I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

Al Parco Archeologico dell’Appia Antica torna la rassegna ‘Dal Tramonto all’Appia: Around Jazz’

Una scenografia naturale spettacolare, grandi concerti con volti noti della musica e del cinema italiano, un nuovo Village con angolo food&beverage, e il fascino dell’Appia Antica.
Questi gli ingredienti della 2a edizione del Rassegna “Dal Tramonto all’Appia – Around Jazz”, promossa dal Parco Archeologico dell’Appia Antica (Ministero della Cultura) in collaborazione con il Parco Regionale dell’Appia Antica (Regione Lazio) con la direzione artistica di Fabio Giacchetta.
Dal 1° al 10 ottobre, un cartellone di grandi artisti tra cui Alessandro Haber con Ramberto Ciammarughi, John De Leo con Roberto Gatto, Rita Marcotulli e Serena Brancale ospiti di Israel Varela, Fabrizio Bosso con Fabio Zeppetella, Stefano Di Battista con Stefania Tallini, Seamus Blake, Gegè Telesforo, Javier Girotto, Max Ionata, Flavio Boltro, Ares Tavolazzi. Il programma completo sul sito www.parcoarcheologicoappiaantica.it.
Già lo scorso anno, durante una indimenticabile prima edizione piena di consensi e di sold out, il Mausoleo di Cecilia Metella (via Appia Antica 161) ha incantato il pubblico divenendo cornice mozzafiato del palco allestito nel Castrum Caetani. Un’occasione unica per immergersi nella storia e nella bellezza della via Appia Antica, avvolti dal fascino della campagna romana.
Novità di quest’anno, l’allestimento di un’area Village all’aperto, con angoli dedicati all’accoglienza del pubblico, al food&beverage e agli incontri con gli artisti e un’area per i concerti, con una speciale copertura a prova di pioggia a protezione del palco e della platea.

I concerti
Un cartellone eclettico e multistilistico caratterizza questa edizione 2021, con una grande attenzione alla voce, filo conduttore della Rassegna nelle sue varie declinazioni e sfaccettature: dalla narrazione al jazz tradizionale, dal prog alla sperimentazione.
Si inizia venerdì 1° ottobre alle ore 19 (link per i biglietti qui), e in replica alle ore 21 (biglietti), con un grande ritorno live nella Capitale: quello del grande pianista Antonio Faraò, punta di diamante del panorama jazz internazionale, ammirato da giganti della musica come Herbie Hancock. Sul palco, salirà in trio con Mauro Battisti e Vladimir Kostadinovic.
Sabato 2 ottobre, ospiti della rassegna due grandi della musica italiana: John De Leo e Roberto Gatto, sempre alle ore 19 (biglietti) e in replica alle 21 (biglietti), con il loro ensemble “Progressivamente” formato con Alessandro Presti, Marcello Allulli, Andrea Molinari, Alessandro Gwis, Pierpaolo Ranieri.
Domenica 3 ottobre alle 21 il celebre attore Alessandro Haber sarà protagonista dell’emozionante spettacolo “Johann dalle Nuvole” di Ramberto Ciammarughi: uno dei più geniali pianisti e compositori della musica italiana, già lo scorso anno presente nella rassegna per uno dei concerti più acclamati. Insieme a loro uno speciale ensemble costituito da Gianni Maestrucci, Leonardo Ramadori, Francesco D’Oronzo, Angelo Lazzeri, Samuele Martinelli e Stefano Mora. Link per i biglietti qui.
Lunedì 4 ottobre un altro ritorno per “Around jazz”: quello del noto trombettista Fabrizio Bosso con il grande Fabio Zeppetella alla guida di un quintetto completato da Roberto Tarenzi, Jacopo Ferrazza e Fabrizio Sferra. Due gli orari: alle 19 (biglietti) e alle 21 (biglietti).
Martedì 5 ottobre, protagoniste la raffinatezza e le sonorità di uno dei musicisti argentini più amati in Italia: il sassofonista Javier Girotto con il suo progetto “Pasos”, in quartetto con Francesco Nastro, Luca Bulgarelli e Giuseppe La Pusata. Due gli orari: alle 19 (biglietti) e alle 21 (biglietti).
Mercoledì 6 ottobre spazio alla voce e all’energia di Cinzia Tedesco con il suo “Jazz Trip”, insieme a tre fuoriclasse della musica italiana: Stefano Sabatini, Luca Pirozzi e Pietro Iodice. Doppio concerto: alle ore 19 (biglietti) a alle 21 (biglietti).
Giovedì 7 ben due concerti: alle 19 l’arrivo a Roma del sassofonista britannico-canadese Seamus Blake insieme a due eccellenti musicisti brasiliani: il percussionista Reinaldo Santiago e il chitarrista Nelson Veras (biglietti). Alle 21, “Three Generation” con una grande band: Flavio Boltro e Simone La Maida, ospiti del trio di Leo Caligiuri, Ares Tavolazzi e “Checco” Capiozzo (biglietti).
Venerdì 8 protagonista della rassegna sarà uno dei volti più amati della radio e della tv: Gegè Telesforo, che ospiterà il grande sassofonista Max Ionata insieme al suo quartetto completato da Domenico Sanna, Luca Bulgarelli e Michele Santolieri. Due i concerti: alle ore 19 (biglietti) e alle 21 (biglietti).
Sabato 9 ottobre in scena una delle pianiste più interessanti del jazz italiano: Stefania Tallini, con il suo trio “Uneven” insieme al bassista Matteo Bortone e al batterista Gregory Hutchinson. Special guest, il grande sassofonista Stefano Di Battista.          Concerti alle 19 (biglietti) e alle 21 (biglietti).
Domenica 10 ad “Around Jazz” uno stupendo omaggio alla celebre pittrice Frida Kahlo, firmato dal travolgente batterista e cantante messicano Israel Varela: insieme a lui sul palco, oltre ad un quartetto d’archi, la ballerina di flamenco Nazaret Reyes, la grande Rita Marcotulli, la cantante Serena Brancale, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il giovane prodigio Josei Varela alle tastiere. Concerti alle 19 (biglietti) e alle 21 (biglietti).

Altra novità 2021 saranno i concerti del mattino, ambientati nella suggestiva Chiesa di San Nicola antistante al Mausoleo di Cecilia Metella, che si terranno nei week-end. Protagonisti delle quattro matinées le voci di Mafalda Minnozzi (2 ottobre) e Susanna Stivali (3 ottobre) con due omaggi alla musica e alla cultura brasiliana; un altro giovane prodigio, Simone Locarni, insieme a Fabrizio Sferra e Yuri Goloubev (9 ottobre), e il quartetto di Lorenzo Bisogno feat. Massimo Morganti (10 ottobre). Prevendite al link https://ticketitalia.com/around-jazz-2021-matin%C3%A8e.

La rassegna
La rassegna “Around Jazz”, all’interno del festival Dal Tramonto all’Appia del Parco Archeologico dell’Appia Antica, è nata nel 2020 da una idea di Marco Massa, dal suo amore per il jazz e dal suo legame con l’Appia Antica. Dopo la scomparsa dell’amico la direzione artistica è stata affidata a Fabio Giacchetta, noto produttore in ambito jazz e organizzatore da oltre 30 anni di concerti con artisti internazionali.
L’ingresso ai concerti è acquistabile in prevendita su Ticket Italia al link https://ticketitalia.com/around-jazz. Informazioni ai contatti: info@ticketitalia.com – tel. 0743.222889.
L’organizzazione metterà comunque a disposizione un dispositivo elettronico sul luogo dell’evento per consentire un eventuale acquisto in autonomia dei biglietti fino a qualche minuto prima dell’inizio concerto. Il Parco Archeologico dell’Appia Antica riserva un ingresso ridotto a €10 per gli under 18 e per gli iscritti a Conservatori statali e Istituti Superiori di Studi Musicali.
Tutte le info su www.parcoarcheologicoappiaantica.it.

L’ingresso è consentito solo con Green Pass e con il possesso dell’Appia Card, il biglietto nominativo a durata annuale con il quale è possibile accedere illimitatamente a tutti i siti del Parco Archeologico dell’Appia Antica. L’Appia Card può essere acquistata online (€10 + €2 di prevendita) oppure direttamente presso il Mausoleo di Cecilia Metella (€10): la biglietteria sarà aperta nei giorni dal 1° al 10 ottobre con orario continuato 9.00-21.00.

Come arrivare
Mausoleo di Cecilia Metella – Castrum Caetani in via Appia Antica 161: raggiungibile in auto o con la Metro A (Arco di Travertino) e poi autobus 660 oppure 118 dal centro di Roma.

Info e contatti
www.parcoarcheologicoappiaantica.it
Prevendite: https://ticketitalia.com/around-jazz
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Comunicazione e Ufficio Stampa “Around Jazz”
Fiorenza Gherardi De Candei
tel. +39 328.1743236
info@fiorenzagherardi.com

Ufficio comunicazione e promozione
Parco Archeologico Appia Antica
Lorenza Campanella
tel.+39 333.6157024
pa-appia.comunicazione@beniculturali.it

I nostri CD.

Cari amici, come promesso, eccomi dopo le vacanze estive, quest’anno piuttosto particolari, con la solita nutrita rubrica dedicata alle novità discografiche. Come vedrete ce n’è davvero per tutti i gusti: dal jazz canonico a quello più sperimentale, dal jazz per big band a quello per combo, dal jazz strumentale a quello vocale. Non mi resta, quindi, altro che augurarvi buon ascolto.

Aldo Bagnoni – The Connection – Alfa Music
“The Connection” è il nuovo album di Aldo Bagnoni. Il batterista e compositore barese si ripresenta al suo pubblico alla testa di un quartetto completato da altri tre musicisti pugliesi, il polistrumentista Emanuele Coluccia, il contrabbassista Giampaolo Laurentaci e il tastierista Mauro Tre. In repertorio dieci brani di cui nove originali e l’arrangiamento di un pezzo popolare lucano. Particolare tutt’altro che trascurabile, una tantum il titolo rispecchia abbastanza fedelmente la musica che vi si ascolta; in effetti Bagnoni e compagni propongono un jazz che entra in specifica connessione con altri linguaggi: ecco quindi affacciarsi un’atmosfera tanguera nella linea melodica di “Clarabella”, un qualche riferimento a melopee seppur vagamente orientaleggianti in “Eternal Returns” con in bella evidenza il pianismo di Mauro Tre mentre Giampaolo Laurentaci si fa apprezzare in “The Dolmen and The See” brano che si può ascrivere alle correnti più attuali del jazz, una puntata nell’atonale, un’incursione nel folk con “Lipompo’s Just Arrived”… fino al conclusivo “Clarabella – Epilogo” e “The Connection” è servita nel migliore dei modi. Volendo esprimere un giudizio complessivo sull’album, direi che si tratta di un volume innanzitutto ben congegnato e altrettanto ben eseguito da tutti i musicisti, ma soprattutto coraggioso, una realizzazione che non ha alcun timore a distaccarsi dalle mode oggi prevalenti per proporre esclusivamente quella musica che si ritiene corrispondente ai propri principi non solo estetici. D’altro canto conoscendo Bagnoni non v’è alcun dubbio sul fatto che questi principi abbiano sempre indirizzato la sua esistenza e non solo di musicista.

Danilo Blaiotta Trio – “Departures” – Filibusta Records
Il pianista Danilo Blaiotta, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Valerio Vantaggio sono i protagonisti di questo album uscito il 15 maggio per l’etichetta Filibusta. Il trio, formato nel 1917, è composto da musicisti dell’area romana accomunati da un profondo interesse per la musica classica testimoniato dal fatto che sia il leader, sia il contrabbassista possono vantare approfonditi studi di pianoforte classico. In particolare Blaiotta ha studiato, tra l’altro, diversi anni con il maestro Aldo Ciccolini e negli anni dal 2010 al 2012 si è esibito in recital monografici dedicati a Chopin, Liszt e Debussy per la celebrazione della nascita dei tre compositori. Ed è proprio questa l’impronta che caratterizza tutto l’album, un profondo amore per la musica classica declinato attraverso un linguaggio jazzistico non particolarmente originale ma comunque ben lontano dalla banalità. In repertorio sei brani originali composti da Blaiotta che denota una buona capacità di scrittura anche per il giusto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate; accanto a questi original figurano “Gioco d’azzardo” di Paolo Conte, “There Will Never Be Another You” di Warren e Gordon e “Solar” di Miles Davis. In quest’ambito i pezzi più interessanti sono “The Devil’s Kitchen” con le sue due sezioni ben distinte, “Into The Blue” caratterizzato da una suadente linea melodica ben espressa anche dal contrabbasso di Ferrazza mentre “Solar”, impreziosito da una convincente intro, è porto con sincera partecipazione senza alcuna voglia di strafare nel mantenere l’originaria bellezza del brano davisiano.

