sinergia consonante tra emisferi sonori underground e l’avant-garde. La recente uscita di Parrhesiastes, per l’etichetta Tzadik fondata dallo stesso compositore nel 1995, testimonia come all’età di settant’anni la giocosità creativa di Zorn sembra fossilizzata sul rigiocare la stessa partita di Burraco, tuttavia non manca lo stupore che sa donare il rimescolamento delle carte in tavola e soprattutto la compagnia con cui si gioca è ciò che rende ogni mano una storia a sé stante. Affida questo disco alla formazione Chaos Magick, eseguendo una sorta di rituale alchemico per evocare una chimera stabile tra prog e jazz con alcuni innesti sperimentali. Un’avventura mistica con il quartetto che comincia nel 2021 con l’omonimo album Chaos Magick, proseguendo con The Ninth Circle (2021), in cui viene ripreso il viaggio agli inferi di Orfeo scritto da Offenbach, Multiplicities: A Repository Of Non-Existent Objects (2022) ispirato ai pensieri aforistici del filosofo Gilles Deleuze e infine 444 (2023), dedicato alla numerologia degli angeli. Un piano astrale che ci fa immergere in suggestioni sonore, esoteriche e filosofiche assemblate sapientemente da Zorn, che nell’ultimo album si fa più esasperato in questo apice di commistioni, mantenendo però la raffinata pragmaticità e franchezza di un parresiastes. La tracklist è un alambicco articolato in tre lunghe session che si distillano in una boccetta dall’acustica inebriante nel cui fluido vengono digerite e ridigerite le sonorità caratterizzanti dei generi amati da Zorn tra gli anni ’70 e ’80. Leggendo i titoli viene lo spauracchio che i riferimenti extramusicali ci richiedano una laurea triennale in filosofia o sociologia per essere captati. Proviamo però ad affidarci alla parresia di Zorn ed entriamo nella sua ottica di comunione linguistica senza arrovellarci alla ricerca di un ateneo a cui iscriversi.

Le coordinate celesti gettate da Zorn ci orientano nell’ascolto su un sentiero boschivo, incappando in strani solchi sul terreno… sono le orme di Hermes, messaggero degli Dei e custode della parola superiore. In The Footsteps of Hermes, possiamo seguire le impronte della divinità greca che si manifesta sotto forma di una permutazione di generi scandita passo dopo passo, minuto dopo minuto. Ogni strumento ricopre un ruolo a sé stante che si regge all’inizio in una staffetta sulla sottile soglia tra il progressive rock e il math rock; rispettivamente attraverso l’organo di John Medeski e il Fender Rhodes di Brian Marsella che cedono la parola alla chitarra di Matt Hollenberg. Quest’ultima cambia con prepotenza l’atmosfera portandoci a un focoso scontro tra solisti che assomiglia ad un match mai esistito tra Jon Lord vs. Chick Corea su un ring da boxe, muniti di tastiere al posto dei guantoni. Il groove hard rock della batteria di Kenny Grohowski sostiene questa sezione incalzante interrompendosi su brevi rullate che lasciano spazio a un intermezzo di stampo ambient ricolmo di silenzi, presto spezzato dagli inaspettati accordi metal della chitarra elettrica. In questa traccia permane con forza l’idea di perenne collisione tra le identità degli strumenti, che sgomitano alla ricerca una sintesi tra le loro individualità attraverso riferimenti stilistici elegantemente riconoscibili. Meglio apprezzare la seconda metà del brano cullati dalla sorpresa di questi interventi, piuttosto che restituirne un decalogo da telecronista. Chi segue i passi di Hermes segue l’esoterismo e la conoscenza. Questa figura per il filosofo spagnolo Luis Garagalza diventa il risolutore del problema dell’interpretazione dei linguaggi, unendo i due opposti della filosofia ermeneutica di Heidegger e Gadamer con la visione psico-antropologica di Jung che vede nel simbolismo il centro dell’esperienza umana. Traslitterando il tutto alla traccia di Zorn, seguire le orme di Hermes diventa il ponte di una schietta mediazione tra i variopinti idiomi.

The Evental Devalorization of the Perhaps cita uno scritto del filosofo Quentin Meillassoux che invoca il tema filosofico del rapporto tra eventi e caso, attraverso il pensiero di Alain Badiou che rilegge la poesia di Mallarmè Un coup de dés jamais n’abolira le hazard (Un colpo di dado non abolirà il caso). Nella poesia il fato viene raffigurato dalla morte del navigante naufragato mentre stringe tra i palmi i dadi della sorte, neanche la verità del risultato del lancio avrebbe evitato il finale nefasto. La forza costituente del brano è un mulinello di improvvisazione e noise, ma il dualismo asintotico tra verità e casualità viene richiamato nell’alternanza del generale clima incerto e onirico iniziale con gli episodi dai limpidi margini funk, blues ed acid, trovando una illusoria coesione solo per un fragile istante verso la metà. Se nel primo brano l’avvicendarsi tra le identità strumentali era una bussola della verità, qui galleggiamo sul pelo del caos, dove il preudire, nota dopo nota, diventa vano. Sorge però un problema, perché il PEUT-ÊTRE – Perhaps – dovrebbe essere il culmine inciso a lettere capitali nell’ultima pagina della poesia, una parola che mette il punto su quanto il caso sia prevaricante sugli eventi; eppure la metafora viene smorzata da un evento: l’apparizione dell’orsa maggiore, la stella polare, la salvezza oggettiva che il marinaio ha mancato e che ormai giace sul fondo assieme a lui. Una verità evenemenziale che toglie valore a quel “forse” su cui il poeta ci lascia appesi e che in Zorn corrisponde al continuo richiamo di musiche affini a cui affidarci e aggrapparci per non annegare fatalmente. La poesia visuale di Mallarmé appaia il tema della discontinuità dell’esistenza e dell’effimerità del linguaggio con un’impaginazione tipografica di parole in un fluire ondulatorio dall’alto al basso della pagina, riempiendo la carta di vuoti bianchi incisivi quanto le pause musicali nel brano. La diatriba tra il vero e il caso non trova purtroppo risoluzione nel linguaggio, un dilemma che viene marcato da un gigantesco punto di domanda acustico, la cui arcata scivolante è l’arpeggio di note evanescenti del Rhodes e il punto è l’incisivo accordo dell’organo che sfuma in un silenzio tombale.

La discrepanza tra le orme nella selva di Hermes e il galleggiare nel mare simbolista di Mallarmé genera un magnetismo che apparentemente annulla la ricerca coesiva di un crogiolo linguistico. L’indagine musicale trova però un finale di coesistenza, nell’ultimo brano Form, Object, and Desire, dove ci pensa Lacan a psicanalizzare i Chaos Magick e il loro garbuglio. La seduta comincia con una musica schizofrenica formata da attriti roventi in un susseguirsi turbolento. Una sinossi sonora dei due brani precedenti, ma in un procedimento che diventa via via più formale. Lacan è colui che assurge a demiurgo di un universo sonoro sgomitolato finalmente dal suo nevrotico intricarsi perpetuo, e così i musicisti riescono ad esprimere con lucidità le proprie inclinazioni individuali in quanto, per verbo dello psicanalista, giungono ad un epifania: il desiderio dell’oggetto non è mai indirizzato all’oggetto del desiderio. Anche se ottenuto, permane un senso di assenza e allora questa pulsione si proietta verso un nuovo oggetto e così via. La verità è che non sappiamo quello che vogliamo e non lo avremo mai, perché non è nella forma di un oggetto palpabile con i nostri sensi e quindi ogni volta che desideriamo qualcosa riceviamo una spinta che ci indirizza nel profondo della nostra interiorità, dove ci attende un oggetto che non è materiale ma esiste solo in quanto relazione tra l’umano e il linguaggio. Proprio questa visione scioglie la matassa dell’album. La parresia diventa sostanza nell’equilibrato rapporto che si crea tra le anime musicali vestite da improvvisatori che cooperano nella ricerca dell’objet petit a lacaniano. Questo, si manifesta in un brano tra il rock sofisticato e metal del chitarrismo di Hollenberg, il fraseggio bebop del piano di Marsella con ombreggiature da Cecil Taylor, il ritmo serrato da brutal prog della batteria di Grohowski, strabordando talvolta in comping degni di De Jonhette, e l’organo dal volto funk, soul e blues di Medeski. Le ultime note ripropongono un residuo di commistioni tra musica d’ascensore e innesti feroci che collimano in una tanto agognata conclusione definitiva e cadenzale.
Questa è forse la franca summa del pensiero di Zorn: una landa musicale in cui le influenze diventano comunione linguistica, accettando di affrontare assieme il caos in cui si riversa per scegliere un futuro migliore dove anche il più sognante lieto fine diventa parresia.

