Il Jazz al tempo delle Macchine. Riflessioni in musica a Udin&Jazz 2023

La XXXIII edizione del festival udinese ha riguadagnato i propri luoghi d’elezione nella città di Udine dopo il rifiuto a collaborare con la precedente amministrazione comunale dalle chiare derive autoritarie.
Dopo un esilio dorato nella città di Grado nella quale le proposte del festival hanno continuato a richiamare una grande quantità di pubblico e, solo dopo aver avuto la certezza che la città di Udine, medaglia d’oro della Resistenza, fosse rinsavita attraverso nuove elezioni, Udin&Jazz ha potuto rientrare in pompa magna nel capoluogo friulano.
Lo ha fatto con un’edizione che resterà nella memoria di tanti per i meravigliosi artisti che vi hanno partecipato, ma anche perchè tutta la città ha potuto riprendere il filo di un discorso di crescita personale e democratica, anche attraverso la musica, che sembrava essersi interrotto.
All’associazione Euritmica, che da più di tre decenni cura la manifestazione e molto altro, va il grande merito di considerare ancora il jazz non solo come intrattenimento estivo per un pubblico di vacanzieri, ma come uno strumento per riflettere su se stessi e sul mondo in cui viviamo, sui diritti e sulla solidarietà.
La musica è certamente anche divertimento, ma lo è ancora di più se il pubblico, che fa lo spettacolo assieme ai musicisti, è consapevole della sinergia positiva che si crea e della progettualità in essere. Il Jazz nasce dal grido di lotta degli afroamericani che attraverso la musica esprimevano tutta il loro dolore, ma anche la volontà di riscatto ed emancipazione da ogni tipo di schiavitù fisica e spirituale. E’ ancora così, ma la questione non riguarda solo una singola minoranza discriminata, interessa e coinvolge ognuno di noi esortandoci a spezzare le catene che ci costringono ad uno stato di minorità.
Jazz against the Machine. E’ stato questo lo slogan del festival che ha voluto fare da cornice ideale a tutti gli eventi per provare a riflettere in musica e parole sul significato del fare musica d’improvvisazione più o meno strumentale in un mondo che si appresta ad essere dominato dalle cosiddette “macchine intelligenti” dotate di una sorta di raziocinio in grado di competere con quello umano.
Naturalmente, non vi era nessuna forma di neo-luddismo nelle intenzioni degli organizzatori, quel “contro” era una provocazione per suscitare un discorso più ampio. La diffusione e la pervasività della tecnologia sembra nascondere una forma di potere ancora più subdola del solito. Il sistema economico sociale del quale tutti facciamo parte tende sempre di più a marginalizzare tutto ciò che di umano ci è restato sostituendolo con le Macchine, di certo più docili ed ubbidienti oppure trasformando ognuno di noi in cyborg comandati da algoritmi.
L’utopia perseguita dagli organizzatori di Udin&Jazz è quella che la musica sia l’antidoto all’avvelenamento progressivo delle nostre coscienze, l’elisir che può permetterci di continuare a sognare e a sperare nella nostra libertà, due cose che decisamente alle Macchine non riescono.
Udin&Jazz (in) book; Il Jazz e i mondi. Musiche, nazioni dischi in America, Africa, Asia, Oceania.
Guido Michelone è un critico musicale di razza con una preparazione sulla storia del jazz di carattere enciclopedico, ricco di un’erudizione mai fine a se stessa e di piacevolissima conversazione. Fa parte di una generazione di giornalisti che ha potuto confrontarsi e formarsi ai concerti dei grandi colossi del jazz moderno, coloro che hanno scritto la storia della musica afroamericana nella sua fase più matura. Michelone è stato testimone vigile e attento di una stagione che non tornerà più, ma per fortuna senza alcuna nostalgia ha compreso gli sviluppi del genere ed ha saputo seguirli e raccontarli nelle sue recensioni e nei suoi moltissimi libri. Quello che ha presentato allo Spazio 35 nel corso del festival fa parte di una ricca documentatissima trilogia che indaga la diffusione del jazz fuori dagli Stati Uniti, in particolare in Italia, Europa e resto del mondo.
Claudio Cojaniz “Black”. Il pianista friulano ha una particolare predilezione per le radici africane della musica dei neri americani ed ha al proprio attivo una serie di lavori incentrati sul continente nel quale l’idea stessa di musica si è generata. Con il suo nuovo trio di eccellenti musicisti (Mattia Magatelli al contrabbasso, Carmelo Graceffa alla batteria) ha presentato il suo ultimo lavoro in un’atmosfera raccolta e intima, seppur molto partecipata, che ha saputo creare con le sue melodie trasformando in oasi di bellezza uno luogo urbano di certo confortevole come lo Spazio 35, ma pur sempre caratterizzato da rumori di fondo piuttosto importanti visto che si affaccia su una via trafficata della città.

Cojaniz ha un’anima blues che traspare prepotentemente in ogni sua composizione, i rumori e le voci della città si sono sposati benissimo con la sua vera e propria rimemorazione delle radici più antiche e ancora vigorose della musica afroamericana nelle sue declinazioni più varie dalle calde istanze della musica caraibica e afrocubana, fino al Latin Jazz, al Klezmer, alla tradizione italiana e poi ancora folk americano e via di seguito. La bravura del maestro friulano è stato quello di dar conto di tutte queste influenze senza alcun accademismo ma con la passione e il carattere che contraddistinguono il suo talento.

Stewart Copeland & FVG Orchestra; Stewart Copeland’s Police Deranged For Orchestra.
Tra gli eventi più attesi, non solo di Udin&Jazz ma dell’intera estate udinese, c’era proprio l’esibizione dell’inarrivabile ex batterista dei The Police con il suo nuovo progetto “Police deranged” che ritorna sui brani del vecchio gruppo riscrivendoli per gruppo rock e orchestra in modo del tutto originale e inaspettato. Nel gremito teatro principale della città, Copeland ha dato prova della sua classe assoluta come musicista e compositore, ma ha anche come istrionico intrattenitore del pubblico con le sue gag ed estemporanee esibizioni “punkeggianti” alla chitarra.
Ciò che ha reso l’esibizione davvero unica sono però stati i suoni e la magia dei nuovi arrangiamenti dei brani dei The Police, spesso completamente stravolti dal lavoro del batterista che li ha reinventati del tutto a partire da frammenti di registrazioni inedite e altri materiali di studio disseminati nel suo archivio. Il risultato è un magnifico mosaico con le tessere, paradossalmente tutte al posto sbagliato. Molte delle hits sono a tutta prima irriconoscibili, ma spingono l’ascoltatore a cercare nella propria memoria accordi e melodie con le quali ricostruire l’immagine sonora che gli permetterà di trovare una prospettiva nuova in brani ascoltati forse migliaia di volte. Le parti orchestrali e le nuove vocalità dovute alle tre splendide coriste non sono solo ornamentali ma contribuiscono in modo determinante alla riuscita di un’operazione che potrebbe sembrare furbescamente commerciale e di “fan-service”.

Copeland non ha scelto la strada più facile dell’auto celebrazione riproponendo pedissequamente i brani che gli hanno dato fama imperitura, come molti musicisti sul viale del tramonto che si avviliscono in cover band di se stessi “Per un pugno di dollari”. Lo straordinario batterista ha, al contrario, voluto mostrare quanto quella grandissima musica che il trio produsse possa colpire al cuore anche rimodulata e rimaneggiata in modo intelligente e geniale da uno dei suoi straordinari autori. Con una scherzosa metafora si potrebbe dire che Copeland, utilizzando gli stessi mattoncini Lego di una bellissima precedente astronave in musica, ne ha costruita un’altra altrettanto meravigliosa e “filante” che ci può portare ancora una volta a “camminare sulla Luna” (Walking on the moon).

Udin&Jazz/Talk&Sound. Doctor Delta. Zappa, idrogeno e stupidità.
Frank Zappa, il musicista/compositore di Baltimora, non c’è nemmeno bisogno di dirlo, è un continente a se stante nella storia della musica. Qualunque tentativo di etichettarne la vulcanica creatività va inevitabilmente fallito perchè proprio come un’autentica forza della natura essa è inesauribile e ancora oggi a distanza di trent’anni dalla scomparsa non si è riusciti ad individuarne perfettamente la vastità.
Ad oggi sono 163 gli album pubblicati a suo nome, moltissimi dei quali postumi tratti dai suoi immensi archivi di registrazione che non finiscono di regalare meravigliose sorprese. Giorgio Casadei e Alice Miali hanno cercato piacevolmente di costruire, tra parole e musica, un percorso scenico che raccontasse gli aspetti principali della luminosa carriera di Zappa a partire da un concetto come la stupidità che gli era molto caro e che è stato alla base di molta parte del suo lavoro.

Nella sua autobiografia scrive che gli sembra addirittura l’elemento più universalmente diffuso e disponibile. L’umorismo acido di Zappa e il suo serissimo genio di compositore contemporaneo con Edgar Varese come punto di riferimento iniziale sono stati gli elementi che ne hanno fatto uno dei fustigatori della società consumistica e del capitalismo in generale.
Nell’album delle sue “Mothers of Invention” del 1968 “We are Only in it for the Money” prendeva in giro ferocemente il “flower power” dei miliardari Beatles e di tutto lo show business che mascherava la propria avidità appropriandosi dello slogan Peace, Love & Music. In quell’album nel brano “Let’s make the water turn black” si racconta di due fratelli adolescenti sporcaccioni che pensano solo a divertirsi tra frizzi, lazzi e coprofagia (Whizzing & pasting & pooting through the day) mentre i loro genitori “producono, consumano e crepano”. Uno di loro finirà per far carriera nell’esercito e l’altro diverrà tossicodipendente. Con questi versi e la sua musica Zappa faceva a pezzi l’American dream svelando l’assurdità e la protervia di un sistema che si fonda sull’ipocrisia e sul sopruso.