Maurizio Brunod – “Ensemble” – Caligola
Una premessa di carattere personale: conosco Brunod da parecchi anni e ho avuto il piacere di averlo mio ospite durante una delle mie “Guide all’ascolto”. E’ quindi con grande piacere che vi presento questo album dal sapore del tutto particolare. In effetti per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno e i trent’anni di carriera il chitarrista ha realizzato un progetto speciale reinterpretando alcune delle sue composizioni, dagli esordi fino ad oggi. Per far ciò ha chiamato accanto a sé due giovani talenti del jazz piemontese, il pianista Emanuele Sartoris ed il contrabbassista Marco Bellafiore, cui sono stati affiancati come special guest in alcuni brani Daniele Di Bonaventura al bandoneon e Gianluigi Trovesi al sax alto e clarinetto. Il risultato è eccellente, senza se e senza ma. La musica scorre fluida, sempre piacevole, a tratti venata da una certa malinconia seppur mai inutilmente sdolcinata. E il trio, senza batteria, si muove perfettamente a suo agio nel contesto disegnato e voluto dal leader. Quanto al ruolo dei due ospiti, risulta anch’esso di grande spessore. Basti ascoltare, ad esempio, “Stinko Tango” in cui il bandoneon gioca un ruolo di primissimo piano e “Urban Squad” con un Trovesi che, con accorte pennellate, dimostra di non aver perso un’oncia della sua inimitabile statura artistica. Dal canto suo il leader dimostra di aver raggiunto una completa maturità sia come chitarrista sia come compositore quale ciliegina su una torta che lo ha visto collaborare con alcuni dei massimi esponenti del jazz nazionale e internazionale quali Enrico Rava, Miroslav Vitous, John Surman, Tim Berne.

Marcella Carboni Trio – “This Is Not A Harp” – barnum
Conosco e seguo Marcella Carboni sin dagli inizi della sua strepitosa carriera e l’ho sempre considerata una fuoriclasse, fuoriclasse perché è riuscita ad inserire in territorio jazzistico uno strumento certo non usuale coma l’arpa che tecnicamente padroneggia con estrema sicurezza, una fuoriclasse perché ha elaborato un fraseggio assolutamente personale, una fuoriclasse perché sta evidenziando una verve compositiva non comune. E questo album, registrato in trio con altri due giganti del jazz italiano quali Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Stefano Bagnoli alla batteria conferma appieno quanto sin qui detto. I tre si muovono con grande empatia lungo un repertorio costituito da 12 brani composti dai tre artisti, in massima parte dalla stessa Carboni. Particolarmente significativo il titolo dell’album: come spiega la stessa Marcella tutti si attendono un’arpa angelica, magica e rilassante mentre questa “non è un’arpa: è la mia voce, il mio suono. È uno strumento che sa graffiare, sa avere ritmo, groove”. E come darle torto. Il sound che la Carboni riesce a trarre dal suo strumento è davvero ben lontano da quello cui siamo abituati, come se ci si trovasse dinnanzi ad un classico trio piano-batteria-contrabbasso in cui tutti e tre gli strumenti hanno un’eguale importanza. All’interno del CD si trova una password che dà la possibilità di scaricare una vera e propria estensione del disco con contenuti extra tra cui tre pillole di improvvisazione inedite: “Time Transfixed” (M.Carboni /S.Bagnoli), “The False Mirror” (M.Carboni /P.Dalla Porta) e “The Empire of Lights”

Avishai Cohen – “Big Vicious” – ECM
Ritroviamo il carismatico trombettista Avishai Cohen alla testa del suo gruppo “Big Vicious” costituito circa sei anni addietro quando fece ritorno in Israele suo Paese natale dopo aver a lungo soggiornato negli States. A completare la formazione ci sono Uzi Ramirez chitarra, Aviv Cohen batteria, Yonatan Albalak chitarra e basso, Ziv Ravitz percussioni e live sampling. Questi musicisti, come spiega lo stesso Cohen, non provengono tutti dal jazz ma hanno alle spalle esperienze le più diversificate, dall’elettronica all’ ambient music, dalla musica psichedelica al rock, al pop…fino al trip-hop. Insomma un miscuglio di stili, di linguaggi che sapientemente mescolati dal leader, danno vita ad una miscela di sicuro interesse. Insomma qui non siamo nel campo del jazz propriamente detto, del jazz classico, ma ascoltiamo qualcosa se volete di più complesso, difficile da definire. Ad esempio un brano come “King Kutner” caratterizzato da un’orecchiabile linea melodica e da un andamento armonico-ritmico assai marcato non scandalizzerebbe i seguaci del pop di qualità. Ma subito dopo troviamo sia un omaggio a Beethoven con “Moonlight Sonata”, sia un brano dei Massive Attack “Teardrop” (particolarmente indovinato l’arrangiamento) sino a giungere al pezzo di chiusura, “Intent” che ci riporta su terreni più prettamente jazzistici. Il tutto illuminato dagli interventi del leader (lo si ascolti ad esempio in “Fractals”) che si stagliano come lacerti illuminanti in un ambiente musicale dai mille colori, dalle mille sfumature con un repertorio ben scritto, ottimamente arrangiato e altrettanto ben eseguito, con tutti i musicisti messi nelle migliori condizioni per esprimere appieno il proprio potenziale.

Maria Pia De Vito – “Dreamers” – Via Veneto Jazz, Jando Music
Credo che nessuno avrà da obiettare se dico che attualmente Maria Pia De Vito è una delle più interessanti vocalist che il mondo del jazz internazionale possa annoverare. Napoletana di carattere, anno dopo anno mai si è fermata continuando a studiare, a sperimentare con passione e quella curiosità che fanno di un musicista un vero artista. E quest’ultima fatica discografica non fa che confermare quanto detto. Maria Pia è coadiuvata da Julian Oliver Mazzariello al piano, Enzo Pietropaoli al contrabbasso, Alessandro Paternesi alla batteria cui si aggiunge in “The Lee Shore” Roberto Cecchetto alla chitarra. Il titolo “Dreamers” (“Sognatori”) si riferisce a quanti con le loro melodie hanno saputo raccontare e fors’anche prevedere le vicende della società statunitense…e non solo. E così in cartellone ritroviamo nove brani che rappresentano una sorta di breve catalogo di canzoni icone del songwriting d’oltreoceano, firmate da Paul Simon, David Crosby, Bob Dylan, Tom Waits e soprattutto Joni Mitchell di cui la De Vito ripropone ben tre pezzi; e la cosa non stupisce dato che Maria Pia aveva già affrontato il repertorio della Mitchell nel precedente «So Right» (Cam Jazz). Io credo che la cifra stilistica dell’album consista nella grande personalità dell’artista che riesce ad esplorare ogni brano sin nelle più intime pieghe così da farlo proprio e riprodurlo in modo personale con assoluta padronanza. E la cosa è ancora più rilevante ove si tenga conto che non si tratta certo di brani facili e che moltissimi li conoscono nelle loro versioni originali per cui non è difficile effettuare paragoni. Alla perfetta riuscita dell’album contribuiscono in maniera forte gli arrangiamenti scarni, essenziali, con una particolare attenzione alle dinamiche, il tutto nel pieno rispetto dell’originario spirito dei brani. E a proposito di quest’ultimi, fermo restando che vanno tutti ascoltati con la massima attenzione, mi piace sottolineare le interpretazioni di “Chinese Cafè” e “Carey” ambedue di Joni Mitchell; il primo brano presenta uno straordinario cambio di atmosfere e il mirabile inserimento di un inserto tratto da “Unchained Melody” mentre in “Carey” si possono apprezzare, tra l’altro, i vocalizzi scat della De Vito. Ultima considerazione, di certo non secondaria, la perfetta pronuncia inglese della vocalist.

Alessandro Fabbri – «Five Winds» – Caligola
Prima di entrare nel merito di questo interessante lavoro, consentitemi ancora una volta una riflessione del tutto personale: è da molto tempo che non incontro Alessandro Fabbri e così, quando ho visto la fotografia del settetto contenuta nella copertina dell’album, ho stentato a riconoscere il batterista fiorentino. Segno evidente che la mia memoria, almeno per quanto riguarda il riconoscimento facciale, denota qualche problema. Viceversa l’udito è rimasto perfetto e così ho avuto modo di percepire appeno tutte le qualità di questo “Five Winds”. Si tratta del quarto disco da leader di Fabbri per Caligola, sette anni dopo «StrayHorn». Il gruppo presenta un organico tutt’altro che usuale dal momento che accanto al leader figurano Guido Zorn al contrabbasso, e poi una straordinaria batteria di fiati: Davide Maia al bassoon, Elia Venturini al corno francese, Simone Santini sax alto, sopranino, oboe e EWI, Sebastiano Bon flauto, flauto alto e basso, e il sempre grandioso Pietro Tonolo ai sax tenore e soprano. Il repertorio si incentra su sei composizioni di Fabbri con l’aggiunta di “Four Winds” di Dava Holland, “No Baby” di Steve Lacy e “Silent Brother” di Luca Flores, queste ultime rivisitate alla luce della personalissima visione del leader. Dalla composizione del gruppo si evince facilmente come una delle caratteristiche principali dell’album sia l’ampia tavolozza cromatica che, unitamente all’assenza di uno strumento armonico, rende possibile l’articolazione della musica su una struttura contrappuntistica con evidenti e inevitabili richiami ai grandi del cool-jazz. Insomma, come si accennava in apertura, un lavoro di gande spessore e artisticamente molto interessante.

Jimmy Greene – “While Looking Up” – Mack Avenue
Era il 14 dicembre 2012 quando Adam Lanza, di 20 anni, dopo essersi introdotta presso la Sandy Hook Elementary School, di Sandy Hook, borgo della città di Newtown in Connecticut (USA), aprì il fuoco causando la morte di 27 persone, 20 delle quali bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni, suicidandosi prima dell’arrivo della polizia. Tra le vittime c’era anche Ana Márquez-Greene figlia del sassofonista Jimmy Greene il quale, entrato in studio nel marzo del 2019, registrò “While Looking Up” ispirato a questa tragedia ma anche al caos del mondo contemporaneo. Greene è accompagnato da Aaron Goldberg al pianoforte e Rhodes, Stefon Harris a marimba e vibrafono, Lage Lund alla chitarra, Reuben Rogers al contrabbasso e Kendrick Scott alla batteria. In repertorio dieci composizioni molte originali dello stesso Greene, declinate attraverso un linguaggio prettamente jazzistico in cui si avvertono, evidenti, influssi gospel. Particolarmente interessante “No Words” in cui, su un tappeto ritmico che sembra riprodurre i battiti di un cuore, Greene si esprime con note quasi dolenti che ben si attagliano a quanto in precedenza detto. E il ricordo della tragedia è ancora richiamato in “April 4th”, data di nascita della figlia, una sorta di inno in cui all’assolo del leader fa seguito un magistrale intervento di Stefon Harris al vibrafono. Interessante e convincente anche la riproposizione di “I Wanna Dance With Somebody (Who Loves Me)” portato al successo da Whitney Houston; Greene la interpreta a tempo lento ben sostenuto dal pianismo sempre essenziale di Aaron Goldberg

Connie Han – Iron Starlet – mack avenue
E’ uscito il 12 giugno per la Mack Avenue “Iron Starlet”, il secondo album della pianista americana di origine cinese, Connie Han, alla testa del suo trio completato da Ivan Taylor al contrabbasso e Bill Wysaske nella triplice veste di batterista, produttore e direttore musicale. Ai tre si aggiungono, in alcuni brani, Walter Smith III al sax e Jeremy Pelt alla tromba a costituire un sestetto di sicuro impatto. In repertorio dieci brani tra cui “For th O.G.”, in memoria di McCoy Tyner. Ciò premesso occorre sottolineare come dal punto di vista tecnico la Han sia fortissima così come aveva dimostrato nel precedente album del 2018 “Crime Zone”: la pianista e compositrice ha ben introitato la lezione dei grandi del jazz, da McCoy Tyner a Hank Jones senza dimenticare artisti più moderni quali Kenny Kirkland e Jeff “Tain” Watts. Di qui un pianismo ricco, spumeggiante, con una diteggiatura velocissima e una buona indipendenza tra le due mani che ben si ancora alla costante pulsazione di una sezione ritmica eccellente. Il tutto impreziosito dai due fiati che innervano la musica di una certa raffinatezza e di un’ulteriore forza d’impatto. Si ascolti come il trombettista Jeremy Pelt conduce le danze nella title tracke prima che la pianista prenda in mano le redini della situazione o come tromba e sax tenore duettino all’inizio del successivo “Nova” in cui la leader suona il Fender Rhodes. Tra gli altri brani da segnalare ancora il già citato “For th O.G.” con la pianista in grande spolvero e particolarmente efficace anche sul piano espressivo e il delicato valzer “The Forsaken” della stessa Han eseguito ancora in trio con Bill Wysaske in bella evidenza.