Alessandro Fadalti ©

Miles Davis: basta un istante per spogliarsi, in una nota di Blue in Green

Si può raccontare un artista in una sola nota? Un fantasioso viaggio nel sound di Miles Davis e la sua rivoluzione musicale, cercando la risposta attraverso la prima nota di tromba di Blue in Green del celebre album Kind of Blue del 1959. Un mix di interviste, aneddoti, storia, teoria musicale e arte per riflettere sul valore del tempo in musica nella nostra vita.

Premere il tasto pausa e poi rewind, riavvolgere un nastro o spostare la puntina di un vinile. Tutte azioni che sembrano scontate, ma sono quei gesti quotidiani più simili all’esperienza di un viaggio nel tempo. Possiamo ascoltare e riascoltare un brano o un singolo passaggio all’infinito fino a stufarci, consumando compulsivamente il tempo del disco, incidendo un solco nella nostra memoria percettiva. Vivere la musica in questo modo significa riconoscere l’eccezionalità di alcuni attimi, un impulso simile al voler scattare una fotografia che immortali un frammento di realtà da poter conservare o guardare sotto una nuova luce. Coloro che lo fanno sentono forse la necessità di tornare a quel singolo momento, per le vibrazioni che si trasformano in sensazioni corporee, per le sinestesie fantasiose che crea o per un ricordo intimo a cui lo leghiamo. Pierre Boulez nei Relevés d’Apprenti, pubblicati nel 1962, parla della concentrazione sull’istante sonoro che si manifesta nella musica di Debussy; uno tra i tanti è l’iconico ingresso dei fiati e dell’arpa nel Prélude à l’après-midi d’un faune, un momento di estasi meravigliata tale da paralizzare il tempo, con l’energia che si crea nel passaggio dal suono flebile e ammaliante del flauto del fauno all’ingresso degli altri strumenti, restituendo la sensazione di un pacifico mondo bucolico nascosto da una spessa tenda. Eppure la musica è l’arte del tempo irreversibile, sembra strano poter parlare di paralisi del tempo e ammirazione di un singolo istante di musica. Per gran parte del ‘900, il filosofeggiare sulla questione temporale ha permesso ai compositori di rimettere in discussione il concetto per cui un brano scorre e nulla può fermarla o riportarla indietro. Una marea di pensieri trasfigurati in opere che giocano viaggiando nel tempo, creando stasi, rallentamenti e dilatazioni; parallelismi di flussi che scorrono l’uno sopra l’altro, riavvolgendosi, conglomerandosi o disperdendosi in molteplici direzioni, un’idea tattile del tempo che ritroviamo ad esempio nel compositore Brian Ferneyhough. Come ascoltatori questo ci tocca nel profondo, perché siamo abituati a godere all’ascolto di una successione di eventi, la canzone è una narrazione che deve scorrere verso un punto preciso, la freccia è sempre rivolta da sinistra verso destro, guidandoci tortuosamente a un climax e a un finale. Un ragionamento sullo spazio e il tempo del suono è qualcosa che solo in apparenza si situa lontano dalla nostra vita di tutti i giorni. Tutto questo però cos’ha a che vedere con Miles Davis? Tengo in macchina un talismano, un disco dal titolo “1959 L’Anno che Cambiò il Jazz”. Un anno in cui sono usciti degli album che hanno effettivamente cambiato la storia del jazz. Davis fa parte del novero di questi musicisti rivoluzionari, tuttavia raccontarlo in modo alternativo è sempre difficile vista la mole di parole già profuse da molti. La provocazione sul tempo diventa quindi un aggancio spaziale dal sentore di fisica quantistica, l’obiettivo è racchiudere qualcosa di gigantesco in un oggetto minuscolo: una sola nota. Il Mi di Tromba tra 0:18 e 0:21 secondi nel brano Blue in Green, tratto dall’album Kind of Blue del 1959 è il contenitore su cui sperimentare, raccontando la vita e l’estro artistico del trombettista attraverso alcune tappe e stimoli creativi che confluiscono verso questo istante tridimensionale. Per capire cos’abbia di così particolare questa nota bisogna indossare varie lenti, scegliendo progressivamente quella più graduata in base a cosa si sta cercando e cosa si sceglie di osservare.

Se si parla di Miles si pensa ad un personaggio arrogante, burbero, cinico, assoggettatore, scortese, dal sorriso nascosto dietro labbra serrate o dal bocchino della tromba. Convive con una timidezza interiorizzata tale da creare delle insormontabili barriere difensive, un tratto che fa parte di quelle menti annoiate dall’ordinario, instancabilmente alla ricerca di una via d’uscita dai canoni convenzionali. Gli venne affibbiato addirittura il soprannome di Prince of Darkness per questo suo carattere, ironicamente proprio nel periodo in cui si distingueva per il look flamboyant e lo stile di vita un po’ posh. Un profilo psicologico che diventa curioso se si pensa alla sua provenienza. Cresce nell’Illinois a East St. Louis, secondo di tre fratelli in una famiglia in cui il padre lavora come dentista e la madre è violinista e insegnante di musica. Per gli anni ‘20 questo implicava un tenore di vita tipico della black bourgeoisie, ma in un’America dove il benessere economico rappresenta uno status sociale, l’afroamericano benestante non era esente dal razzismo e Miles ne è stato a lungo vittima. Vivere in questo paradossale contrasto socioeconomico potrebbe essere sufficiente per comprendere solo quale sia una delle tante scintille che portano a un propulsivo bisogno di cambiamento e ricerca creativa di nuove soluzioni espressive. Non a caso da adolescente negli anni ‘40 abbraccia la filosofia dei boppers e degli hipster, ripudiando quel mondo di modelli valoriali borghesi che ha assorbito dalla sua famiglia. Sorge spontaneo chiedersi in quale modo il suo vissuto abbia stimolato l’evoluzione del suo sound indistinguibile, quanti semi bisogna piantare perché cresca una pianta di Miles?