Udin&Jazz (in) book, Sonosuono.
Tra i libri più interessanti presentati durante il festival c’è di certo quello dello psicologo e musicista, Matteo Cimenti che nel suo “Sonosuono” ha voluto indagare il percorso interiore di un musicista alla ricerca del significato della propria arte e dei suoni. Se ne è discusso a Casa Cavazzini, nuova prestigiosa sede del Museo d’arte moderna di Udine, vero scrigno della storia dello spirito creativo della città.
La recente ristrutturazione ha messo in bella evidenza non solo le tempere murali di Afro Basaldella e i pregevoli affreschi risalenti alla seconda metà del ‘300, ma anche un deposito di vasellame protostorico (VIII sec. a.C.). Nei nuovi spazi sono esposte le opere dei maggiori artisti del XX° sec italiani e internazionali. Scegliere di parlare del significato del fare musica oggi in un luogo come quello che fa risuonare i secoli e le epoche non è affatto indifferente o casuale.
Prendendo spunto dal libro di Cimenti e seguendo il tema del festival, il filosofo Cantone, il pedagogista Paolone, lo stesso autore e i musicisti De Mattia e Pacorig si sono interrogati sui pericoli, veri o presunti, legati alla musica nell’età dell’intelligenza artificiale “generativa”. Che ci piaccia o meno, il nostro tempo è quello nel quale le Macchine sono in grado non solo di riprodurre precisamente un manufatto artistico rendendolo indistinguibile da quello umano, ma anche di produrre e di comporre in autonomia. Il discorso sull’originale e sulla copia ha dei risvolti di bizantina complessità da chiamare in causa tutta la storia dell’estetica da Platone a Derrida. Per questo chi scrive queste brevi note non prova nemmeno a sintetizzare le abissali tematiche chiamate in causa dagli illustri relatori, ma si limita a citare il fatto che Sir Paul McCartney, dopo aver duettato virtualmente con il defunto John Lennon al Festival di Glanstonbury nel 2022, attualmente sta lavorando all’esumazione di una “nuova” canzone dei Beatles ibridando vecchie registrazioni con parti sintetiche generate dall’A.I. Un ironico Alice Cooper ha commentato: “In molti si preoccupano di cosa succederà quando l’IA si renderà conto che la razza umana non è più necessaria, ma posso immaginare come Paul McCartney, con la sua creatività interagirà con essa. Le direbbe “Ehi, fammi un disco dei Beatles”. Poi entrerebbe nel merito tramutandolo in un vero album dei Beatles con una protesica voce di John Lennon. Potrebbero accadere cose interessanti.” (Classic Rock) Mala tempora currunt.

Agnese Toniutti, Piano Maestro, concerto partecipato per bambini e famiglie. L’incantevole pianista, che da anni associa la sua inesausta attività di “esplorazione del repertorio pianistico contemporaneo e del Novecento (in particolare Cage, Scelsi, Cardini)…all’educazione musicale a partire dalla prima infanzia fino ad arrivare alla formazione dei futuri insegnanti” (www.agnesetoniutti.com), ha estasiato i piccoli spettatori che hanno partecipato alla sua lezione-concerto dimostrando che quelle che si considerano generalmente come delle astruse bizzarrie della musica contemporanea (toy piano, pianoforte preparato, inside piano) in realtà sono solo diverse modalità d’approccio al mistero dei suoni e della musica.

Molto spesso gli adulti hanno una capacità d’ascolto limitata dai pregiudizi dovuti alla loro educazione musicale molto spesso limitata e settoriale. I bambini al contrario e chi si lascia trasportare dalla magia del fare musica comprendono meglio l’universo che si nasconde tra un suono e l’altro. Il vero Maestro aiuta gli allievi a formarsi un proprio gusto e metodo non imponendosi, ma sviluppando il loro attraverso l’esempio, la volontà di fare e di rischiare sbagliando e riprovando (learning by doing).
Il prezioso lavoro di Agnese Toniutti germina a propria volta da quello del Maestro John Cage che, tra le altre sue avventure compositive, “Nel 1984, a Torino, realizzò un Musicircus for childeren in cui riunì 800 bambini di età compresa tra i 4 e i 12 anni, che suddivisi in gruppi, cantarono, suonarono, fischiarono simultaneamente canzoni, filastrocche, inni che già conoscevano, secondo un ordine determinato da Cage; il movimento dei vari gruppi permetteva di percepire la variazione dei suoni sia da parte di chi ascoltava, sia da chi eseguiva”.

Ragazzi dei Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento. Udin&Jazz ha voluto coinvolgere direttamente nelle proprie attività un gruppo di ragazzi delle scuole superiori del territorio per trasmettere loro la passione per la musica non tra le quattro mura di un’aula ma direttamente nel backstage dei concerti, nella gestione della sala, nell’accoglienza degli spettatori, nell’attività di maschere o di addetti al bookshop e ancora in tutto il resto delle attività logistiche e organizzative che rendono possibile un festival.
Coadiuvati e diretti dall’ottima Silvia Colle, i ragazzi si sono dimostrati inaspettatamente efficienti, interessati, partecipi, volenterosi e disponibili quasi a dispetto degli enobarbi soloni che li vogliono sempre inebetiti davanti ai loro cellulari.

Il Jazz e la musica d’improvvisazione continueranno a vivere nei cuori e nelle orecchie di coloro, giovani di qualunque età, che avranno la volontà di aprirsi a tutto ciò che non viene dato per scontato e che non si vende a peso sulla bilancia come la libbra di carne dell’incorreggibile Shylock.

Flaviano Bosco

Udin&Jazz 2023: all’insegna del Jazz d’autore

Dopo aver assistito alle ultime giornate di Udine Jazz 2023 mi sono vieppiù radicato nel convincimento che il Festival friulano, che vede da 33 anni alla direzione artistica Giancarlo Velliscig, sia oggi uno dei pochi ad aver veramente diritto di cittadinanza nell’universo festivaliero che oramai da anni accompagna l’estate degli italiani dalle Alpi alla Sicilia.
I perché sono molteplici: innanzitutto il giusto peso dato ai musicisti italiani e friulani in particolare; in secondo luogo, il tentativo, spesso riuscito, di allargare i confini del discorso oltre i limiti strettamente musicali per approdare a tematiche di carattere sociale che interessano anche chi di musica poco si occupa. E’ stato questo, ad esempio, il caso della mattinata dedicata al problema del rapporto tra jazz e donna approdato rapidamente alla più larga tematica del rapporto tra donna e mondo del lavoro.
Ciò, ovviamente, senza alcunché togliere alla qualità della musica che si è mantenuta su livelli più che buoni con punte di assoluta eccellenza. Tra queste punte va annoverato senza dubbio alcuno il concerto del quintetto ‘Eternal Love’ di Roberto Ottaviano al sax soprano con Marco Colonna ai clarinetti, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti che il panorama jazzistico internazionale possa oggi vantare e che quindi non ha raccolto tutto ciò che effettivamente merita.

Quest’ultimo lavoro, presentato anche a Udine, lo conferma appieno: Ottaviano, prendendo spunto dalla spaventosa realtà che ci circonda, caratterizzata da intolleranza, flussi migratori che non si fermano, guerre assurde si rivolge alla musica e alla sua capacità di accomunare anziché dividere, per innalzare un sentito omaggio alla spiritualità africana e lo fa rileggendo con autentica passione le musiche di Don Cherry, Charlie Haden, John Coltrane e Dewey Redman. Ma attenzione, nelle interpretazioni di Ottaviano, nulla c’è di calligrafico: il musicista pugliese è in grado di rileggere queste storiche partiture facendole proprie e quindi rivitalizzandole alla luce di un’esperienza di molti, molti anni, in ciò perfettamente coadiuvato da un gruppo che funziona magnificamente, in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente ideato dal leader.

Le positive sensazioni lasciatemi dal concerto di Ottaviano sono state ribadite, ma con alcuni distinguo, poche ore più tardi dal concerto di Matteo Mancuso in trio con Stefano India al basso elettrico e Giuseppe Bruno alla batteria. Siciliano, classe 1996, figlio d’arte, Matteo è considerato l’enfant prodige della chitarra jazz italiana ed in effetti presenta una tecnica davvero straordinaria. Ma ovviamente ciò non basta per fare di un buon musicista, un vero artista: ci vuole ben altro. Ed in effetti l’inizio del concerto non mi aveva convinto dato l’impianto sonoro più vicino ai concerti pop-rock che non a quelli jazz. Poi il giovane chitarrista ha rotto gli indugi ed ha presentato una bellissima versione di ‘Black Market’ che ha spinto gli astanti a tributargli una vera e propria ovazione.

Ora, come si diceva, Mancuso è sostanzialmente agli inizi ma le premesse sono più che buone: adesso dovrà dimostrare non solo di avere una digitazione velocissima, ma soprattutto di far muovere quelle dite secondo idee ben precise (come in “Black Market”) e di essere capace di scrivere e arrangiare in maniera acconcia. Insomma, lo aspettiamo con curiosità a prove più impegnative.

Il giorno dopo di scena un altro artista siciliano ma oramai udinese d’azione: il pianista Dario Carnovale con Lorenzo Conte al contrabbasso, Sasha Mashin alla batteria e Flavio Boltro alla tromba. L’incontro tra uno dei migliori trombettisti italiani ed un pianista eclettico, talentuoso, prorompente come Carnovale prometteva scintille… e così è stato. Alternando pezzi originali a brani ben conosciuti il gruppo ha entusiasmato il numeroso pubblico presente.

Definire il loro stile non è impresa facile, ammesso poi che sia così importante. Comunque, per dare solo un’idea anche a chi non ha visto il concerto, si potrebbe dire che la loro musica si inserisce nell’alveo di un moderno main stream ora ricco di lirismo ora carico di coinvolgente energia. Ovviamente merito della bella riuscita del concerto è sicuramente dei due leader…ma anche della sezione ritmica con un Conte cha ha fatto capire a tutti perché ha suonato accanto a mostri sacri quali Art Farmer, Bob Sheppard e Enrico Rava mentre il batterista russo Sasha Mashin si è confermato uno dei musicisti più interessanti a livello europeo.

