Alla Casa del Jazz la preghiera
di Sade Mangiaracina

Vulcanica come la sua terra, la siciliana Sade Magiaracina ha presentato l’altra sera alla Casa del Jazz di Roma il suo ultimo disco, “Prayers”… anzi, ad onor del vero, solo una parte dell’album. In effetti “Prayers” consta di due CD, in cui la pianista compositrice e arrangiatrice si avvale di due formazioni diverse: la prima con Marco Bardoscia al contrabbasso e Gianluca Brugnano alla batteria, supportati in tre pezzi dal Quartetto Alborada, la seconda con   con l’aggiunta in un solo brano del già citato Quartetto Alborada.

Prayers” è il terzo disco dell’artista e la formazione con cui ha suonato a Roma (Marco Bardoscia e Gianluca Brugnano) si è dimostrata particolarmente funzionale rispetto alla musica della leader che in questo album ha voluto convogliare un suo ben preciso pensiero: “Prayers” – afferma infatti Sade – è il modo per esprimere l’esigenza di ogni essere umano di rapportarsi, almeno una volta nella vita, per qualsiasi motivo, con il divino a ciò che è astratto e intangibile”.

Insomma un album che si inserisce nel solco di quella ‘spiritualità’ tanto presente nel mondo del jazz: come non citare al riguardo “A love Supreme” di John Coltrane, tanto per fare qualche esempio.

Obiettivo raggiunto? Come al solito quando si incidono album del genere, vale a dire con una progettualità ben precisa, è sempre difficile stabilire se la musica riesce a ben veicolare il messaggio dell’artista. In questo caso, più ascoltando il concerto che il disco, questo messaggio arriva specie nei momenti in cui la musica assume un andamento quasi circolare, con la ripetizione di brevi frammenti melodici in cui Sade fa sfoggio di grande tecnica anche nel controllare perfettamente le dinamiche. Così il pianoforte, sotto le sue mani, assume anche le vesti di uno strumento a percussione raggiungendo momenti di alta intensità che emozionano un pubblico molto attento e competente. È il caso ad esempio di “Journey to Haya Sophia”, ispirato da un viaggio in Turchia, o ancora di “My Prayer” e soprattutto di “Jerusalem”, frutto di un viaggio che Sade fece alcuni anni fa con il marito e il loro bimbo di pochi mesi. Bene: nessuno avrebbe immaginato che di lì a poco il pezzo sarebbe diventato di così drammatica attualità. Il tutto mantenendo un equilibrio costante ad evidenziare la bravura degli altri musicisti. Marco Badoscia è musicista a noi già ben noto che non a caso abbiamo altre volte segnalato all’attenzione degli ascoltatori per l’assoluta padronanza dello strumento e la capacità di ben adeguarsi alle indicazioni del leader, mentre Brugnano ha offerto un drumming sempre preciso, mai invadente. E ambedue sono stati in grado da un canto di dare risalto alle origini mediterranee della musica di Sade, dall’altro di confermare quello straordinario interplay che avevamo già ammirato in precedenti occasioni – nello specifico nei due suoi album precedenti “Le Mie Donne” e “Madiba”, dal quale tra l’altro è tratto il brano “Destroying Pass Book”, eseguito in serata – rendendo praticamente impossibile discernere tra parti scritte e parti improvvisate. Al riguardo mi sembra opportuno segnalare gli assolo dei musicisti in questione: è il caso ad esempio de “La Terra dei Ciclopi”, omaggio alle radici sicule della pianista e tratta dall’omonimo album, dove Brugnano prima dell’inizio vero e proprio del brano si esibisce in un lungo ed energico assolo di batteria, o della conclusione di “Dreamers”, caratterizzata da una struggente sezione di contrabbasso offerta da Badoscia.

E concludiamo questa breve disamina del concerto di Sade Mangiaracina, con alcune parole sul vol.2 dell’album quello in cui, lo ricordiamo, si ascoltano Salvatore Maltana voce e contrabbasso e Luca Aquino alla tromba. In questa sede la musica si fa ancora più introspettiva grazie soprattutto alla tromba di Luca Aquino eccellente interprete delle intenzioni della Leader.

In definitiva un gran be concerto e un album che merita tutta la nostra attenzione.