Frank Martino – “Ego Boost” – Auand
Il sound è sicuramente l’elemento distintivo di questo album del chitarrista, compositore e produttore, Frank Martino che evidenzia ancora una volta come le sue fonti di ispirazione non vadano ricercate solo nel jazz ma anche (se non forse soprattutto) nel rock e nell’elettronica. In effetti questo terzo album del suo progetto Disorgan, attivo dal 2015, si muove lungo coordinate caratterizzate da un forte impianto ritmico e come si accennava in apertura dalla ricerca di un sound particolare, piuttosto duro, ricercato attraverso le diverse soluzioni che l’organico può offrire. E questo risultato non sarebbe stato possibile se non vi avessero contribuito in maniera determinante tutti i musicisti scelti da Martino, vale a dire il sassofonista Massimiliano Milesi, Claudio Vignali (tastiere) e Niccolò Romanin (batteria) mentre in alcuni brani Martino abbandona la sua fida chitarra a 8 corde per passare al basso. In repertorio 7 brani, tutti a firma di Martino, eccetto ‘Trees of Silence and Fire’ (Milesi/Vignali), che denotano un’intima coerenza data l’assoluta aderenza al progetto da parte dell’intero gruppo che, importante ripeterlo, ha svolto un incredibile e apprezzabile lavoro a livello di suono rendendo inutile il lavoro di post-produzione. Particolarmente rilevante il ruolo svolto da Martino che questa volta piuttosto che porsi in primo piano ha preferito mettersi a servizio del gruppo, pur non disdegnando interessanti sortite solistiche come in “Fring”.

Lorenzo Miatto – “Civico 19” – Caligola
Album d’esordio come leader per il veneto Lorenzo Miatto, specialista del basso elettrico, coadiuvato da altri due musicisti dell’area veneta, il chitarrista Nicola Privato e il batterista Niccolò Romanin. Miatto si presenta al pubblico del jazz nella triplice veste di leader, strumentista e compositore (nove brani su dodici sono suoi), e in tutte e tre le vesti Miatto se la cava più che egregiamente. Come bassista Miatto ha completato i suoi studi al Conservatorio di Adria sotto la guida di Paolo Ghetti ed è anche membro dell’orchestra nazionale di jazz diretta da Pino Jodice e Riccardo Luppi; come leader dimostra di saper guidare il trio con mano ferma e competente; infine come compositore evidenzia un notevole gusto per linee melodiche suadenti e originali. E questo della ricerca della melodia è una costante di tutto l’album; non a caso il brano che si stacca più nettamente dal resto, con un andamento più ruvido, spigoloso è “The Pretender” un brano dei Foo Fighters rivisitato in forma originale. Per il resto il trio si muove su coordinate ben precise, sempre dettate dal leader che si riserva quattro brevi interventi in completa solitudine (“Con calma # 1,2,3,4), lasciando per il resto ampio spazio ai compagni di strada per esprimere appieno le proprie potenzialità. Si ascolti al riguardo “Whirlwinds” e “Shapes” due composizioni del chitarrista caratterizzate da una bella accentuazione ritmica-armonica mentre in “Storie di sempre” ritorna in auge la linea melodica privilegiata dal leader.

Jean-Louis Matinier, Kevin Seddiki – « Rivages » – ECM
Grande musica quella contenuta in questo album realizzato in duo dai musicisti francesi Jean-Louis Matinier all’accordion e Kevin Seddiki alla chitarra. Lo riconosco: questo giudizio potrebbe essere falsato dalla mia predilezione per la fisarmonica tuttavia non credo di essere molto lontano dal vero nell’affermazione di cui in apertura. In effetti non possono sussistere dubbi sulla statura artistica di Matinier testimoniata, ampiamente, dalle precedenti prove per la stessa ECM. Si ascoltino le precedenti registrazioni con i gruppi di Anouar Brahem, Louis Sclavis e François Couturier e in duo con Marco Ambrosini. Adesso si ripresenta protagonista di una nuova impresa, un altro duo con il chitarrista Kevin Seddiki che nell’occasione debutta in casa ECM. Seddiki può vantare una robusta preparazione tecnica avendo studiato chitarra classica con Pablo Marquez dopo di che ha lavorato con molti improvvisatori non solo nel campo del jazz. Questa trasversalità culturale viene qui assai ben declinata attraverso un repertorio che accanto a traditional quali “Greensleeves” comprende brani classici come “Les Berceaux” di Gabriel Fauré fino a giungere a composizioni e improvvisazioni di grande suggestione. Comunque a prescindere dai singoli brani è tutto l’album che si lascia ascoltare con interesse dal primo all’ultimo istante. La musica fluisce in maniera naturale, senza forzature, respirando al ritmo dei mantici di Matinier che ben si accordano con il sound così caratteristico della chitarra di Seddiki. Quest’ultimo evidenzia una spiccata predilezione per la tecnica percussiva derivante anche dal fatto che il chitarrista ha studiato e collaborato con il percussionista francese di origine persiana Bijan Cherimani, specialista dello zarb (tamburo di calici proveniente dalla Persia).

Wolfgang Muthspiel – “Angular Blues” – ECM
Il chitarrista austriaco Wolfgang Muthspiel si ripresenta all’attenzione del pubblico e della critica del jazz alla testa del suo trio completato da Scott Colley contrabbasso, che ha preso il posto di Larry Grenadier presente in precedenti album di Muthspiel e Brian Blade alla batteria. In programma due standard (“Everything I Love” di Cole Porter, “I’ll remember april” di Gene de Paul, Don Ray e Patricia Johnston), e sette original del leader tra cui “Solo Kanon in 5/4”, eseguito da Muthspiel in solitudine. Si tratta del quarto album registrato dal chitarrista per ECM e ancora una volta ci restituisce un artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, che sa transitare con estrema disinvoltura dalla chitarra acustica a quella elettrica, tanto che senza un ascolto più che attento non è possibile stabilire quando venga utilizzato l’uno o l’altro strumento. Ciò detto occorre però aggiungere che l’album soffre di una certa staticità frutto da un canto di un repertorio non particolarmente originale e dall’altro di una eccessiva omogeneità di sound. Evidentemente ciò non disturberà più di tanto gli amanti della chitarra, ma il vostro recensore da un artista quale Muthspiel si attende qualcosa di più specie dal punto di vista del coinvolgimento.

Noukilla – “Soley” – Naxos
Con questo album usciamo decisamente fuori dal seminato in quanto di jazz c’è solo qualche lieve sentore: si tratta, in effetti, di musica tradizionale, popolare ma densa di significato. E’ un sentito tributo che il gruppo Noukilla rivolge al proprio Paese, l’Isola Mauritius. Com’è facile immaginare, il ritmo la fa da padrone così come la gioia di suonare e l’allegria mentre, almeno per quanto mi riguarda, le linee tematiche riportano alla mente quello ‘zouk’ che negli anni ’90 furoreggiava in Martinica tra la popolazione autoctona. In questo caso è una sorta di mélange tra sega e seggae. E per trovare le origini della musica sega bisogna andare molto indietro nel tempo in quanto la stessa venne creata dagli schiavi creoli; proprio per questo in Mauritius venne pubblicamente disprezzata fino agli anni ‘60 quando finalmente fu adottata come musica nazionale. Negli anni ‘90, un rastafari mauritiano, conosciuto come Kaya, dal celebre album di Bob Marley, innervò la sega con elementi di reggae, creando così il seggae. Nonostante sia morto nel 1999 in circostanze rimaste misteriose, molti artisti mauritiani continuano a rendergli omaggio e a creare una musica – come evidenzia anche questo “Soley” – che risente della sua influenza. Un’ultima notizia di cronaca: la copertina dell’album ritrae un ex residente dell’isola, sicuramente il più celebre, l’uccello Dodo; endemico dell’isola non poteva volare, si nutriva di frutti e nidificava a terra. Si estinse rapidamente nella seconda metà del XVII secolo in seguito all’arrivo sull’isola dei portoghesi e degli olandesi.

Francesco Polito – “Trip” – Alfa Music
Qui siamo in ambiente dichiaratamente ‘smoothjazz’, quindi niente ardite sperimentazioni, né linguaggi particolarmente astrusi ma la voglia, grande, di suonare ciò che piace, al meglio delle proprie possibilità. In effetti, se dal punto di vista compositivo l’album potrebbe far storcere il naso a quanti pretendono sempre qualcosa di nuovo, dal punto di vista esecutivo nulla si può rimproverare al gruppo guidato da Francesco Polito, al suo esordio discografico da leader ma musicista già ampiamente rodato anche perché nasce in una famiglia di musicisti ben nota in quel di Sala Consilina. Il sassofonista guida un gruppo ad organico variabile in cui figurano Enzo Polito alle tastiere-sint e accordion, Roberto Polito batteria e percussioni, Frank Marino basso, Silvio De Filippo chitarra, Gianfranco Cloralio chitarra, Massimo Romano Chitarra. In programma nove brani tutti composti da Francesco Polito da solo o in cooperazione con gli altri due Polito, cui si aggiunge, in chiusura, “A testa in giù di Pino Daniele”. Il leader suona sax tenore, sax alto e sax soprano evidenziando un’ottima preparazione strumentale che gli consente di passare con disinvoltura da uno strumento all’altro, dimostrando così di aver ben interiorizzato la lezione dei maggiori esponenti del genere quali Jenni K. I compagni d’avventura non sono da meno cosicché il gruppo, come accennato, risulta ben assortito. I brani sono tutti contrassegnati da una felice linea melodica anche se personalmente preferiamo i pezzi in cui è presente la fisarmonica, vale a dire “In Your Eyes”, “Martina” e il già citato “A testa in giù” in cui Enzo Polito sfoggia una sonorità moderna e un fraseggio non banale.

Marco Ponchiroli – “Solo Live” – Caligola
Pianista evidentemente convinto dei propri mezzi tecnici ed espressivi, Marco Ponchiroli affronta per la seconda volta le insidie del piano-solo. Ci aveva provato nel 2012 con “Solo” album registrato in studio e comprendente solo brani originali dello stesso artista. Questa volta il discorso è completamente diverso: il CD è stato registrato il 25 luglio del 2018 durante un concerto all’Arena del Parco Azzurro di Passons in provincia di Udine e il repertorio è costituito da quattro original del leader cui si affiancano tre brani molto conosciuti, “Senza fine” di Gino Paoli, “Body And Soul” di Green, Heyman, Sour, Eyton e “Retrato em branco e preto” di Jobim e Buarque. Quindi tre brani tra di loro assai diversi che si esplicano in tre differenti linguaggi ad evidenziare le buone capacità interpretative di Ponchiroli. Il pianista veneziano riesce a connettersi assai bene con il pubblico che l’ascolta e mostra eccellenti capacità improvvisative che prendono il via dal rispetto delle linee melodiche caratterizzanti tutti i brani dell’album. E devo dire che a mio avviso le capacità di Ponchiroli risaltano più evidenti nell’interpretazione dei tre brani non suoi che pur essendo (in special modo i primi due) ascoltati e riascoltati centinaia di volte vengono riproposti in versione assolutamente originale. Per il resto “Misty Morning” e “Hercules” provengono dal precedente “Solo” mentre la sola composizione non registrata in precedenza è “Inverno”.

Reunion Big Band – “My Life Is Now, a tribute to Marco Tamburini” – Caligola
Ottimo album d’esordio per questa orchestra sulla cui storia vale la pena spendere qualche parola. La “Reunion Big Band” venne fondata da Marco Tamburini, insieme a Roberto Rossi e Piero Odorici per debuttare nell’autunno del 1999 al Chet Baker, famoso club bolognese. Dopo un’intensa attività costellata di partecipazioni in molti festival, teatri e club dell’area tosco–emiliana, la band si sciolse e si ricostituì nell’estate del 2012 per accompagnare Dee Dee Bridgewater al Narni Black Festival. È stata questa la ripresa dell’attività, prima sotto la direzione di Tamburini e poi, dopo la sua scomparsa, dell’amico e trombonista Roberto Rossi. Ed eccoci, quindi, come si accennava in apertura, a questo esordio discografico dedicato al trombettista immaturamente scomparso nel 2015. I dieci brani sono tutti di Tamburini e si avvalgono di sapidi arrangiamenti firmati oltre che dallo stesso Tamburini, da Stefano Paolini, Roberto Rossi, Fabio Petretti e Ivan Elefante e impreziositi da centrati assolo presi sia dai musicisti della band, sia dagli ospiti quali Pietro Tonolo, Fabrizio Bosso (li si ascolti nel brano d’apertura “Bossa to Criss”) e Marcello Tonolo (semplicemente superlativo in “Eduard”). Comunque, a mio avviso, il brano più riuscito è quello che dà il titolo all’intero album che evidenzia un ensemble davvero omogeneo, ben rodato che si muove all’unisono con bella compattezza.

Christian Sands – “Be Water” – Mack Avenue
Nel suo nuovo album, “Be Water”, il pianista Christian Sands trae ispirazione dall’acqua attraverso le varie declinazioni attraverso cui la stessa si presenta. Così dopo aver fatto ricorso, per il titolo dell’album, alla filosofia del maestro di arti marziali e star del cinema Bruce Lee, Christian nei titoli dei dieci pezzi da lui stesso composti, cerca di rivestire in musica i concetti in precedenza espressi. Ci riesce? Francamente non tanto anche perché, come più volte sottolineato, la musica non è semantica. Ma è altresì vero che tutto ciò poco o nulla influisce sulla valenza della musica che rimane su livelli alti. Anche perché, nonostante l’ancor giovane età (31 anni), Sands ha alle spalle notevoli esperienze avendo collaborato con gli Inside Straight, il Trio di Christian McBride, Gregory Porter e Ulysses Owens. In questo quarto album per la Mack Avenu, Sands si presenta con il suo trio abituale, composto dal bassista Yasushi Nakamura e dal batterista Clarence Penn, cui si aggiungono il chitarrista Marvin Sewell, il sassofonista Marcus Strickland, il trombettista Sean Jones e il trombonista Steve Davis. In un pezzo l’ensemble è completato da un quartetto d’archi con Sara Caswell, Tomoko Akaboshi, Benni von Gutzeit ed Eleanor Norton. C’è da evidenziare come, indipendentemente dal brano, indipendentemente dallo stile e dal terreno scelti (il pianista passa con estrema disinvoltura dallo swing, al bebop, dal progressive jazz, alla fusion fino alle sonorità brasiliane e afro-cubane) Sands mai perde un’oncia di quell’eleganza e compostezza che accompagna ogni sua performance sia su disco sia live.

