DA MARTEDÌ 5 SETTEMBRE A DOMENICA 10 SETTEMBRE, LA DECIMA EDIZIONE DI FRANCAVILLA È JAZZ

Quest’anno Francavilla è Jazz (Francavilla Fontana, provincia di Brindisi) festeggia il decennale. Un traguardo importantissimo quello raggiunto dal festival, grazie al suo deus ex machina Alfredo Iaia, direttore artistico della rassegna, al costante ed encomiabile impegno culturale ed economico dell’Amministrazione Comunale di Francavilla Fontana, che investe sempre più risorse per questo fiore all’occhiello dell’estate francavillese, e al prezioso contributo degli sponsor privati che crescono numericamente di anno in anno per sostenere la kermesse. Anche la decima edizione di Francavilla è Jazz sarà all’insegna di protagonisti assoluti del circuito jazzistico nazionale e mondiale.

Piazza Giovanni XXIII, Largo San Marco e Corso Umberto I saranno le location dei sei concerti, tutti a ingresso gratuito come da tradizione, in calendario per il decennale.

Martedì 5 settembre alle 21:00 (orario d’inizio di tutti i concerti) sarà Richard Galliano New York Tango Trio, in Piazza Giovanni XXIII, ad aprire i battenti del festival. Galliano, uno fra i più grandi fisarmonicisti jazz degli ultimi cinquant’anni, calcherà il palco insieme ai formidabili Adrien Moignard (chitarra) e Diego Imbert (contrabbasso). Il trio alla testa del musicista francese presenterà Cully 2022, suo nuovo disco in cui sono presenti composizioni originali e tributi ad Astor Piazzolla. Un connubio, dunque, fra jazz e tango, ad alta intensità emozionale.

Si proseguirà il 6, a Largo San Marco, con Lisa Manosperti – “Omaggio a Mia Martini”, un caloroso tributo in chiave jazz della raffinata cantante pugliese a una fra le interpreti italiane più amate di sempre. Con lei, i talentuosi Aldo Di Caterino (flauto) e Andrea Gargiulo (pianoforte).

Il 7, in Corso Umberto I, D.U.O. Francesca Tandoi (voce e pianoforte) & Eleonora Strino (voce e chitarra), due giovani e brillanti musiciste che renderanno omaggio alla tradizione jazzistica, segnatamente al bebop, fra standard e proprie composizioni originali.

Venerdì 8, in Piazza Giovanni XXIII, sarà la volta di Enrico Pieranunzi Trio. Questa formazione diretta da uno fra i più conosciuti e acclamati pianisti jazz presenti sulla scena mondiale, completata da due eccezionali partner del calibro di Thomas Fonnesbaek (contrabbasso) e Roberto Gatto (batteria), proporrà un repertorio di sue composizioni originali unitamente ad alcuni standard della tradizione jazzistica, per un live garanzia di eccelsa qualità.

Sabato, ancora in Piazza Giovanni XXIII, Chico Freeman & Antonio Faraò Quartet: il primo, una leggenda vivente del sassofono jazz, il secondo una punta di diamante del piano jazz particolarmente osannato all’estero. A completare la sezione ritmica, due eccellenti compagni di viaggio come Makar Novikov (contrabbasso) e Pasquale Fiore (batteria). Pietre miliari (ri)arrangiate dell’immenso John Coltrane e brani originali autografati da Freeman e Faraò coinvolgeranno il pubblico in un concerto sinonimo di travolgente energia comunicativa e pura adrenalina.

Domenica 10 settembre, sempre in Piazza Giovanni XXIII, i riflettori si spegneranno con Gegè Telesforo – “Big Mama Legacy”, nuovo progetto di uno fra i più famosi cantanti jazz italiani degli ultimi quarant’anni. Accompagnato da un quintetto di giovani talenti della scena jazzistica italiana formato da Matteo Cutello (tromba), Giovanni Cutello (sax alto), Christian Mascetta (chitarra), Vittorio Solimene (organo Hammond e tastiere) e Michele Santoleri (batteria), il noto artista di origine foggiana presenterà un repertorio incentrato su un personale tributo al blues e al sound delle formazioni jazz della fine degli anni Cinquanta.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: IL JAZZ DI CASA NOSTRA