Indossando degli occhiali che ci danno il senso di profondità di campo possiamo andare oltre la cornice del quadro che è la sua vita. Allora guardiamo al ramificato inviluppo di interviste, pareri, aneddoti e racconti scritti da critici, giornalisti, biografi, storici, produttori e musicisti con cui Davis ha suonato. Timbro etereo e raffinato, grande lirismo, uso di sordine, come se dalla campana uscisse una nebbia: queste parole sono la sintesi di aggettivi provenienti da diverse penne usate per descrivere il suono della sua tromba dal ’58 in poi. L’idea della nebulosità è suggestiva e ben si sposa con la sua voce più iconica, quella irrimediabilmente divenuta rauca e arrugginita dopo un’operazione per rimuovere dei noduli alle corde vocali nel ‘57. In particolare, possiamo già sentire nelle ballad come My Funny Valentine e It Never Enter My Mind, registrati nel ’56 per gli album Cookin’ e Workin’, un’ombra sonora che sembra proiettarsi inesorabilmente verso quella foschia magica della nota di Blue in Green. Questo è un Miles molto sicuro e chiuso nelle sue idee siccome è arrivato al punto d’illuminazione tanto atteso che connette passato, presente e futuro del jazz. Si rinchiude nello studio di registrazione formando un sestetto eccezionale, composto da musicisti ormai punti cardinali della sua formazione, John Coltrane al sassofono e Paul Chambers al contrabbasso a cui si aggiungono il contraltista Cannonball Adderley, Bill Evans al piano e Jimmy Cobb alla batteria. Il gruppo si arma solo di qualche canovaccio e foglietto su cui erano abbozzate delle note su cui improvvisare, pronti a mettere in vinile, nero su nero, quella che era la nuova idea di sound davisiano, Kind Of Blue. Si legge spesso di come quest’album sia stata la prima opera in cui il trombettista sconquassa il jazz approcciandosi alla musica modale. Una visione un po’ miope nel momento in cui scopriamo come la musica modale in Davis sia solo un tassello nel macrocosmo di influenze e scoperte che ha fatto nella vita e soprattutto di come la bussola di questi cambiamenti punti sempre verso quel sound che tanto fa parlare di lui. Allontanando lentamente il fuoco del nostro sguardo verso il passato, troviamo un’intervista con Nat Hentoff del dicembre del ’58, in cui Davis disse: “Quando Gil [Evans] compose l’arrangiamento di “I Love You Porgy” mi scrisse solo una scala. Niente accordi, è questo dà molta più libertà e spazio per sentire le cose. Quando suoni in questo modo puoi andare avanti per sempre. Non devi preoccuparti dei changes e puoi fare molto di più con la linea melodica. Quando ti basi sugli accordi, sai che alla fine delle trentadue battute l’accordo è concluso e non puoi far altro che ripetere ciò che hai fatto con alcune variazioni”. Un altro esempio lo troviamo nelle parole del produttore discografico George Avakian, che nel ’56 ha portato Bernstein e Miles a collaborare per un arrangiamento stile cool jazz del brano Sweet Sue nell’album in uscita What is Jazz? “Quello che fece quando suonò Sweet Sue era una breve introduzione formale, prima di scivolare nell’improvvisazione totale, estremamente libera. È stata una svolta improvvisa in cui ha semplificato la struttura accordale della melodia, si è più o meno persa l’armonia della canzone. Quella potrebbe essere stata la scintilla da cui è scaturita la qualità fluida del fraseggio in Kind of Blue”.

Il punto di arrivo di questo decalogo lo troviamo invece nelle parole di George Russell quando racconta come “Ho percepito che Miles volesse trovare un nuovo modo di rapportarsi agli accordi, e il pensiero di come potesse arrivarci è qualcosa su cui rimuginava costantemente. Ho parlato con Miles delle scale modali sul finire degli anni ‘40 e mi domandavo come mai ci stesse mettendo così tanto, ma quando ho sentito So What ho capito che li stava usando”. Viene spontaneo pensare che Miles si sia lasciato ispirare dal famoso libro di Russell Lydian Chromatic Concept of Tonal Organization, pubblicato nel’53, un testo che è stato consumato anche dai jazzisti dell’epoca. La corrispondenza nelle date darebbe senso a un brano come Swing Spring del ’54 in cui c’è una chiara costruzione modale negli accordi e nei solo. Tuttavia, le parole di Russell colpiscono se si pensa come Miles parlasse dei modi in un’epoca non sospetta come gli anni ’40. Una decade in cui è passato nel giro di poco da studiare alla Juilliard nel ‘44, quello che per lui era l’istituto adatto per diventare un professionista, ma trasformatosi presto in un momento di noia che interrompeva la sua divertente partita a nascondino per i locali della 52esima strada alla ricerca di Gillespie e Parker, alla vittoria di questa partita che gli è valsa la collaborazione assidua proprio con Bird l’anno dopo. Arrivando poi al ’48, quando iniziò a suonare con la cerchia di musicisti che gravitava attorno al compositore Gil Evans, tra cui Lee Konitz, Gerry Mulligan e John Lewis. Questo scambio tra i due avviene quindi nel periodo delle prime espressioni del cool jazz, in cui Davis comincia a levigare un suono più personale, in un lirismo assorto concedendosi qualche accenno di vibrato, una poetica che è anche riscoperta della sua adolescenza, precisamente in quell’ispirazione nata dal legame col trombettista Clark Terry. Questo riallacciarsi al passato non sorprende siccome la seduzione per il ritmo aggressivo e frenetico del Bebop è durato poco a conti fatti. Per molti jazzisti la via d’uscita da quello stagnante linguaggio incentrato sui changes si è costruita anche attraverso quei nodi tra passato e presente musicale nelle cui fibre si celano quei what if che aspettano l’attimo propizio per diventare compiuti. Altro motivo d’ispirazione verso la musica modale si riscontra quando riflettiamo sulla natura della grande mela: una troposfera culturale dove la musica fluttua tra cielo e terra e l’ossigeno che si respira è un composto di musica latino-americana, spagnola, egiziana, medio-orientale, indiana e d’ogni altro folklore immaginabile… una miscela di accenti sonori che contemplano sistemi scalari alternativi a quelli della musica occidentale. Per Miles ogni incontro con un musicista e ogni concerto del periodo newyorkese potrebbe esser stato lo spunto primigenio. Il trombettista si sofferma poco su questioni tecniche quando parla di Kind of Blue, invece nelle intenzioni risulta trasparente. Perché questo suo excursus storico ci mostra come la modalità sia un mero tramite per raggiungere la sua idea di spazio in musica, per cui il musicista, potendo andare oltre il rapporto armonia-melodia, è in grado di contemplare uno svuotamento di significato nella dimensione verticale e riempiendola di una melodia orizzontale che sgorga con maggior libertà, raffinando nel linguaggio l’intensità e soprattutto il timbro.

Miles parla nello specifico di “suonare lo spazio” con Gil Evans, riferendosi alla musica del nuovo trio del pianista Ahmad Jamal con Israel Crosby al contrabbasso e il batterista Vernel Fournier. Questa idea dello spazio ci spinge a ritornare dentro la cornice del quadro, indagando il tempo con degli occhialini chirurgici, fino a usare il microscopio di un biologo per indagare quella che il compositore Gérard Grisey chiamava la vita interna del suono. Blue in Green è solo in apparenza un brano semplice, se guardiamo alla sua struttura possiamo immaginare la sfida non indifferente per il sestetto a improvvisare così liberamente su una infrequente forma di dieci battuti. Improvvisazioni che diventano ancora più affascinanti se sentiamo con quanta frenesia il ritmo armonico muta in raddoppi o dimezzamenti all’alternarsi dei solisti. Sull’armonia di questo brano sussistono opinioni divisive, a ben guardare si possono sentire alcuni escamotage che non lo rendono modale in senso stretto, personalmente mi trovo in disaccordo con chi sostiene sia sufficiente a detrarne la natura modale. Per comprenderla bisogna spostare il punto focale dall’analisi armonica e concentrarsi su quanto la melodia della tromba di Miles si esprime in un fraseggio nei cui respiri non si trova mai quella nota che crea un appoggio o una chiusura coerente alle funzioni armoniche sottostanti. Si percepisce una gran tensione quando si scontra con il pianoforte di Evans, che dà l’impressione di dover inseguire le note di Miles dando una risoluzione armonica a un’idea melodica che è già passata, svanita nell’aria. Questo effetto crea una forma di dialogo infinito, precludendo alla narrazione una proiezione uditiva verso un finale. Esiste quindi quello che si chiama un pensiero di circolarità in Blue in Green, un termine usato da Herbie Hancock e riportato dai compositori e teorici musicali Henry Martin e Steve Larson per descrivere questa peculiarità strutturale del brano. L’idea circolare è coerente a questa interpretazione di una corsa sfuggente della melodia alla ricerca di un centro tonale di gravità permanente, isolato rispetto al basso e al pianoforte, due strumenti che circumnavigano attorno a progressioni armoniche in tonalità ora di Re minore ora di La minore. Ma quindi è modale o no? La prima nota è la dichiarazione d’intenti sufficiente a far cadere ogni indugio, un Mi naturale sopra un accordo di Sol minore undicesima, un colore limpidamente dorico. Uscendo dai binari della teoria, è indubbio quanto questa nota si presenti come un cardine percettivo topico, viene suonata con la stessa delicatezza della pennellata di un pittore impressionista che disegna un paesaggio in cui il tempo si è paralizzato, ma nelle sfumature e nelle ombre possiamo vedere una scena che scorre nella nostra immaginazione. Utilizzando il microscopio del sonogramma è possibile amplificare questa retorica coloristica, guardandola nella sua composizione cellulare.