Cinzia Tedesco – “Mister Puccini in Jazz” – Sony Classica
Giacomo Puccini è una vera e propria icona della musica italiana…e non solo… che tutti noi rispettiamo e ammiriamo. Tentare, quindi, di ripresentare le sue immortali melodie in una veste diversa dall’originale è impresa al limite dell’impossibile, comunque molto ma molto difficile. Ma quando entra in gioco Cinzia Tedesco l’impossibile non esiste e così, dopo l’album dedicato a Verdi (“Verdi’s Mood by Cinzia Tedesco”), l’artista pugliese è riuscita a bissare il miracolo dando vita ad un CD a momenti davvero toccante. Per ottenere un risultato così brillante c’è voluto uno sforzo produttivo notevole: ecco quindi, accanto alla vocalist, un trio di grandi jazzisti quali Stefano Sabatini piano e arrangiamenti, Luca Pirozzi contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria con in più la Puccini Fetival Orchestra diretta dal maestro Jacopo Sipari di Pescasseroli, composta da ben ventinove elementi ai quali si sono affiancati come special guest Flavio Boltro alla tromba, Stefano Di Battista e Javier Girotto al sax soprano, Antonello Salis accordion e Roberto Guarino chitarra; superlativa anche la prova di Pino Jodice che oltre ad esibirsi al piano in “Un bel dì vedremo” ha scritto e arrangiato gli archi della Puccini Festival Orchestra. Ma risolti i problemi prettamente strumentali, restava lo scoglio dei testi dei libretti originali difficilmente adattabili al linguaggio jazz. Ebbene in questa particolare sfida la Tedesco è stata superlativa riuscendo a superare lo scoglio grazie alla sua grande sensibilità e alla duttilità della voce che le hanno consentito di esprimere con assoluta padronanza e coerenza quelle frasi che oramai fanno parre integrante del patrimonio dei melomani di mezzo mondo. Gli undici brani sono uno più bello dell’altro: basta qualche titolo per rendersene conto, da “Che gelida manina” da “La Bohème” a “E lucevan le stelle” dalla “Tosca” sino alla ripresa di “E lucevan le stelle” che chiude l’album. Insomma un album che coniuga una estrema godibilità con un ragguardevole spessore artistico.

Luca Zennaro – “When Nobody Is Listening” – Caligola
Nonostante sia molto giovane (23 anni) e tuttora studente del Conservatorio di Rovigo, il chitarrista di Chioggia è già al suo secondo album da leader dopo “Javaskara” del 2018. In effetti questo “When Nobody Is Listening” ci consegna un musicista già in grado di affrontare prove impegnative come quella di un’uscita discografica. In repertorio nove composizioni originali, tutte di Zennaro, eseguite da un quintetto di base completato da Jacopo Fagioli alla tromba, Nicola Caminiti al sax alto, Michelangelo Scandroglio al contrabbasso e Mattia Galeotti alla batteria cui si aggiungono in alcuni brani Alessandro Lanzoni e Nico Tangherlini, ambedue al pianoforte. Il linguaggio è sicuramente jazzistico a tutto tondo, con una front line ben sostenuta dalla sezione ritmica; l’atmosfera è in linea di massima intimista con il gruppo alla ricerca della migliore intesa per esplorare, nelle pieghe più intime, le linee melodiche disegnate dal leader. Questi, piuttosto che porsi continuamene in primo piano, preferisce mantenersi quasi in disparte dando così l’opportunità ai compagni di viaggio di estrinsecare le proprio possibilità. Ciò ovviamente non toglie che Zennaro ci dia mostra del suo talento chitarristico come in “Heritage”. Tra gli altri brani particolarmente interessante “Recitativo” a chiudere l’album, con Tangherlini e Fagioli che dialogano con disinvoltura e pertinenza.

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 4)

CNI

La Compagnia Nuove Indye viene fondata all’inizio degli anni ’90 da Paolo Dossena, storico produttore musicale, paroliere e compositore italiano. Nel corso della sua attività la Compagnia Nuove Indye ha avuto una particolare attenzione verso la musica etnica e dialettale, lanciando artisti come gli Almamegretta o gli Agricantus, senza comunque trascurare altri artisti di assoluto rilievo come Sud Sound System, Enzo Avitabile, Nidi d’Arac, A3 Apulia Project, Maurizio Capone, Bandorkestra, Alessandro Gwis.

Agricantus – “Akoustikòs Vol.I”
Agrigantus è uno dei gruppi in assoluto più significativi che abbiano attraversato la storia della musica italiana negli ultimi decenni. Siamo alla fine degli anni settanta, quando un gruppo di ragazzini di grande talento sperimenta suoni nuovi che non somigliano a niente di conosciuto in quanto coniugano i canti e gli strumenti della tradizione siciliana con le tradizioni africane, dando corpo tangibile alla teoria della musica quale ‘linguaggio universale’. Linguaggio che viene man mano arricchito con riferimenti non solo alla tradizione mediterranea ma anche a quella sudamericana, asiatica e mediorientale. Da quest’inizio il gruppo con gradualità si fa conoscere ottenendo unanimi consensi di pubblico e di critica anche al di fuori dei confini nazionali. Pur vivendo numerose trasformazioni, Agricantus ha comunque conservato una propria precisa identità non scalfita neanche dal fatto che per alcuni periodi ha osservato un rigoroso silenzio da cui sono riemersi solo mesi fa con questo eccellente album. Identità che si sostanzia, come si accennava, nella grandissima capacità di convogliare in un unicum input provenienti dalle più diverse realtà. Non è quindi un caso che la storia discografica di Agricantus abbia oggi un nuovo inizio con la CNI, che, come si diceva, si è da sempre contraddistinta per dare spazio alle più importanti band di world music che il nostro paese abbia prodotto. Questo nuovo lavoro vede nel rinnovato gruppo la splendida voce di Anita Vitale, accanto a musicisti che abbiamo imparato a conoscere nel corso degli anni quali Mario Rivera al contrabbasso, Giovanni Lo Cascio batteria e percussioni e il sempre toccante contributo degli strumenti arcaici di Mario Crispi (a cui “A proposito di jazz” ha dedicato una lunga e illuminante intervista). Risultato: un album di assoluta originalità, modernità, degno di essere ascoltato con grande attenzione.

Bandorkestra – “Best Seller”
Ogni volta che mi accingo ad ascoltare un nuovo album di Bandorkestra mi sorge un dubbio: riuscirà anche questa volta la band di Marco Castelli a trasmettermi le stesse emozioni, la stessa straordinaria energia, la ventata di sano ottimismo dell’ultimo ascolto? Questa volta il dubbio era ancora più forte in quanto l’album è stato concepito e realizzato per celebrare i quindici anni di attività artistica del gruppo, una ricca antologia, quindi, in cui sono stati raccolti quindici brani – compresi alcuni inediti – che, nel loro insieme, compendiano efficacemente il percorso artistico di Castelli e soci. Percorso artistico declinato attraverso una concezione musicale assolutamente originale, in grado di transitare da un terreno all’altro senza la minima difficoltà sì da affrontare un repertorio quanto mai variegato: dal jazz allo swing, dallo ska al boogie-woogie, dal latin al reggae… e via di questo passo. Il tutto riuscendo a ben coniugare scrittura e improvvisazione, arrangiamenti istantanei e logica organizzazione. E se ascoltando gli album di Bandorkestra si riesce a mala pena a stare fermi, figuratevi qual è il clima che questa straordinaria band riesce ad instaurare nelle esecuzioni dal vivo. Quindi anche in questo “Best Seller” ritroviamo la solita possente sezione di fiati sorretta da una ritmica tritatutto, senza però tralasciare qualche residua finezza nell’esposizione dei temi e nel dipanarsi degli assoli. I brani, come avrete capito, sono tutti assai godibili anche se ci piace segnalarvi uno degli inediti, il medley “Lotta Love Medley” in cui “Whole Lotta Love” dei Led Zeppelin sfuma in “Come Togheter” dei Beatles e poi in “Happy” di Pharrel Willams. Dal punto di vista solistico, da ascoltare con attenzione l’assolo di Pietro Tonolo in “Anelli” che dimostra, se pur ce ne fosse bisogno, il perché Tonolo sia a ben ragione considerato uno dei migliori sassofonisti e non solo a livello nazionale.

Alessandro Gwis – “#2”
Alessandro Gwis è pianista completo nell’accezione più vera del termine in quanto coniuga una tecnica eccellente con uno stile personale determinato dalle influenze derivanti dalla musica classica, dal rock, dal tango, dal jazz fino alla musica elettronica. Si è fatto le ossa soprattutto con gli “Aires Tango” ma poi ha intrapreso una sua strada finora ricca di successi. Nel 2006 pubblica il suo primo album da leader intitolato semplicemente “Alessandro Gwis” con Luca Pirozzi al contrabbasso e basso elettrico e Andrea Sciommeri alla batteria e percussioni. Ed è con questa stessa formazione (con l’aggiunta di Luciano Biondini all’accordion) che il pianista romano si ripresenta al pubblico del jazz: “#2” propone tredici brani tutti a firma dello stesso Gwis (da solo o con gli altri componenti del trio) che testimonia in modo inequivocabile la raggiunta maturità del pianista anche come compositore. Le composizioni originali sono tutte ben scritte, equilibrate, ottimamente eseguite e soprattutto con un perfetto equilibrio tra parti scritte e parti improvvisate. Equilibrio talmente ben raggiunto che cinque brani (“The Blessed Sadness Of Fall”, “The Baloonatic”, “Ibo”, “The Flood”, “Wind Rose Glitches”) sono esplicitamente indicati come “free improvisations recorded in studio” ma nell’economia generale dell’album si fa fatica a distinguerle dalle altre. I tre si muovono all’insegna di un’empatia frutto di una intensa e fruttuosa collaborazione fra i tre. Così, anche quando il pianista introduce elementi “elettronici”, o al trio si aggiunge l’accordion di Luciano Biondini (“Don’t blame Gwis”) il clima generale non cambia e la musica scorre fluida, libera – se mi consentite l’espressione – sempre caratterizzata da una linea melodica perfettamente riconoscibile.

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Emme Record Label

Il marchio nasce nel 2010 ma ha alle spalle oltre un decennio di esperienze professionali legate all’organizzazione, direzione artistica, Management & Booking. Emme Produzioni Musicali si caratterizza per il fatto di essere una delle pochissime realtà europee capaci di fornire tutti i servizi produttivi, discografici e manageriali, necessari a diffondere nel miglior modo un progetto artistico.

Bonora – “Enkidu”
“Enkidu” è l’album d’esordio di Bonora, un sestetto composto da giovani musicisti provenienti da Veneto, Toscana, Emilia Romagna e Marche: Francesco Giustini (tromba, flicorno), Leonardo Rosselli (sax tenore, sax soprano), Daniele Bartoli (chitarra elettrica), Alberto Lincetto (pianoforte, tastiere), Alberto Zuanon (contrabbasso), Stefano Cosi (batteria). Se dal punto di vista del repertorio (composto interamente da composizioni originali) il gruppo si muove su terreni non proprio nuovi, viceversa dal punto di vista esecutivo si nota una certa originalità. In effetti il sestetto evidenzia una buona conoscenza del mondo musicale riuscendo a enucleare elementi sia dal jazz più tradizionale, sia dal free, sia dal rock (soprattutto per quanto concerne la sezione ritmica), elementi che confluiscono in una visione unitaria andando così a costituire un linguaggio personale che costituisce l’elemento caratterizzante il gruppo. Così mentre i fiati sembrano rifarsi più esplicitamente al mondo del jazz, batteria e contrabbasso forniscono, come già sottolineato, un supporto che sottende una profonda conoscenza del rock. Il tutto si sposa tranquillamente, senza alcuna discrasia ad ulteriore dimostrazione che linguaggi diversi possono fondersi in un unicum di livello a patto che i musicisti siano all’altezza della situazione. E non c’è dubbio che questi giovani artisti, di cui sentiremo spesso parlare, all’altezza della situazione lo siano già.