In serata tutti al Castello per la serata brasiliana accolta, more solito, con favore dal numeroso pubblico e preceduta in mattinata da una dotta conversazione sulla musica brasiliana guidata da Max De Tomassi, conduttore di Radio1RAi e vero esperto della materia. Due gli appuntamenti in programma. Dapprima si presenta sul palco per l’atteso solo-piano Amaro Freitas indossando un improbabile completino da spiaggia che avrebbe fatto invidia ai miei amici di Capalbio. Comunque, abbigliamento a parte, Freitas ha confermato le attese di quanti vedono in lui il nuovo esponente dell’odierno jazz brasiliano. Dotato di un’energia prorompente, che comunque riesce a dosare grazie ad un approfondito studio sullo strumento, Freitas si lascia andare ad una serie di improvvisazioni, molto giocate sul lato percussivo, che catturano l’attenzione dell’ascoltatore, preso per mano e condotto alla scoperta della storia e della filosofia della gente brasiliana attraverso la musica. In effetti obiettivo del nuovo lavoro del pianista – “Sankofa” – presentato a Udine è proprio quello – per esplicita ammissione dello stesso Freitas – di “capire i miei antenati, il mio posto, la mia storia come uomo di colore”.

C’è riuscito? Onestamente non posso dirlo in questa sede ma se avremo occasione di intervistarlo glielo chiederò; quel che è certo è che Freitas continua ad evolversi stilisticamente parlando e a rendere il suo discorso sempre più convincente e coinvolgente. A quest’ultimo proposito bella la conclusione del concerto con un brano dolce dedicato alla mamma che è stato supportato dal coro di tutto il pubblico.

Completamente diverso il discorso sul secondo concerto che vedeva sul palco una vera e propria icona non solo della musica brasiliana ma della musica in generale: Eliane Elias pianoforte e voce con accanto il compagno di vita nonché personaggio di assoluto rilievo nel mondo del jazz, Marc Johnson al contrabbasso, Leandro Pellegrino alla chitarra e Rafael Barata alla batteria. Per introdurre la Elias a quei pochi che ancora non la conoscessero, basti dire che nel 2022 ha vinto il Grammy come Miglior Album Latin Jazz con “Mirror Mirror” straordinario album di duetti con Chick Corea e Chucho Valdes. A Udine la Elias ha sciorinato solo una piccolissima parte del suo vastissimo repertorio facendo intendere come l’appellativo di “The Bossa Queen” sia ancora oggi più che meritato.

La classe esecutiva rimane cristallina mentre il vocale denuncia qualche piccola crepa che non inficia la bontà della performance impreziosita anche dall’altissimo livello degli altri componenti il quartetto. Tra questi assolutamente strabiliante il batterista Rafael Barata con la Elias da oltre dieci anni ma anche con Dianne Reeves e Jaques Morelenbaum. Barata è davvero fenomenale per come riesce a tenere in mano le redini del flusso ritmico che rimane costante per tutta la durata del concerto senza un attimo di stanca, senza che mai si avverta una qualche sensazione di vuoto o di scansione men che perfetta. Risultato: alla fine del concerto pubblico in piedi e meritatissima ovazione.

Il 16 al Giangio Garden Parco Brun esibizione del “Green Tea in Fusion” al secolo Franco Fabris Fender Rhodes e synth, Gianni Iardino sax alto e soprano, flauto, synth, Maurizio Fabris percussioni e vocale e Pietro Liut basso elettrico. Il quartetto, costituito nel 2022, ha già al suo attivo ben due CD e a quanto ci risulta è già in lavorazione il terzo. Il gruppo sta assumendo sempre più visibilità e consensi grazie ad una proposta musicale di livello caratterizzata da una raffinata ricerca melodica e da un impianto ritmico tutt’altro che banale.

Questi elementi assumono ancora maggior forza ove si tenga conto che il repertorio è composto unicamente da pezzi originali che ben arrangiati danno la possibilità ai singoli (tutti musicisti esperti eccezion fatta per il giovane ma bravissimo bassista) di evidenziare le proprie potenzialità. Con specifico riferimento al concerto di Udine, la musica è entrata in connessione con la performance di action painting dell’artista Massimiliano Gosparini che ha prodotto una bella tela donata al gruppo alla fine del concerto.

In serata, in piazza della Libertà, quella che io considero la più bella sorpresa del Festival: organizzata da Cinemazero, la proiezione del film muto “The Freshman – Viva lo sport” diretto da Sam Taylor e Fred Newmeyer, con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra. Per quanto mi riguarda è stato sinceramente emozionante vedere scorrere sullo schermo le immagini di un bel film magnificamente commentate da una splendida orchestra tutta costituita da musicisti del Triveneto, tra cui Mirko Cisilino tromba e trombone, Francesco Bearzatti sax tenore, Luca Colussi batteria, Juri Dal Dan piano, Luca Grizzo percussioni.

La Zerorchestra nasce su iniziativa di Cinamezero, in occasione del centenario della nascita del cinema, come laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole che rappresentano il repertorio del cinema muto spesso ignorate dal grande pubblico. Io non so se il risultato è sempre pari a questo di Udine, non so se sia meglio l’orchestra nascosta agli occhi del pubblico o viceversa…quel che so è che a Udine la serata è stata davvero unica, magnifica, merito, a mio avviso, soprattutto dell’orchestra che ha saputo cogliere come meglio non si potrebbe gli stati d’animo dei personaggi. Di qui interventi solistici sempre acconci, misurati, pertinenti mentre i pieni orchestrali suggellano alcuni dei passaggi più significativi del film.

Il 17 luglio si apre, a Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna, con un duo di improvvisazione totale costituito da Massimo De Mattia al flauto e Giorgio Pacorig al pianoforte. Devo confessare che la musica totalmente improvvisata non è di certo in cima ai miei gusti ma, ciononostante, Massimo De Mattia rientra tra i miei musicisti preferiti. Il perché non è facilissimo da spiegare: la sua musica mi soddisfa, ogni volta che la ascolto sento come se il flusso della vita moderna con le sue insidie, le sue mille sfaccettature, i suoi dolori, le sue gioie fossero racchiuse nelle note emesse dal suo flauto il cui discorso rimane sempre intellegibile a chi sappia ascoltare.

Ricordo qualche anno fa, sempre a Udine, che, mentre De Mattia stava suonando all’aperto, cominciarono a sentirsi distintamente il suono di campane e il cinguettio di uccelli. Bene, il flautista fu talmente bravo da inserire questi elementi nella sua musica ottenendo degli effetti semplicemente straordinari a dimostrare che la musica può essere fatta di moltissimi elementi. A Udine, in quest’ultimo concerto, ha dimostrato ancora una volta tutte le sue potenzialità duettando egregiamente con Pacorig, altro esponente di rilievo dell’area improvvisativa. Non a caso flauto e pianoforte si sono integrati alla perfezione con un gioco di rimandi, suggestioni, tensioni e distensioni che denotano quanto profonda sia la conoscenza della musica da parte di questi due artisti.

In serata altro evento clou del Festival: il concerto della sassofonista Lakecia Benjamin. Devo dire immediatamente che l’artista ha entusiasmato i numerosi spettatori grazie ad una performance caratterizzata da straordinaria energia, da un sound alle volte “sporco” a richiamare i più grandi esponenti del soul, e da un repertorio che ha toccato da molto vicino i grandi nomi del jazz. Ecco, quindi, l’immortale “A Love Supreme” riproposto con sincera partecipazione anche se, ovviamente, nessuna interpretazione può raggiungere il pathos, la drammatizzazione, l’aspirazione verso il divino così ben rappresentata da Coltrane. A Udine l’alto sassofonista ha presentato il suo ultimo lavoro – “Phoenix” – che racchiude una doppia metafora: da un lato racconta le cadute e le risalite di New York città in cui è cresciuta, dall’altro si riferisce ad una sua esperienza personale vissuta nel 2021 quando sfuggì miracolosamente alla morte dopo un grave incidente stradale.

A proposito del concerto, qualche commentatore ha posto l’accento sulla mise dell’artista lodandone l’indubbia eleganza. Apriti cielo! Sui social si è scatenata una dura polemica e qualche musicista (o forse pseudo tale) si è spinta fino ad ipotizzare che la scelta di presentarsi sul palco ben vestiti sia vetero borghese se non addirittura “fascio” (questa la parola usata). E poi ci meravigliamo perché tanti giovani che nulla capiscono di musica, che non sanno intonare neppure due note di seguito riescono ad avere un vasto pubblico: basta vestirsi da straccioni, parlare un italiano approssimato e il gioco è fatto.

Martedì 18 luglio ultima giornata funestata da una breve tempesta di vento sufficiente, comunque, a mandare per aria tutte le sedie già approntate nello spiazzale del Castello per il concerto finale di Pat Metheny. Fortunatamente il tempo è volto al meglio e quindi il concerto si è potuto svolgere regolarmente seppure iniziato con un’oretta di ritardo. E personalmente ho ritrovato il Metheny che negli ultimi anni avevo smesso di seguire data l’involuzione stilistica che a mio avviso aveva caratterizzato le ultime produzioni del chitarrista.

A Udine Pat è tornato sui suoi passi e perfettamente coadiuvato da giovani musicisti, quali Chris Fishman al pianoforte e Joe Dyson alla batteria a costituire il “Side-Eye Trio”, ha riproposto alcuni dei suoi pezzi storici quali “Bright Size Life”, “Better Days Ahead” e “Timeline” lasciando perdere complicati meccanismi e riproponendo quel sound nutrito da tanta tecnica, tanto studio ma anche tanta sincerità d’ispirazione, che l’aveva contraddistinto negli anni scorsi. Entusiasta la reazione del pubblico che ha calorosamente applaudito ogni brano e che dopo l’ultimo bis ha regalato all’artista una più che meritata standing ovation.

