DEXTER GORDON

Il be-bop si sviluppa negli anni ’40 a New York City, forte però anche dell’apporto di un crogiuolo di musici provenienti dalla West Coast e che si ritrovavano, prima di scrivere la Storia che tutti noi conosciamo, nei sobborghi di Los Angeles – California. Nativi di quell’area geografica ricordiamo personaggi come Art Pepper, Charles Mingus, Chet Baker. Molti di essi venivano poi ingaggiati da importanti capi-orchestra di passaggio i quali, rapiti dal grande talento di questi giovani virgulti, decidevano di portarli con sé in tour.

Negli anni ’40, nonostante le spinte del modern jazz, il pubblico impazziva ancora letteralmente per le suddette grandi orchestre capitanate dai vari Duke Ellington, Lionel Hampton, Benny Goodman, Louis Armstrong… Prima con Hampton e poi con Ellington aveva suonato ad esempio il giovane Mingus.

Nato a L.A. il 27 febbraio del 1923, stessa sorte ebbe il sassofonista tenore Dexter Gordon, che ritroviamo da giovanissimo nell’orchestra del re dei vibrafonisti quanto, subito dopo, in quella di Armstrong.

Oltre alla fortuna di poter maturare una grande esperienza artistica, sono occasioni uniche queste per imparare il complesso mestiere del musicista, con tutta la fatica che ciò si porta dietro. Non da ultimo il sapersi destreggiare, specialmente per un musico di colore, nell’America di quegli anni, barbaramente intrisa di segregazione razziale.

Il giovane Dexter dimostrava fin da subito di poter suonare a meraviglia il suo sax tenore, strumento cardine di quella che si può considerare una vera e propria nuova tradizione, principiata pochi anni prima dai suoni di Coleman Hawkins e Lester Young.

Proverò ora a sintetizzare in un pensiero le caratteristiche principali del suono unico del Nostro.

Un buon musicista jazz deve imparare innanzitutto a familiarizzare con il linguaggio dello swing. È un modo di stare sul tempo che non basta saper riprodurre meccanicamente. Poco aiuta il solfeggio in tutto ciò: risulta fondamentale il come “swingare”, e solo di conseguenza il cosa improvvisare. La caratteristica più rappresentativa del suono di Dexter è certamente l’incredibile cantabilità delle frasi, ma anche il come suonarle sul tempo. Suonare dietro al tempo, non davanti: fluttuare nella musica con quel pizzico di ritardo che esalta certamente la cantabilità delle belle frasi.

Per sfatare un mito, posso con certezza affermare che ciò non accade solo nel jazz; se non ne avete memoria, vi invito ad andare a riascoltare alcune interpretazioni, ad esempio, dei notturni di Chopin per pianoforte, così come di una qualsiasi aria d’opera tratta dal repertorio del Belcanto italiano. Si può notare come il solista ritardi le frasi, si fa seguire dall’accompagnamento, crea una vera e propria dilatazione poetica (così mi viene da definirla).

La magia di applicare ciò nello swing differisce dalla musica romantica in una lampante peculiarità: il metronomo della musica romantica cambia continuamente (rallentando, accelerando…) mentre nello swing il treno non perde mai, salvo rare eccezioni, la sua meravigliosamente ossessiva funzione di trasporto musicale. Il “ritardo” nel fraseggio di Dexter Gordon è, non solo a mio parere, la singolarità più affascinante del suo suonare.

Dopo la parentesi con Armstrong (con cui rimase amico tutta la vita – è a lui che avrebbe dedicato quel famoso premio Oscar mancato nel 1987), decise di seguire l’orchestra di Billy Eckstine; scelta di cuore, scelta prettamente stilistica -da Armstrong rifiutò addirittura un cospicuo aumento della paga-.

Approdò dunque a New York alla fine del 1944 dove iniziò subito a suonare in jam, concerti e sessioni di registrazione con i grandi bopper del momento: primo su tutti Dizzy Gillespie, con cui nel 1945 registrò brani come Blue’n Boogie e la “super-bop” Groovin’ High.

Tra il 1945 e il 1946, ingaggiato dall’etichetta Savoy, registrò diverse sessioni a suo nome. Fece ritorno a Los Angeles alla fine degli anni ’40. Oltre a continuare ad incidere per la Savoy ed incarnare il ruolo di turnista nelle formazioni di grandi musicisti jazz dell’epoca, si ricordano in questi nuovi anni a L.A. alcune vere e proprie sfide tra tenoristi, chiamate tenor battles, in particolare con il sassofonista Wardell Gray. Per corsi e ricorsi storici quanto artistici nella grande propulsione creativa americana del tempo, la vicenda viene citata anche nel famoso romanzo-simbolo della beat generation On the Road di Kerouac.

Negli anni ’50 Dexter dovette però affrontare il periodo più buio probabilmente di tutta la sua esistenza, a causa dei suoi sempre più importanti problemi di tossicodipendenza da eroina, conosciuti purtroppo in quel tempo, com’è noto, da una grossa fetta di eroi del bop. Nonostante alcune, poche, session a suo nome e qualche apparizione da sideman, si può dire che Dexter Gordon passò un intero decennio dentro e fuori dalle prigioni. Venne scarcerato definitivamente nel 1959.

La rinascita avvenne nei primi anni ’60, quando firmò per la Blue Note e registrò 4 album strepitosi: “Doin’ Allright”, “Dexter Calling…”, “Go!”, e “A Swingin’ Affair”, gli ultimi due fuoriusciti da due giorni di sessioni con il quartetto stabile formato da Sonny Clark al pianoforte, Butch Warren al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.

Ma la vita dei musicisti jazz non poteva prescindere, in quel tempo, dalla fascinazione per gli altri continenti. In Oriente ad esempio -in Giappone specialmente- i musicisti di jazz erano visti come dei veri e propri eroi, come ben dimostrano gli aneddoti, tra i tanti, dei primi tour nipponici compiuti dai Jazz Messengers di Art Blakey.