The Sycamore – “Seamless”
Album d’esordio per il collettivo Sycamore, band nata nel 2015, dall’unione di sei musicisti di origine umbra, ovvero Andrea Angeloni al trombone, Leonardo Radicchi al sassofono, Alessio Capobianco e Ruggero Fornari alla chitarra, Pietro Paris al contrabbasso e Lorenzo Brilli alla batteria. Il loro primo EP, registrato nel novembre 2016 e ottimamente accolto dalla critica internazionale, ha consentito loro di partecipare al Conad Jazz Contest 2017, esibirsi a Umbria Jazz e vincere il primo premio della Giuria Popolare. Questo “Seamless” si lascia ascoltare per almeno due buoni motivi: la linea melodica che caratterizza tutti i brani e la bravura dei musicisti considerati sia singolarmente sia nel collettivo. In effetti, pur essendo al loro esordio discografico, i sei musicisti evidenziano un buon interplay che li porta a interagire con fluidità. Di qui un colloquio costante, una ripartizione degli spazi equa ed equilibrata. Intendo dire che non c’è un solista che svetta sugli altri, ma è un gioco collettivo in cui si inseriscono di volta in volta gli assolo dei sei musicisti. I quali si fanno apprezzare anche come autori dal momento che tutti gli otto brani in programma sono scritti dagli stessi componenti il sestetto, comunque legati da un idem sentire che contribuisce non poco all’omogeneità dell’album. Tra le varie composizioni degna di menzione l’apertura, “La spinara”, ottimo esempio di quell’interplay cui prima si faceva riferimento e “Dark Lights” una suggestiva ballad tutta giocata sul dialogo tra chitarra acustica e clarinetto basso.

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Green Corner

Ecco un’altra etichetta che si è imposta sul mercato grazie ad una scelta precisa: riproporre alcuni capolavori del passato con un catalogo assai vasto in cui figurano artisti di assoluto livello: da John Coltrane a Duke Ellington, da Miles Davis a Bill Evans… e via di questo passo.

Duke Ellington & John Coltrane
Questo doppio album contiene le registrazioni effettuate da Ellington e Coltrane a Englewood Cliffs il 26 settembre del 1962 nella duplice versione stereo e mono. Si tratta delle uniche incisioni realizzate assieme da Duke Ellington e John Coltrane. Per l’occasione, i due “giganti del jazz” sono accompagnati dal bassista e dal batterista dei rispettivi gruppi (che si sono alternati sulle tracce), Aaron Bell e Sam Woodyard (dalla sezione ritmica di Duke), e Jimmy Garrison e Elvin Jones (dalla sezione ritmica di Trane). A ciò si aggiungono, come bonus, quattro brani correlati a Ellington, eseguiti da piccoli gruppi guidati da Coltrane in diverse sessioni, cinque altre versioni di Ellington dei brani dell’album e una versione in quartetto di John Coltrane di “Big Nick”, la sua unica composizione originale dell’album. Ciò premesso, non credo ci sia molto da aggiungere sulla qualità della musica. Si tratta, come nel costume della Green Corner, di grande musica al di là di qualsivoglia etichetta, una musica che pone in evidenza non solo la grandezza esecutiva di due straordinari giganti, ma anche la qualità compositiva di Ellington, uno dei più grandi musicisti che il secolo scorso abbia annoverato. Dal canto suo Coltrane stupisce per la maturità con cui si confronta con un artista già grande: non dimentichiamo che nel 1962 Ellington è già un grande della musica mentre Coltrane solo nel 1960 ha costituito il suo primo gruppo da leader dopo aver militato nei gruppi di Thelonious Monk e Miles Davis. Insomma Coltrane è ancora considerato una promessa… ma che ha già al suo arco una quantità infinita di frecce che nell’arco di pochi anni lo condurranno nell’Olimpo del jazz.

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Labirinti sonori

L’etichetta discografica Labirinti Sonori – Music for Heart and Mind – è stata creata nel 2006 da Stefano Maltese. L’intento è quello di gestire la propria musica con il maggior controllo possibile e allo stesso tempo dare spazio alle produzioni musicali di musicisti che si esprimono con linguaggi personali, lontani dai cliché che mortificano la creatività. A parte i dischi realizzati dallo stesso Maltese e dai musicisti a egli più vicini, il catalogo di Labirinti Sonori annovera anche John Tchicai, Keith Tippett, Steve Lacy.

Roberta Maci – “I’m On The Way”
La multistrumentista Roberta Maci (sax soprano, sax tenore, sax alto, flauti, percussioni, voce) nonostante la giovane età (classe 1992), ha già raggiunto notevoli risultati che si sostanziano in questo primo album da leader alla testa del NBS Quartet, con Stefano Maltese (sax, flauto e percussioni), Giovanni Arena (contrabbasso) e Antonio Moncada (batteria e percussioni)
cui si aggiunge il pianista inglese Alex Maguire conosciuto per le sue collaborazioni con alcuni musicisti attivi nell’ambito del free jazz quali Elton Dean, Sean Bergin et Michael Moore. In questo album d’esordio la Maci evidenzia anche le sue capacità compositive dal momento che sugli undici brani in programma ben sette sono suoi con accanto due composizioni di Stefano Maltese e una a testa per Alex Maguire e Roscoe Mitchell (la ben nota “Odwalla” a chiudere il CD). L’album è apprezzabile da diversi punti di vista. Innanzitutto come strumentista la Maci è artista matura, ben consapevole dei propri mezzi espressivi e perfettamente in grado di maneggiare l’enorme percorso musicale che ha condotto il jazz dalle origini fino alle più moderne espressioni dei nostri giorni, senza dimenticare le musiche della propria terra, la Sicilia. Anche dal punto di vista compositivo le valutazioni non possono che essere positive: le sue creature sono ben costruite, equilibrate, con un filo logico che risulta ben individuabile nella ricerca di un linea melodica a tratti suadente a tratti più sfuggente.

Stefano Maltese – “Redder Level”
Questo doppio album racchiude le registrazioni effettuate il 7 gennaio 2018 durante il “Labirinti Sonori Siracusa Jazz Festival”. Il multistrumentista siciliano è alla testa del suo “Sonic Mirror Quartet” completato da Roberta Maci di cui abbiamo parlato in precedenza, Fred Casadei al contrabbasso e il fido Antonio Moncada batteria e percussioni. In programma 12 pezzi tutti scaturiti dalla penna del leader. Conosciamo Stefano Maltese oramai da tanti anni e non abbiamo alcuna difficoltà ad affermare che si tratta di uno dei jazzisti più originali, genuini, consequenziali e coerenti che il mondo del jazz possa vantare. Da quanto è apparso sulle scene nazionali e internazionali è rimasto sempre fedele al suo modo di essere, alla sua musica che nulla a che fare né con il facile ascolto, né con le mode passeggere, né tanto meno con inutili sperimentazioni fini a sé stesse. Il suo linguaggio è rigoroso, frutto di studi intensi e di una concezione “corale” della musica per cui l’esecuzione è sì frutto di una straordinaria intesa e di uno sviluppo complessivo senza però trascurare le capacità dei singoli che vengono esaltate attraverso il giusto spazio dato ad ogni assolo; si ascolti ad esempio la Maci al sax soprano in “Endless Circless” e al sax alto in “Way To Nowhere” dedicato a John Tchicai con il quale Maltese ha avuto modo di collaborare (registrando tra l’altro in duo nel 2010 l’album “Men From Windy Land”) mentre la sezione ritmica si fa particolarmente apprezzare in “We Everywhere”. Dal canto suo Maltese è l’anima pulsante del gruppo, il leader che impronta di sé ogni brano sia con la sicura conduzione sia con assoli sempre particolarmente centrati.

Pino Jodice Jazz Trio dal vivo all’Elegance

Il progetto Pjtrio – Pino Jodice Jazz Trio|Infinite Space rappresenta l’ultimo lavoro discografico di questo trio che ha all’attivo una collaborazione ventennale e un’attività concertistica di lungo corso. È stata per molti anni ritmica di una delle orchestre jazz nazionali più importanti come la PMJO Parco della Musica Jazz Orchestra (Orchestra residente dell’Auditorium Parco della Musica di Roma dal 2005 al 2009) e vanta collaborazioni con artisti internazionali di chiara fama come: Mike Stern, Enrico Rava, Paolo Fresu e tantissimi altri. Il lavoro discografico si sviluppa attraverso le composizioni originali del leader Pino Jodice, pianista, compositore, arrangiatore e direttore d’orchestra jazz, musicista pluripremiato a livello internazionale e riconosciuto già nel 2002 come miglior nuovo talento jazz al Premio Palazzo Valentini Jazz (Rm) e al Premio Positano Jazz (Na). Ha inoltre scritto e arrangiato per musicisti internazionali di grande fama come Gary Burton, John Scofield, Bradford Marsalis e tantissimi altri. Luca Pirozzi e Pietro Iodice vantano collaborazioni con i più grandi musicisti internazionali ed insieme rappresentano una solida e imponente sezione ritmica tra le più richieste in Italia e all’estero. Il trio è unito dal grande affiatamento che si evince sia nelle registrazioni sia nei live attraverso un continuo e magico interplay. Per la serata il featuring Andrea Centrella Live electronics.
Sul palco Pino Jodice (piano), Luca Pirozzi (contrabbasso) e Pietro Iodice (batteria).

Venerdì 23 novembre
ore 21 e ore 23.30 (doppio set)
Elegance Cafè Jazz Club
Via Francesco Carletti, 5 – Roma
Euro 15 (concerto e prima consumazione)
Infoline +390657284458

I NOSTRI CD. Tanta buona musica da ascoltare in vacanza

Aca Seca Trio – “Trino” – Sud 019

Sotto l’insegna di “Aca Trio” ecco tre straordinari musicisti argentini: Juan Quintero (chitarra, voce), Andrés Beeuwsaert (piano, tastiere, voce) e Mariano Cantero (batteria, percussioni, voce). I tre suonano assieme da quando nel 1998 si incontrarono all’Università de La Plata. Dal 2000 iniziano ad esibirsi in varie località dell’Argentina e del Brasile, ma anche in Cile, Cina, Ecuador, Spagna, Stati Uniti, Francia, Giappone, Italia, Uruguay e Venezuela, dividendo la scena con importanti artisti quali, a mo’ di esempio, Pedro Aznar, Ivan Lins e Javier Malosetti. I loro successi di carattere internazionale si devono, soprattutto, ad alcune caratteristiche ben precise: innanzitutto la valenza di tutti e tre i musicisti, in secondo luogo la felicissima scelta del repertorio. In effetti oggi quando si parla di musica argentina si pensa immediatamente al tango, senza considerare che viceversa nel grande Paese sudamericano ci sono ben altre musiche. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che si rivolge il Trio Aca Seca; ma non basta ché la loro musica spazia anche al di fuori dell’Argentina passando attraverso il Brasile e l’Uruguay, ovvero il jazz, la bossa nova, il folklore più autentico Il risultato è un repertorio molto vasto e di grande fascino che è stato sufficientemente declinato nei precedenti album e che trova, in quest’ultimo “Trino”, probabilmente la sua migliore espressione. Dieci brani che confermano appieno l’originale cifra stilistica del trio che evidenzia una perfetta empatia ovvero la capacità di ogni singolo musicista di ascoltare chi gli sta accanto e soprattutto di saper sviluppare qualsivoglia impulso ritmico, melodico, armonico che gli venga fornito. Una musica alle volte dal sapore antico declinata però con modernità grazie, soprattutto, all’incredibile sostegno ritmico di Mariano Cantero, probabilmente la punta di diamante della formazione. Tra i brani, tutti gradevoli, la nostra personalissima preferenza va a “Formas” dell’uruguaiano Hugo Fattoruso, riletto in modo assai personale.

Julian Cannonball Adderley – “Them Dirty Blues” – Jazz Images 24738

Siamo tra gli anni ’50 e ’60 e Julian Cannonball Adderley attraversa uno dei periodi più felici della sua vita artistica: ha appena inciso “Milestones” e lo storico “Kind of Blue” nel super gruppo di Miles Davis regalando alla storia del jazz il memorabile assolo di “So What”; contemporaneamente incrementa la sua attività di band leader costituendo gruppi di assoluta eccellenza. L’album in oggetto testimonia proprio questa attività di leader facendoci riascoltare l’alto sassofonista alla testa di due differenti gruppi: il primo con il fratello Nat alla cornetta, Barry Harris o Bobby Timmons al pianoforte, Sam Jones al contrabbasso e Louis Hayes alla batteria, il secondo con Wynton Kelly al piano, Paul Chambers o Percy Heath al basso, Jimmy Cobb o Albert Heath alla batteria. E già questa semplice elencazione di nomi credo la dica lunga su che tipo di musica si ascolta. Siamo nell’ambito di un jazz che più canonico non si può, impreziosito sia dalla bellezza dei temi sia dalla bravura di ogni singolo musicista, con il leader in testa capace di inanellare una serie di splendidi assolo, uno più convincente dell’altro, sempre sorretti da una estrema fluidità, da un suono allo stesso tempo leggero ed energico, di assoluta originalità che poneva Cannonball su un piano già diverso rispetto ai sassofonisti che avevano dato vita alla rivoluzione del bop. Quanto al repertorio ecco alcune perle oramai considerate classici del jazz: intendo riferirmi soprattutto a “Work Song” di Nat Adderley e “Dat Dere” di Bobby Timmons, pianista che nello stesso periodo stava ottenendo uno strepitoso successo con il brano “Moanin” inciso con i Jazz Messengers di Art Blakey. Ma è tutto l’album che si ascolta con estremo piacere; tra gli altri brani in programma una particolarissima menzione per “Serenata” il suggestivo brano scritto da Leroy Anderson che ebbe l’onore di essere eseguito in prima assoluta il 10 maggio del 1947 dalla Boston Pops Orchestra diretta da Arthur Fiedler.