Gerlando Gatto

Ibrahim Maalouf incanta il pubblico nell’anteprima di Roma Jazz Festival

La 47° edizione del Roma Jazz Festival non poteva avere un’anteprima più riuscita: il concerto di giovedì 12 ottobre, sul palco della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma, è stato un successo clamoroso corroborato dalla standing ovation finale e da lunghi e convinti applausi da parte del numeroso pubblico. Ad esibirsi uno degli strumentisti più popolari della scena francese, il libanese nativo di Beirut ma naturalizzato francese Ibrahim Maalouf alla tromba e al pianoforte, accompagnato da François Delporte alla chitarra, mentre il giovane sassofonista rumeno Mihai Pirvan è stato presentato come una sorta d’ospite d’onore solo verso la fine della performance.

In occasione del concerto in Auditorium, Maalouf ha presentato alcune delle composizioni più celebri della sua carriera, a partire da quelle presenti nel suo ultimo album “40 Melodies”, un disco ricco di ospiti illustri come Sting, Marcus Miller, Matthieu Chedid, Alfredo Rodriguez, Richard Bona, Trilok Gurtu, Hüsnü Senlendrici, Jon Batiste, Arturo Sandoval e molti altri.

Ma nel caso del concerto romano non è stato tanto il repertorio che ha eseguito Maalouf, quanto il come lo ha eseguito. Sulla scia di altri straordinari performer tipo Jacob Collier nel campo del pop e Bobby McFerrin in quello del jazz, Ibrahim ha coinvolto il pubblico fin dalle primissime note del concerto. Entrato in scena con il fido chitarrista ha sollecitato il pubblico a battere le mani ed è stato immediatamente accompagnato dagli spettatori che, guarda caso, riuscivano a seguire il tempo. Poi ha spiegato il filo conduttore della sua esibizione: sciorinare in pubblico il filo rosso che lo ha accompagnato da bambino nell’amore per la musica. Di qui le prime lezioni di pianoforte, divenuto ben presto il suo primo strumento. Eccolo quindi seduto al pianoforte intonare i primi temi; così, in rapida successione, abbiamo ascoltato, tra gli altri, una cover del brano “Ama Fi Intizarak” eseguito originariamente dalla cantante egiziana Uum Kulthum, il suo più grande successo in termini di riproduzioni su Spotify (circa 22 milioni) “True Sorry”, “Lily Will Soon Be a Woman” dedicata alla crescita della sua primogenita, l’inno alla libertà “Red and Black Light”, “Happy Face”, tributo al grande Louis Armstrong…

Ma, indipendentemente dal brano, Ibrahim fa cantare il pubblico intero: lui stesso intona una melodia e poi la fa ripetere al pubblico, lo dirige con le mani per indicare la coda del motif, fa fare esercizi di vocal coaching per cercare di ottenere un effetto vocale simile a quello di Armstrong durante “Happy Face”, nel corso di “Red and Black Light” fa cantare al pubblico la melodia principale mentre lui e Delporte improvvisano alla chitarra e alla tromba, quasi si trattasse di un’enorme loopstation umana, per poi concludere facendo spegnere tutte le luci della sala, e affidando l’illuminazione alle torce degli smartphone degli spettatori, come le grandi popstar nei concerti agli stadi… e lui, al solito, pronto ad improvvisare sull’esperimento dirigendo con le mani il pubblico per dare gli accenti, le pause e quant’altro – il tutto condito da battute, aneddoti e spiegazioni sempre pertinenti. E questo esperimento, se si prendono come unità di misura gli applausi e le ovazioni ricevute da Maalouf dopo l’esecuzione di ogni singolo pezzo, può dirsi più che riuscito.

Un’ultima notazione: verso la fine, come accennato, entra in scena l’alto sassofonista rumeno Mihai Pirvan con cui Maalouf esegue gli ultimi due pezzi, “Feeling Good” (in origine eseguita con il rapper Dear Silas), e “Back to Baskinta”, comparsa nei film “In viaggio con Jacqueline” (2016) e “Regine del campo” (2020); il sassofonista evidenzia una tecnica prestigiosa mentre il timbro non ci ha del tutto convinti, un po’ troppo metallico, probabilmente anche per effetto dell’amplificazione.

Come bis un’altra trascinante composizione del leader, “All I Can’t Say”.