I Nostri Cd by Gerlando Gatto

Giulia Barba – “Sonoro” – BNC
Non amiamo vantare primogeniture ma siamo stati tra i primi in assoluto a presentare al pubblico italiano questa brava clarinettista dopo il suo ritorno dall’Olanda. In questo suo secondo album possiamo ascoltare 6 sue composizioni, tra cui due brani con testo di W.B. Yeats (“The Everlasting Voices” e “To an isle in the water”), e 8 pezzi di improvvisazione totalmente libera. Il testo di “Bassorilievo” e “Game Over” è stato scritto dalla stessa compositrice. Accanto alla Barba troviamo Marta Raviglia, voce, Daniele D’Alessandro, clarinetto e Andrea Rellini, violoncello. Probabilmente sono sufficienti queste poche indicazioni per capire il contesto in cui si muove Giulia: un terreno irto di difficoltà in cui la maggiore preoccupazione della leader è quella di raggiungere una raffinata qualità sonora grazie ad una accurata ricerca timbrica supportata da un’altrettanto accurata ricerca dei collaboratori. Di qui la scelta della vocalist Marta Raviglia il cui apporto risulta molto importante essendo la sua voce adoperata alle volte in modo consueto altre volte in funzione meramente strumentale e di Daniele D’Alessandro, ottimo nel ruolo di seconda voce. Parimenti determinante il ruolo di Andrea Rellini al violoncello che nella difficile opera di cucire il tutto riesce a non far sentire la mancanza di uno strumento percussivo. Comunque il merito principale della buona riuscita dell’album è senza dubbio alcuno di Giulia Barba di cui attendiamo altre prove ancora più significative.

Francesco Branciamore – “Skies of Sea” – Caligola
Musicista a 360 gradi, Francesco Branciamore si è costruita una solida reputazione come batterista avendo avuto l’opportunità di lavorare con alcuni grandi del jazz come Enrico Rava, Michel Godard, Lee Konitz, Evan Parker, Barre Philips, Ray Mantilla, Keith Tippet, Wim Mertens… e l’elenco potrebbe continuare a lungo. Ma Francesco mai si è adagiato sugli allori: così ha dedicato questi ultimi anni ad approfondire da un lato la tecnica pianista, dall’altro le sue capacità compositive e di arrangiatore. Non a caso nel 2018 uscì “Aspiciens Pulchritudinem” suo primo album in piano solo ottenendo unanimi consensi, preceduto nel 2013 da “Remembering B. E. – A Tribute to Bill Evans” in cui Branciamore non suona alcuno strumento ma omaggia Bill Evans dirigendo un sestetto cameristico in cui l’improvvisazione non ha diritto di cittadinanza mentre la pianista Marina Gallo esegue le trascrizioni integrali degli assoli di Evans fatta da Branciamore, autore anche di tutti gli arrangiamenti. In questo “Skies of Sea” Francesco presenta una sorte di suite in quattordici bozzetti di breve durata, tutti di sua composizione, a disegnare atmosfere le più variegate, dall’ipnotica title track al trascinante “The Remaining Time” passando attraverso brani tutti gradevoli tra cui degno di particolare attenzione ci è parso il riuscito omaggio a Chick Corea, “A Prayer for Chick”.

Maniscalco, Bigoni, Solborg – “Canto” – ILK Music
Album di spessore questo proposto dal trio italo-danese composto da Emanuele Maniscalco pianoforte, piano elettrico e tastiere, Francesco Bigoni sax tenore e clarinetto e Mark Solborg chitarra elettrica. La cosa non stupisce più di tanto ove si tenga conto che il combo ha già all’attivo altri due album e che la collaborazione fra i tre risale al 2015. Quali le caratteristiche della formazione? Innanzitutto una scrittura che consente di coniugare perfettamente parti scritte e improvvisazione; in secondo luogo una costante attenzione alle dinamiche e quindi al suono; in terzo luogo la capacità di frequentare con assoluta disinvoltura un territorio di confine tra il jazz e le musiche “altre” che rende quanto mai difficile una precisa classificazione della performance…ammesso che ciò sia necessario, cosa di cui personalmente dubitiamo e non poco. Il tutto sorretto da altri due elementi assolutamente necessari: la bravura tecnica ed espressiva di tutti e tre i musicisti e una profonda empatia che consente loro di suonare in assoluta scioltezza sicuri che il compagno di strada saprà cogliere ogni minimo riferimento. Di qui una musica rarefatta, di chiara impronta cameristica che sicuramente soddisferà gli ascoltatori dal palato più raffinato.