Gerlando Gatto

Herbie, notturno jazz per Gabriele

Ricordati di osare sempre: di Herbie Hancock si può dire tutto tranne che non abbia osato nella propria carriera.
A volte fin troppo. Il jazz modale, le colonne sonore, il funky in profumo blaxploitation, l’apertura al rap, l’hip hop, l’elettronica a volte sopra le righe, a volte sotto, le collaborazioni, tanti presunti eredi, un’eredità sterminata.
Teneramente a Il Vittoriale degli Italiani. Hancock per D’Annunzio, si diceva. Un artista che si può trattare a tutti gli effetti come avanguardista, futurista, uno che rischia, uno che non ha paura, un condottiero che lancia intelligenza e cuore oltre l’ostacolo ed altresì uno che influenza (per non dire influencer), che crea delle strade, che è discusso, che a volte è criticato, che è criticatissimo, ma che a distanza di tanti anni è ancora un punto di riferimento
Insomma, Gabriele ed Herbie, dicevamo. Uno mette il posto, l’altro la musica. Voi portate da bere, così come ad una festa tra amici. Aperitivo terraźza hotel Gardone fronte lago, gessato, abito da sera e via, si arriva per penultimi. Ultimi non è chic ed è privilegio da sottintendersi al padrone di casa, sempre se si palesa.
C’è un invitato poco gradito ma che sembra tener banco sin dalle previsioni dei giorni precedenti.
Nel luglio più ventoso e piovoso degli ultimi anni fa capolino Giove Pluvio con malcelata minaccia alle spalle del mausoleo. Un occhio inquieto alle colline e l’altro estasiato allo spettacolo più bello del mondo: un anfiteatro vista lago, neanche nelle copertine dei dischi fantasy degli anni d’oro.

Overture. Si capisce subito che sarà un evento memorabile: il quintetto è più di una band, un gruppo di amici che ha piacere di incontrarsi, vedersi, suonare assieme, condividere esperienze e la conferma è che alle ore ventidue si ferma tutto e mezz’ora dopo gli organizzatori dicono forse e poi vediamo alle ventitrè e loro sono ancora lì ad aspettare perché vogliono suonare. L’intento. E la volontà. Ancora una volta. Sorride il Vate.
E se nella (chiamiamola) prima parte spicca la versione early ‘70 con Footprints e Chameleon, cavalli di battaglia che strizzano l’occhio a quello blu di Mimmo, dopo la (chiamiamola) pausa, il nostro si ripresenta con il Keytar – che lui abbracciava quando Sandy Marton era sconosciuto e lo fa tutt’ora che è nuovamente sconosciuto – e in forma fisica smagliante.
Ottantatré anni e non sentirli, a ballare con i suoi (fradici) fan.
Mens sana in corpore sano, danno musica sana.
Il risultato sarà ancor meglio di prima ed ancora con maggior entusiasmo per aver superato l’ostacolo, creato il giuramento, fatto l’impresa.
Standing ovation finale: la musica che ha creato, la musica che ha donato, la musica che ha.

Massi Boscarol ©

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I NOSTRI LIBRI 

Jeroen De Valk – “Chet Baker – Vita e musica” – EDT – pgg.331 – € 20,00
Questo libro mi ha particolarmente colpito anche a livello emotivo. Ciò perché si parla di un musicista che io ho ben conosciuto in vita e di cui ho spesso parlato con quanti hanno avuto l’occasione di suonare con lui. E dirò immediatamente che tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di suonare con Chet Baker semplicemente lo adorano e ne parlano con grandissima dolcezza. Altro motivo per cui il volume ha colto il mio interesse è la ricchezza di particolari, di episodi, di fatti che ci aiutano a meglio inquadrare la complessità di uno dei non molti giganti del jazz moderno. In effetti rimango sempre meravigliato quando leggo una biografia talmente esaustiva come se lo scrittore fosse stato una sorta di ombra vagante dietro l’artista. A questo punto vi sarete già resi conto he si tratta di un volume imperdibile e non solo per chi ha conosciuto e amato la musica di Chet Baker. In particolare si amo in presenza della riedizione di un volume che lo stesso de Valk aveva pubblicato in olandese un anno dopo la scomparsa del musicista ad Amsterdam nel 1988. Questa edizione è la versione, quindi, completamente riveduta, corretta e ampliata di quel libro pionieristico, nata dal fatto che l’autore ha conosciuto e intervistato lo stesso Baker, oltre che amici, mogli, colleghi e collaboratori di tutte le fasi della sua carriera. Di qui un ritratto tracciato con grande onestà intellettuale in cui l’ammirazione per l’artista non fa velo alla statura umana del personaggio la cui vita, purtroppo, è stata così strettamente legata ai problemi con la droga, di cui De Valk parla ampiamente. Il tutto citando le fonti e le interviste con personaggi che quegli eventi hanno vissuto in prima persona. Molti e ampi i riferimenti ai meriti artistici di Chet, alla sua voce così suadente seppur tutt’altro che robusta, al suo modo particolarissimo di suonare la tromba con quel sound che solo lui poteva creare. A chiusura del volume una serie di preziosi interventi di alcuni personaggi che hanno voluto omaggiare Chet, da Lee Konitz a Peter Huijts, da Harry Emmery a Cecco Maino. Ottima la discografia ben commentata dall’autore e, more solito, assai utile l’indice analitico.
Un’ultima considerazione tutt’altro che banale: il volume si avvale della preziosa traduzione di Francesco Martinelli che si esprime con il solito prezioso italiano e la ben nota proprietà di linguaggio.

Andrea Fabris – “La voce della felicità – dentro la musica di Jakob Bro “ – arcana – pp.130 – € 15,00
A mio avviso questo libro è un bel segnale per tutto il mondo dell’editoria jazzistica: in effetti, anziché puntare sui grandi nomi del jazz, su quelli che hanno fatto la storia, oramai da qualche tempo alcuni scrittori fanno oggetto delle loro indagini artisti eccellenti anche se non possono essere classificati come capiscuola o sconvolgenti innovatori. E’ certamente il caso di Jakob Bro chitarrista di grande valenza che negli ultimi tempi si è posto particolarmente in luce grazie ad una poetica molto personale e ad una preparazione tecnica molto molto raffinata. Classe 1978, danese, Jakob Bro è uno dei chitarristi più eclettici che il panorama jazzistico abbia partorito negli ultimi vent’anni. Inizia giovanissimo collaborando con i gruppi di Paul Motian e Tomasz Stanko, per poi assurgere a leader universalmente riconosciuto come evidenziato dai numerosi riconoscimenti ottenuti tra cui 6 Music Awards danesi e l’inserimento nella Jazz Denmark’s Hall of Fame. Incide 16 dischi da leader, suonando con musicisti quali Lee Konitz, Bill Frisell, Andrew Cyrille, Kenny Wheeler, Jon Christensen, Palle Mikkelborg, Joey Baron, Thomas Morgan, Larry Grenadier, Jorge Rossy, Craig Taborn, Mark Turner, Arve Henriksen. Ecco, il volume ben articolato ripercorre le tappe della vicenda umana e artistica di Jakob. Ne scaturisce un ritratto completo e complesso che ci restituisce un uomo e un jazzista che ha saputo nel suo stile far coesistere le influenze derivanti dalla lezione di Bill Evans, dal concetto di libertà proprio dell’improvvisazione europea e dalla particolarità della musica nord-europea costantemente sospesa tra musica classica e folk. Il libro si legge molto piacevolmente grazie all’ottimo italiano dell’autore che non disdegna narrare alcune significative esperienze personali. A completamento del tutto alcune belle foto in bianco e nero, una bibliografia per forza di cose non ancora nutritissima, una sitografia e soprattutto una buona discografia.

Amedeo Furfaro – “Nuovo Jazz Italiano in 100 Dischi” – The Writher – pgg.150 – € 12,00
Il nostro infaticabile collaboratore Amedeo Furfaro presenta questa sua nuova creatura dedicata, more solito, alla discografia. Di qui una domanda. Ma questi libri sono realmente utili? A mio avviso non solo sono utili ma sotto certi aspetti indispensabili. Dato per scontato che anche un critico di professione possa sbagliarsi nelle proprie valutazioni, ciò non toglie che soprattutto per chi si avvicina a questo genere musicale leggere i pareri di chi ha alle spalle ore e ore di ascolto può risultare di grande aiuto…anche perché nonostante di dischi se ne vendano sempre meno, il mercato è letteralmente inondato da una miriade di nuove produzioni, molte valide, molte altre un po’ meno. Ma veniamo a questo nuovo libro suddiviso in ben undici capitoli: Jazz di viaggio, Eva e il Jazz, Decathlon Discografico, La teoria dei gruppi, Pizzicanti in cordata, Insiemi di musica, Le band dei 4, Poetry in Jazz, La bellezza del Jazz, Il pianoforte ben temperato, Alla fiera del disco. Evidentemente siffatta suddivisione agevola la consultazione del volume stesso nel senso che si fa presto a individuare, ad esempio, uno strumento di proprio gradimento e andare a vedere quali e quanti dischi sono stati pubblicati. Al riguardo si precisa che gli album recensiti sono circa un centinaio, usciti tutti in un arco di tempo che comprende il 2022 e il 2023. Siamo quindi nel campo dell’attualità per cui, ad esempio, risulta particolarmente interessante il capitolo dedicato alle musiciste, a conferma che il jazz italiano si arricchisce sempre più di apporti al femminile. Un’ultima notazione non secondaria: il volume è liberamente consultabile presso il sito dell’autore: www. AmedeoFurfaro.it

Guido Michelone – “Il Jazz e l’Europa” – arcana – pgg.467 – € 25,00
Un altro autore molto prolifico è Guido Michelone che, dopo i viaggi nelle Americhe e in Asia, Africa, Oceania si ripresenta sul mercato con un ponderoso volume dal titolo “Il Jazz e l’Europa – Nuovi ritmi e Vecchio Continente 1850 – 2022”. Il titolo è già di per sé chiaramente esplicativo di ciò che si può trovare nelle oltre 400 pagine del volume: la narrazione, nei singoli capitoli, delle vicende del jazz di una quarantina fra stati, regioni, metropoli, servendosi di documenti storici, interviste ai protagonisti e soprattutto ascolto di dischi, questi ultimi fondamentali quali riferimento assoluto per conoscere di volta in volta l’Albania o la Svezia, la Cecoslovacchia o la Jugoslavia, Parigi o Barcellona… Quindi una preziosa opera di ricostruzione che fa capire al lettore come il jazz, sbarcato oltre un secolo fa, durante e dopo la Grande Guerra al seguito delle truppe statunitensi, abbia trovato subito una straordinaria accoglienza dai più svariati “pubblici” specialmente in Francia e in Inghilterra. C’è voluto del tempo ma durante il secolo scorso il Jazz è diventato linguaggio esso stesso europeo pur nelle diversità stilistiche connaturate a ciascun Paese.   Tendenza che si è vieppiù rafforzata in questi primi due decenni del secolo XXI. Insomma un libro che consiglierei a chiunque abbia un minimo di curiosità per andare a scoprire come va il jazz al di fuori dei nostri confini… e vi assicuro che ne scoprirete di belle!