 

Gerlando Gatto

📷 Courtesy © Fondazione Musica per Roma / Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla

Si apre il 12 con Ibrahim Maalouf
il 47° Roma Jazz Festival

Una conferenza stampa molto, troppo lunga, per un programma molto, troppo lungo. Potrebbe essere questo, in estrema sintesi, il racconto della mattinata del 4 ottobre in cui è stato presentato alla stampa il più che voluminoso programma di Musica per Roma per la stagione 2023-2024.

In linea teorica si sarebbe dovuto parlare sia del l’Auditorium sia della Casa de Jazz ma di quest’ultima struttura si è detto poco o nulla.

Veniamo quindi al calendario delle manifestazioni in programma nella sede dell’Auditorium; per darvi un’idea l’indicazione delle stesse occupa ben più di dieci pagine per cui risulta impossibile sintetizzarle in un articolo che possa essere letto fino alla fine.

Di qui una decisione drastica: dopo aver detto che le manifestazioni si articoleranno attraverso “I grandi concerti”, “Le nuove residenze artistiche di Tosca e Daniele Silvestri”, “il focus Brad Mehldau”, “La stagione del Teatro, della musica contemporanea e delle orchestre giovanili”, soffermeremo la nostra attenzione sugli argomenti che maggiormente interessano i lettori di questo blog, vale a dire la musica, in special modo il jazz.

Il focus su Brad Mehldau si sostanzia in due concerti che il grande pianista terrà il 16 marzo e il 6 maggio rispettivamente in piano-solo e in trio.

Dal I° al 10 dicembre si svolgerà l’oramai collaudata rassegna italo-francese “Una Striscia di Terra Feconda” curata come sempre da Paolo Damiani e Armand Meignan. Quest’anno i concerti si svolgono anche al di fuori di Roma vale a dire Ostia e Civitavecchia. Numerosi i musicisti italiani coinvolti, tutti di grande prestigio: da Enrico Rava (il 1 novembre in trio con William Parker contrabbasso, Andrew Cyrille batteria), a Gianluigi Trovesi il 10 novembre, da Rita Marcotulli con lo stesso Damiani il 1 dicembre, a Maria Pia De Vito con Anais Drago, Michele Rabbia e Romail Al il 3 dicembre, da Peppe Sevillo & Solis String Quartet il 5 dicembre a Zoe Pia e Cettina Donato l’8 dicembre… a Javier Girotto con Jean Pier Como il 9 dicembre. Egualmente numerosi e di prestigio i jazzisti francesi come Louis Sclavis clarinetti, Benoît Delbecq pianoforte, Steve Argüelles batteria, Bruno Chevillon contrabbasso, Noe’ Clerc solo fisarmonica…

Ma senza dubbio l’evento più atteso per gli appassionati di jazz è il “Roma Jazz Festival” in programma dal 12 ottobre al 26 novembre. La manifestazione, giunta quest’anno alla sua 47° edizione, viene declinata attorno all’attualissimo tema della transizione. In effetti, come sottolineato in un comunicato del Festival, in un mondo dove la “transizione” ecologica, tecnologica, economica e sociale, rappresenta una delle principali priorità, la musica jazz non poteva che generare una ulteriore transizione stilistica. Così, negli ultimi anni la scena jazz si è ampliata e diversificata, accogliendo numerosi generi paralleli tanto che oggi, la linea di demarcazione tra jazz, musica elettronica, musica contemporanea, musica popolare, rap o pop è diventata sempre più sottile e sfumata.

Coerentemente a tali premesse, il programma è quanto mai variegato presentando artisti di estrazione completamente diversa.

L’apertura, il 12, è affidata ad un musicista che in breve è divenuto un beniamino anche del pubblico italiano, Ibrahim Maalouf; trombettista di straordinarie capacità tecniche, Ibrahim è stato premiato in Francia con i più alti riconoscimenti e nel corso della oramai lunga carriera ha collaborato con artisti come Sting, Marcus Miller e Melody Gardot.

Il 2 e 3 novembre appuntamenti con due calibri da novanta quali John Scofield e Avishai Cohen ambedue in trio.

Il 4 novembre incontro con Judith Hill vocalist proveniente dal pop di classe avendo collaborato con Stevie Wonder e Michael Jackson.

Il 5 concerto che consigliamo vivamente essendo di scena uno dei migliori fisarmonicisti jazz, Vincent Peirani, in trio.