Mauro Mussoni – “Follow The Flow” –WOW
Mauro Mussoni (contrabbasso, composizione e arrangiamenti), Simone La Maida (sax/flauto), Massimo Morganti (trombone), Massimo Morganti (trombone), Andrea Grillini (batteria), Davide Di Iorio (flauto solo nella traccia Levante) sono i responsabili di questo album registrato a Riccione nel 2020. Si tratta del secondo CD a firma di Mauro Mussoni (dopo “Lunea”) il quale si ripresenta anche come compositore dal momento che i nove bani in programma sono sue composizioni. Il titolo è significativo delle intenzioni di Mussoni il quale vuole “seguire il flusso”, un flusso che – secondo le espresse volontà del contrabbassista – è quello dell’ispirazione. Di qui una musica che trova nella gioia dell’esecuzione la sua principale ragion d’essere declinata attraverso una significativa empatia di volta in volta tra i fiati e fra i componenti del trio piano-contrabbasso-batteria senza trascurare, ovviamente, l’intesa che intercorre tra tutti i componenti del gruppo, intesa cementata da precedenti collaborazioni. E’ infatti lo stesso leader a dichiarare come la musica sia arrivata in maniera spontanea seguendo l’ispirazione del momento piuttosto che idee preesistenti. Tra i vari brani particolarmente interessanti la title track impreziosita da sontuosi assolo di Simone La Maida e Massimiliano Rocchetta, il dolcemente ballabile “Freeda” e “Latina” con un convincente assolo del leader.

Ivano Nardi – “Excursions” –
Ivano Nardi è sicuramente uno dei musicisti più rappresentativi della scena jazzistica romana. Artista tra i più coerenti, profondamente ancorato alla sua terra, profondamente attaccato al valore dell’amicizia –in primo luogo quella con Massimo Urbani – mai si è discostato dal solco di un free senza se e senza ma, un free in cui dare sfogo alla propria immaginazione, al proprio modo di vedere e sentire la musica. Ovviamente, per scelte di questo tipo, risulta fondamentare circondarsi di compagni d’avventura con cui si abbia un idem sentire. E il ‘batterista’ Nardi è stato, anche in questo senso, del tutto coerente avendo condiviso le sue esperienze con artisti del calibro del già citato Urbani, Don Cherry, Lester Bowie… Adesso ritorna a farsi sentire con un altro album dedicato a Massimo Urbani, “Excursions”, in cui a coadiuvarlo sono Giancarlo Schiaffini al trombone, Marco Colonna ai fiati, Igor Legari alla batteria, un quartetto molto affiatato che si muove con estrema disinvoltura all’interno dell’unico brano in programma, lungo 32:50. Ovviamente cercare di descrivere questa performance è impresa quanto mai ardua e forse inutile; basti sottolineare come le atmosfere sono mutevoli proponendo degli improvvisi slarghi (come al minuto 12,30 circa) quasi a voler in certo senso smorzare l’andamento tumultuoso e incalzante del quartetto, o avventurandosi in atmosfere indiane e arabeggianti (come al minuto 24 all’incirca).

NewStrikers – “The Songs Album” – Alfa Music Vinile 180 gr. Tiratura limitata

Questo album esce ad ampliamento dell’album “Musiche Insane”, ottimo esempio di come anche il free riesca a trovare nel nostro Paese interpreti degni di rilievo. Il gruppo guidato dal multistrumentista Antonio Apuzzo (compositore e arrangiatore anche di quasi tutti i brani) e completato da Marta Colombo (vocale, percussioni), Valerio Apuzzo (tromba, cornetta, flicorno), Luca Bloise (marimba, percussioni), Sandro Lalla (contrabbasso) e Michele Villetti (batteria, duduk), ripresenta un repertorio in buona parte già conosciuto in cui la musica si staglia come unica e vera protagonista, una musica ben lontana da stilemi formali e da un qualsivoglia mainstream consolatorio. Quindi un jazz graffiante, originale, fluido in cui si stagliano alcune individualità come quelle di Antonio Apuzzo e della vocalist Marta Colombo. Tra i brani non presenti nel precedente “Musiche Insane”, What Reason Could I Give” e “All My Life “ di Ornette Coleman interpretate con bella sicurezza mentre il conclusivo “Four Women” è un sentito omaggio a Nina Simone che scrisse questo brano in segno di protesta contro l’ennesimo atto di sopraffazione consumato dai bianchi nei confronti della popolazione di colore. Un consiglio non richiesto: se avete tempo andate a cercare i testi della canzone e leggeteli con attenzione.