Chico Buarque – “Caravanas” – Biscoito Fino 248

E siamo a quota quarantotto: tanti sono gli album inciso da Chico Buarque nell’arco di una lunga e prestigiosa carriera che lo ha visto spesso in prima linea anche dal punto di vista sociale e politico. All’età di 73 anni sfodera questo “Caravanas” che si impone immediatamente per la delicatezza con cui il cantautore brasiliano presenta la sua musica anche quando, come suo solito, affronta tematiche non proprio semplici. E’, ad esempio, il caso della title track in cui la “caravana” è costituita dai molti giovani neri che, a bordo di autobus ricolmi, si riversano nelle zone della classe media a Rio de Janeiro; splendida la musica, significativo il testo impreziosito da una frase – “Filha do medo a raiva é mãe da covardia”, “figlia della paura, la rabbia è la madre della codardia” che ci fornisce un’iea abbastanza precisa di quale sia il clima che si respira oggi in Brasile. Ma è tutto l’album intriso di riferimenti al sociale: così nella parte finale di “Dueto”, canzone già registrata nel 1980 da Chico Buarque con Nara Leão, e qui eseguita con la nipote Clara con un nuovo arrangiamento più vicino al jazz, viene inserito un esplicito riferimento alle varie app su cui si costruiscono i nuovi amori, da Tinder a Whatsapp fino a Telegram; ancora in “Jogo de bola” il gioco del calcio, da sempre passione di Chico, viene evocato come metafora per invitare il mondo ad una maggiore concordia mentre in “Blues pra Bia” viene trattato quasi in punta di piedi, con grande delicatezza, l’amore omosessuale. Ma, se tutto questo concerne i testi, ciò non significa che la musica passi in secondo piano. Buarque rimane un grandissimo musicista e la sua voce, in unicum con la chitarra, riesce ad essere sempre moderna, attuale, per non parlare della raffinatezza insita in taluni arrangiamenti come quello di
“A Moça do Sonho”, composto a quattro mani con Edu Lobo, in cui la scena è lasciata a una chitarra classica e a qualche contrappunto di violoncello sì da lasciare campo libero al canto ispirato di Buarque. Ciò detto resta comunque un appunto da muovere all’album: è troppo breve e lascia l’ascoltatore come insoddisfatto, desideroso di qualcos’altro che purtroppo non arriva…. Ma forse è meglio questa brevità che l’insulso sbrodolarsi di chi ha poco o nulla da dire.

Francesco Cafiso Nonet – “We Play For Tips” – EFLAT

Quello del rapporto tra musicisti e case discografiche è un problema che va assumendo toni sempre più preoccupanti: da un canto i jazzisti lamentano il fatto che incidere un disco viene a costare troppo, dall’altro le case discografiche rispondono che oramai i dischi non si vendono. Insomma un bel ginepraio che non escludiamo di approfondire prossimamente. Intanto, tornando all’attualità alcuni musicisti preferiscono creare una propria etichetta indipendente: è il caso del sassofonista siciliano Francesco Cafiso che ha creato una propria etichetta, la “E FLAT”. Questo “We play for tips” (distribuito da Egea Music) ne è la prima realizzazione e se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino allora è facile prevedere per la nuova arrivata un futuro più che roseo.
Cafiso si presenta alla testa della sua nuova formazione, un nonetto completato da Marco Ferri sax tenore, clarinetto; Sebastiano Ragusa sax baritono, clarinetto basso; Francesco Lento e Alessandro Presti tromba, flicorno; Humberto Amésquita trombone; Mauro Schiavone pianoforte; Pietro Ciancaglini contrabbasso; Adam Pache batteria. In programma dieci composizioni dello stesso Cafiso registrate live nel giugno del 2017 durante il Vittoria Jazz Festival di cui Cafiso è direttore artistico. Come afferma lo stesso sassofonista nelle note che accompagnano l’album, questo CD rappresenta un’estensione del precedente album “20 Cents Per Note” (2015) e racconta alcune delle esperienze vissute tra cui un viaggio di un mese a New Orleans. In effetti il titolo del disco fa riferimento alla scritta che i musicisti di strada di New Orleans portavano sul loro cappello per chiedere la mancia. Insomma la musica che si ascolta è fortemente ancorata al jazz nella sua accezione più completa del termine, quindi, swing, blues, arrangiamento, improvvisazione. Non a caso due brani – “Blo-Wyn’” e “Pops’ Character” – sono dedicati rispettivamente a Wynton Marsalis (artista legato a Cafiso da una profonda amicizia) e Louis Armstrong. Insomma una vera manna per chi ama un certo tipo di jazz lontano dagli sperimentalismi ma non per questo banale, tutt’altro! Si ascolti con quanta perizia tutti i musicisti eseguano i loro assolo e si apprezzi la qualità degli arrangiamenti curati da Cafiso e Schiavone che fanno suonare il nonetto come una vera e propria big band memori delle lezioni di alcuni grandi del passato.

Emanuele Cisi – “No Eyes” – Warner Music

Come recita il sottotitolo “Looking at Lester Young” l’album è un omaggio che il sassofonista italiano ha voluto tributare ad uno dei grandi geni del jazz, Lester Young.
Ad accompagnarlo in questa non facile impresa il pianista e trombettista Dino Rubino, il contrabbassista Rosario Bonaccorso, il batterista Greg Hutchinson e la vocalist Roberta Gambarini. Il repertorio si articola su undici brani di cui tre a firma di Cisi e otto tratti dal grande songbook statunitense. Impresa difficile, si diceva, sia perché Lester è stato artista fondamentale per l’evoluzione del jazz sia perché, assieme a Coleman Hawkins, può a ben ragione essere considerato l’inventore del sax tenore nel jazz; suonava, quindi, lo stesso strumento di Cisi per cui il raffronto è ravvicinato e inevitabile. Fermo restando che l’arte di Young risulta ancora oggi ineguagliabile (né credo che Cisi abbia per un solo attimo pensato di eguagliare il maestro) l’album risulta apprezzabile e per più di un motivo. Innanzitutto il sincero trasporto con cui Cisi ha voluto rendere omaggio a “Prez” evidenziato sia nelle modalità esecutive, sia nel far ricorso prevalentemente a brani o scritti e portati al successo dallo stesso Young o a lui dedicati, sia, infine, nella scelta dei testi tratti liberamente da un poema di David Meltzer. In effetti “No Eyes” ha un triplice significato: nel particolare linguaggio adoperato da Lester significava “non mi interessa”, è il titolo di un celebre blues inciso dal sassofonista nel 1946 ed infine, come accennato, è il titolo di un poema scritto da David Meltzer e ispirato all’ultimo anno di vita di Young che morì a soli 50 anni nel 1959. E crediamo non a caso Cisi abbia scelto di aprire l’album con questo brano da lui composto, particolarmente significativo per i motivi suddetti. Di qui il CD si sviluppa lungo le direttrici dettate dal leader che non si risparmia di certo prendendo significativi assolo in ogni brano sempre sorretto dal pianismo discreto ma essenziale di Rubino (che si esprime benissimo anche al flicorno in “Tickle Toe” e soprattutto in “Jumpin’ With Symphony Sid”) e da una sezione ritmica semplicemente magistrale con un Bonaccorso che sa far cantare il suo strumento come pochi e con un Hutchinson in grado di conferire ad ogni brano una precisa ed originale carica ritmica non disgiunta da una timbrica ricercata (lo si ascolti con quanta e quale dovizia dialoga con il sax di Cisi in “Jumpin’ at the Woodside”). Roberta Gambarini si conferma vocalist di squisita sensibilità ben adatta a tradurre in musica le intuizioni di Cisi il quale con questo album crediamo abbia raggiunto uno dei punti più significativi della sua poetica.

Elina Duni – “Partir” – ECM 2587

Conoscevamo Elina Duni per i due precedenti album incisi sempre per la ECM con il suo quartetto, “Matanë Malit” (Beyond the Mountain), un omaggio musicale al suo Paese natale l’Albania del 2012 e “Dallëndyshe” (The Swallow) del 2015. Per questo terzo album – registrato negli Studios La Buissone nel sud della Francia nel luglio 2017 – la vocalist ha cambiato decisamente strada e si presenta da sola accompagnandosi con il pianoforte, la chitarra e le percussioni. Qui il terreno prettamente jazzistico è abbandonato per approdare su sponde più intimistiche, alla riscoperta di un patrimonio musicale che affonda le sue radici nelle tradizioni di diversi Paesi. Ecco, quindi musica tradizionale dell’Albania, del Kosovo, dell’Armenia, della Macedonia, della Svizzera e dell’Andalusia cui si affiancano brani cantautorali quali “Je ne sais pas” di Jacques Brel, “Meu Amor” di Alain Oulman, “Amara Terra Mia” di Domenico Modugno e un originale della stessa Duni. Insomma un repertorio quanto mai variegato e difficile da eseguire mantenendone una certa omogeneità, tanto più che l’artista lo presenta in nove differenti lingue. Ebbene la Duni è riuscita nell’intento grazie ad alcune doti di fondo che in questa occasione è riuscita ad esprimere appieno: innanzitutto una grande sensibilità musicale che le consente di transitare da un brano all’altro, seppur differenti, con estrema naturalezza senza denotare sforzo alcuno; in secondo luogo un’eccellente preparazione tecnica sia vocale sia strumentale per cui l’interpretazione appare sempre ben calibrata, grazie anche agli arrangiamenti essenziali ma funzionali. Scegliere qualche brano da segnalare in modo particolare è piuttosto difficile, tuttavia vi invitiamo ad ascoltare con particolare attenzione il brano di Modugno in quanto sicuramente lo conoscete e potrete quindi meglio apprezzare la valenza interpretativa della Duni.

Duke Ellington – “Due Ellington meets Coleman Hawkins” – Poll Winners Records 27365

Siamo nei primissimi anni ’60, per l’esattezza nel 1962 e Duke Ellington macina musica straordinaria sia alla testa della sua celebre big band sia a capo di piccole formazioni com’è il caso di questo splendido album. Questa volta a coadiuvare il Duca c’è un quintetto di straordinari musicisti quali Aaron Bell contrabbasso, Harry Carney clarinetto basso e sax baritono, Johnny Hodges sax alto, Ray Nance violino e cornetta,
Sam Woodyard batteria. Tutti insieme incontrano un altro grande del jazz quale il tenorsassofonista Coleman Hawkins per dar vita ad uno splendido album che a ben ragione è stato adesso ristampato con l’aggiunta di cinque bonus tracks registrati da diverse band tra il 1955 e il 1962 in cui il sassofonista si misura con alcuni brani di Ellington inclusa “The Star Crossed Lovers” dalla suite Shakesperiana “Such Sweet Thunder” raramente sentita – come spiega Arnold Marcus nelle note di copertina – nell’interpretazione di Coleman Hawkins Inutile negarlo: ascoltando questi brani, a chi come il sottoscritto ha superato gli ‘anta’ (quali fate un po’ voi) un attacco di nostalgia è inevitabile. Ma è solo un momento ché subito dopo ci si riprende e si ascolta il tutto con la solita attenzione. E alla fine dell’album resta impressa la sensazione di aver ascoltato qualcosa di formidabile. Merito di Coleman Hawkins che ha saputo integrarsi magnificamente nelle atmosfere disegnate da Ellington, ma egualmente merito del Duca che ancora una volta riesce a far suonare i “suoi” musicisti al meglio delle loro possibilità: si ascolti il puntuale sostegno ritmico di Sam Woodyard, si ascolti il sofisticato dialogo tra gli altri due sassofoni partecipanti alla registrazione, Johnny Hodges e Harry Carney. Insomma se ancora non possedete questo album, è il caso che corriate a comprarlo.

Claudio Fasoli Samadhi Quintet – “Haiku Time” – abeat 178

Che Claudio Fasoli sia uomo di vasta cultura, al di là del fatto squisitamente musicale, lo dimostra anche la particolare sensibilità che pone nell’intitolare i suoi album. Così per quest’ultimo ha fatto ricorso al termine giapponese “Haiku” – componimento poetico nato in Giappone nel XVII secolo di particolare brevità – ad indicare lo specifico intendimento di presentare undici brani caratterizzati da estrema sobrietà non solo nella dimensione temporale ma anche nella durata degli assolo e negli stessi titoli. Di qui un comunicare emozioni che risulta diretto, senza orpelli, tutto affidato alla valenza della musica e alla bravura dei musicisti. Questi, grazie alla sapiente scrittura del leader, hanno la possibilità di esprimersi pienamente sia in assolo sia negli episodi d’assieme evidenziando un grado d’affiatamento davvero notevole. D’altro canto la formazione è ben rodata: Michael Gassmann tromba e flicorno, Michelangelo Decorato piano, Andrea Lamacchia contrabbasso e Marco Zanoli batteria li avevamo già incontrati nel precedente album di Fasoli “Inner Sounds” del 2016. La musica, quindi, può dipanarsi facilmente transitando dalle semplici enunciazioni dei brani allo sviluppo degli stessi affidato soprattutto ai due fiati con Decorato impegnato a cucire il tutto, portando ad unità i mille dettagli, le mille sfaccettature contenute nella musica di Fasoli. Ed è questa una sensazione che si coglie evidente sin dalle primissime note dell’album, quando il tema di “Fit” viene introdotto dalla tromba di Gassmann e poi sviluppato dal sax del leader. Ma come si accennava c’è spazio davvero per tutti: si ascolti, ad esempio, con quanta musicalità Andrea Lamacchia fa vibrare il suo strumento nell’assolo di “Bag” mentre la batteria di Zanoli si pone in particolare evidenza nell’introdurre il tema di “Dim”. Dal canto suo Fasoli non si risparmia facendosi apprezzare in ogni singolo brano sia come autore sia come interprete. Ma non scopriamo certo l’acqua calda affermando che Claudio oramai da tempo è da considerare uno dei migliori sassofonisti che il jazz internazionale possa vantare.