Similmente accadeva in Europa, specialmente in alcune capitali: Parigi, Oslo, Copenhagen su tutte. È proprio nella celebre città danese che Dexter decise di trasferirsi. Per tutti i 14 anni successivi visse tra Copenhagen e Parigi, contribuendo a quell’ondata di noti jazz players che, trovando riscontro e grande interesse da parte del pubblico europeo, decisero di stabilirsi nel vecchio continente o di passarvi lunghi periodi.

Per uno strano gioco del destino, quando venne chiamato ad interpretare il protagonista nel film Round Midnight di Tavernier, oltre ad omaggiare la vita di Bud Powell e Lester Young, a mio avviso Dexter si ritrova ad interpretare anche un po’ sé stesso.

Negli anni europei, oltre a registrare -per la Blue Note prima e per la Prestige poi- con noti musicisti jazz americani come Kenny Drew, Bobby Hutcherson, Freddie Hubbard e altri, Dexter si ritrovò a suonare con giovani musicisti della scena europea come il contrabbassista francese Pierre Michelot e il danese Niels-Henning Ørsted Pedersen (che ricordiamo anche in uno degli ultimi trii di Oscar Peterson).

Nel 1976 fece ritorno negli Stati Uniti. Registrò alcuni splendidi album per la Columbia e ricevette, da musicista ormai all’apice del successo, alcuni importantissimi riconoscimenti: musicista dell’anno per la rivista DownBeat nel 1978 e nel 1980, anno in cui venne inserito nella Jazz Hall of Fame.

Nel 1987 si ritrovò protagonista del già citato splendido film di Bertrand Tavernier, uscito in Italia con il titolo “A mezzanotte circa”, ruolo che gli valse numerosi importanti premi, rientrando addirittura tra i possibili vincitori dell’Oscar come miglior protagonista. La prestigiosa statuetta la ricevette Herbie Hancock per la miglior colonna sonora, magistralmente incisa anche, però, dal suo sax tenore.

Morì nel 1990 all’età di 67 anni per un cancro alla laringe che gli causò un’insufficienza renale, probabilmente dovuto al fumo. Quel fumo di sigaretta imprescindibilmente legato alla sua figura, che ben ricordiamo in una delle foto più iconiche della storia del jazz, scattata da Herman Leonard al Royal Roost nel 1948.

Danilo Blaiotta

PAOLO CONTE, L’OPERA D’ARTE TOTALE

“Gesamtkunstwerk”, l’opera d’arte totale. Nel 1827 lo scrittore e filosofo tedesco K. F. E. Trahndorff conia per la prima volta questo neologismo, di cui si approprierà Richard Wagner nel 1849 inserendolo nel suo saggio Arte e Rivoluzione per descrivere il Teatro Greco. Un paio di anni più tardi il grande compositore tedesco esternò ancor meglio le motivazioni del suo interesse per il suddetto sostantivo, quando a corollario di tal pensiero uscì il concetto di Oper und Drama (teatro e opera).

L’ arte totale presuppone dunque un ideatore universale, dotato di capacità di scrittura musicale, letteraria, scenografica. Un artista completo, ambizioso, l’illustre Richard, cosa che lo differenziava e di molto dai suoi “colleghi” al di qua delle Alpi: Wagner fu infatti, oltre che musicista, librettista e scenografo. L’opera d’arte totale, ben ideata nella famosa tetralogia dell’ Anello del Nibelungo o in altri celebri capolavori come Parsifal, Lohengrin, Tristan und Isolde.

Difficile trovare un personaggio analogo nel secolo successivo, pensando a quel ‘900 intriso di nuovi ecosistemi all’interno del quale hanno co-esistito artisti appartenenti ai migliori fasti della cosiddetta Popular Music e musicisti legati alle innovazioni della musica colta e del jazz. Difficile, se non impossibile.

Nel ‘900 si svilupparono criteri di assoluta imprevedibilità in innumerevoli correnti artistiche, dando così spazio alle più disparate tra le commistioni possibili: vi fu sovente, da parte di molti artisti, un’estrema curiosità nella creatività sviluppata in arti “parallele” alla propria, se non altro per contiguità temporale o per abbattimento delle distanze geografiche. Centinaia possono essere gli esempi a riguardo, difficile citarne solamente alcuni senza rischiare di fare torto ad altri. Proverò a ricordarne i più lampanti: il rapporto tra la musica americana e quella eurocolta (ad es. l’opera gershwiniana da un lato o quella stravinskiana dall’altro, per non parlare del genio di Kurt Weill o di Irving Berlin, colonne dell’American Songbook quanto raffinatissimi orchestratori eurocolti).

Quel che però si è certamente notato più di rado è l’opera di un artista che sappia creare, oltre alle faccende legate al mondo della commistione tra “generi” musicali, dell’arte letteraria e magari pittorica. Ricordiamo infatti che, anche nel musical americano, come già accaduto nel melodramma, gli autori della musica non sono gli stessi di quelli del testo.

La nascita del cosiddetto cantautorato ha certamente unito queste due forme d’arte in un’unica espressione artistica. Ma quanti artisti, al di qua e al di là dell’Atlantico, hanno sviluppato della creatività cantautoriale che non riducesse al minimo le possibilità espressive della musica in quanto tale? Generalmente i cantautori non provengono da una cosiddetta formazione colta. Si preoccupano, per essere quanto più comunicativi con il testo, di usare concetti musicali semplici e diretti. Una canzone dei Beatles può avere un giro armonico interessante, ma magari utilizzare i cosiddetti accordi con le toniche al basso ed essere non particolarmente significativo dal punto di vista ritmico e melodico. Un brano di Bob Dylan o di Fabrizio De André può avere dei testi incredibilmente interessanti e rivoluzionari, ma (ad esclusione di alcuni album dove la figura dell’arrangiatore era in primo piano -vedi ad es. il doppio live dello stesso Faber con la PFM-) musicalmente mantenere una semplicità certamente bellissima e dotata magari di gran gusto, ma non degna di nota dal punto di vista dell’innovazione musicale in sé.