In termini tecnici questo è uno spettro sonoro. Il suono nel suo vibrare genera frequenze, rappresentate come stringhe la cui lunghezza è data dalla nascita e morte della loro emissione. Quanta più energia hanno queste frequenze tanto più le stringhe brillano di una luce intensa, restituendoci l’idea visiva di quanto un singolo suono sia in realtà costellazione eterocromatica di una moltitudine di altre note, creando uno spazio acustico che alle nostre orecchie si trasforma in timbro strumentale, ma a un livello più profondo può addirittura restituirci la firma distintiva e personale di un’artista. Possiamo in soldoni vedere il Mi di Blue in Green in tutta la sua intima vita interna, in rosso è contrassegnata la nota reale che suona Miles, mentre in blu vediamo quanta energia ci sia fino alle prime cinque parziali armoniche, le cosiddette stringhe, fino al Mi due ottave sopra. Questa energia resta vivida anche nelle parziali superiori rappresentate nel rettangolo giallo dell’immagine, dove vediamo la brillantezza del suono di Miles nelle frequenze più acute, quelle evanescenti all’orecchio. Sempre nella parte in giallo è interessante vedere l’effetto che crea la sordina Wah Wah per tromba che apre a ventaglio il suono, strato dopo strato gli attacchi delle parziali si disvelano, come se venissero tolte una ad una delle lenzuola sottilissime sulla nudità di una nota a prostrarsi in tutta la sua fragilità proprio come l’animo stesso di Miles. Questo sonogramma restituisce un corrispettivo tra gli aggettivi usati per descrivere la percezione del sound di Miles attorno al ’59 e la sua reale composizione fisica, a dimostrazione dell’eccezionalità esecutiva di questa nota che può quindi segnare un sunto e punto d’arrivo nel lungo percorso dell’artista. Se questa corrispondenza tra scienza e immaginazione non fosse un setting ancora abbastanza suggestivo e mistico, allora pensiamo a cosa succede prima di questa nota. Possiamo sentire in introduzione un accompagnamento sofisticato, misterioso ma dalla grande serenità; il contrabbasso di Paul Chambers è avvolgente nell’inseguire il movimento armonico del pianoforte di Bill Evans. Una danza tra i due strumenti che creano un’ambiente dolce e rilassato, trovando una conclusione amara sull’ultimo accordo che ci lascia in sospeso come fosse una domanda dubbiosa nei confronti di questo piacere spensierato e cullante. La tromba di Miles è la risposta, con questo suono mesto che cambia irrimediabilmente l’atmosfera del brano. Il significato del titolo Blue in Green alla fine è simboleggiato dall’arrivo di questo istante sonoro preso in esame: una speranzosa pace che lascia spazio a una malinconia dal colore blu. Quante volte nelle nostre vite abbiamo provato questo? Parlo della gioia tipica di un traguardo raggiunto dopo un lungo viaggio verso quel verde, ma proprio quando ci si ferma per goderne, incombe la malinconia e il vuoto esistenziale con quella sua aura blu che risuona proprio come questo maledetto Mi, e in quell’istante il tempo del vivere si paralizza. Questa nota, oltre ad allacciare passato e presente di Miles, diventa profetica nel suo significato, perché questa sensazione assomiglia molto a come viene dipinto il trombettista poco dopo nel ’61. Un momento di apice della sua carriera, in cui decide di allontanarsi dalla scena per un paio d’anni, una vita di rendita in forza della fortuna monetaria accumulata, potendo godere di un’esistenza domestica nel proprio focolare. Esagerando con la fantasia potremmo prendere Miles e Monet, mettendoli seduti comodamente su due poltrone in uno di quei salotti d’intellettuali parigini che piacevano al trombettista quando andava in Francia. Una terra che per lui è croce e delizia, dal fiasco della sua prima esibizione europea nel tramonto degli anni ’40 che lo ha portato a gettarsi nell’abuso delle droghe, all’amore irrefrenabile che ha trovato in Jeanne Moreau, attrice nel famoso film noir Elevator to the Gallows del regista Louis Marie Malle, per cui Miles ha improvvisato nel ‘58 in presa diretta l’intera colonna lasciandosi suggestionare dallo scorrere delle scene su grande schermo. Chissà cosa si sarebbero detti il pittore e il musicista se si fossero scambiati quattro chiacchiere ascoltando Blue in Green mentre guardavano a uno dei quadri della serie delle ninfee.

Claude Monet scrisse “Un’istante, un aspetto della natura contiene tutto” riferendosi ai suoi tardi capolavori che ha dipinto, dal 1879 alla sua morte, nella sua dimora a Giverny. Frase azzeccata se la colleghiamo al valore d’istante che possiede questa nota rispetto al dipinto di Claude Monet del 1907: uno squarcio di blu tenue che dissipa il verde attorno fino a liquefarsi. Una scena che si mette in moto da sola al primo sguardo. Questo quadro è un’analogia che si collega per associazione visiva, alle frequenze del sonogramma e per sinestesia alla sensazione intima del Blue in Green riassunta in quel Mi. Addirittura, potremmo dire che è una summa della storia del trombettista che con il movimento degli impressionisti ha degli incroci; in fondo anche i pittori dell’epoca cercavano uno stile personale per uscire dallo stagnante linguaggio del realismo in pittura, così come Miles ha trovato in un sound in perenne evoluzione, l’essenza della sua rivoluzione del linguaggio jazz. Qualcosa di enorme che ben calza dentro qualcosa di così piccolo come una singola nota.

L’appello in chiusura è quello di immergersi in questa nota al punto tale che il frullato di parole lette non sia più qualcosa di scritto, ma venga generato in un istante come un bagliore dalla propria mente al solo ascolto di quei pochi secondi di Blue in Green. Questo è l’effetto che provo ogni volta che la riascolto e il motivo per cui quel Mi di tromba è la mia nota prescelta a riassumere l’essenza di Miles Davis. Sarei curioso di chiedere ad ogni persona quale sia il suo istante in musica preferito, quale arista, quale canzone, quale nota sceglierebbero e perché. In caso fatemelo sapere sarei ben curioso di leggere e condividere questa esperienza musicale.

Alessandro Fadalti

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?

Kossiga Antropocene – Che forma ha un pianeta d’improvvisazioni libere?
Una recensione del free jazz hardcore dei Kossiga che funge da violenta lama per tagliare una questione che non invecchia mai riguardo la forma e l’improvvisazione, permettendoci di fare una breve biopsia sullo stato di salute dell’improvvisazione libera contemporanea.