Marco Molendini – “Pepito Il principe del Jazz” – minimum fax – pgg.138 – € 16,00
Devo confessare che mi ha fatto un certo effetto leggere vicende di cui almeno in parte sono stato anch’io spettatore. In effetti in questo libro Marco Molendini, traccia la figura di Pepito Pignatelli, al secolo Principe del S.R.I.,  XVI  principe di Castelvetrano,  XVI principe di Noja,  XVIII duca di Monteleone,  XVI duca di Terranova,  XVIII marchese di Cerchiara,  XVI marchese di Avola  e marchese di Caronia. Ma parlare di Pepito significa anche narrare la storia di uno dei più importanti locali di jazz italiani – il “Music Inn” – che lo scrivente ha frequentato innumerevoli volte conoscendo abbastanza bene Pepito e la sua splendida moglie, Picchi, nonché una caterva di musicisti ché il locale era veramente aperto a tutti non come oggi in cui per suonare occorrono altri requisiti oltre la bravura…per altro non sempre indispensabile. Ma veniamo al volume. Si parte da lontano, dal 1968 quando all’Helio Cabala si esibiscono Enrico Rava, Steve Lacy, Franco D’Andrea, Marcello Melis al contrabbasso e Pepito Pignatelli alla batteria. Da qui nasce tutto ciò che Marco ci racconta, la sua amicizia con il principe Pepito Pignatelli, batterista ma soprattutto grandissimo amante del jazz, che in una stagione indimenticabile, riuscì a portare nella Capitale il meglio del jazz mondiale. Nella prima parte il libro è incentrato sulle vicende di Pepito, nato in Messico ma cresciuto nella Roma fascista ove, appena ventenne, fonda il Mario’s Bar primo jazz club italiano, seguito sempre per sua iniziativa dal Blue Note e quindi dal Music Inn. Il racconto si sviluppa quindi avvincente come una sorta di romanzo, il romanzo di una coppia – Pepito e Picchi – follemente innamorati del jazz che riescono a produrre una sorta di miracolo: Purtroppo come tutte le cose, anche le più belle, Pepito morì giovane nel 1981 a soli 50 anni probabilmente usurato da una vita vissuta appieno seguito nel 1992 dalla moglie suicidatasi per il dolore di dover vivere un’esistenza da sola, senza l’amato compagno.

Gerlando Gatto

Max De Aloe chiude alla grande la tre giorni di Teramo

Si è chiusa nel migliore dei modi la tre giorni dedicata all’Accordion Spring Fest, la seconda edizione del Festival della Fisarmonica, promosso dal Conservatorio statale di Musica ‘G. Braga’ di Teramo: dopo il mio intervento, abbiamo avuto l’opportunità di ascoltare Max De Aloe, armonicista tra i migliori in assoluto e non solo a livello nazionale. Per chi scrive è stato davvero un piacere in quanto De Aloe è da sempre uno dei miei musicisti preferiti, uno di quelli che quando possibile vado sempre a sentire accompagnato da moglie e figlio anch’essi sinceri estimatori dell’artista. Con quello “strumentino” come lo chiama lui (vale a dire l’armonica cromatica) riesce a toccare le corde più intime di chi lo ascolta senza ricorrere a espedienti in qualche modo sopra le righe. Insomma nessuna spettacolarizzazione ma solo voglia di raccontare e raccontarsi. Così anche in questa occasione teramana Max si è espresso come al solito con grande intensità in una performance piuttosto breve (meno di un’oretta) ma egualmente pregna di contenuti. E, almeno per quanto mi riguarda, ho avuto anche l’occasione di ascoltarlo per la prima volta alla fisarmonica.

Introdotti con gusto e quel pizzico di autoironia che spesso contraddistingue Max, si è ascoltato un programma in cui spiccavano due brani, ambedue celeberrimi: “In a Sentimental Mood” e “Besame Mucho”.

“In a Sentimental Mood” venne composto da Duke Ellington nel 1935 e registrato con la sua orchestra nello stesso anno; il testo venne aggiunto successivamente da Irving Mills e Manny Kurtz. Da allora il pezzo è stato inciso centinaia di volte tra cui ricordiamo quella eseguita da Ellington con John Coltrane. Ma l’esecuzione probabilmente più riuscita è quella originale che comprende assoli di Otto Hardwicke, Harry Carney, Lawrence Brown e Rex Stewart.

Questo per dire che affrontare un brano del genere con la sola armonica a bocca è impresa da far tremare le vene ai polsi; ebbene De Aloe l’ha eseguito con grande partecipazione trasportandoci indietro nel tempo, quando sulla parola “jazz” non c’erano molti equivoci.

Identico discorso per l’altro pezzo, “Besame Mucho”, una canzone scritta nel 1940 dalla messicana Consuelo Velázquez prima del suo ventiquattresimo compleanno. Secondo ciò che racconta la stessa Consuelo Velázquez la canzone fu composta prima ancora che lei desse il primo bacio. Rapidamente divenne una delle canzoni più popolari del XX secolo, tanto che nel 1999 venne riconosciuta come la canzone in lingua spagnola più cantata e registrata e forse la più tradotta in altre lingue. Ancora una volta De Aloe ha saputo renderla al meglio riuscendo a trasmettere le tante emozioni che il brano può regalare.  Accanto a queste due perle Max ha presentato “Far from Heaven (di Elmer Bernstein) dal film “Far from Heaven” e tre sue composizioni – “Deep Blue”, “A Sort of Dance” e “Ul Giuan Marcora” –  quest’ultima eseguita con verve e una buona dose di umorismo, alla fisarmonica.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: una raffica di recensioni!

I NOSTRI CD

Costanza Alegiani – “Lucio Dove vai?” – Parco della Musica Records
Nonostante l’ancor giovane età, Costanza Alegiani è artista intelligente, matura, consapevole dei propri mezzi espressivi. La conferma viene da questo eccellente album registrato dalla vocalist assieme al suo trio Folkways, composto da Marcello Allulli al sax e Riccardo Gola al contrabbasso, cui si aggiungono due ospiti eccellenti come Antonello Salis alla fisarmonica e Francesco Diodati alla chitarra. Come si evince dal titolo, l’album è dedicato alla figura di colui che personalmente considero il più grande cantautore italiano, Lucio Dalla. Un compito, quindi, da far tremare le vene ai polsi anche perché le composizioni di Dalla sono ben note e quindi il confronto è lì, dietro l’angolo. E già nella scelta del repertorio si nota la cura con cui la vocalist ha inteso confrontarsi con Dalla: trascurate – volutamente – le canzoni più note, la Alegiani ha pescato nel vasto repertorio degli anni ’60 e ’70 presentando pezzi egualmente splendidi. L’apertura è affidata a “La canzone di Orlando” con Gola e Allulli in grande spolvero e la vocalist intenta a definire al meglio i contorni di un gioiellino musicale.
Eccellente anche l’interpretazione de “La casa in riva al mare” sicuramente assieme a “Caruso” uno dei brani più toccanti di Dalla; Alegiani lo interpreta con sincera partecipazione ben coadiuvata dagli interventi di Antonello Salis alla fisarmonica. Ma questi sono solo due esempi di un disco che sono sicuro risulterà di sicura soddisfazione anche per i palati più esigenti. Ciò perché ritengo che il pregio maggiore dell’album consista nel fatto che la Alegiani sia riuscita a conservare una ben precisa identità in una prova di estrema difficoltà che le fa onore.

Ralph Alessi – “It’s Always Now” – ECM
Non si scopre certo l’acqua calda affermando che Ralph Alessi è attualmente uno dei migliori trombettisti in esercizio. In questo album, registrato negli studi di Stefano Amerio nel giugno del 2021, Ralph suona in quartetto assai ben coadiuvato dal pianista Florian Weber, da Bänz Oester al contrabbasso e dal batterista Gerry Hemingway. Si tratta di una nuova formazione che risulta perfettamente funzionale alle idee del leader che presenta tredici composizioni tutte sue, di cui solo tre scritte in collaborazione con Florian Weber. L’atmosfera è quella tipica degli album di Alessi: un minimalismo illuminato dalle sortite del trombettista che nulla concede allo spettacolo. La sua musica è intensa ma allo stesso tempo raccolta, quasi sussurrata come se avesse paura di nuocere, di disturbare. Di qui la necessità di una sezione ritmica che consenta di dare il giusto peso ad ogni passaggio, ad ogni cambio di direzione per quanto poco percettibile lo stesso possa essere. Ne abbiamo un chiaro esempio in “Portion control” in cui il pallino è nelle mani dell’intera sezione ritmica mentre Alessi sordina la sua tromba che passa così in secondo piano. Comunque i brani che maggiormente mi hanno impressionato sono la title track e “Tumbleweed”; nella prima – “It’s Always Now” – c’è come un richiamo proveniente da lontano che a poco a poco si svela alle nostre orecchie mentre la conclusiva “Tumbleweed” mostra un Alessi in stato di grazia, un artista capace di improvvisare magnificamente senza  mai perdere le fila del discorso.