Abbiamo poi cantautori o gruppi musicali legati a mondi ben distinguibili. Se pensiamo ai Rolling Stones, ci viene in mente il rock e il blues, ai Deep Purple un qualche legame con la musica del 600-700, ai gruppi progressive reminiscenze dal mondo dello Sturm und Drang. In Italia, artisti come Angelo Branduardi o lo stesso De André hanno “saccheggiato” nel mondo della musica rinascimentale, creando delle opere interessanti ed emotivamente importanti, ma spesso senza dare musicalmente un’impronta troppo personale al citazionismo nel quale si sono imbattuti. Ben inteso: questi miei scritti sono lontani da qualsivoglia critica distruttiva. I prodotti che sto citando hanno, per l’umanità ma anche per la mia stessa crescita musicale ed artistica, un valore importantissimo. Non si tratta di bellezza o di giudizi di merito, ma di metodo.

Una parentesi a parte la merita certamente il cantautorato francese. Le canzoni di Georges Brassens, Leo Ferré o dello stesso Jacques Brel (belga ma di lingua francese) contengono, come parte del nostro cantautorato geograficamente localizzabile nelle città di Genova e Torino, un’attenzione alla poesia che deriva certamente da quella corrente che influenzò moltissime generazioni di artisti provenienti da quell’area ben precisa: il simbolismo (non è un caso che Piemonte e Liguria siano confinanti con il paese transalpino). La Francia ha avuto poi, probabilmente più di ogni altro paese in Europa, un legame particolare con il jazz dei primordi, o per meglio dire con un certo tipo di swing: basti pensare alla chitarra di Django Reinhardt, o al solo fatto che Cole Porter vivesse a Parigi negli anni ’20.

Anche l’Italia dei ’20 e ’30 subì straordinariamente l’influenza americana. La nostra grande tradizione del Belcanto però creava spesso commistioni tra generi a dir poco azzardate ma talvolta di alto livello, in quel primo Novecento europeo così pregno di sconvolgimenti storici ed artistici. I francesi però, dal punto di vista dello swing, avevano qualcosa in più, o quantomeno di più autentico. Complice forse anche la vicinanza con la musica gitana, divenuta già in passato patrimonio della multietnicità che contraddistingue il grande paese d’oltralpe. La musica gipsy è ritmicamente, mi viene da dire, naturalmente commistionabile con lo swing (tornando a Djangoe alla sua chitarra manouche).

Come potete notare, la maggioranza degli artisti nel ‘900 può essere immessa, anche forzatamente, in un qualche preciso sottoinsieme, ivi compresi quelli più versatili: chi più poeta, chi più musicista, chi un po’ e un po’… Ma c’è qualcuno, in questo appassionante secolo, che si avvicina alla creazione del cosiddetto Gesamtkunstwerk?

Chi ha incarnato perfettamente il ruolo di creatore per certi versi onnisciente nella ricerca musicale proveniente da jazz, musica colta, orchestrazione, popular music, forme di belcanto, cantautorato francese e italiano… nello stesso tempo adornando tale percorso con influenze dalla grande poesia (magari simbolista o evocativa) dunque spesso immettendo testi che potrebbero tradursi in giacomettiane sceneggiature di teatro o in glorioso cinema d’autore in bianco e nero? Certamente un caso più unico che raro c’è, è nato ad Asti il 6 gennaio 1937, di professione Avvocato, all’anagrafe Paolo Conte.

Nella sua creatività i tasselli si congiungono, il puzzle prende forma, l’opera d’arte totale si materializza senza forzature. In tutto questo sono comprese (come i più attenti ricorderanno) alcune delle strepitose copertine dei suoi album, firmate da egli stesso in qualità di pittore.

Come molto spesso ama esternare nelle interviste, sappiamo anzitutto che il Nostro ha una predilezione per la scrittura musicale ancor prima che per quella testuale. Conte si ritiene anzitutto un compositore. Visto il risultato finale, viene immediatamente da pensare alla potenza dell’arte del suono come evocazione di immagini, animate o meno che siano. Il compositore di colonne sonore scrive la musica sull’immagine. Esattamente come avvenuto nella stesura di alcuni capolavori del romanticismo, Conte crea invece l’immagine dalla musica; più la musica è evocativa, più è visionaria, più la storia può svilupparsi in maniera inaspettata e difficilmente banale.

L’armonia è una tavolozza di colori cangianti che il Maestro di Asti manovra con tale naturalezza e disinvoltura, da lasciare senza respiro. Se a questo aggiungiamo quella speciale conservazione che egli possiede per la bellezza di certe melodie, abbiamo la possibilità certa di avere a che fare con un gigante. Si pensi, contrariamente a chi dice che la maturità contiana sia sopraggiunta in età avanzata, a brani come Pittori della domenica, pubblicata nel primo album a suo nome – 1974- , ove bellezza melodica e inaspettabilità armonica vanno di pari passo.

In più egli ti pone tra le braccia immediatamente una macchina da presa. Divieni in un istante osservatore privilegiato di quell’intuizione assolutamente pregna di grande Cinema, e ti ritrovi con loro, i pittori, lungo le strade, come a cercare segrete plaghe, anche tu con gli occhi attenti, a radunar di te mille frammenti. Paolo Conte non è solo un poeta e un musicista sublime. È un incredibile creatore di situazioni che vengono a cercarti, ti rapiscono e ti proiettano sul set non della tua vita (troppo facile), ma di quella degli altri. Il frizionare (come egli ama definire) dei suoi personaggi non ti rende protagonista in prima persona, ma ti pone al centro di una narrazione per immagini, aforismi, sintesi estatiche di raro coinvolgimento emotivo.

Sintesi estatiche mi viene da dire, poiché la grande poesia utilizza i doni della sintesi e dell’estasi per raccontarti una storia da dentro. Figure retoriche di supporto, sempre e comunque, del lato emozionale più puro. L’intelligenza degli elettricisti che dà luce alla stanza negli alberghi tristi, dove la notte calda ci scioglierà. Non so quanto il Maestro ne sia consapevole ma sono certo che, a leggere o ascoltare il testo di Gelato al limon, ognuno di noi, almeno una volta nella vita, sia penetrato in una notte calda e si sia sciolto all’istante.