Il 9 un’occasione per scoprire il talento del pianista sudafricano Nduduzo Makhathini venuto prepotentemente alla ribalta in questi ultimi tempi.

Tra gli altri numerosi concerti da segnalare ancora l’11 novembre gli intramontabili “Yellowjackets”, il 12 il trio Jan Bang/Eivind Aarset, il 16 Tony Levin e Pat Mastelotto, bassista e batterista della storica band King Crimson.

Tra gli italiani il 12 novembre “Conversession” ovvero il gruppo vincitore del contest Lazio Sounds 2023, il 16 Anais Drago, il 17 Francesco Bearzatti e Ilaria Capalbo, il 18 Raffaele Casarano e Ilaria Sanchietti.

Chiusura il 26 con un trio d’eccezione costituito dal sassofonista inglese Shabaka Hutchings ben noto alle platee di tutto il mondo, il cantante e compositore marocchino Majid Bekkas e il batterista Hamid Drake con un programma dedicato ad Alice Coltrane.

Altro evento di grande interesse per il pubblico di “A proposito di jazz” il Gospel Festival su cui ci soffermeremo in un prossimo articolo.

Gerlando Gatto

Nicky Nicolai inaugura il “Latina in Jazz”

Sabato 30 settembre inizierà la nuova rassegna “ 03/22”. Si tratta della 24° rassegna da quando l’avv.Marinelli, da buon visionario e fucina di idee innovative, presidente del locale Jazz Club, iniziò questo percorso.

Come oramai consuetudine della rassegna, tutti gli appuntamenti si mantengono su standard qualitativi piuttosto elevati offrendo al pubblico appuntamenti da non perdere.

Si parte, come già accennato il 30 settembre con il quartetto della vocalist Nicky Nicolai con Andrea Rea piano, Dario Rosciglione al contrabbasso e Amedeo Ariano alla batteria.
Nata a Roma da genitori estranei all’ambiente artistico e di origini abruzzesi, Nicky viene affascinata dalla musica tanto da abbandonare gli studi in veterinaria. Nel 1992 si iscrive al Conservatorio Piccinni di Bari e studia Canto Lirico con Lucia Vinardi conseguendo il diploma di canto nel 1999.Nei primissimi anni del nuovo secolo incontra il sassofonista Stefano Di Battista con cui instaura una fruttuosa collaborazione artistica e umana. In questi ultimi anni la Nicolai ha consolidato la sua reputazione entrando di diritto tra le migliori vocalist jazz del nostro Paese. Come già detto a Latina si presenta in quartetto con musicisti anch’essi di fama nazionale che, ne siamo sicuri, supporteranno al meglio le sue interpretazioni.

Fino ad oggi è stato approntato il calendario per la prima parte della stagione (fino a Dicembre 2023). In particolare dopo il concerto della Nicolai, l’11 ottobre ci sarà il trio di Alessio Magliari, il 4 novembre con un programma dedicato a Nicola Arigliano sarà sul palco il quartetto Fasano, Biseo, Tatti, Ascolese, il 25 novembre Javier Girotto con Aires Tango e il 16 dicembre Joy Garrison quartet con “Waiting for Christmas”.

Non appena sarà pronto il calendario della seconda parte, ve lo comunicheremo con tempestività.

Gli eventi avranno luogo come di consueto presso l’auditorium del Circolo Cittadino Latina – Sante Palumbo il sabato alle ore 21.00.

As Madalenas
Un duo di qualità

Tatiana Valle brasiliana, chitarra e voce, e Cristina Renzetti italiana, voce, sono due straordinarie musiciste che una decina d’anni fa si sono incontrate e hanno deciso di fondere i loro destini musicali. Di qui un duo che si è particolarmente distinto per l’originalità delle esecuzioni ed una certa capacità compositiva che si è particolarmente esplicitata nel loro terzo album, chiamato semplicemente “As Madalenas” . E noi le abbiamo intervistate proprio in occasione di quest’ultimo album.