Daniel Besthorn – “Emotions” – Alfa Music
Album d’esordio per questo batterista tedesco da poco residente in Italia. Se, come si dice, il buon giorno si vede dal mattino, non c’è dubbio che di questo musicista sentiremo parlare e a lungo. Daniel si presenta alla testa di un gruppo piuttosto nutrito, denominato “Radiance” e formato da otto eccellenti giovani musicisti che provengono da Germania, Svizzera e Polonia, mentre nel conclusivo “The Rawness and Finesse of The Drums” si ascolta anche Iago Fernandez alla batteria. In repertorio sei brani di cui ben cinque composti e arrangiati dallo stesso Besthorn e “Hyperactive Mole” firmato dal pianista Tobias Altripp che fa parte del gruppo. Il fatto che Daniel abbia scelto per il suo album d’esordio un programma da lui scritto quasi interamente evidenzia come il batterista abbia voluto presentare le sue molteplici abilità: non solo valido batterista ma anche solido arrangiatore e fantasioso compositore. E la prova viene superata a pieni voti dal momento che l’album è piacevole, si ascolta tutto d’un fiato dall’inizio alla fine e tiene fede alle premesse insite nel titolo. In effetti la musica di Besthorn è in grado di produrre emozioni in chi la ascolta sia perché spesso riesce ad essere totalmente inattesa pur restando nel solco di un filo logico perfettamente individuabile, sia perché alcuni brani sono davvero ben costruiti ed eseguiti. E’ il caso, ad esempio, della ballad “That Time” impreziosita da un assolo di Florian Fries al sax tenore, in possesso di un bel timbro e di un eloquio fluido e pertinente, mentre anche il pianista Tobias Altripp trova il modo di mettersi in luce.

Maurizio Brunod – “Trip with The Lady” – H Fi Diprinzio; Brunod, Gallo, Barbiero – “Gulliver” – Via Veneto Jazz
Maurizio Brunod è chitarrista sensibile e raffinato; si ripresenta al pubblico con due album veramente diversi, registrati quasi nello stesso periodo, vale a dire il primo trimestre del 2022. “Trip with The Lady” rappresenta un punto di svolta nella storia artistica di Brunod che per la prima volta registra un album per sola chitarra acustica.
E il perché tutto ciò è accaduto vale la pena di essere raccontato. “Lady” è un modello speciale di chitarra prodotto dal liutaio italiano Mirko Borghino in omaggio alla marca automobilistica Rolls Royce ed al suo Club di Enthusiasts; prodotto in esemplare unico lo strumento ha letteralmente stregato Brunod inducendolo a progettare e realizzare il primo disco con la sola chitarra acustica. Il risultato è eccellente e non poteva essere diversamente dati due fattori imprescindibili: la bravura strumentale e compositiva di Maurizio e la sua approfondita conoscenza dell’universo musicale che lo ha portato a predisporre un repertorio di tutto rispetto in cui accanto a sue composizioni, figurano alcune delle più belle pagine della letteratura jazzistica come l’immortale “Naima di John Coltrane e “My One and Only Love” di Wood e Mellin.
Nel secondo album, “Gulliver”, Brunod suona in trio con altri due grandi del jazz italiano quali Danilo Gallo al contrabbasso e Massimo Barbiero batteria e percussioni.
Si tratta del secondo album del trio (dopo “Extrema Ratio del 2016) che conferma appieno quanto di buono si era ascoltato nel precedente. Il titolo dell’album e i titoli dei vari brani ci introducono assai bene nel tipo di musica che ascolteremo. Siamo nel campo di un folk che serve da immenso serbatoio da cui trarre ispirazione per una musica che non conosce tempo né spazio né tanto meno confini stilistici. Il loro è un viaggio declinato tra i temi popolari: si passa così dalla fiabesca “Gaungling” tradizionale cinese, ad “Albero bianco” (originale di Danilo Gallo), dalla piemontese “Maria Giuana” al notissimo “El pueblo unido” (di rilievo la performance di Brunod), fino a “Time to remember” (di Brunod) riletto come un “quasi-tango”, per giungere alla conclusione con la rete (Altro originale di Massimo Barbiero). I tre si lasciano andare a escursioni solistiche che però mai perdono di vista il discorso generale: così le corde delle chitarre di Brunod vibrano magnificamente mentre Danilo Gallo evidenzia l’essenzialità del suo incedere quale punto di raccordo tra chitarra e batteria. Dal canto suo Barbiero procede con la sua straordinaria eleganza nel percuotere pelli e piatti.

Ludovica Burtone – “Sparks” – Outside In Music
Ho avuto modo di ascoltare live Ludovica Burtone qualche anno fa durante ‘Udine Jazz’ ed essendone rimasto particolarmente colpito ho voluto avvicinarla e scambiare con lei quattro chiacchiere. Ho così avuto la percezione di un’artista matura, perfettamente consapevole degli obiettivi da raggiungere e di come raggiungerli. Ed eccoli qui questi obiettivi, sintetizzati nell’ottimo album che è stato presentato martedì 11 aprile alle 19 al Barbès di Brooklyn, La violinista italiana, adesso stabilitasi negli States, è coadiuvata da ottimi musicisti quali Fung Chern Hwei (violino), Leonor Falcon Pasquali (viola), Mariel Roberts (violoncello), Marta Sanchez (pianoforte), Matt Aronoff (contrabbasso) e Nathan Elmann-Bell (batteria), più cinque ospiti come Sami Stevens (voce in “Altrove”), Melissa Aldana (sax tenore in “Awakening”), Leandro Pellegrino (chitarra in “Sinhà”), Roberto Giaquinto (batteria in “Incontri”) e Rogerio Boccato (percussioni ancora in “Sinhá”). Il programma consta di sei brani, cinque composti da Ludovica Burtone, mentre “Sinhá”, che apre l’album, è un sentito omaggio a due artisti brasiliani come Chico Buarque e João Bosco autori del brano, arrangiato nell’occasione dalla violinista. Tracciate così le linee guida dell’album, occorre sottolineare i motivi ispiratori della poetica di Burtone, che traggono origine tanto dalla musica colta quanto dal jazz senza dimenticare le melopee mediterranee. Insomma un universo amplio da cui la Burtone sembra trarre quegli elementi che meglio si attagliano alla sua sensibilità per una performance davvero notevole.

Claudio Cojaniz – “Black” – Caligola
Titolo non potrebbe essere più esplicativo: il pianista friulano Claudio Cojaniz, in trio con Mattia Magatelli al contrabbasso e Carmelo Graceffa batterista siciliano messosi in luce con il gruppo del sassofonista, anch’egli siciliano, Gianni Gebbia. prosegue lungo la strada tracciata dai numerosi album precedenti anche se questa volta forse rende ancora più esplicito il senso del blues presente nel suo pianismo. Di qui una ricerca melodica che assume varie connotazioni; così ad esempio in “Martin Fierro”, brano che s’ispira al celebre romanzo dell’argentino Josè Hernandez, pubblicato originariamente nel 1872, la melodia di Cojaniz è toccante nella sua esposizione in cui coesistono malinconia, storie di vite vissute e storia di una nazione che scorrono sui tasti del pianista tra echi di tradizionalismo folk e musica classica; sempre con riferimento a questo brano da sottolineare la superba introduzione del contrabbassista Magatelli che fa intravvedere immediatamente quale sarà l’atmosfera del pezzo. Il concentrarsi sulla perfezione melodica ha portato la musica di Cojaniz a un livello di estrema originalità che, a nostro avviso, raggiunge il punto più alto nell’esecuzione di “Mon Amour. A” uno dei due brani eseguiti per piano solo (l’altro è il conclusivo “Ola de fuerza”). Lì dentro c’è tutta l’essenza del blues, materia che Cojaniz ha talmente bene introitato da riuscire a renderla personale con un pianismo mai ridondante che ci riporta un po’ indietro nel tempo. Molto interessante anche il già citato “Ola de fuerza”:
Cojaniz sembra abbandonare quel terreno su cui si era addentrato nei precedenti brani per inerpicarsi su scoscesi sentieri quasi free in cui si lascia andare ad una improvvisazione che non delude….tutt’altro!

Marc Copland Quartet – “Someday” – innerVoiceJazz
A 74 anni, il pianista statunitense Marc Copland si mantiene meravigliosamente sulla cresta dell’onda. Un ulteriore prova l’abbiamo da quest’ultimo lavoro in cui Marc si presenta alla testa di un quartetto completato da Drew Gress bassista già assieme a Copland in numerose avventure, Robin Verheyen sassofonista anch’egli accanto al leader nel corso degli ultimi dieci anni e Mark Ferber batterista attivo tra New York e Los Angeles e ben conosciuto dagli appassionati di jazz per aver suonato accanto a Gary Peacock in trio e a Ralph Alessi in quintetto. Il repertorio dell’album comprende tre classici del jazz quali “Someday My Prince Will Come” di (Churchill e Moray) ,  “Let’s Cool One” di Monk e “Nardis” di Miles Davis accanto ad altri cinque original, di cui tre a firma Copland e due Verheyen. Parlando di Marc Copland riferirsi alla delicatezza di tocco, alla tecnica sopraffina, alla profondità delle armonie, alle straordinarie capacità improvvisative, al gusto per suadenti melodie sembrerebbe quasi superfluo…ma sicuramente tra chi ci legge ci saranno dei giovani che magari poco o nulla conoscono di Copland. Ecco io credo che basti l’ascolto di questo album per rendersi conto di chi sia Marc Copland non solo come esecutore ma anche come autore. Al riguardo si ascolti “Day And Night” (il brano più lungo dell’album) in cui oltre alla bellezza del tema, si può ammirare il modo in cui Marc riesca ad esaltare il ruolo dei suoi compagni, in primo luogo del sassofonista assolutamente convincente, mentre Ferber sostiene il tutto con un drumming propulsivo ma non invasivo ben coadiuvato in ciò dal basso di Gress. Dal canto suo Copland si produce in uno dei suoi assolo che si pone quasi come una sorta di enciclopedia del pianismo jazz.