Negli anni ’80, Paolo Conte pubblica certamente alcuni capolavori senza tempo: dagli album Paris Milonga e Appunti di viaggio -1981 e 1982- ad Aguaplano -1987- e Parole d’amore scritte a macchina -1990-, incontriamo brani che tuttora ritroviamo come punte di diamante nelle scalette dei concerti del Maestro. Penso certamente a Madeleine, Lo zio, Dancing, Gioco d’azzardo fino a Nessuno mi ama, Recitando e Il Maestro.

La progressione armonica di Madeleine mi lascia sempre esterrefatto: un incipit di pianoforte che somiglia ad un cosiddetto turn around, ma con i bassi mai corrispondenti alle toniche, come a voler forzare una situazione musicale apparentemente easy listening per creare sovrastrutture che, magicamente, appaiono comunque semplici anche nella loro complessità. Di rara bellezza. Tanto gli riuscì particolarmente, che possiamo ascoltare il ripetersi di quello stesso incipit in 3 diverse tonalità all’interno di un’unica sezione compositiva. Geniale (se ancora non avete vissuto l’esperienza di questo ascolto vi invito a provare per credere).

In brani come Recitando e Gioco d’azzardo egli si misura, evidentemente, con un’antica passione: quella per alcuni balli di coppia dai sapori e dai natali latini, che proiettano il Maestro immediatamente in quello che, spudoratamente, è uno dei suoi innumerevoli punti di forza “registici”: l’incontro tra un uomo e una donna che si studiano, si amano, si odiano, si desiderano, “frizionano”, in un clima di tensione emotiva ove la sensualità è al centro dell’ espressività dell’artista, come della vita dei due protagonisti. Basta Una buona commedia, o un profumo di insidia, che fa venire appetito di quintali di poesia.

Oltre che nella composizione, negli anni ’80 e ’90 Conte attua dei cambiamenti radicali nei settori dell’arrangiamento e della scelta dell’organico strumentale. A mio avviso, sta in questo la maturità artistica e stilistica che va formandosi nelle nuove scelte del genio di Asti: capire come i suoi brani, già di per sé autentici gioielli poetici e musicali, potessero essere valorizzati nella struttura più che nella scrittura.

Già a partire da metà anni ’80 potevamo apprezzare nell’organico musicisti come Ares Tavolazzi, Ellade Bandini, Antonio Marangolo e Jimmy Villotti. Da Parole d’amore scritte a macchina e ancor di più dal pluripremiato album 900 in poi, l’orchestra di Conte si compone di musici che lo accompagneranno in tour e registrazioni per tutto l’ultimo trentennio. Tra questi spiccano certamente i polistrumentisti Daniele Di Gregorio e Massimo Pitzianti, il chitarrista Daniele dall’Omo, il contrabbassista Jino Touche e il sassofonista Luca Velotti. E’ in loro compagnia, ad esempio, che il successo contiano si diffonde in Europa (specialmente in Francia) e varca addirittura i confini dell’Atlantico. I fortunati album Tournée e Tournée vol.2 ne sono un esempio magistrale: i brani sono stati registrati in strepitosi live presso alcune delle migliori sale europee (Congress Centrum di Amburgo, Théâtre De L’Olympia e Des Champs-Elysées di Parigi, Palais Des Beaux-Arts di Bruxelles, Staatsopar e Austria Center di Vienna, Teatro Principal di Valencia e altri..) cui seguirà il primo vero e proprio incredibile tour negli Stati Uniti tra febbraio e marzo 2001 (Lisner Auditorium di Washington, Beacon Theater di New York, Symphony Center di Chicago, University California di Los Angeles, Masonic Auditorium di San Francisco…)

Se dovessi scegliere uno di questi live, a parte quelli a cui ho partecipato come spettatore, il mio cuore direbbe Arena di Verona 2005, dove la maturità del ventennio di cui parlavo incanta oltremisura, così come la regia del fortunato DVD abbinato all’album.

Ci si chiedeva, me compreso, cos’altro potesse fare un artista per consacrare ancor di più quella che appare certamente come una delle più incredibili carriere musicali di tutti i tempi. Ebbene, il Maestro di Asti ci risponde pubblicando, tra il 2000 e il 2016, altri album in studio formati da brani completamente inediti: da Razmataz -2000­- a Snob -2014- registra questi lavori preoccupandosi immediatamente dell’arrangiamento. Una delle novità che salta all’orecchio in campo timbrico è ad esempio l’utilizzo del pianoforte a 4 mani in Molto Lontano e Snob, come a voler estendere orchestralmente il suono dello strumento da cui sviluppa le sue creazioni. Ho citato questi due brani non solo poiché da pianista ne sono ovviamente naturalmente attratto, ma anche per alcune nuove peculiarità che vorrei sottolineare; nel primo caso, il Maestro espone quello che sembrerebbe un semplice valzer alle insidie più argute della musica astratta (evidentissimo in come utilizza clarinetto e fisarmonica nella sezione B). Parlando invece di -Snob-, vorrei sfatare ogni dubbio su chi desidererebbe applicare a Conte questo spiacevole epiteto… Noi di provincia siamo così, le cose che mangiamo son sostanziose come le cose che tra di noi diciamo. Pur avendo calcato i palchi più importanti al mondo, Paolo Conte rimane orgogliosamente un esaltatore della genuinità della provincia -vive, tra l’altro, tutt’ora nella sua cittadina natale, Asti-. Non c’era certamente bisogno di questo brano per dimostrarlo. Basti pensare a quei vecchi cristalli che tintinnano nel trasandato Hotel, nel quale assaporare la cucina povera e umile fatta d’ingenuità e purtroppo talvolta caduta nel gorgo perfido della celebrità. La perdizione, non l’esaltazione, della celebrità. Ancora una volta immagini neorealiste, come la descrizione degli occhi di Umberto D. di Vittorio De Sica o quella dei Ragazzi di Vita di Pierpaolo Pasolini.

La profondità dei simboli del mondo popolare sublimata in un contenitore aperto ed elegante, da cui sgorgano emozioni che in qualche modo hanno a che fare con tutti noi, ponendo anche i nostri difetti sul proscenio ma raccontandoceli in forma di poesia e di grande spessore musicale, così da travalicare ogni confine su qualsivoglia giudizio morale per aprirci all’estasi. Sarà forse il segreto, questo, dell’empatia? Sarà forse racchiuso in poesia la possibilità di guardare anche alla miseria umana con un terzo occhio?