Se esistesse nel mondo un cannocchiale talmente lungo da poter ammirare il passato e guardare alla storia del nostra pianeta, dall’antropocene ad oggi, potremmo scorgere un lungo filo conduttore che ha intessuto l’umanità da quando ha iniziato a creare e manipolare gli oggetti. Il concetto di forma è il filo d’Arianna citato, qualcosa di così potente da aggrovigliarsi con gli altri milioni che compongono la nostra realtà. Questa permette alla grafite delle nostre matite di tracciare dei solchi su un foglio che possono circonvolgersi in uno spazio reale come nei ritratti, o in uno immaginario creato dalla nostra fantasia. Possiamo notare una ricorrenza quasi archetipica di alcuni modi attraverso cui si manifesta la forma, parlo di giustapposizioni, accostamenti armonici, contrasti, simmetrie e lascio al lettore completare la lista per non scrivere un fastidioso ecc… Pensiamo a quanto le figure ci condizionino anche nel nostro piccolo quotidiano: una nuvola informe e passeggera può diventare nella nostra mente un cane o una gazzella. Questa esperienza è chiaramente qualcosa di soggettivo, ma teniamo a mente come la ricerca della forma sia invece qualcosa di puramente oggettivo. Nella musica il discorso non fa eccezione, sotto la doccia canticchiamo motivetti di un ritornello di otto battute e in un momento di noia percuotiamo le ginocchia imitando un groove di batteria costruito su due battute, non importa quanto veloce lo facciamo, tanto l’autobus che stiamo aspettando non arriverà prima! L’idea di ciclicità e ripetizione in musica sono due approcci primordiali che sintetizziamo schematicamente all’interno di una battuta, generando quindi una forma.
Questa pomposa riflessione dai toni di uno psicologo gestaltista che parla d’arte è necessaria per parlare di quelle musiche in cui la forma viene messa in discussione. Il disco Antropocene dei Kossiga, uscito nel novembre 2022 per l’etichetta Superpang è un album che a mio parere restituisce un possibile spaccato del rapporto tra improvvisazione libera nel jazz odierno e le sue forme. Dal primo ascolto si percepisce una forte impronta free jazz, tuttavia è possibile scovare un elenco di influenze, scomodando il punk, il prog, la noise, l’hardcore e altre etichette in una tiritera di generi affibbiati. Sottolineo come sia importante parlare di influenze siccome lo spirito del jazz è sempre stato quello di arricchirsi sia di stimoli sonori esterni, che provengono dal contesto in cui l’artista vive, sia di quelle pulsioni interne derivate dalle proprie esperienze: un mix che ha reso questa musica sempre al passo coi tempi e affascinante. Possiamo leggere questo atteggiamento musicale nel duo di Alessandro Cartolari (sax baritono) e Andrea Biondello (batteria), infatti provengono da un retroterra jazz, dove l’improvvisazione libera simboleggia soltanto la cuspide di una lunga amicizia che trova base solida già in Tesa Musica Marginale (2004) del gruppo Anatrofobia. La formazione sax e batteria non è una novità nel free jazz, il rimando più old school che mi viene in mente è sicuramente l’album Interstellar Space (registrato nel 1967 ma pubblicato nel 1974) di John Coltrane e Rashied Ali dove la flessibilità ritmica del batterista di Philadelphia si concilia con il bisogno espressivo dell’ultimo Coltrane, un Apollo 11 che ci porta oltre la luna, esplorando il resto del sistema solare. Se Interstellar Space ci lancia in un viaggio nello spazio, l’album dei Kossiga ci riporta al nostro pianeta. Infatti, l’Antropocene è il periodo geologico attuale della Terra e il videoclip di lancio dell’album, a cura di Cinzia Bertodatto, parla apertamente dello stato in cui riversa. La tracklist si compone di sette brani registrati in presa diretta presso il Rubedo Recordings di Torino per mano di Manuel Volpe. Ogni pezzo si chiama Modulo, una parola che lega indissolubilmente il mondo musicale a quello architettonico, un’armoniosa congiunzione che da forma a un pianeta d’improvvisazioni.
Seguendo la scia della metafora geometrica possiamo immaginare una piattaforma triangolare in cui troviamo tre modi di guardare a come i due improvvisatori costruiscono la loro forma. Un palco inusuale per struttura, dove al primo angolo ci sono brani come Modulo 11, Modulo 5 e Modulo 7. Questi ci offrono un breve assaggio del significato di Modulo, ovvero una figura, in questo caso musicale, che viene contornata e fa da base ossessiva e ripetitiva. In questi tre brani si percepisce questo eterno ritorno della figura iniziale, ma la particolarità sta nel modo in cui essa muta, evolvendosi in maniera inaspettata. Se Modulo 11 è una linea molto dritta in tal senso, già in Modulo 5 si nota una sorta di gaussiana in cui minuto dopo minuto il suono degenera arrivando a un climax del sax con un timbro granulare e rumoristico che implode su se stesso, lasciando infine spazio a un silenzio dipinto dai colpi delle bacchette sui piatti che rallentano fino a sparire. Modulo 7 è una spirale dalla potenza centrifuga, veniamo spinti tramite un tempo vorticoso fuori dal centro, verso i margini con un intermezzo rallentato scandito da colpi secchi, simili ai drop nel metal in cui il pubblico sarebbe legittimato a fare headbanging. Come ogni vortice il tutto ripiomba nel caos. Modulo 1 invece ci guida in un’altra espressione di forma, quella che si plasma nel dialogo tra due strumenti: la voce dell’interplay. I due personaggi in scena si muovono in un chiacchierare che crea un movimento tensivo di allontanamento e avvicinamento tra due linee che nel loro separarsi creano delle distanze acusticamente percettibili, simili a un contrappunto distinto, mentre nel loro avvicinarsi creano delle frenetiche masse sonore. Non dissimile dal modo in cui Modulo 3 ci presenta il rapporto dialogico nelle improvvisazioni libera, ma qui la batteria si riserva il ruolo di un pittore che crea uno sfondo puntillistico su cui si muovono le figure del sax rispetto alla collisione di pennellate di Modulo 1.

In questi due casi risalta all’udito la ferocia con cui si crea una tensione che spinge i corpi dei musicisti quasi al limite, volando su un tempo un tempo schizofrenico. Da un lato abbiamo il suono del sax baritono con le note che vengono aggredite, riverberate, saturate e distorte, un urlo grave che sembra provenire da uno strumento fatto di ruggine, un effetto timbrico che viene sostenuto dalla batteria con le continue e ossessive rullate, gli accenni di blast beat, i groove spezzati e quei colpi violenti sui piatti dal bordo fino alla campana. Le atmosfere piene di momenti sospesi e silenzi in cui la mente può deviare verso la contemplazione non sono assenti in quest’album. In Modulo 9 e Modulo 15 lo spazio si riempie di suoni onirici che crescono e svaniscono nel nulla grazie al sax che si alterna ai rumori feltrati della batteria che sfiora con delicatezza i piatti e piega le pelli su cui vibrano degli ululati lontani. In Modulo 9 il tempo si annulla in un pulviscolo di suoni rendendo impercettibile qualsiasi forma in quasi tutto il pezzo, ma costruendo un climax tensivo che porta a un finale denso, ma in Modulo 15 è l’opposto. In quest’ultimo possiamo udire dei vaghi echi di swing che scompaiono con la stessa velocità con cui appaiono, in un percorso di lenta ma continua dissoluzione sia delle figure che della dinamica. Il suono scivola verso un luogo lontano e nebbioso dove ogni figura che prima ci appariva definita diventa sfumata e dei contorni ormai non resta che una vaga sagoma.
In ognuno dei tre approcci con cui i Kossiga parlano il linguaggio dell’improvvisazione rimane lampante come la forma emerge sempre nel momento in cui esiste uno spazio e un tempo in cui ci muoviamo, non importa se sia stabile o meno. Ci piace raccontare come Il free jazz sia uno di quei capisaldi di espressione di massima libertà, la fuoriuscita anarchica da ogni schema e regola, nonostante non sia vero; il che non toglie magia alla musica, anzi! I Kossiga sono l’esempio di come la free form non è veramente free nel risultato, ma in quanto frutto di un modo di pensare che è libero. Cartolari e Biondello con Antropocene riescono a rimandare a una loro prospettiva personale di forma libera modulo dopo modulo. Io stesso scrivendo queste parole sono vittima della ricerca di una forma, ho provato a capire perché i moduli fossero tutti dispari e mancasse il numero 13. Mi piace tuttavia lasciare alla recensione dei margini definiti, ma privandola di alcuni tasselli piuttosto che darne una spiegazione. In sintesi, questa maledetta forma è ovunque e non c’è via di fuga, nemmeno “facendo le cose a caso” come alcuni sostengono… o almeno nel nostro pianeta, dall’antropocene ad oggi, semplicemente non ci siamo ancora riusciti.