Ilaria Crociani – “Connecting The Dots” –
E’ con vero piacere che presento questo disco proveniente niente popò di meno che dall’Australia. Protagonista una vocalist italiana alla testa di un settetto composto da Mirko Guerrini sax, clarinetto, tastiere e composizione, Paul Grabowsky pianoforte e composizione, John Griffith liuto, Geoff Hughes chitarra, Ben Robertson contrabbasso e basso elettrico e Niko Schäuble batteria e percussioni. L’album ha una storia particolare: nel 2021 Ilaria viene incaricata da ABC Jazz di scrivere e registrare una nuova serie di brani che portassero in vita storie di donne australiane e straniere in un mix eclettico. La vocalist accetta la sfida e la vince alla grande; in effetti l’album si fa particolarmente apprezzare non solo per la qualità della musica ma anche per ciò che la Crociani ha saputo rappresentare, vale a dire la storia di “donne che hanno fatto la differenza”. “L’ispirazione di questo album nasce dalla mia esperienza di emigrazione”, racconta la vocalist nel corso di una intervista, ed in effetti ascoltando l’album questa tensione morale si avverte esplicita. Soffermandoci in particolare sugli aspetti squisitamente musicali, occorre dire che l’album è ben congegnato con la bella voce di Ilaria che interpreta con partecipazione testi non proprio facilissimi, anche perché le atmosfere cambiano passando dalle ballad (‘Cosa Resta del Giorno, ‘Gina’ or ‘Stones of Fire’) al jazz più moderno, dalle influenze latine (‘Mary Lou’) a sonorità più vicine al rock e al reggae (‘Silent Words’, ‘The author is dead’, ‘Eat my dust’). Ovviamente tutto ciò non sarebbe stato possibile se ad accompagnare la vocalist non ci fosse un gruppo di prim’ordine, un gruppo che si muove all’unisono con forti individualità e sapienti arrangiamenti.

Maurizio Giammarco Rumours – “Past Present “ – Parco della Musica Records
“Rumours” è il nome del nuovo gruppo di Maurizio Giammarco comprendente Fulvio Sigurtà trombettista ben presente anche sulla scena londinese, Riccardo Del Fra contrabbassista, dal 2004 responsabile del Dipartimento Jazz e Musiche Improvvisate al Conservatorio Nazionale Superiore di Musica e Danza di Parigi, e Ferenc Nemeth batterista di origine ungherese, tra i più richiesti in questo momento;  quindi due fiati, contrabbasso e batteria, una formazione piuttosto anomala ma che nel jazz vanta precedenti illustri e che lo stesso Giammarco aveva sperimentato nei primi anni della carriera quando nel 1976 costituì un gruppo con Tommaso Vittorini, Enzo Pietropaoli, e Roberto Gatto. Appositamente per questo gruppo Giammarco ha scritto alcune composizioni cui ha aggiunto altri brani della tradizione a costituire un repertorio di 13 brani che lumeggiano assai bene la complessa e poliedrica personalità di Giammarco. Il sassofonista (tra i migliori in esercizio nell’intera Europa) con questo album conferma ampiamente quanto già si conosceva sul suo conto: strumentista sopraffino, compositore di ampio respiro, leader capace, arrangiatore originale, Giammarco tiene perfettamente in mano le redini del discorso anche quando da un discorso collettivo si vira decisamente verso il free dando a ciascuno una certa libertà d’espressione. Ma il concetto su cui Giammarco insiste da tempo e che viene ripreso anche nel titolo dell’album è l’importanza di un ponte che leghi la grande tradizione del passato con il presente come base insostituibile su cui costruire il futuro. In tal senso spiccano i magistrali arrangiamenti di due celebri pezzi ellingtoniani come “Prelude to a Kiss” e “The Mooche” resi magnificamente anche con il solo quartetto, mentre in “Desireless” di Don Cherry, ascoltiamo un superlativo Riccardo Del Fra, che ci accompagna in un lungo viaggio all’indietro, meta: gli anni ’70.

Vicky Chow – “Philip Glass Piano Etudes Book 1” – Cantaloupe
Nel gennaio scorso ha festeggiato i suoi 86 anni Philip Glass, il compositore statunitense a ben ragione considerato uno dei padri del minimalismo assieme a Steve Reich e Terry Riley. Lo omaggia in musica la pianista canadese originaria di Hong Kong, Vicky Chow, considerata dalla stampa statunitense una delle strumentiste più innovative, prestigiose, originali e brillanti degli ultimi anni. La Chow nel 2020 ha registrato il Book 1 degli studi di Glass per pianoforte. La musica del compositore di Baltimora ha un suo indubbio fascino ma deve essere interpretata al meglio, con profonda cognizione di causa e sincera partecipazione. Doti che Chow mette in luce sottolineando come lei sia completamente “innamorata” di queste partiture dopo averle eseguite, assieme ad altri pianisti, nel 2018 nel corso di uno stage in Canada. Se a ciò si aggiunga il fatto che Chow conosce bene Glass per averlo frequentato a New York come membro, tra l’altro, della “Bang on a Can All-Stars” si capirà ancor meglio il perché questa pianista sia perfettamente in grado di interpretare le musiche di Glass senza minimamente tradirne l’originario significato. Non a caso è lo stesso Glass a spendersi in una esplicita lode nei confronti della pianista e del disco: “E’ una performance molto dinamica ed espressiva. C’è una certa energia che è unicamente sua”.

JugendJazzOrchester – “Spicey” – ATS
Questo album mi offre l’opportunità di parlare della JugendJazzOrchester: si tratta di una formazione che offre ai giovani musicisti di talento dell’Alta Austria l’opportunità di lavorare per un periodo di alcuni mesi su un programma creato appositamente per l’ensemble e di eseguirlo poi nell’ambito di una tournée nazionale. La direzione artistica è affidata a Benjamin Weidekamp e in pochi anni l’orchestra si è rivelata al pubblico come ensemble degno della massima attenzione. Questo album è davvero ottimo: ascoltatelo tutto con attenzione e mi darete ragione. L’organico è quello proprio di una big band classica: cinque sassofoni, quattro trombe, quattro tromboni (di cui uno basso), tastiera, basso elettrico, chitarra elettrica, batteria, un coro di cinque elementi e due cantanti solisti, il tutto sotto la direzione artistica di Andreas Lachberger. Così strutturata l’orchestra fila via come un meccanismo assai ben rodato e i brani sono interessanti, illuminati dagli assolo dei vari musicisti che confermano tutti una preparazione di alto livello. Non è certo un caso se Bob Mintzer, sassofonista su cui non vale la pena spendere parole, e che ritroviamo nel disco come arrangiatore in tre brani, si è lasciato andare ad un giudizio molto positivo sull’orchestra elogiando in particolare il lavoro dello stesso Lachberger : “il futuro della big band jazz – afferma Mintzer – è in buone mani” . E come dargli torto?

Edi Kohldorfer – “Fish & Fowl” – ATS

Il chitarrista austriaco (classe 1966) si ripresenta al suo pubblico alla testa di un settetto ad interpretare con forza e partecipazione un repertorio di undici brani firmati in massima parte dallo stesso leader. Musicista indubbiamente ben preparato, Edi scava in questo album il terreno periglioso della free improvisation con risultati non sempre ottimali. In effetti se il brano d’apertura “Rumex” lascia piuttosto perplessi, il successivo “Willughbeia Sarawacensis” evidenzia un gruppo molto compatto, con il leader che svetta su tutti grazie ad una tecnica assolutamente ineccepibile. E la cosa si spiega facilmente ove si tenga conto che Edi ha studiato chitarra classica prima di cimentarsi in ambiti rock e jazz. Tornando all’album, le cose migliorano ancora quando entrano in campo i due vocalist Anna Anderluh e Stefan Sterzinger. Comunque, in buona sostanza, il clima dell’album non muta sostanzialmente: i musicisti probabilmente improvvisano in modo collettivo sì da rendere impossibile la lettura di una qualche linea melodica e anche la struttura ritmica – ammesso che di ciò si possa parlare – è sempre difficile da seguire. Quindi piena soddisfazione per gli amanti di questo genere mentre per gli altri non resta che attendere l’austriaco nelle successive prove.

Roberto Laneri – “Wintertraume” – Da Vinci Classics
Quando mi ha telefonato per informarmi dell’uscita di questo album, Laneri mi ha detto: “vedrai che questa volta ti sorprenderò” Ed aveva ragione. L’album è sicuramente particolare…per usare un eufemismo. In effetti Laneri ha concepito un qualcosa di veramente originale ma allo stesso temo pericoloso, come avvicinarsi a fili elettrici scoperti con noncuranza. In buona sostanza Laneri si è rivolto ad alcuni capolavori della musica colta cercando di riattualizzarli attraverso una complessa operazione di scomposizione e ricomposizione, senza che tutto ciò suoni come un’operazione blasfema. I compositori presi in considerazione da Laneri sono molteplici passando da Schubert a Strauss, da Dowland a Weill, da Tarrega a Liszt, da Debussy a Brahms. Dal punto di vista esecutivo Laneri si avvale delle voci di Elisa Rossi, Benedetta Manfriani, Agnese Banti e Frauke Aulbert suonando egli stesso clarinetti e sassofoni; ma nella originale visione dell’artista figura anche il processo di registrazione e missaggio come un’attività compositiva a sé stante, modalità che nel mondo del jazz trova molti illustri precedenti. Il risultato finale può definirsi soddisfacente: il progetto è assai ben articolato e si avvale delle indubbie qualità di Laneri sia come profondo conoscitore dell’universo musicale, sia come raffinato esecutore capace di eseguire al meglio anche le più raffinate e complesse partiture.