Di certo questo tipo di segreti, che ci pongono tali interrogativi, potrebbero solo essere contenuti nell’opera d’arte di pochi eletti nella storia. In una recente conversazione epistolare con il Maestro, egli concordava con me sulla straordinarietà della musica di Antonín Dvořák, preferita dallo Stesso rispetto, ad esempio, a quella di Beethoven. E non c’è da stupirsi. Paolo Conte è, come il grande boemo, un esaltatore di bellezza popolare, un sublimatore dell’autenticità dell’umanesimo. Dunque, un grande poeta.

E’ anche grazie a tutto questo quindi che, per tornare all’idea con cui ho principiato, Conte partecipa -forse ignaro- alla costruzione del famoso Gesamtkunstwerk. L’opera d’arte totale ha bisogno del mondo popolare: lo stesso Wagner narra le storie sì regali dei Nibelunghi tramandate però certamente come racconti popolari germanici.

Di artisti completi e così osannati a 360° nella storia dell’arte ne nascono, forse, uno ogni 100 anni. Paolo Conte è adorato nel mondo a qualsiasi latitudine, abbattendo come pochissimi casi nella storia quelle insopportabili barriere di classe. Basti pensare che, oltre alla grandezza ed alle innovazioni descritte qui sopra, sappiamo bene che egli dà luce a due tra le canzoni italiane più famose di tutti i tempi a livello planetario, Azzurro e Via con me. Paolo Conte è per tutti, ma appartiene al contempo a quella rara categoria di artisti cui spetta di diritto un ingresso nell’Olimpo dei creatori di bellezza. Ecco spiegato l’invito ad esibirsi al Teatro alla Scala nel febbraio 2023, cui seguì un’inutile polemica da parte di chi probabilmente non ha ben chiara l’importanza del suo ruolo e del suo apporto nel cammino della storia dell’arte.

Paolo Conte non è solo un grande artista dell’intero ‘900, ma uno di quei patrimoni al quale, non solo come italiani ma come esseri umani, dovremmo essere per sempre essere grati.

Danilo Blaiotta

MASSIMO URBANI

Si dice che lo strumento musicale più vicino alla voce umana sia il violoncello. Questione di frequenze, di timbro, di oscillazione. Certamente. Un sassofono è un’altra cosa: non è dalle frequenze che si misura la voce umana del sassofono, ma dalla profondità e dall’intensità dell’espressione del linguaggio ad esso abbinato. Si comunica il cosa, che influenza certamente anche il come. Parlare Jazz, come parlare inglese, o spagnolo. Il jazz è l’idioma perfetto per la dolcezza e la sofferenza, per la morbidezza e l’urlo. I contrasti dell’Uomo del ‘900 ritrovano in questa musica una lingua imprescindibile, autentica, deliziosa-gentile-cattiva. Il demoniaco ed il paradisiaco in un corpo solo. Un po’ come ritroviamo in alcune partiture leggendarie dell’800 romantico. Certo. Cosa è cambiato dunque? Semplicemente questa volta non vi è premeditazione nella descrizione umana, vi è altresì estemporaneità, quella stessa del linguaggio parlato. Come facile deduzione di questo ragionamento, possiamo dunque parlare di rassomiglianza del romanticismo all’uomo riflessivo e forse scrivente, più che parlante. Il jazz sarebbe dunque lo strumento più straordinariamente simile alla parola, poiché essa stessa, in qualsiasi idioma, è frutto di miscellanea improvvisazione su di un bagaglio contenente gli strumenti necessari al linguaggio stesso.

Il sassofono non è dunque, per frequenze e timbro, lo strumento dal suono più simile all’umana dannazione. Il sassofono quando suona del jazz però, spesso lo è. Massimo Urbani quando soffia nel sax alto, lo è più di chiunque altro.

Nato a Roma nel quartiere di Monte Mario l’8 maggio 1957, ascolta la prima banda di paese in villeggiatura estiva nei pressi di Ladispoli, la Riccione degli anni ’60 per i romani. Secondo Maurizio Urbani, fratello di 4 anni più piccolo e grande tenorista, tutto partì da una di quelle vacanze con i nonni tant’è che, tornati a Roma, gli comprarono un clarinetto. Aveva 11 anni.

La serie di circostanze che accaddero da lì ai successivi 3 anni sembrano uscite da una sceneggiatura a metà tra il cinema neorealista e la follia felliniana. Massimo suona nella banda di Monte Mario, ascolta i racconti del suo parente Luciano Urbani (che grazie al padre in quel periodo assisteva alle mitiche edizioni di Jazz Concerto di Adriano Mazzoletti alla RAI), ascolta i dischi di Charlie Parker del padre (che non era musicista, faceva l’infermiere a Santa Maria della Pietà) e frequenta la casa del compianto sassofonista Tony Formichella, che gli fa ascoltare i primi dischi di rhythm’n’blues e di jazz e lo porta alle prime jam session romane.

Tutto torna? No, se il risultato è che, a soli 14 anni in un quartiere popolare di Roma, senza quasi sapere cosa fosse un conservatorio di musica, Massimo improvvisava come fosse stato la reincarnazione di Parker.

Roma degli anni ’70 viveva un fermento musicale di altissimo livello. Tra le tante iniziative che segnarono la vita di tutti i più importanti musicisti di allora e dei successivi decenni, voglio citarne due di fondamentale importanza: l’apertura nel 1971 del Music Inn da parte di Pepito e Picchi Pignatelli, e il corso sperimentale di Jazz che partì, grazie a Giorgio Gaslini, al Conservatorio Santa Cecilia. Gli esterni al Conservatorio potevano partecipare al corso solamente da uditori: in quel periodo Massimo Urbani e Maurizio Giammarco si iscrissero. Gaslini permise l’iscrizione agli esterni poiché affermò che, se avessero richiesto il diploma a Louis Armstrong o a Ella Fitzgerald, non avrebbero potuto partecipare ad un corso di jazz (comprendendo da subito dunque la difficile, già dal principio, coesistenza dello studio del jazz a livello accademico).