Maurizio Giammarco Syncotribe – “So To Speak” – 2plet Records

“Syncotribe” è la formazione varata dal sassofonista Maurizio Giammarco con Luca Mannutza all’organo e Enrico Morello alla batteria e live elctronics. La formula del trio sax, organo, batteria non è certo nuova nell’ambito del jazz internazionale e nazionale: così ricordiamo il trio del sassofonista James Carter con Alex White batteria e Gerard Gibbs organo, mentre, per restare nell’ambito dei nostri confini vanno citate le esperienze di Nevio Zaninotto (sax tenore, soprano) con Renato Chicco (organo Hammond) e Andy Watson (batteria) e dell’altro sassofonista Max Ionata con Luca Mannutza all’organo e Adam Pache alla batteria. Ma Giammarco è musicista troppo intelligente, personale ed inventivo per ripercorrere strade già battute. Ecco quindi una scrittura (i brani sono tutti suoi ad eccezione di “Decoy” di R. Irwing III) che declina il trio nell’ambito di un jazz moderno molto, molto lontano dalle classiche sonorità dell’organ trio solitamente vicine al funky e/o al soul. Ecco quindi il sassofono di Giammarco librarsi con la solita levità e sicurezza a disegnare ampie volute sempre caratterizzate da un sound robusto, asciutto, personale mentre i compagni d’avventura
si rendono essi stessi protagonisti del progetto. Si ascolti con quanta maestria la batteria di Morello dialoga con il sax di Giammarco nel già citato “Decoy” mentre Mannutza dimostra di conoscere appieno le potenzialità dello strumento sia che accompagni sia che si produca in assolo: lo si ascolti, ad esempio, in “Nueva vista”… ma si può ben dire che il suo apporto si avverte distintamente in ogni singolo brano. Un’ultima notazione non secondaria: i tre musicisti che si ascoltano nell’album appartengono a tre diverse generazioni eppure riescono a dialogare con la massima libertà ed empatia a dimostrazione di come davvero il jazz sia un linguaggio universale, che non conosce barriera alcuna.

Simone Graziano – “SnailSpace” – Auand 9073

Periodo decisamente positivo per il pianista fiorentino Simone Graziano che nell’aprile del 2017 ha inciso questo album e il 2 maggio del 2018 è stato eletto presidente del MIDJ, l’Associazione dei Musicisti Italiani di Jazz. Ma veniamo a ciò che maggiormente ci interessa in questa sede, vale a dire l’album. Per questa sua quinta fatica discografica, Simone Graziano (pianoforte, synth e fender rhodes) si ripresenta in trio con Francesco Ponticelli al contrabbasso e sintetizzatore e Tommy Crane alla batteria. E’ lo stesso leader ad illustrare, nelle poche note di presentazione, il significato del titolo “A passo di lumaca”: non una lentezza in quanto tale ma una concezione secondo cui la lentezza non si riferisce tanto ad uno spazio temporale quanto al tempo necessario per capire dove si vuole andare, per scoprire la propria creatività, per coltivarla e condurla a risultati importanti. Ed in questo senso l’album appare perfettamente coerente: il trio si muove lungo coordinate non nuovissime ma di certo non banali. Intendo riferirmi all’uso intelligente e misurato dell’elettronica, alla ricerca di una timbrica particolare, alla raffinatezza della linea melodica, all’attenzione per i dettagli, alle modalità sempre misurate con cui si esprime la sezione ritmica. Tutte queste caratteristiche si evidenziano lungo tutto l’album (nove brani di cui ben otto a firma del leader) ma trovano forse la loro più completa estrinsecazione in “Aleph 3”: il brano si apre in territorio d’ispirazione hip-hop dopo di che entra in gioco l’elettronica per trasportare il pezzo in territori più arditi grazie anche alla batteria di Tommy Crane; dopo qualche minuto le atmosfere si fanno più rarefatte, quasi un jazz da camera, con in evidenza piano e synth che ci conducono verso un epilogo non scontato.

Pino Jodice – “Infinite Space” – Cose Sonore 18024

Pino Jodice è artista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi, di assoluto livello sia che si esprima come pianista, come compositore, come arrangiatore, come direttore d’orchestra o come docente di Composizione jazz presso il Conservatorio G. Verdi di Milano. In questo ‘concept’ album lo ritroviamo nella classica formazione del trio coadiuvato da Luca Pirozzi al contrabbasso e Pietro Iodice alla batteria, con l’aggiunta di Andrea Centrella al live electronics. Una formazione, quindi, di eccellenza su cui non c’è bisogno di ulteriori parole. Di parole ne merita, invece, e tante la musica dell’album, nove brani tutti dovuti alla penna del leader. Il titolo del CD richiama, esplicitamente, una certa visione dell’artista che rivolge il suo sguardo verso l’alto come a volersi distaccare dalle miserie, dalle angosce che affliggono l’esistenza umana. Insomma la musica come una sorta di redenzione ma nello stesso tempo di ricerca: non a caso lo stesso Jodice dedica l’album a Stephen Hawking e Margherita Hack il cui approccio e passione per la ricerca e le relative capacità di divulgazione rappresentano per Jodice un modello da seguire nella ricerca musicale, nella composizione e nella divulgazione di questa materia. Ecco, quindi, che Pino ci prende per mano e partendo dal decollo dell’Apollo 1 ci invita a seguirlo in questo fantastico viaggio. Ora, quando un album parte da un enunciato così esplicito, la musica non sempre riesce ad essere coerente con le parole. Bisogna, in questo caso, dare atto a Jodice di aver saputo declinare la sua ansia di “osservare lo straordinario spettacolo del cosmo” (per usare le sue parole) con una musica che effettivamente richiama questi concetti. Una musica, quindi, di ampio respiro che scorre fluida in tutti e nove i brani, tutti composti dal leader, in cui Jodice evidenzia da un lato la sua sapienza compositiva, mai banale e sempre originale, dall’altro le grandi, grandissime capacità esecutive che a mio avviso lo collocano tra i più grandi pianisti jazz non solo italiani. Il tutto impreziosito dal lavoro di Pirozzi e Pietro Iodice a costituire una delle più affiatate formazioni che il jazz italiano possa vantare, e la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che questi tre musicisti suonano assieme oramai da più di vent’anni. Tutt’altro che marginale, infine, il ruolo di Andrea Centrella.

Reis Demuth Wiltgen – “Once In A Blue Moon” – Cam Jazz7926-2

E’ un trio jazz senza se e senza ma quello che ascoltiamo in questa nuova produzione targata Cam Jazz: Michel Reis al pianoforte, Marc Demuth al contrabbasso e Paul Wiltgen alla batteria si misurano su un terreno usato (e fors’anche abusato) qual è quello del trio pianoforte più sezione ritmica. Di qui da un lato l’impossibilità di attendersi qualcosa di trascendentale dati gli illustri precedenti, dall’altro, però, la possibilità di ben valutare l’artista proprio perché i termini di paragone sono innumerevoli. Ebbene, partendo da questa duplice considerazione, occorre sottolineare come questo trio lussemburghese se la cavi più che bene grazie soprattutto alla bravura di ogni singolo musicista. Reis è pianista ben preparato, che si muove con agilità lungo tutta la tastiera evidenziando una spiccata propensione per la linea melodica senza però disdegnare momenti di più forte incisività come in “Push”. Demuth è batterista musicale e raffinato (si ascolti il suo gioco di spazzole in “22 May 15”) che riesce a dialogare sempre con estrema pertinenza con i colleghi di viaggio mentre Wiltgen è bassista poco appariscente ma solido nel sottolineare i momenti fondamentali del disegno armonico. Il tutto condito da una profonda empatia che lega i tre musicisti e che si respira lungo tutto l’arco del CD declinato su 13 brani di cui 12 originali cui si affianca “Both Sides Now” di Joni Mitchell. E proprio il rifacimento di questo brano rappresenta uno dei momenti clou dell’album: introdotto da un centrato assolo del bassista, cui si affianca dopo quaranta secondi la batteria, il brano viene sviluppato da un intenso dialogo tra contrabbasso e pianoforte, quest’ultimo impegnato in un assolo di rara poesia, tutto giocato su note singole a voler evidenziare la bellezza del tema. Altra esecuzione particolarmente riuscita è quella di “Dante” caratterizzata da un originale andamento ritmico,

Antonio Sanchez – “Bad Hombre” – CamJazz 7919-2

“Channels of Energy” – CamJazz 79922-2

Non si può certo dire che il batterista Antonio Sanchez si risparmi: eccolo infatti protagonista di un singolo -“Bad Hombre”- e di un doppio CD -“Channels of Energy”- ambedue pubblicati da CamJazz. I due album sono molto diversi dal momento che mentre nel primo Sanchez è il vero e proprio ‘deus ex machina’ essendo l’unico protagonista (scrive la musica, l’arrangia, la esegue con batteria, tastiere, electronics e voce), nel secondo è inserito in un contesto assai più vasto rappresentato dalla WDR Big Band arrangiata e condotta da Vince Mendoza. Ma procediamo con ordine; dopo la felice esperienza di autore ed esecutore della colonna sonora di “Birdman” film che tutti ricorderanno per la sua particolarità e per la straordinaria interpretazione di Michael Keaton, Sanchez si cimenta con questo “Bad Hombre”, che, come confessato dallo stesso artista, rappresenta “un progetto sperimentale nel senso che si distacca completamente da tutto ciò che ho fatto in precedenza come batterista, compositore, produttore”. Ma non è il solo obiettivo dal momento che Sanchez si prefigge altresì da un canto di rispondere in qualche modo al senso di frustrazione che cresce in lui a causa dell’attuale situazione politica degli States, dall’altro di rappresentare in musica le sue origini messicane. Di qui un pastiche di batteria, strumenti elettronici, fondali creati a posteriori, suoni alterati che volutamente non frequentano i territori della superficiale godibilità addentrandosi piuttosto in quelli ostili, del non facile ascolto che richiedono una particolare attenzione per essere valutati sotto una giusta luce. Completamente diverso il secondo doppio album: smessi i panni del contestatore, Sanchez torna a suonare la batteria come sa fare, al servizio di un disegno complessivo condotto da Vince Mendoza a capo della WDR Big Band. In repertorio otto brani tutti scritti dallo stesso Sanchez. Il risultato è superlativo. Sotto la sapiente regia di Mendoza l’orchestra si muove con compattezza eseguendo alla perfezione i non semplici arrangiamenti. Di qui un sound, che pur mantenendo una propria specificità, richiama comunque alcune grandi orchestre del passato come, ad esempio, quelle di Duke Ellington e di Gil Evans. Il tutto impreziosito da alcuni elementi della band che si pongono in particolare evidenza come, tanto per fare qualche nome, il pianista Omer Klein (lo si ascolti in “Grids and Patterns”), Johan Hörlen (sax) e Shannon Barnett (trombone) particolarmente brillanti nel brano conclusivo che dà il titolo all’album. Superlativa la prova di Sanchez che dimostra di trovarsi perfettamente a suo agio in qualsivoglia contesto. Nel caso specifico il suo drumming è allo stesso tempo possente ma non invadente sì da sposarsi magnificamente sia con i pieni orchestrali sia con quei momenti in cui il sound si fa più delicato, prezioso.

Bobo Stenson – “Contra la indecisiòn” – ECM 2582

Il pianista Bobo Stenson (classe 1944) è una delle personalità più importanti del jazz scandinavo, uno dei pochissimi in grado di non far rimpiangere quel Esbjorn Svensson di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica. In “Contra la indecision” Stenson si ripresenta con il suo abituale trio completato da Anders Jormin al basso e Jon Fält alla batteria. Il repertorio è piuttosto vario ed esplica appieno le molteplici sfaccettature del leader. Così dello Stenson compositore abbiamo qui due soli esempi, “Alice”, e “Kalimba Impressions” composto da tutti e tre i membri del combo; la maggior parte dei brani sono a firma di Anders Jormin, la title track è opera del cantautore cubano Silvio Rodríguez mentre gli altri tre pezzi – rispettivamente di Béla Bartok, Erik Satie e Frederic Mompou – illustrano l’abilità di Stenson nell’affrontare anche la musica classica. Ferma restando la statura artistica del leader, ogni brano fa quasi storia a sé dal momento che il bilanciamento tra scrittura e improvvisazione dà la stura, di volta in volta, ad interventi solistici di squisita fattura che mai mettono in pericolo l’equilibrio globale del trio. Così, tanto per fare qualche esempio, in “Doubt Thou The Stars” ascoltiamo una splendida improvvisazione di Jormin che adopera anche l’archetto ben sorretto dalla batteria prima dell’entrata in scena del pianoforte che illustra il tema in tutta la sua bellezza; in “Kalimba Impressions” è Jon Fält a salire alla ribalta suonando la marimba in un fitto dialogo con i compagni d’avventura; in “Alice” i tre disegnano un percorso quasi a zig-zag, sghembo, straniante ma di indubbio misterioso fascino; in “Elégie” , come accennato, riscopriamo il coté classico di Stenson che affronta la partitura di Satie con pertinenza, eleganza ed originalità; “Stilla” è un blues, sempre di Jormin, che evidenzia come tutti e tre questi musicisti conoscano bene la storia della musica afro-americana; in “Oktoberhavet” ancora una splendida intro della batteria dopo di che il tema è sviluppato da Jormin all’archetto con il pianoforte di Stenson che si limita a punteggiare prima di prendere in mano le fila del discorso.