Alessandro Fadalti ©

Pharoah Sanders – Un amore più supremo dell’amore supremo

Per cosa ci piacerebbe essere ricordati dopo la nostra morte? Solo a sentire questa domanda si materializzano ambienti rumorosi di bocche che in un flusso infinito recitano un monologo adornato di fantasticherie intime ed infinite, oppure risme di fogli bianchi che vengono incisi da penne fino a finire l’inchiostro, sfogliandoli freneticamente fino a creare una sorta di testamento immaginario da dedicare al mondo; o magari nessuna risposta, una pausa a cui non seguirà alcuna nota: il vuoto. Pensare all’oltre mondo è umanamente comune, l’abbiamo fatto tutti e immaginare quale memoria lasceremo di noi è un tema caldo. Una volta che si spengono le luci del nostro palco gli spettatori si alzano, cominciano a mettersi in fila i tuoi dolci affetti, conoscenti, colleghi, amici e parenti che non vedono l’ora di scrivere un epitaffio d’amore da dedicarti. L’unico dispiacere è che qualunque discorso propinato finisce in una damigiana da cui tracannano i provetti poeti fino ad affogare. Tutti alzano il gomito in questo rituale di auto terapia per affrontare la morte, mentre tu, che dovresti essere il diretto destinatario di ogni poesia recitata al brindisi, non potrai mai ascoltare quello che gli altri hanno da raccontare di te stesso. Quindi ha davvero senso spedire una lettera a un morto? No, meglio scrivere per quelli che restano, perché creare memoria è più importante che rispondere agli ipotetici capricci di un defunto, difatti lui non può nemmeno ribattere e dir la sua a meno che i medium non diventino avvocati e notai degli spiriti dell’aldilà.
Questo preambolo ci pone nell’ottica di ricercare quale sia l’approccio migliore per raccontare post mortem una vita musicale così intensa di significati ed eterogenea come quella di Pharoah Sanders. Un musicista del suo calibro è un poliedro complesso, in ogni angolo si rispecchia una storia che differisce per prospettiva ma si interseca per eventi. Immaginando di voler camminare sopra questa gigantesca forma geometrica ci si renderebbe presto conto che per coglierne il centro, quindi il nucleo e la sua anima, non si può solo camminare a zonzo senza farsi domande, serve un aiuto. Un album potrebbe essere la grande guida che ci serve per non perderci.

La guida che voglio proporre è un Lost Record del Live in Paris del 1975, pubblicato e restaurato dall’etichetta discografica Transversales Disques. Sébastien Rosat, co-fondatore dell’etichetta, mi ha spiegato in un breve scambio di mail che l’album è stato come ritrovare un tesoro; già dal primo ascolto si capiva quanto fosse una performance straordinaria. La Transversales Disques ha compiuto in primis un lavoro di restauro sul materiale ritrovato nel 2017 nel caveau di Radio France e a impreziosire l’esperienza c’è la minuzia per la ricerca di fotografie scattate per quella performance. Proprio quando le ricerche stavano per arrivare a un punto morto ci ha pensato la fortuna a fargli ritrovare una foto del concerto in “Jazz Hot” Magazine per mano della fotocamera di Christian Rose che ha fornito un rullino pieno di splendide istantanee dell’evento, arricchendo un’edizione discografica rara e unica; sicuramente realizzata con quel tipo di passione che solo gli amanti del jazz riescono a mettere in ciò che fanno nella vita. Questa storia ci catapulta in una prospettiva romantica nei confronti dell’album, ma diventa un antipasto ricco di proteine per affrontare il viaggio che propongo, ma soprattutto è funzionale a un piccolo gioco di prestigio: usare l’album del concerto come incipit, cercando di rovesciare la classica prospettiva della biografia al servizio della musica, seguendo piuttosto il flusso sonoro del live e quello degli eventi in ordine cronologico. Questo processo permette di trasformare quel poliedro di cui parlavo, attraverso la scomposizione e ricomposizione in una nuova forma, quella plasmata dalle note del sassofono di Sanders il 17 novembre del 1975 al Grand Auditorium nello studio 105 della Maison de la Radio.

Love is Here part I/part II
Il seguente brano potrebbe essere tanto un inedito quanto un arrangiamento improvvisato estremamente articolato di Love is Here To Stay, fatto sta che troverà pubblicazione per la prima volta in un album del 1978 Love Will Find a Way, accompagnato dalla splendida voce della cantante Phyllis Hyman. Il fatto che sia stato eseguito nel 1975 a Parigi, per venir poi pubblicato solo tre anni dopo, lo rende un esempio calzante del processo creativo del faraone. Sanders non è il tipico musicista con la matita pronta in mano a calcare il pentagramma, il punto di partenza è sempre quello dell’improvvisazione da cui si generano idee e motivi, dispiegandosi in una cosiddetta forma estesa (approccio tipico nell’estetica free), ma in questo caso è più corretto chiamarla Suite, come lui la concepiva: improvvisazioni molto lunghe ma divise in due parti. Andando oltre il contesto, quello che sentiamo di primo impatto è un forte senso energico da parte di tutto il gruppo a partire dal pianismo percussivo di Danny Mixon, alla batteria serrata di Greg Bandy in cui si inserisce l’ostinato basso di Calvin Hill, talmente intenso che sembra di poter sentire le dita della pelle levigarsi su quelle corde e infine il sassofono tenore di Sanders, che comincia con un lirismo e una dolcezza ingannevole nell’eseguire il tema. Un inganno perché nei primi minuti qualcuno potrebbe soltanto dire che è molto bravo, ha una tecnica solida ma non fuori dal comune al suo strumento; tuttavia, man mano che passano le battute ci si accorge presto di cos’abbia di così particolare da catturare ogni orecchio. La sensazione è che l’ancia venga strozzata e la campana d’ottone vibri ad altissima magnitudo, con un fluire rapidissimo di raggruppamenti di note in scala che assomigliano quasi a un glissando, altre volte si sofferma su ritmi irregolari arrivando fino a dei sovracuti urlanti, lo screaming come lo definivano alcuni, che però in Sanders si fonde a uno stile che è in parte erede del sassofonismo di Coltrane. A partire dall’album Soultrane (1958), il critico Ira Gelter in un articolo su Down Beat dello stesso anno, chiama Sheets of Sound questo approccio al sassofono. Viene da stupirsi pensando a come Sanders sia un musicista in grado di essere così aggressivo e dolce allo stesso tempo mentre suona, ma in questa duplicità passano in mezzo molti stati d’animo, ci si rende conto abbastanza in fretta di quanto la sua palette espressiva sia più complessa e variegata rispetto a quella manciata di note del tema all’inizio del brano. L’effetto è seducente, ci sentiamo lentamente magnetizzati, solo dopo solo, brano dopo brano mentre veniamo accompagnati dalla direzione di queste energie in gioco. La forza è talmente trascinante anche nel solo di pianoforte per fare un esempio, in cui ascoltiamo giochi di simili intenzioni gestuale tra registri e intensità esecutiva; percepiamo quindi una coesione tipica di quei musicisti che riescono a entrare nella misteriosa dimensione dell’Interplay.