Gli albori di Massimo Urbani, fondamentali per capire le basi di tutta la sua vita musicale.

 

Max suonava dunque il bop come un demonio, ma frequentava l’avanguardia di Gaslini e il free di Mario Schiano con cui registrò ad esempio, a soli 16 anni, il suo primo album in studio. La fama di questo incredibile ragazzino vestito da bopper navigato arrivò al grande trombettista Enrico Rava, il quale andò a Roma apposta per sentirlo suonare. Nel 1976 lo portò in tour negli States. Intervistai Rava su Urbani qualche anno fa, il quale mi raccontò: “In tutte le jam session newyorkesi Massimo faceva fuori tutti gli altri sassofonisti uno dopo l’altro, non c’era partita”. Ma Max era pur sempre un ragazzo poco più che adolescente di Monte Mario. Celebre fu l’episodio in cui, pieno di vergogna per aver rotto un registratore in casa del trombettista, sparì per due notti dormendo al Central Park e tornò, poco prima di un’esibizione per la TV americana, con la febbre alta e senza vestiti da poter indossare. Massimo Urbani era un puro, non aveva filtri e non apparteneva di certo a quel mondo borghese che, volenti o nolenti, stava già risucchiando le energie della musica afroamericana trasformandola successivamente in qualcosa di eccessivamente elitario. Max incarnava la purezza di alcuni leggendari personaggi che avevano letteralmente segnato la storia di questa musica. Intendiamoci, non sto assolutamente cavalcando cliché sull’artista maledetto, sul genio squattrinato o incompreso, sulla rivalsa di questa musica come riscossa dei ceti popolari. Penso invece che la storia del jazz si sia attorniata di figure provenienti dal mondo popolare quanto da quello borghese e che sia stato proprio questo connubio, democraticamente, a far arrivare alle nostre orecchie capolavori senza tempo. Certamente però, oggigiorno, non possiamo far finta di non notare quanto questa musica si sia eccessivamente imborghesita, negli ambienti più che nelle note, perdendo talvolta uno spirito divulgativo e spensierato che si poteva ritrovare, ad esempio nel blues e nella musica nera, tra le fasce sociali più deboli.

La più celebre frase di Urbani, detta spontaneamente e senza giri di parole “L’avanguardia è nei sentimenti”, sintetizza tutto il mio discorso nel modo più alto e semplice possibile.

Tra la fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ‘80 Massimo Urbani, pur rimanendo un ragazzo di quartiere, divenne dunque un sassofonista di successo richiesto in lungo e in largo, sia come leader che come sideman. Cresciuto nell’epoca della sperimentazione, la frase sopra citata è la sua risposta a chi gli chiede il motivo dell’essersi allontanato, all’apice della sua carriera, dal free e dalle cosiddette avanguardie che egli aveva ben conosciuto ad esempio con Rava o ancor di più con Schiano e Gaslini. Max riscopre il bop ma lo fa da musicista navigato e colmo di moltitudini di esperienze: oltre al suo ruolo nel periodo free lo ritroviamo ad esempio, seppur brevemente, a fianco degli Area nel jazz-rock come addirittura in un disco della Nannini. Non è il suo mondo però. Non lo è nemmeno il bop, in realtà. Massimo Urbani è Massimo Urbani.

Lo sanno bene anche i numerosi artisti internazionali con cui collabora (attorniato da tutti coloro che sono stati protagonisti attivi del periodo più incredibile della storia del jazz italiano). Qualche nome: da Chet Baker a Steve Grossman, da Mike Melillo a Red Rodney, da John Surman a Jack DeJohnette, da Lester Bowie a Kenny Wheeler, da Steve Lacy ad Art Farmer. Con Enrico Rava poi, lo ricordiamo accompagnato dalle ritmiche Hill/Astarita e dal celebre tandem norvegese Daniellson e Christensen negli stessi anni in cui registravano nel quartetto europeo di Keith Jarrett e Jan Garbarek.

Tra gli album a suo nome particolarmente di impatto vi sono certamente “Urlo” con Massimo Faraò, Pietro Leveratto e Gianni Cazzola e ancor di più “Easy to love” con Furio di Castri e Roberto Gatto alla ritmica ed un indimenticabile Luca Flores al pianoforte. Ricordando in un’intervista con Roberto Gatto questo album, Roberto mi faceva notare (a ragione) come Flores anticipi il modo di suonare di Brad Mehldau di almeno un decennio; fu un incontro tra solisti immensi, due giganti, che per uno strano scherzo del destino non abitano più entrambi su questa Terra.

Altri album che hanno destato la mia attenzione sono “Via G.T.” di Giovanni Tommaso del 1987 con Danilo Rea, Paolo Fresu e Roberto Gatto (da cui un celebre tour newyorkese) e “The Blessing”, ultimo disco in studio a suo nome registrato nel febbraio 1993, pochi mesi prima della sua scomparsa, praticamente con la stessa formazione di Via G.T. ad eccezione del solo Paolo Fresu e con l’aggiunta di Maurizio Urbani al sax tenore, prodotto dallo stesso Roberto Gatto.

L’epilogo arrivò nel giugno del 1993, dopo una storica settimana all’Alexander Platz Jazz Club di Roma per quelli che furono gli ultimi concerti ufficiali (ben documentati nel disco live che ne seguì) di Max, in compagnia di Andrea Beneventano, Dario Rosciglione, Gegè Munari e con ospite Red Rodney.

Fu proprio all’Alexander Platz che, nel marzo 2020, decisi di fare un grande omaggio a Massimo in quella che fu una storica diretta radiofonica di quasi 3 ore, con protagonisti racconti e musica partoriti da buona parte di coloro che collaborarono con lui. Per chi volesse riascoltare quella mitica puntata andata in onda sull’emittente Radio Città Aperta, mi permetto di allegare qui il podcast integrale.

https://www.radiocittaperta.it/podcast/speak-low-con-danilo-blaiotta-del-03-03-2020/

In questo sintetico ma sentito racconto della gigantesca carriera di Massimo Urbani, non ho volutamente citato i suoi noti problemi legati all’eroina, che portarono a quella maledetta notte tra il 23 e il 24 giugno 1993. Per chi avesse qualche dubbio, vorrei fortemente sottolineare che la musica di Max non è legata al suo essere alterato dagli effetti delle droghe. Massimo Urbani era libertà ma grande attinenza e precisione ritmica, era dotato di un orecchio bionico come di un senso del timing fuori dal normale. La musica di Max era lucida, limpida, oserei dire “nonostante” gli eccipienti, e non “grazie a”.

