bandiera del calypso e dei diritti civili

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L’America del 900, questo strano intreccio di possibilità e impossibilità, di scoperte straordinarie e di libertà negate, di nuove entusiasmanti arti e di negazione dei più basilari diritti dell’uomo.

Fin dalla nascita, Harry Belafonte sembra un predestinato ad incarnare la decisamente parziale sintesi contenuta nel mio incipit. Genitori cresciuti in Giamaica, che come tutte le isole caraibiche è un crogiuolo di incontri nati da crocevia. La madre è infatti figlia a sua volta di discendenti scozzesi e africani, il padre, di un’afroamericana e un olandese, quest’ultimo però di origine sefardita. Potremmo immediatamente rubare una definizione coniata nell’autobiografia di un altro grande della musica del ‘900, Charles Mingus: “l’America tutta in un uomo”.

Il piccolo Harry nasce ad Harlem, NYC, nel 1927. Divide gli anni dell’infanzia tra New York e la Giamaica. Nel 1939 si stabilisce nuovamente nella Grande Mela, questa volta in modo definitivo, frequenta la George Washington High School e si arruola in marina durante la Seconda guerra mondiale.

L’esordio avvenne alla fine degli anni ’40, come molti afroamericani di allora, calcando anche il palco dell’ American Negro Theatre di Harlem. Nei primi anni ’50 venne scritturato dalla RCA. Oltre al singolo “Matilda” (1952) che lo portò immediatamente in auge, i successivi album “Belafonte” e soprattutto “Calypso” gli diedero un successo planetario. “Calypso” vendette oltre un milione di copie, primo album della storia a raggiungere tale risultato. Il Mondo intero canticchiava brani come “Banana Boat song” e “Jamaica Farewell”, addirittura più di quelli di un’autentica icona di allora come di oggi, Elvis Presley. Harry Belafonte divenne quindi non solo artista popolare come pochi nella storia, ma un’autentica bandiera della musica caraibica.

Decisamente sulla cresta dell’onda, Belafonte venne scritturato in alcuni leggendari film di Hollywood di quei tempi, come “L’isola nel sole”, “Carmen Jones”, “Strategia di una rapina” e “La fine del mondo”.

Arrivati a questo inaspettato successo globale, al suo posto la maggior parte degli artisti si sarebbero goduti notorietà e denaro, scendendo a forzati compromessi che la società statunitense di quel tempo imponeva agli afroamericani, a tutte le latitudini sociali. A Belafonte venivano ad esempio proposti ruoli per il cinema alquanto discriminatori, che il re del calypso sistematicamente cominciò a rifiutare.

Divenne amico di Martin Luther King e sposò la causa dei diritti civili più di ogni altro: partecipava a raduni, manifestazioni, finanziava i giovani studenti attivisti, fu addirittura tra gli organizzatori della celebre marcia del 1963, quella che tutti ricordiamo per il discorso “I have a Dream” pronunciato dal Reverendo King.

In quegli anni, tutti i più celebri artisti neri di successo cercavano di far passare messaggi antisegregazionisti dall’interno dei loro ruoli. Belafonte non si accontentò di ciò. Lo ritroviamo ad esempio nelle marce per l’uguaglianza in Alabama a gridare “Bombingham” nella cittadina di Birmingham, dove il Ku Klux Klan soleva organizzare continui attentati alla comunità afroamericana. Di conseguenza, sappiamo che l’FBI controllò Belafonte a partire dagli anni ’50 per quasi un trentennio.

L’ America ed i suoi contrasti; la bellezza dell’avvento di musiche che hanno segnato la storia nel Mondo Contemporaneo, dal blues, al jazz, alla musica caraibica, a quella della Motown e a molte altre, di fronte ad uno scenario umano devastante portato a compimento dall’odio razziale.

Nel 2019 sono stato invitato a suonare nello Stato di Washington. Tra i momenti che hanno più segnato la mia prima breve permanenza negli States c’è sicuramente la visita al National Museum of African American History and Culture, inaugurato nel 2016 da Barack Obama.  Dal quarto piano sottoterra al quarto in superficie, si percorre la tragedia di un popolo e il suo troppo recente percorso di emancipazione.

“Ma da dove nasce tutto questo odio?” diceva William Dafoe a Gene Hackman in “Mississippi Burning: le radici dell’odio” di Alan Parker del 1988.

Harry Belafonte si tuffa in tutto questo con voce piena, e lo fa a prescindere dalla sua arte: in prima persona, come cittadino, come portavoce, prima ancora che come artista.

La straordinaria personalità di questo monumento caraibico non si fermò mai, fino agli ultimi anni della sua esistenza. Negli anni ’80 fu tra gli artisti che cantarono “We are the World”, negli anni 2000 criticò apertamente l’amministrazione Bush per la guerra in Iraq, e nel frattempo scrive anche alcuni libri in difesa dell’uguaglianza e dei diritti umani.

Harry Belafonte muore nella sua casa dell’Upper West Side di Manhattan, all’età di 96 anni.

Alcuni anni fa, la biblioteca del Congresso ha onorato Belafonte includendo l’album “Calypso” tra le grandi opere americane di sempre. Un Belafonte già ultranovantenne ha pronunciato una splendida frase che è destinata certamente a rimanere nella Storia non solo della sua straordinaria esistenza, ma di quella degli interi Stati Uniti d’America: “l’America è corrosa dal razzismo, ha un DNA fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finché vivrò”.

Danilo Blaiotta

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