Udin&Jazz 2008 – ph Luca A.d’Agostino

Farrell Tune
Se quella sera tra il pubblico ci fosse stato un ascoltatore casuale di jazz, trascinato di peso in quell’auditorium da un amico a sentire per la prima volta un concerto di Sanders, potrebbe essersi chinato di lato durante i primi applausi per sussurrare con stupore ed entusiasmo al suo vicino di posto: “Che figata oh! Ma scusa, chi è questo Sanders?”. Farrell “Pharoah” Sanders rientra tra quei jazzisti che in quegli anni hanno vissuto storie di vita simili tra esordi e scelte intraprese, curiosamente tutti sono arrivati ad incontrarsi e a collaborare nell’ambito della cosiddetta new thing: sono nati e cresciuti in ambienti di ghetto delle grandi città o negli stati periferici dell’America, hanno scoperto l’amore per il jazz o attraverso la musica della messa afroamericana o con la band delle High School, infine hanno creato una propria formazione o hanno tentato di piazzarsi a fianco di qualche nome grosso. La città natale di Sanders è Little Rock in Arkansas, uno stato dove i locali per suonare sono divisi come in una scacchiera, quelli per i bianchi e quelli per i neri, in questi ultimi era il rhythm and blues con i suoi ritmi molto ballabili e le note piacenti a far da padrone, un genere che ha fatto da palestra negli anni giovanili di molti jazzisti dell’epoca. Questa condivisione di destini simili è forse uno dei motivi per cui tutti questi musicisti free riuscivano a entrare così fortemente in connessione gli uni con gli altri; mi riferisco a persone del calibro di Archie Shepp, Albert Ayler, Ornette Coleman, Billy Higgins, Don Cherry e Cecil Taylor… Però, volendo scavare più a fondo su chi sia Farrell Sanders dovremmo allontanarci un minimo da meri dati storiografici e rivolgerci al diretto interessato. In merito è interessante quello che emerge in una delle interviste più semplici e umane che lui abbia mai fatto, quella realizzata da Nathaniel Friedman per il New Yorker nel gennaio 2020. Le risposte di Sanders non sono prolisse, arrivano dritte al punto. Quello che emerge è una persona perfezionista nel suo esperire la musica. Nel suo periodo di grande attività con la Impulse! capitava di rifare dei take, nonostante nelle registrazioni di musica a improvvisazione libera è piuttosto raro, in quanto la direzione sonora che si stava creando non gli piaceva tanto. Scherzo beffardo però vuole che poi, andando a riascoltare quei take appena interrotti, si divorava le mani quando si accorgeva -troppo tardi – di quanto fosse bello ciò che stava succedendo. Anche ad album completato la storia non cambiava, riascoltava le sue stesse opere già pubblicate e trovava continuamente passaggi e note al loro interno dove poter redarguirsi esclamando “potevo farlo meglio”. Con Impulse! Gli capitava di dover registrare anche due o tre album all’anno, però questo non frenava il suo perfezionismo, perché esso si lega anche alla ricerca di novità: si nota infatti come in ogni album di quel periodo c’è un perenne tentativo di rinnovarsi. Non passava molto tempo prima che considerasse invecchiata un’idea musicale, a tal punto che quando alla veneranda età di 79 anni parla della ricerca di un suono che lo renda soddisfatto, ammette di non averlo ancora trovato. Arriva a confessare come in realtà non sia mai esistito un singolo album dove fosse pienamente compiaciuto del suono ottenuto. In un altro aneddoto racconta un dettaglio che ci fa capire quanto fosse esasperato questo atteggiamento nei confronti della ricerca del suono: consumava scatole e scatole di ance, le provava tutte scegliendole e buttando via quelle che non suonavano giuste. Questa ricerca ossessiva del nuovo spiega come mai la sua discografia sia stilisticamente variegata, non sopporta l’idea di doversi ripetere quando suona, non vuole mantenere quell’approccio burocratico nei confronti della musica tipico di certi suoi colleghi… Il paradosso, però, è che quando ascolta la musica di questi ultimi ne rimane affascinato dalla bellezza e si chiede cosa stiano usando per suonare così bene. Ulteriore dettaglio che ci fa capire al meglio chi è e la sua musica è certamente la sua attrazione per i paesaggi sonori, sin da piccolo gli piaceva sentire il rumore delle cose e cita alcuni esempi come il cigolio delle macchine vecchie per strada, il rumore delle onde, i treni che sfrecciano sulla ferrovia, gli aeroplani che decollano.  Questo atteggiamento lo ha portato sempre a cercare di trasformare i suoni brutti, che lo ammaliavano, in belli in qualche modo. Il tassello mancante a questa sintesi della sua umanità sta in un’altra intervista; quella del 1995 per la rete televisiva BBC, dove ci fa capire come lui suonerebbe qualsiasi cosa cercando di trasformarla in qualcosa di bello, spiegando come lui sia una persona che non ha scopi al di fuori di voler semplicemente esprimersi. Questo brano lo rappresenta al meglio, pensandoci, un semplice tema porta in stile Rhythm and Blues dove la sua ripetitività diventa invisibile in quanto non più un centro d’attrazione musicale grazie ai musicisti che improvvisano con grande libertà e tutto suona così fresco e nuovo ad ogni passaggio; un trucco apparentemente semplice, ma in realtà molto difficile da padroneggiare.

The Creator Has a Masterplan / I Want To Talk About You
The Creator Has a Masterplan è quasi certamente il brano più iconico di Pharoah, in questo live possiamo sentirlo in una versione ridotta con un taglio dell’introduzione e della prima sezione dal carattere lento e contemplativo. Comincia direttamente dalla seconda sezione, la più rapida, mantenendo quello scambio tra momenti frenetici e feroci con lo stile aggressivo di Sanders. A questo segue uno dei più classici degli standard jazz come I Want To Talk About You di Billy Eckstine. Sembra strano che questi due brani possano essere messi vicini, ma restituiscono un’immagine della sua visione musicale ed estetica di vita, ci permettono di capire quanto due persone con cui ha collaborato negli anni ’60 lo abbiano segnato e influenzato nel mestiere del musicante: Sun Ra e John Coltrane. Sanders nel 1962 arriva a New York, una metà che ha lo stesso sapore italiano del classico “vai a Milano, lì c’è tutto”. Sempre nell’intervista per il New Yorker spiega come sia arrivato nella grande mela facendo l’autostop, con un portafoglio vuoto di verdoni ma pieno di verde… speranza, cimentandosi in una vita da senzatetto pur di respirare l’ossigeno dei quartieri dove si suonava il jazz più sperimentale e spinto. Inizialmente cerca di arraffare i soldi per poter mangiare in ogni modo, addirittura donando il sangue per appena diciassette dollari, ma il flusso degli eventi lo trasporta nel luogo giusto al momento giusto. Uno dei lavori più stabili che ha avuto era il cuoco e una sera al Greenwich Village viene notato da Sun Ra che lo vorrà nella sua Arkestra, questa fu l’occasione per compiere il primo balzo da sogno americano del jazzista. Suonare nel 1964 con l’Arkestra, sicuramente una formazione così folle e rivoluzionaria come il suo capo, non poteva che ispirarlo nelle sue avventure seguenti. Ci sarebbe un sacco da scrivere su come Sun Ra abbia praticamente gettato le basi per l’estetica cosmica e meditativa del jazz che verrà di lì in poi, ma tralasciando discorsi su possessioni aliene rivelatrici di verità sull’esistenza dei terrestri e del cosmo, basti sapere un dettaglio utile a questa narrazione, Sun Ra era affascinato sin da piccolo alla cultura egizia, da quando in televisione aveva assistito al ritrovamento della tomba di Tutankhamon. Proprio attraverso la cultura egizia una buona fetta degli afroamericani di quell’epoca cominciano il cosiddetto esodo di ritorno verso la Madre Africa e l’Islam. Questo ci porta a capire come mai Sun Ra rinominerà Faraone il suo amico e collega Farrell Sanders, è quindi impossibile slegare questa esperienza quando pensiamo all’immagine di Pharoah con il suo vestiario che ci fa intendere come quell’eredità dell’Arkestra sia diventata parte di lui. Il Creatore ha un piano superiore, riprendendo il concetto islamico di unicità del Tawhid e questa idea spiega come il flusso abbia guidato Pharoah fino a quel punto. Questo piano superiore però non è di certo ancora arrivato alla sua realizzazione, perché l’anno dopo la storia di Sanders si incrocia con quella di Coltrane nell’album Ascension. I due già avevano stretto amicizia quando si erano incontrati in California nel 1959. Nel ’58 Sanders si iscrive all’Oakland Junior College in California per studiare arte e musica, portando avanti la sua passione per la pittura, tuttavia non smette di suonare. Porta a termine un affarone, baratta il suo clarinetto con un sassofono d’argento che a sua volta scambierà con un vecchio modello di tenore come ha sempre voluto. In quella California, dove per suonare nessuno fa questioni sul colore della pelle, incontra John Coltrane. Il loro rapporto viene spesso condito da grandi discorsi mistici, ma sia Coltrane sia Sanders ne parlano con la semplicità di due migliori amici che raccontano l’uno dell’altro. Erano entrambi molto silenziosi, non avevano molto da dirsi, ma quando erano vicini si capivano con qualche sguardo o frase breve. Un episodio che spiega al meglio la profondità del loro rapporto sta di nuovo in quel perfezionismo a volte assillante di Sanders, chiedeva spesso durante le sessioni se il suo suono andasse bene, se le sue note erano giuste o cozzassero, ma Coltrane non rispondeva quasi mai. A furia di insistere però un giorno Coltrane esordì con un semplice “Sì va bene così, tu continua a soffiare”. Poche parole, a dimostrazione di quanto John conoscesse bene l’indole di Sanders. Nelle note di copertina dell’album Live At Village Vanguard Again, leggiamo invece un discorso più lungo – ripreso da Nat Hentoff – di Trane che recita: «Pharoah è un uomo di grandi risorse spirituali. È sempre alla ricerca della verità. Cerca di permettere al suo spirito di guidare le sue azioni. È un uomo che ha, oltre al resto, energia, onestà mentale e che va dritto all’essenza delle cose. Mi piace moltissimo la forza con cui suona. Inoltre, è uno degli innovatori e io mi considero fortunato per il fatto che si sia dimostrato disposto ad aiutarmi, a far parte del nostro gruppo». Hanno due personalità simili nella vita, ma si colmano nelle loro differenze, questo punto sfugge spesso quando si parla erroneamente di come e cosa Sanders abbia ereditato del sassofonismo di Coltrane. La verità è che le loro sonorità sono complementari ed è per questo che assieme suonavano così bene, si inseriscono in un rapporto dialettico, infatti, Sanders è tra i pochi musicisti che sono rimasti fissi nel quintetto di Trane fino alla morte nel ‘67. Tutto questo discorso ci fa capire come in fondo non c’è nulla di così mistico nel rapporto tra loro due, è vero che erano delle persone profondamente spirituali ma ciò non vuol dire che fossero dei santoni invasati di parole ispiratrici e religiose come spesso li si dipinge. Da un lato Coltrane arrivava a chiudersi in camera e disegnare linee nel circolo delle quinte o creare scale usando sequenze numeriche matematiche, mentre Sanders aveva un poderoso istinto a guidarlo quando imboccava l’ancia, tuttavia, dopo ore e ore a fare improvvisazioni libere, come racconta lo stesso Sanders, i due si concedevano di divertirsi suonando qualche standard e alcune ballad. In tal senso, a mio parere, un pezzo come I Want to Talk About You, ci rivela molto sull’influenza di Coltrane su Sanders, più di quanto non lo facciano album come Tauhid, Karma, Summun Bukmun Umyun, Jewels of Thought o andando più in là negli anni, Elevation.