Il cliché del musicista che altera le proprie condizioni per suonare meglio ed in modo più ispirato la musica ed in particolare il jazz, è totalmente distante dall’universo di Urbani. Max era libero ma musicalmente lucido, come gran parte dei musicisti che hanno fatto uso di droghe, nel bop newyorkese dei favolosi anni ’40 come successivamente nell’Europa di fine anni ’60, e poi nel trentennio successivo.

Massimo Urbani era libero, limpido e brillava di luce luminosa: le note del suo sax alto scintillavano tanto su un fast quanto su un’improvvisazione libera. Alle volte gridava, si, con gli armonici, forse come avrebbe voluto gridare una sua qualche insicurezza legata alla vita reale? Non ci è dato saperlo e non ci deve nemmeno interessare. Che ci interessi, invece, l’emozione di quell’urlo come di quelle scale vorticose. Che ci interessi il canto meraviglioso dell’improvvisazione su ‘Lover Man’, uscito dal soffio di Max come dall’ugola di una Maria Callas vestita di ance e adornata di chiavi.

Vediamoci ciò che vogliamo, ma forse, più di ogni altra cosa, il sentimento di un artista profondo come pochi, vero come pochi, talentuoso come pochi, nella storia di questa straordinaria musica che tutti noi continuiamo a voler, imperterriti e forse anche un po’ contro ogni razionalità, portare avanti.

Danilo Blaiotta

HARRY BELAFONTE

L’America del 900, questo strano intreccio di possibilità e impossibilità, di scoperte straordinarie e di libertà negate, di nuove entusiasmanti arti e di negazione dei più basilari diritti dell’uomo.

Fin dalla nascita, Harry Belafonte sembra un predestinato ad incarnare la decisamente parziale sintesi contenuta nel mio incipit. Genitori cresciuti in Giamaica, che come tutte le isole caraibiche è un crogiuolo di incontri nati da crocevia. La madre è infatti figlia a sua volta di discendenti scozzesi e africani, il padre, di un’afroamericana e un olandese, quest’ultimo però di origine sefardita. Potremmo immediatamente rubare una definizione coniata nell’autobiografia di un altro grande della musica del ‘900, Charles Mingus: “l’America tutta in un uomo”.

Il piccolo Harry nasce ad Harlem, NYC, nel 1927. Divide gli anni dell’infanzia tra New York e la Giamaica. Nel 1939 si stabilisce nuovamente nella Grande Mela, questa volta in modo definitivo, frequenta la George Washington High School e si arruola in marina durante la Seconda guerra mondiale.

L’esordio avvenne alla fine degli anni ’40, come molti afroamericani di allora, calcando anche il palco dell’ American Negro Theatre di Harlem. Nei primi anni ’50 venne scritturato dalla RCA. Oltre al singolo “Matilda” (1952) che lo portò immediatamente in auge, i successivi album “Belafonte” e soprattutto “Calypso” gli diedero un successo planetario. “Calypso” vendette oltre un milione di copie, primo album della storia a raggiungere tale risultato. Il Mondo intero canticchiava brani come “Banana Boat song” e “Jamaica Farewell”, addirittura più di quelli di un’autentica icona di allora come di oggi, Elvis Presley. Harry Belafonte divenne quindi non solo artista popolare come pochi nella storia, ma un’autentica bandiera della musica caraibica.

Decisamente sulla cresta dell’onda, Belafonte venne scritturato in alcuni leggendari film di Hollywood di quei tempi, come “L’isola nel sole”, “Carmen Jones”, “Strategia di una rapina” e “La fine del mondo”.

Arrivati a questo inaspettato successo globale, al suo posto la maggior parte degli artisti si sarebbero goduti notorietà e denaro, scendendo a forzati compromessi che la società statunitense di quel tempo imponeva agli afroamericani, a tutte le latitudini sociali. A Belafonte venivano ad esempio proposti ruoli per il cinema alquanto discriminatori, che il re del calypso sistematicamente cominciò a rifiutare.

Divenne amico di Martin Luther King e sposò la causa dei diritti civili più di ogni altro: partecipava a raduni, manifestazioni, finanziava i giovani studenti attivisti, fu addirittura tra gli organizzatori della celebre marcia del 1963, quella che tutti ricordiamo per il discorso “I have a Dream” pronunciato dal Reverendo King.

In quegli anni, tutti i più celebri artisti neri di successo cercavano di far passare messaggi antisegregazionisti dall’interno dei loro ruoli. Belafonte non si accontentò di ciò. Lo ritroviamo ad esempio nelle marce per l’uguaglianza in Alabama a gridare “Bombingham” nella cittadina di Birmingham, dove il Ku Klux Klan soleva organizzare continui attentati alla comunità afroamericana. Di conseguenza, sappiamo che l’FBI controllò Belafonte a partire dagli anni ’50 per quasi un trentennio.

L’ America ed i suoi contrasti; la bellezza dell’avvento di musiche che hanno segnato la storia nel Mondo Contemporaneo, dal blues, al jazz, alla musica caraibica, a quella della Motown e a molte altre, di fronte ad uno scenario umano devastante portato a compimento dall’odio razziale.

Nel 2019 sono stato invitato a suonare nello Stato di Washington. Tra i momenti che hanno più segnato la mia prima breve permanenza negli States c’è sicuramente la visita al National Museum of African American History and Culture, inaugurato nel 2016 da Barack Obama.  Dal quarto piano sottoterra al quarto in superficie, si percorre la tragedia di un popolo e il suo troppo recente percorso di emancipazione.

“Ma da dove nasce tutto questo odio?” diceva William Dafoe a Gene Hackman in “Mississippi Burning: le radici dell’odio” di Alan Parker del 1988.