John Surman – “Invisible Threads” – ECM 2588

“Invisibili fili” è il titolo, tradotto in italiano, di questa nuova fatica discografica di John Surman ai sax soprano e baritono e al clarinetto basso. Ed in effetti di fili invisibili è fatta la musica di questo album, una ragnatela di straordinaria eleganza che Surman tesse ben coadiuvato dai due compagni d’avventura, il pianista di San Paolo, Nelson Ayres, jazzista ma anche frequentatore di terreni vicini al pop brasiliano e Rob Waring, docente “classico” al conservatorio di Oslo, al vibrafono e alla marimba. Quindi una formazione del tutto inconsueta mancando, contemporaneamente, di contrabbasso e batteria. Ma i tre suppliscono egregiamente con un affiatamento ed un’empatia che si evidenzia in ogni momento: così quando è Surman a disegnare la linea melodica gli altri due fungono da contrappunto e da sostegno ritmico; ma la stessa cosa accade quando il pallino passa nelle sapienti mani di Ayres: Surman lo contrappunta a meraviglia e Waring si assume il difficile compito di organizzare da solo una sezione ritmica. Questo idem sentire si manifesta altresì nelle reciproche influenze che i tre non nascondono: così se è vero che nella poetica di Surman è sempre presente quel riferimento alle vecchie melodie inglesi e più in generale alla musica del Nord Europa, in questo album non mancano specifici richiami alla musica brasiliana come si può apprezzare in “Summer Song” unico brano non scritto da Surman ma per l’appunto da Nelson Ayres, in “Pitanga Pitomba” introdotto da un centrato assolo di Rob Waring e sviluppato da un fitto dialogo tra Surman e Ayres mentre “Autumn Nocturne” e “The Admiral” si fanno apprezzare per la delicatezza della linea melodica; da segnalare in quest’ultimo brano l’introduzione affidata ad un dialogo tra clarinetto basso e marimba, forse uno dei momenti più belli dell’intero album.

Esbjörn Svensson Trio – “E.S.T. live in London” – ACT 9042-2

Sono trascorsi dieci anni dal quel 14 giugno 2008 quando il pianista svedese Esbjörn Svensson scomparve improvvisamente a causa di un incidente subacqueo, proprio quando la sua fama aveva oramai raggiunto appassionati e critici di tutto il mondo. La formazione proposta in questa realizzazione discografica è quella storica che prese le mosse nel 1990 quando il pianista fondò il suo primo gruppo con l’amico di infanzia Magnus Öström alle percussioni; nel 1993 si aggiunse il bassista Dan Berglund a costituire quell’Esbjörn Svensson Trio (o E.S.T. Trio) che nell’arco di pochi anni ottenne un successo planetario. Non a caso sono stati la prima band europea ad apparire nel 2006 sulla copertina di Downbeat e sempre non a caso il doppio cd “Live in Hamburg”, registrato nella città tedesca nel novembre del 2006, è stato definito “L’album jazz del decennio 2000-2010” dal Times. Il perché di tanto successo si capisce facilmente ascoltando questo doppio album registrato live al Barbican Centre di Londra il 20 maggio del 2005. La performance, articolata su dieci brani piuttosto lunghi, testimonia in modo inequivocabile la trascinante forza del gruppo che in quell’anno era in tournée per promuovere l’album “Viaticum” (e ben cinque pezzi eseguiti a Londra facevano parte di quest’album). La musica è superlativa, ricca di forza, energia, caratterizzata da una profonda carica innovativa che coniugava un linguaggio prettamente jazzistico con atmosfere tipiche del rock. Anche da qui la grande influenza che il gruppo ha esercitato specialmente sulle nuove generazioni nel corso dei suoi diciassette anni di esistenza. Un vuoto di cui si avverte ancora la gravità e che non sarà banale colmare.

Gianluigi Trovesi – “Mediterraneamente” – Dodicilune

Titolo quanto mai esplicativo questo “Mediterraneamente” con cui il “nordico” Trovesi ha voluto chiamare questa sua ultima creatura. Conosciamo Gianluigi da molti anni e contrariamente a tanti che hanno sempre visto in lui lo spericolato sperimentatore multistrumentista, capace di mandare in visibilio le platee di tutto il mondo, abbiamo sempre riscontrato nel suo stile, nella sua poetica un coté lirico che in questo album viene prepotentemente alla ribalta. Ben coadiuvato dal suo ‘Quintetto Orobico’ composto da Paolo Manzolini (chitarre), Marco Esposito (basso), Vittorio Marinoni (batteria) e Fulvio Maras (percussioni), Trovesi presenta un repertorio di dodici brani in cui a composizioni originali (“Gargantella”, “Cadenze Orfiche”, “Rina e Virgilio”, “Materiali”, “Siparietto”), si alternano pezzi della tradizione (“Carpinese”), brani del pop italiano (“Le Mille bolle blu”) e della canzone napoletana (“Tu ca nun chiagne”, “Tammurriata Nera”), nonché standard internazionali (“Yesterdays”, “In your Own Sweet Way”) e un pezzo (“La Suave Melodia”) del compositore barocco Andrea Falconieri (1585-1656). Il tutto trattato con grande delicatezza, dolcezza, ad evidenziare sempre la linea melodica della composizione ed è lo stesso Trovesi a sottolineare questo aspetto quando afferma che “per me molti di questi brani sono come delle serenate”. Serenate eseguite con trasporto, senza alcun timore di evidenziare quel coté lirico cui si faceva riferimento in apertura. Ma, ovviamente, non è il solo Trovesi a seguire questa linea: si ascolti, ad esempio, con quanta modernità espressiva la chitarra di Manzolini dialoga con i fiati del leader che in questo album predilige, comunque il sax contralto. Per non parlare della sezione ritmica che asseconda alla perfezione le idee del leader quando affronta, in modo originale, sia grandi classici del jazz sia brani pop ben noti come “Le mille bolle blu”.

Gaetano Valli – “Thirty Years” – artesuono 139

Quello di Chet Baker è davvero un caso unico nel pur variegato panorama del jazz internazionale. Nonostante per buona parte della sua vita artistica Chet sia stato afflitto da numerosi problemi che lo hanno portato, tra l’altro, a doversi reinventare un modo di suonare la tromba, non conosciamo un solo jazzista che non adori Baker, non abbiamo incontrato un solo musicista che non ci abbia parlato in termini entusiastici del trombettista di Yale; di qui una serie di tributi, di omaggi a lui rivolti con sincera partecipazione. In questo clima si inserisce l’album in oggetto che vuole essere un ricordo di Chet a trent’anni dalla sua scomparsa avvenuta il 13 maggio del 1988. Il progetto è del chitarrista Gaetano Valli che ha chiamato accanto a sé il trombettista Fulvio Sigurtà e il contrabbassista Riccardo Fioravanti. Quindi un trio senza batteria, senza cioè quello strumento con cui Baker incontrava spesso problemi di sintonia. Valli è da sempre un profondo estimatore di Baker tanto da dedicargli già nel 1998 un lavoro intitolato “Tre per Chet”, pubblicato dalla Splasc(h) records, con Mario Brioschi alla tromba e ancora Riccardo Fioravanti al contrabbasso. Adesso Valli ritorna sull’argomento con un repertorio che tende in qualche modo a legare il Chet delle origini con il Chet degli ultimi tempi quando il tasso tecnico era inferiore ma quello poetico superiore. Così accanto a “Bea’s Flat” scritto da Russ Freeman all’inizio degli anni’50 e all’inedito dello stesso Valli “Thirty Years” caratterizzati da notevoli difficoltà esecutive, ascoltiamo altri brani in cui la tecnica è ridimensionata a tutto vantaggio dell’espressività quali, tanto per citare qualche titolo, “My Funny Valentine”, “I remember You, “Beatiful Black Eyes”. Ciò detto, occorre sottolineare come l’album sia eccellente: assolutamente pertinenti i brani scritti da Valle per l’occasione che si conferma altresì chitarrista dal tocco morbido, dal linguaggio personale e soprattutto dal gusto delicato; perfetto il modo in cui Sigurtà interpreta questi brani nel segno di Chet; notevole come sempre l’apporto di Fioravanti che si è caricato il peso dell’intera sezione ritmica non disdegnando di uscire in assolo di assoluta compiutezza.

Antonio Zambrini – “Pinocchio e altri racconti” – abeat 183

Se l’intelligenza di un leader si valuta anche sulla base di come sceglie i compagni di viaggio, allora non c’è dubbio sulle qualità non solo artistiche di Antonio Zambrini. Il pianista, per questa sua nuova fatica discografica, ha richiamato accanto a sé due giganti dei rispettivi strumenti, vale a dire i danesi Jesper Bodilsen al basso e Martin Andersen alla batteria con cui collabora già da qualche tempo. A ciò si aggiunge la felice scelta del repertorio: un omaggio a Fiorenzo Carpi il quale è stato uno dei più grandi rappresentanti della scuola melodica italiana unitamente a Ennio Morricone, Piero Piccioni, Nino Rota… tanto per citare qualche nome. Il disco è intitolato a Pinocchio ed in effetti vi si possono ascoltare tre brani tratti dallo sceneggiato televisivo del 1972 diretto da Luigi Comencini, cui si aggiungono altri cinque brani sempre di Carpi e un originale di Zambrini, “Giovedì”, che, come spiega lo stesso leader, appartiene alla sua lunga collaborazione con “Cineteca Italiana di Milano”. Tracciate le linee programmatiche entro cui si inscrive l’album, occorre sottolineare come le interpretazioni del trio siano del tutto coerenti con l’assunto. La musica scorre fluida evidenziando, di volta in volta, le varie caratteristiche che si ritrovano nella produzione di Rota, vale a dire il suono mediterraneo chiaramente riscontrabile, ad esempio, in molti brani di Pinocchio, le influenze di un certo rock inglese… fino a toccare la musica brasiliana in “Notte italiana” in cui lo stesso Zambrini dichiara di aver adottato lo stile “Choro”. Insomma un album in cui la pagina scritta si equilibra assai bene con l’improvvisazione cui si abbandona Zambrini che conferma il suo stile sobrio, elegante con una costante attenzione alla timbrica e alla dinamica, in ciò perfettamente coadiuvato da una sezione ritmica che dimostra di aver ben assorbito la lezione di altre storiche formazioni come lo E.S.T. trio di Esbjörn Svensson di cui ci siamo in precedenza occupati.

Enrico Zanisi – “Blend Pages” – Cam Jazz7928-2

E’ una musica particolare quella che Enrico Zanisi ci propone in questo album, una musica dal sapore «cameristico» che assume comunque connotazioni differenziate. Così, ad esempio, in apertura il pianismo di Zanisi appare crepuscolare, quasi impressionistico in alcuni passaggi, per poi virare, decisamente, sempre nel corso dello stesso primo brano, verso territori più vicini alla musica colta contemporanea. E questa sorta di duplicità si avverte lungo tutto l’album senza che lo stesso perda in omogeneità. D’altro canto la stessa strutturazione dell’organico è del tutto coerente a quanto sin qui esposto: pianoforte, clarinetto (nella collaudate mani di Gabriele Mirabassi), percussioni e live electronics (affidate al ‘poeta’ Michele Rabbia) cui si aggiunge un classico quartetto d’archi francese, “Quatuor IXI”, formato da Régis Huby (violino), Clément Janinet, (violino), Guillaume Roy (viola) e Atsushi Sakaï (violoncello) costituiscono un ensemble ben attrezzato per navigare in acque difficili come quelle che lambiscono la musica moderna. Ora, se la cosa non stupisce con riguardo sia a Mirabassi sia a Rabbia, rappresenta viceversa una piacevole novità per il pianista che, giunto al suo quinto album, dimostra con queste incisioni di aver raggiunto una sua specificità, una ben precisa consapevolezza delle proprie possibilità…insomma di potersi considerare non più una promessa quanto una delle più belle realtà del panorama jazzistico nazionale. In effetti nei nove brani, tutti di sua composizione, Zanisi da un canto conserva sempre una certa struttura di sapore classicheggiante, dall’altro lascia ampi spazi per le improvvisazioni dei compagni d’avventura, spazi come potrete ben immaginare magistralmente occupati sia dallo stesso Zanisi con il suo incedere elegante sia da Mirabassi, superlativo come sempre.