– Come è nato il vostro duo? Da quali motivazioni trae origine?
“Il duo – risponde Cristina – nasce una decina d’anni fa quando io, dopo aver vissuto cinque anni a Rio de Janeiro, sono tornata in Italia mentre Tati, brasiliana, si era appena trasferita in Italia. Ci siamo conosciute in modo del tutto casuale, durante il matrimonio di un comune amico; poco tempo dopo ci siamo riviste e ci siamo messe a cantare, abbiamo trovato un’immediata sintonia che ci ha spinto ad approfondire l’intesa, dopo di ché non ci siamo più lasciate. In questi dieci anni abbiamo registrato due dischi e questo è il terzo che si chiama proprio come il nostro duo ‘As Madalenas’. La particolarità di questo album è che contiene in massima parte nostre composizioni originali e per la prima volta siamo in formazione di quintetto insieme a musicisti straordinari”.

– Qual è il filo di continuità, se c’è, tra i primi due album e quest’ultimo?
“Di sicuro – risponde Tati – in questi anni abbiamo sviluppato un suono che ci distingue e ci permette sia di continuare a rivisitare i pezzi non nostri dando continuità al mondo della ricerca, sia di scrivere i nostri pezzi e comunicare con il nostro pubblico in maniera ancora più personale, così l’anno scorso ci siamo trovate a lavorare assieme alla scrittura producendo una serie di brani a due mani che sono presenti nell’ultimo album”.

– Prima del vostro incontro che tipo di background musicale avevate?
“Io – ci dice Cristina – sono diplomata in jazz. All’inizio ho cominciato con il rock poi a diciotto anni ho conosciuto la musica brasiliana ed è stato un vero e proprio innamoramento. Io sono del’81 quindi all’epoca non c’erano Internet, Youtube…e quindi ho conosciuto questa musica attraverso un ragazzo, sono andata in Brasile e da lì è cambiato il mio mondo. Di qui la conseguenza che io oramai da venti anni canto musica brasiliana”.
“Il mio primo amore – risponde Tati – è stata la chitarra classica, ho iniziato a studiare all’età di 9 anni, poi ho provato diversi strumenti, come il violoncello, la viola d’arco, ero molto curiosa. Il contato con la mia voce è arrivato piano piano con la crescita e per fortuna la chitarra era li per accompagnare il mio canto. Sono cresciuta cantando in chiesa dove suonavo anche la chitarra elettrica, e ogni anno partecipavo al Festival di Musica di Londrina dove erano previste due settimane di full immersion in svariati master class: armonia, chitarra classica, officina di Choro e samba, con insegnanti rinomati da diverse parti del Brasile e del mondo. Molto presto ho iniziato ad avere i miei primi progetti e una intensa attività live nello stato del Paraná e Santa Catarina; suonavo dal Pop Rock alla musica celtica, ma l’amore per il mondo del samba e della Musica Popolare Brasiliana mi ha portato a intraprendere la strada del mestiere, nonostante le difficoltà dell’ambiente particolarmente maschilista della vita “boemia” e di essere la prima musicista della famiglia. Di recente ho concluso il biennio di jazz, un passo verso lo studio e un percorso che avevo lasciato indietro nei miei primi anni in Italia”.

– Voi parlate di musica brasiliana. Ma la musica brasiliana è un universo incredibilmente composito. A quale tipo di espressione brasiliana fate riferimento?
“In realtà – ci dice Cristina – la cosa bella di quest’ultimo CD è che in realtà facciamo riferimento in massima parte a brani scritti da noi. Certamente la nostra principale fonte ispiratrice è sempre la musica popolare brasiliana, quindi il nostro sound l’abbiamo costruito attorno al samba, alla musica nordestina e a certi grandi compositori. Ma, soprattutto nei due dischi precedenti, siamo andate a pescare anche autori meno conosciuti. Insomma, per essere più chiara, noi abbiamo sempre giocato non solo sulla musica brasiliana ma anche sulle traduzioni di questi pezzi in italiano o magari canzoni italiane ritmate alla brasiliana. Questo per dire che c’è sempre alternanza tra le due lingue – brasiliana e italiana – che per noi resta un elemento fondamentale del nostro linguaggio”.
“Per quanto mi riguarda – aggiunge Tati – questo amore per la chitarra si riverbera nella mia musica. Io in particolare amo molto il samba, la bossa nova, il samba jazz…e il mondo della canzone dove si possono trovare delle vere e proprie gemme. In conclusione penso che questo nuovo album ci rispecchi molto”.