Love is Everywhere

Pharoah Sanders – Udin&Jazz 2008 – ph Luca A. d’Agostino

L’ultimo brano riporta alla memoria una frase che disse un altro dei suoi amici con cui collaborò per anni, il pianista Lonnie Liston Smith, che in un’intervista con Chris Parkin racconta cosa significasse suonare con Sanders: «Sembrava che cantasse più note contemporaneamente e proprio in quel periodo stavo cercando di tirar fuori nuove potenzialità dal mio pianoforte a coda, suonando con l’avambraccio per ottenere un suono più potente. Ho chiesto a Pharoah: “Come fai ad avere questo suono?” Lui mi ha risposto; “Ma anche tu suoni come se avessi più di dieci dita!”. A lui piaceva spingersi sempre oltre il limite». Questo discorso di spingersi oltre il limite mi ha sempre ispirato e fa riflettere su quello che è il discorso che voglio portare in chiusura di quest’album. È innegabile e stupefacente come in dieci anni e una dozzina di album Pharoah Sanders sia diventato un musicista completo già a metà degli anni ’70. Quel bisogno di ricercare la verità e rinnovarsi non gli permettono di frenarsi, non è sufficiente ciò che ha già fatto e la sua spinta creatrice lo porta in più direzioni negli anni a venire. Per un periodo, sul finire degli anni ’70, torna indietro nella musica, abbandonando l’estetica spirituale, riabbracciando musiche più vicine alla tradizione blues come l’Hard Bop o riesplorando il Modal stile West Coast. Arriva nel 1994 a viaggiare in Marocco dove conoscerà la musica Gnawa e registrerà The Trance of Seven Colors con Mahmoud Guinia. Sanders cambia spesso etichetta nel corso della sua carriera, incidendo per dieci etichette diverse, suonando con ogni musicista di ogni estrazione in virtù di quel processo di trasformazione di cui abbiamo parlato. Non si può non restare affascinati da una spinta propulsiva alla creazione come la sua, talmente potente che nel 2021 ritorna in studio dopo lungo tempo registrando Promises, un album con il producer britannico Floating Points e la London Shymphony Orchestra. Il suo sassofono ha ormai raggiunto gli ottant’anni suonati, ascoltandolo riconosciamo subito il suo stile; eppure, ci appare un’altra volta come qualcosa di nuovo mentre veniamo trasportati nel suo mondo con quei nove movimenti attorno allo stesso motivo, racchiudendo forse il migliore album del jazz del ventunesimo secolo. Mi piace pensare che alla fine della sua vita sia riuscito a trovare almeno in quell’album quella sonorità perfetta, senza macchie, quella che con certezza può affermare che gli piace, senza rimuginarci sopra, quella che, in sintesi, ha sempre voluto trovare, ma quanta ironia se pensiamo come un anno prima in quella intervista con Friedman dice di non aver ancora trovato! Questo “ancora” è carico di significato ora che ci ripenso. Il suo voler superare certi limiti e andare oltre è d’obbligo per compiere un viaggio musicale come il suo, si potrebbe pensare che questi continui cambiamenti, che di lustro in lustro ha fatto, derivino da una forza di spirito, ma questa voglia di superare i limiti da sola non basta a spiegare la sua anima. Orientarci alla ricerca di essa facendo una lista di questi cambiamenti nella sua vita ci porta verso l’infinito, fino a diventare un oceano dove, da qualunque parte indichi la bussola, navigheremmo senza ritrovare più la terra ferma. Bisogna prendere fiato, fare il punto e trarre una conclusione prima di disorientarsi. Love is Everywhere mi ha permesso proprio di fare questo: gettare l’ancora in una destinazione precisa. Questo pezzo ha all’interno un chant (caratteristica che manterrà in molti suoi brani, specie dalla collaborazione con il cantante Leon Thomas in poi) e invita il pubblico a recitare con lui questo canto, come in una messa. Questo rituale ci permette di trascendere dal sentiero che abbiamo percorso ascoltando l’album. Vediamo finalmente il poliedro nella sua nuova forma e abbiamo scavato abbastanza da trovarne il nucleo? Forse sì! L’anima che guida questa voglia di sfondare muri e superarsi sta in un dettaglio solo apparentemente trascurabile, rileggendo la sua discografia e soffermandoci sui titoli di alcuni brani possiamo notarlo abbastanza in fretta. Love is Here, Love is Everywhere, o brani con titoli omonimi all’album come Love in Us All (1974), Love will find a way (1977), Welcome to Love (1991), Crescent with Love (1994)… in cui l’amore viene suonato come qualcosa di energico e movimentato dandoci una visione allegra e positiva del sentimento o, al massimo, dove manca l’elemento del ritmo incalzante c’è quello contemplativo; in netto contrasto con il dolore e il lamento perpetuo che troviamo nel resto del mondo jazz, catapultandoci in una dimensione più drammatica, melensa, nostalgica, enigmatica e ignota: What is this thing called love, You don’t know what love is, In a Sentimental Mood, There will never be another you e tanti altri. La domanda iniziale dell’articolo trova risposta, ecco che il nucleo si disvela davanti ai nostri occhi: ciò che Sanders ci ha lasciato è amore, che si esprime da noi stessi verso tutte le cose che ci circondano e da esse fa ritorno a noi. Oserei dire che avendo superato certi limiti sia addirittura un amore ancora più supremo di quello che Coltrane cantava nel 1960 in A Love Supreme. Quanto meno, questa è la forma dello spirito che ho visto io esplorando il mondo di Farrell Pharoah Sanders.

Alessandro Fadalti