Dominic Miller – “Vagabond “ – ECM
Dopo ‘Silent Light’ (2017) e ‘Absinthe’ (2019) ecco il terzo album registrato da Dominic Miller per la ECM. Alla testa di un quartetto completato da Jacob Karlzon al pianoforte, Nicola Fiszmann al basso elettrico e Ziv Ravitz alla batteria, il chitarrista argentino (Buenos Aires 1960) presenta un repertorio di otto brani da lui stessi composti a confermare la tesi che Miller è un musicista completo, in grado di far suonare bene la sua chitarra ma anche di comporre brani tutt’altro che banali. L’album si sviluppa con una coerenza che l’accompagna dalla prima all’ultima nota. In effetti tutti i brani sono caratterizzati da una squisita ricerca della linea melodica che appare così l’elemento caratterizzante la poetica del leader. In effetti in primo piano ascoltiamo spesso la chitarra di Dominic che però mai oscura i compagni di viaggio che hanno così la possibilità di mettere in luce le proprie potenzialità. Si ascolti ad esempio “Clandestin”: introduce Miller quasi subito raggiunto da Karlzon; dopo un minuto ecco la sezione ritmica su cui si staglia un bellissimo assolo del pianista. Ed è ancora Karlzon in primo piano nel successivo “Altea”: spetta a lui il compito di accelerare il ritmo introducendo così una sorta di novità che però non si allontana minimamente dal clima generale. Ripreso immediatamente in “Mi Viejo” un brano che Miller dedica alla figura del padre con una dolce melodia non a caso eseguita dalla chitarra in solo. L’album si chiude con “Lone Waltz” un episodio che si pone come una sorta di resumé di quanto ascoltato fino al quel momento, con il quartetto impegnato in momenti di “insieme” davvero notevoli.

Bobo Stenson – “Sphere” – ECM

Tra i pianisti di maggior prestigio che il jazz europeo abbia saputo offrire agli appassionati, c’è sicuramente lo svedese Bobo Stenson che, ad onta della sua non giovanissima età (classe 1944) continua a deliziare il pubblico con i suoi dischi. Quest’ultimo “Sphere” è nel suo genere una dimostrazione di come debba essere inteso il jazz oggi: non più una musica connotata da parametri specifici, da regole che nessuno ha scritto, ma un modo di interpretare sé stessi e la realtà che ci circonda lasciandosi andare alle emozioni, all’estro del momento. Ovviamente per incamminarsi su questa strada occorrono una eccellente preparazione tecnica, una perfetta consapevolezza dei propri mezzi espressivi, una visione molto larga di ciò che la musica significa e rappresenta. A ciò si aggiunga, se si suona in trio (come in questo caso), la capacità di saper guidare con mano ferma i propri compagni di viaggio. Ecco, al riguardo la maestria di Stenson risaltare evidente ove si tenga conto del fatto che il batterista Jon Fält e il contrabbassista Anders Jormin – suoi abituali compagni di viaggio – riescono a seguirlo in ogni momento: si ascolti al riguardo “Unquestioned answer – Charles Ives in memoriam” un brano di Jormin dedicato alla memoria del compositore americano Charles Ives (1874-1954), perfettamente riuscito in ogni sua più sfuggevole nuance. E questo clima etereo, quasi di indeterminatezza, si ascolta, si percepisce in tutto l’album con il trio che si muove speditamente sulle ali di una interazione sempre presente. Tra gli altri brani particolarmente incisivo “Kingdom of coldness”, a firma di Jormin; tra le tante astrazioni cui si faceva rifermento, questo è il brano probabilmente più terreno che non a caso si configura come una ballad in cui, manco a dirlo, Stenson distilla ogni singola nota a disegnare una linea melodica suggestiva.

Stefania Tallini, Franco Piana – “E se domani” -Alfa Music
Stefania tallini vocalist e Franco Piana trombettista, flicornista e nell’occasione anche vocalist e percussionista sono due artisti che “A proposito di jazz” ha sempre seguito con grande attenzione sottolineandone la invidiabile statura artistica. Statura che viene vieppiù evidenziata da questo album in duo, una formula, quindi, molto, molto pericolosa che può essere affrontata con successo solo da artisti veramente tali. L’album presenta un titolo assai significativo ma allo stesso tempo ingannevole: si potrebbe credere che i due abbiano scelto un programma basato sulle canzoni e, invece, nove dei quattordici brani sono composizioni originali che ben descrivono le capacità compositive dei due, mentre gli altri cinque si rivolgono al pop italiano, al Brasile, al jazz e al songbook statunitense. Il risultato è eccellente e per una serie di motivi facilmente identificabili. Innanzitutto la scelta del repertorio e la bellezza dei temi originali; in secondo luogo le capacità dei due che si integrano alla perfezione grazie anche ai sapidi arrangiamenti della pianista che rendono difficile distinguere tra parti scritte e parti improvvisate. Non a caso è la stessa Tallini a sottolineare come si tratti di “un disco nato nella più totale spontaneità e naturalezza, a seguito di una serie di concerti attraverso cui il nostro duo è cresciuto sempre più, rivelandone l’incredibile feeling e intesa, musicale e umana». Concetto ripreso da Piana: «Per me – afferma – è un’esperienza nuova che mi fa molto piacere condividere con una grande artista, sensibile e musicale come Stefania Tallini. Un disco in cui ritorno un po’ alle mie origini…come quando da bambino, non avendo ancora la tromba, mi divertivo a cantare i soli dei miei jazzisti preferiti, accompagnandomi con qualsiasi oggetto potesse essere percosso: in pratica un percussionista «scattante» inconsapevole”.

Gianluigi Trovesi, Stefano Montanari – “Stravaganze consonanti” – ECM
Titolo al limite dell’illogico per una musica che, viceversa, di logica ne ha molta. Responsabili del progetto il multistrumentista Gianluigi Trovesi e Stefano Montanari nella veste di concertmaster a guidare un ensemble di 12 musicisti. In repertorio 15 brani, alcuni scritti da Trovesi (uno assieme a Fulvio Maras alle percussioni), gli altri si rifanno direttamente ad alcuni autori del passato quali Henry Purcell, esponente del barocco inglese seicentesco, Giovanni Maria Trabaci, anch’egli esponente del barocco ma italiano (1575-1647), Guillaume Dufay (1400-1474), Giovanni Battista Buonamente (1595-1642), Andrea Falconieri (1586-1656) e Josquin Desprez (1450?-1521). Insomma un parterre di autori davvero straordinario, sicuramente difficili da attualizzare con un linguaggio che, come si evince nel titolo, sia da un canto coerente con le premesse autoriali, dall’altro originale nella sua esplicazione. Impresa, quindi, particolarmente difficile, ma sfida vinta compiutamente grazie soprattutto alla genuina “follia” dei musicisti coinvolti che sono riusciti a ricreare un clima in cui potessero coesistere repertorio classico, improvvisazione jazz e melodie popolari; così non è certo un caso se i brani dell’album si concatenano e si sovrappongono con estrema naturalezza, senza che per un solo attimo l’album perda la sua coerenza intrinseca. Quasi inutile, eppure doveroso, sottolineare che la riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura dei musicisti (alcuni dei quali fanno parte dell’Accademia Bizantina di Ravenna) che hanno accompagnato i due capofila, pronti a seguire le volontà dei leaders attuando anch’essi un linguaggio ”stravagante”.

Ralph Towner – “At First Light” – ECM
“First Light” è anche il titolo di un album del 1971 inciso da Freddie Hubbard, un album spumeggiante in cui il trombettista da un assaggio delle sue eccezionali qualità strumentali…e non solo. Ecco, chi si aspetta di trovare qualcosa del genere anche in questo album, ne resterà profondamente deluso. Tanto esuberante, estroverso è Freddie Hubbard, tanto intimista, raccolto è Ralph Towner anche in quest’ultimo album, registrato a Lugano nel 2022. Nell’occasione Towner suona esclusivamente la chitarra classica a sei corde e presenta un repertorio di undici brani di cui otto sue composizioni e tre classici del jazz quali il traditional “Danny Boy, il sempre verde “Make Someone Happy” di Jule Styne e “Little Old Lady” di Hoagy Carmichael.. L’intero disco si sviluppa brevemente – all’incirca 45 minuti – ma del tutto sufficienti a lumeggiare la statura del personaggio. A 83 anni suonati, Ralph nulla ha perso delle caratteristiche che già molti anni fa lo resero personaggio unico nel suo genere: artista scevro da qualsivoglia esibizionismo, sempre in possesso di una tecnica personale (unica la delicatezza del tocco) e perfettamente funzionale all’esposizione delle proprie idee, con uno stile contrassegnato dall’amore per alcuni grandi del passato come Gershwin, Coltrane e Bill Evans (influenze che appaiono chiaramente anche in questo lavoro). Tra i brani degni di menzione la title-track sospesa tra presente, passato e futuro, la splendida seppure brevissima “Argentinian Nights” e la conclusiva “Empty Stage” dall’atmosfera malinconica così come suggerisce l’eloquente titolo.

Frederik Villmow – “Momentum” – Losen
In questo suo nuovo album, il batterista Frederik Villmow è alla testa di un quintetto molto ben equilibrato. In effetti le caratteristiche fondamentali del CD sono illustrate dallo stesso leader nelle note che accompagnano la musica: innanzitutto la volontà di tutti i musicisti di salvaguardare la propria identità sia come strumentista sia come compositore senza incidere sull’omogeneità del tutto; in secondo luogo la gioia di suonare assieme improvvisando. Non a caso ad eccezione di “Eternity” per tutti gli altri brani è stata sufficiente la prima take. Ciò premesso, occorre sottolineare come il clima generale si avvicina molto al free storico: spesso il brano non è stato nemmeno provato e basta un cenno del leader per iniziare a suonare dopo di che tutto è lasciato all’empatia che regna in studio. Un esempio probante al riguardo è “B-flat” della pianista Olga Konkova. Viceversa altri pezzi – come “Ali kurerer gruff”, “Momentum” e Eternity” presentano un tema scritto e sono basati su una certa struttura ritmica. Come già sottolineato a proposito dell’album “Fish & Fowl” del chitarrista austriaco Edi Kohldorfer inciso per la ATS, l’album si rivolge ad una fetta ben precisa degli appassionati di jazz i quali ancora oggi prediligono le improvvisazioni collettive. Per tutti gli altri crediamo che l’ascolto sia piuttosto duro…ma se si ha la pazienza di arrivare alla fine del disco probabilmente si avrà modo di apprezzare anche questo genere pur nella sua precisa collocazione storica e politica.

Gerlando Gatto