– Tra i musicisti brasiliani io conosco molto bene un grande che risponde al nome di Guinga…
“Hai perfettamente ragione. Lui è un grande e noi lo conosciamo assai bene. Guinga – ci conferma Cristina – è stato lo special guest del nostro secondo album, ma la costante di questi tre nostri album è che in ognuno c’è un brano di Guinga”.
“Noi l’abbiamo omaggiato – aggiunge Tati – con un testo inserito in un suo pezzo con cui lo ringraziamo per quanto ci aveva donato. Ricordo un episodio molto significativo: una sera ero andata a sentire un house concert di Guinga con Stefania Tallini a Roma e una mia amica mi spinse a dare il nostro primo disco a Guinga che il giorno dopo, con molto entusiasmo, mi fece avere il materiale inedito di “Canção da Impermanência”, album che sarebbe stato pubblicato di lì a poco, dicendomi che potevo scegliere un brano per il disco nuovo. Mi innamorai di un pezzo, ma a questo punto si poneva un altro problema: chi suona la chitarra? Con molto coraggio abbiamo chiesto a Guinga se era disponibile e lui ha risposto subito di sì: ecco, i miracoli alle volte accadono”.

– Quest’ultimo disco non è in duo ma in quintetto. Come mai questa scelta?
“Dato il contenuto del disco, risponde per prima Cristina – ci siamo dette che per la prima volta sentivamo la necessità di una direzione artistica. Innanzitutto uno sguardo esterno sul lavoro e tutto il processo artistico che comporta la scelta dei musicisti, dei brani, per poi passare agli arrangiamenti. Al basso c’è Ferruccio Spinetti, un musicista che conoscevamo già e sognavamo di lavorare insieme; così, quando sé trattato di scegliere questa figura di produttore artistico, tutte e due abbiamo pensato immediatamente a Ferruccio perché coniuga una grande condivisione della nostra visione della musica e l’amore per la forma canzone. “Poi – aggiunge Tati – lui ama la musica minimalista come dimostra nel duo ‘Musica Nuda’, una formazione che mi piace moltissimo”.

– E gli altri due?
“Alla chitarra – risponde Cristina – c’è Roberto Taufic che è un musicista straordinario e Bruno Marcozzi “.
Bruno – interviene Tati – è un magnifico batterista con cui ho lavorato parecchio e che stimo sia come musicista sia come amico”.

Gerlando Gatto

Marco Fumo: c’è già tutto nella musica di Scarlatti

Marco Fumo – classe 1946 – è uno dei personaggi più rappresentativi del jazz made in Italy; dall’alto della sua competenza musicale, ha attraversato gli ultimi quarant’anni della storia jazzistica nazionale da assoluto protagonista nelle molteplici vesti di compositore, arrangiatore, didatta, esecutore. Come pianista è stato l’assoluto portabandiera nel nostro Paese del ragtime prima e del piano stride poi. Il tutto impreziosito dalle collaborazioni cinematografiche con personaggi quali Nino Rota e Ennio Morricone che appositamente per lui hanno scritto alcune composizioni.
Purtroppo da qualche anno Marco è affetto da alcune patologie che lo hanno allontanato, speriamo temporaneamente, dalle scene.
In tanti anni di attività non eravamo riusciti ad incontrarci; è stato, quindi, per me un vero piacere poterlo intervistare su una terrazza prospiciente l’azzurro mare di Giulianova.

Marco abbiamo quasi la stessa età. Ciò significa che abbiamo avuto il privilegio di poter assistere a tutto ciò che ha interessato il jazz italiano negli ultimi quarant’anni. Qual è la tua opinione al riguardo?
Se ti devo dire la verità, in quest’ultimo periodo seguo poco sia il mondo del jazz sia quello della musica classica. Non per una questione di puro snobismo, ma di pancia piena nel senso che tutto ciò che poteva essere detto e fatto è stato detto e fatto. Le cose nuove sono spesso difficili da ascoltare; naturalmente c’è chi tira l’acqua al proprio mulino, ma come molte cose nel nostro Paese, si tratta solo di orticelli e poi, gira gira, alla fine di veramente nuovo non c’è quasi nulla o comunque diventa molto difficile trovarlo. Comunque circa il futuro non sono preoccupato perché il mondo del jazz ha la possibilità di pescare in varie pentole e quindi, tutto sommato, troverà sempre pane per i suoi denti. La cosa che invece mi preoccupa di più è il modo in cui poi queste cose vengono gestite: c’è una sorta di riposo sugli allori da parte della maggioranza dei gestori del fatto jazzistico; molti festival, ad esempio, pescano nel bacino della musica pop il che se da un lato indica che c’è la necessità di guardare verso un certo tipo di musica soprattutto per esigenze di cassetta, dall’altro c’è modo e modo di proporla quest’altra musica. Insomma diciamo che è un mondo in movimento ma relativo”.