Harry Belafonte si tuffa in tutto questo con voce piena, e lo fa a prescindere dalla sua arte: in prima persona, come cittadino, come portavoce, prima ancora che come artista.

La straordinaria personalità di questo monumento caraibico non si fermò mai, fino agli ultimi anni della sua esistenza. Negli anni ’80 fu tra gli artisti che cantarono “We are the World”, negli anni 2000 criticò apertamente l’amministrazione Bush per la guerra in Iraq, e nel frattempo scrive anche alcuni libri in difesa dell’uguaglianza e dei diritti umani.

Harry Belafonte muore nella sua casa dell’Upper West Side di Manhattan, all’età di 96 anni.

Alcuni anni fa, la biblioteca del Congresso ha onorato Belafonte includendo l’album “Calypso” tra le grandi opere americane di sempre. Un Belafonte già ultranovantenne ha pronunciato una splendida frase che è destinata certamente a rimanere nella Storia non solo della sua straordinaria esistenza, ma di quella degli interi Stati Uniti d’America: “l’America è corrosa dal razzismo, ha un DNA fallato. La lotta contro il razzismo sarà permanente… Ero al fianco di Martin, e di Bobby Kennedy. Faccio parte del loro lascito, finché vivrò”.

Danilo Blaiotta

AHMAD JAMAL: il pianismo di un anticonformista visionario

“Ahmadiyya” era chiamata la comunità islamica a cui, nel 1951,  il giovane Frederick Russell Jones affida la sua vita spirituale. Mirza Ghulam Ahmad, suo fondatore nell’India di fine ‘800, venne allontanato dall’Islam ufficiale e divenne quindi un eretico. Fino ad oggi, Ahmadiyya non appartiene alla stragrande percentuale dell’Islam sunnita. Jones si affida al profeta Ahmad e dalla sua conversione diviene Ahmad Jamal.
Parto da qui, per delineare i tratti più evidenti del profilo di uno dei più grandi pianisti della storia del jazz, scomparso il 16 aprile scorso ad Ashley Falls, Massachusetts.
La storia con la quale ho principiato vi racconta subito di un anticonformista per vocazione, una mina vagante in un periodo nel quale la musica jazz seguiva percorsi quasi obbligati: gli anni del bop, quelli del cool, l’hard-bop. Ahmad Jamal era però tutto e niente. Era un’altra storia.

Il pianista solista di jazz si accompagnava, nell’era post-bop, con la classica ritmica contrabbasso/batteria. La prima formazione di un Jamal poco più che ventenne si avvale invece di contrabbasso e chitarra – Ray Crawford e Eddie Calhoun – come i trio di Nat King Cole e Art Tatum. I pianisti di allora inseguivano le funambolerie bop di Bud Powell e Wynton Kelly. Jamal crea spazi, usa l’armonia come fraseggio, cambia le carte in tavola.
Miles Davis lo ascoltò a Chicago nei primi ’50, ne rimase estasiato e ne divenne amico e supporter, tanto da affermare che Jamal fosse un vero e proprio riferimento per la sua musica. Viene naturale chiedersi allora come mai preferisce nelle sue formazioni pianisti come Horace Silver prima, Red Garland e Bill Evans poi.
Nel 1958 la carriera di Jamal esplose letteralmente, dopo la registrazione per la Argo dell’album live “At the Pershing / But not for me” in trio con Israel Crosby e Vernel Fournier. Il disco vendette quasi 50 mila copie in pochi mesi, rimase in classifica Billboard per 107 settimane e, negli anni ’90, venne calcolato che l’album arrivò a superare il milione di copie vendute. Si ricorda in particolare la sua celebre versione dello standard “Poinciana” di Nat Simon; tanto divenne nota, che molti ancora oggi pensano che sia una composizione dello stesso Jamal.
Curioso, aperto alle contaminazioni ma sempre a servizio dell’arte (la sua e specialmente il suo pianismo sono riconoscibilissimi sin dalle prime note); nei successivi decenni Jamal si avvicina anche al funky, alla musica latina e incide anche alcune perle in piano solo. Il mood però è sempre quello: devozione all’ascolto dell’intero gruppo, grandi dinamiche, gusto infinito per le scelte armoniche, timbriche e ritmiche.
Pensando agli anni ’80 e soprattutto ai gloriosi anni ’90 (decennio in cui la musica di Jamal subì una nuova ondata di successo), voglio consigliarvi due album che hanno stregato la mia adolescenza: “Live at Midem 1981” con il vibrafonista Gary Burton e lo stupendo “I remember Duke, Hoagy and Strayhorn” del 1994 con Ephriam Wolfolk al contrabbasso e Arti Dixson alla batteria.

Danilo Blaiotta

Con questo articolo, “A proposito di Jazz” saluta l’ingresso tra i suoi collaboratori di un grande pianista: Danilo Blaiotta. Di lui ci eravamo già occupati recensendo i suoi due album “Departures” e  “The White Nights Suite”; da poco è uscito il terzo eccellente CD, “Platenariat”, su ci soffermeremo quanto prima con una approfondita intervista allo stesso Blaiotta. Per il momento siamo lietissimi di salutarlo come collaboratore con questo interessante ricordo di Ahmad Jamal, accompagnato anche da un raro spezzone video, girato nel 1998 durante il concerto che l’artista tenne a Udin&Jazz, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, con una speciale testimonianza…

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“Jamal venne a Udin&Jazz nel 1998, in un nuovissimo Teatro Nuovo, e ci regalò eleganza, carisma, interculturalità nella sua massima espressione. Pochi come lui hanno saputo legare armonie e suoni delle origini africane con le più contemporanee letture occidentali. Non era certo un personaggio semplice con cui interloquire; il suo linguaggio espressivo era quasi esclusivamente la sua straordinaria musica”. (Giancarlo Velliscig, direttore artistico Udin&Jazz)

Ahmad Jamal, piano / Othello Molineaux, steel drums / James Cammack, double bass / Idris Muhammad, drums
Udin&Jazz– VIII edizione
Udine, 2 giugno 1998 / Teatro Nuovo Giovanni da Udine (Riprese d’archivio/Archive footage)