Ma, prescindendo dal fatto puramente musicale, non ti sembra che l’ambiente si stia burocratizzando e accentrando nelle mani di pochi le risorse pubbliche che rimangono del tutto insufficienti?
“Assolutamente sì. Diciamo che la morte di tutto è la burocrazia. Quindi qualsiasi cosa la burocrazia prenda in mano non fa altro che alimentare sé stessa”.

Tu hai alle spalle hai una carriera assolutamente straordinaria eppure, a quanto mi consta, hai ancora un sogno nel cassetto. Di che si tratta?
“Sì, in effetti, ho un sogno nel cassetto ma credo che purtroppo tale rimarrà. Ciò perché nel recente passato fatti contingenti mi hanno portato a non esercitare più dal vivo le mie uniche capacità che ho e quindi, come ti dicevo, sono convinto che rimarranno dei sogni o comunque vicino a dei sogni. La cosa che mi preoccupa di più è l’inutilità dell’agitarsi a vuoto: questo me lo suggerisce sia l’età sia l’esperienza nel senso che andando a pescare nel passato sono non una ma davvero tante, tantissime le similitudini, le ispirazioni, i modi di guardare al passato in maniera costruttiva, anche diversa, ma in maniera da riferirsi ad un passato che in qualche maniera ha già detto se non tutto, ma sicuramente moltissime cose. Non a caso l’ultimo sforzo che ho fatto in questo senso è un lavoro cui mi sono dedicato durante il periodo della pandemia: mi sono lette tutte le 500 e passa sonate di Scarlatti e ho constatato che là dentro c’è di tutto, per cui mi sono divertito a mettere vicino ad una sonata di Scarlatti un pezzo del repertorio che ho frequentato. Bene, a parte il repertorio che io ho frequentato, ho scoperto moltissime corrispondenze tra la musica di Scarlatti e le altre musiche e quindi non intendo riferirmi solo alla musica classica, ma anche al jazz, alla musica etnica, a quella cubana, insomma a tutta la musica. Scarlatti è davvero un pozzo senza fine; questo per dire che quanti si sbracciano per inventare qualcosa di nuovo, alla fine queste cose non so quanto siano in realtà nuove”.

Partendo da Scarlatti, tu hai già abbozzato un lavoro di più largo respiro che potrebbe vedere la luce?
“Sì, è vero. Avevo cominciato una ricerca attraverso cui mettere a confronto la musica di Scarlatti con quella di altri compositori per evidenziarne i punti di contatto. Così ho costituito delle coppie e volevo mettere tutto su disco in modo da dimostrare, in maniera evidente, come Scarlatti sia stato un precursore per parecchia della musica che ascoltiamo oggi”.

– Dal punto di vista mio di ascoltatore curioso, ce la faremo ad ascoltare queste coppie?
“Penso di sì. Alcune le sto già pubblicando sulla mia pagina Facebook; in particolare sei di queste otto coppie che formavano il progetto iniziale, sono già ascoltabili sulla rete. Io li ho messi in coppie ma le piattaforme non le mettono in coppia e quindi perdono molto della loro valenza iniziale. Adesso sono impegnato su diversi fronti. Innanzitutto devo capire se sarà possibile ritornare a suonare ed è un obiettivo come puoi capire per me assolutamente prioritario; ammesso che ciò sia possibile, dovrò completare le due coppie che mi mancano e pubblicare il disco completo con il discorso delle otto coppie”.

Tu hai una personalità molto variegata: di te si può dire che sei un compositore, un arrangiatore, un esecutore, un didatta… Qual è la veste che meglio ti si attaglia?
“Tutte e nessuna, nel senso che in realtà io sono tutte queste cose e nello stesso tempo non sono nessuna di tutte queste cose. Nel senso che non sono un vero didatta, non sono un vero esecutore e via discorrendo. Mi spiace non essere stato uno importante almeno per una delle cose che tu hai elencato: in buona sostanza non sono soddisfatto del lavoro svolto perché, almeno apparentemente, non ha avuto un senso compiuto”.

– Scusami, ma essendo da tempo un entusiasta del tuo lavoro, ti seguo con molta difficoltà. Che vuoi dire?
“Se fossi stato un bravo esecutore, probabilmente l’avrei fatto meglio, più approfonditamente di quanto non lo abbia fatto. Non sono uno studioso; come ti dicevo per esempio ho letto tutte le sonate di Scarlatti, vado leggendo qua e là, più che altro sono curioso ma non credo ciò basti per definirsi uno studioso. Bisogna saper scegliere un argomento e almeno per una volta cercare di approfondire il tutto”.

Consentimi di non essere d’accordo con questa tua analisi che mi pare piuttosto riduttiva. Soprattutto perché, almeno per quanto riguarda il lato esecutivo, per un certo tipo di linguaggio tu per molti e molti anni ne sei stato – e credo ne sia ancora – l’interprete principale e non solo in Italia.
“Ringrazio te e quanti la pensano come te ma anche sotto quell’aspetto ritengo di aver fatto molto meno rispetto a quelle che erano le mie capacità e le mie possibilità, perché sono stato distratto, perché – come dicevo – sono curioso e quindi mi lascio prendere da mille cose. Si, è vero, molti me lo dicono che per quanto riguarda il pianismo stride mi hanno riconosciuto questo ruolo di precursore, di esponente di primissimo piano ma io non mi sento nel ruolo. Per me era normale seguire una certa strada e scoprire i prodromi che poi si sarebbero sviluppati nel tempo”.

Tra i moltissimi episodi che punteggiano la tua attività musicale, quali sono quelli che ti sono rimasti particolarmente impressi?
“Due incontri nella mia vita artistica e non, sono stati particolarmente chiarificatori: quello con Nino Rota e l’altro con Ennio Morricone. Non a caso si tratta di due personaggi simili a me nel senso che Rota scriveva musica, musica nel senso che non si poneva il problema se si trattasse di musica leggera, classica, operistica etc… e Morricone lo stesso. Per un lungo lasso di tempo io gli sono stato particolarmente vicino nel senso che abbiamo lavorato a strettissimo contatto: lui tendeva a sminuire la sua parte cinematografica mentre secondo me ha detto molto di più nella musica da film piuttosto che in quella da lui prediletta cioè quella del compositore “serio”. Nella parte cinematografica lui era molto più immediato ed originale; ad esempio è stato il primo ad usare, ai tempi di Gianni Meccia, il rumore del barattolo che correva sulla strada come un vero e proprio elemento musicale. Insomma è stato un innovatore, un innovatore vero nel senso che persino Scarlatti non era arrivato ad immaginare qualcosa di simile. Oltretutto, checché se ne dica da parte di chi bene non lo conosceva, era un personaggio dal punto di vista umano molto accessibile, molto semplice. Naturalmente, se era punto sul vivo e si andavano a toccare certi discorsi musicali, compositivi, allora ‘se la tirava’ e faceva valere le sue cognizioni. Nino Rota era lo stesso, era il tipo che faceva gli scrutini scrivendo musica e mai perdeva il filo del discorso: era letteralmente strabiliante come riuscisse a riprendere perfettamente il discorso sia quando faceva gli scrutini sia quando conduceva un esame. Rota aveva una capacità straordinaria nello scrivere cosa che invece non era nelle corde di Morricone”.

Per concludere questa nostra piacevolissima chiacchierata, te la sentiresti di dare un suggerimento, un consiglio ai giovani che vogliano intraprendere la carriera di musicista?
“Il consiglio che davo ai miei alunni già molti anni fa rimane sempre lo stesso: voi dovete saper suonare tutto se volete fare il musicista professionista. Andiamo incontro ad un periodo in cui non è più possibile essere il pianista del ragtime, piuttosto che del bop o di Scarlatti. Bisogna saper suonare di tutto e bene”.

– Ma è difficile, molto molto difficile
“Sì ma è l’unica strada che ti assicura la possibilità di avere un lavoro stabile e ben retribuito”.

 

Gerlando Gatto