Helga Plankensteiner – “Barionda” – JW
Baritonista di spessore, la Plankensteiner si è oramai imposta all’attenzione generale non solo come strumentista ma anche come vocalist, compositrice, arrangiatrice e leader di gruppi non proprio banali. E’ questo il caso di “Barionda” un ensemble formato da quattro baritonisti (la leader, Rossano Emili, Massimiliano Milesi e Giorgio Beberi) più un batterista che nella maggiorparte dei casi è Mauro Beggio sostituito in tre brani da Zeno De Rossi. In repertorio una serie di brani che ricordano i grandi baritonisti del jazz; ecco quindi “Hora Decubitus” di Mingus (legato alla memoria di Pepper Adams), “Sophisticated Lady” (di Ellington, nelle esecuzioni della cui orchestra spiccava Harry Carney) o “Bernie’s Tune”, cavallo di battaglia di Mulligan. Il gruppo si muove con padronanza all’interno di arrangiamenti tutt’altro che semplici in cui i quattro sassofonisti evidenziano le loro abilità ben sostenuti dai due batteristi che a turno sorreggono il tutto con un timing preciso seppur fantasioso, sicché non si avverte la carenza del contrabasso. E’ interessante sottolineare come, nonostante i quattro strumenti di base siano gli stessi, si riesce egualmente ad ottenere significative variazioni di sound a seconda di chi esegue l’assolo e di chi tali assolo accompagna. Ferma restando la valenza di tutti i musicisti coinvolti, è innegabile che il peso maggiore dell’impresa grava sulle spalle della leader che nelle brevi parole che accompagnano l’album dichiara esplicitamente il proprio amore verso il suo strumento, il sax baritono..

Ferruccio Spinetti – “Arie” – Via Veneto, Indo Jazz
Ferruccio Spinetti è contrabbassista che si è guadagnato una solida reputazione lavorando per lungo tempo con Musica Nuda, Avion Travel e  InventaRio. Adesso si presenta con il primo progetto a suo nome che lo vede alla testa di un gruppo all stars comprendente la cantante Elena Romano, il pianista Giovanni Ceccarelli, il batterista Jeff Ballard e, come unica guest, la sempre straordinaria pianista       Rita Marcotulli in due brani. L’album è in buona sostanza una sorta di omaggio al jazz italiano in quanto il repertorio è composto in massima parte da brani scritti da alcuni dei migliori jazzisti italiani tra cui Enrico Rava , Bruno  Tommaso , Rita   Marcotulli, Paolo   Fresu , Enrico   Pieranunzi       , Luca   Flores , Paolino   Dalla Porta …, con l’aggiunta di brani originali di Spinetti e Ceccarelli. E di questi autori sono stati scelti brani in cui è di tutta evidenza la ricerca della linea melodica, rinvigorita sia dalle centrate interpretazioni di Elena Romano sia dai testi, scritti appositamente dalla Romano, da Peppe Servillo e dallo stesso Spinetti, sia dagli arrangiamenti che hanno messo in evidenza le caratteristiche di tutti i musicisti tra cui una menzione particolare la merita senza dubbio alcuno Jeff Ballard, sicuramente uno dei batteristi migliori oggi in esercizio. Ovviamente un merito particolare va a Ferruccio Spinetti che ha saputo guidare il gruppo con mano sicura e piena consapevolezza.

Ivan Vicari – “Afrojazz project – Il ritorno”
Entusiasmante, trascinante, coinvolgente: queste le parole che ci sorgono spontanee dopo aver ascoltato un paio di volte questo album. Conosciamo e apprezziamo Ivan Vicari oramai da molti anni; tra i pochissimi specialisti dell’organo Hammond nel nostro Paese, è uno dei pochi artisti in Italia capaci di raccogliere e divulgare l’eredità di Jimmy Smith, vera e propria leggenda dell’Hammond. Nel suo stile si ritrovano echi provenienti dai più grandi esponenti dell’organo jazz, dal già citato Jimmy Smith, a Larry Young, da Rhoda Scott fino Joey De Francesco purtroppo recentemente scomparso. E quanto sopra detto si ritrova in questa sua recente fatica discografica. Ivan guida, con mano sicura e con tecnica superlativa, un quartetto completato da Fabrizio Aiello alle percussioni, Mauro Salvatore alla batteria, Alberto D’Alfonso sax e flauto, Luca Tozzi chitarra. Il titolo recita “Afrojazz project – Il ritorno” e fotografa bene la musica che Vicari ci propone. Una musica che si ispira all’afro ma non solo dal momento che Vicari dimostra ancora una volta di conoscere assai bene sia il jazz nell’accezione più completa del termine, sia il blues. Da sottolineare ancora che Vicari si mette in gioco anche come compositore dal momento che nel CD figurano alcuni suoi original. Un tocco di umanità che mai guasta: per esplicita dichiarazione dello stesso Vicari l’album è dedicato a due “amici musicisti” scomparsi, Karl Potter e Nunzio Barraco.

Gerlando Gatto

 

Torna il grande Jazz sotto i cieli di Roma

Dopo un periodo di relativa stasi per motivi facilmente individuabili, Roma è tornata ad essere attrattiva per gli passionati di jazz. Così da un canto l’Auditorium (con pochi ma eccellenti appuntamenti) dall’altro la Casa del Jazz con la sua consueta rassegna estiva, stanno fornendo ai cultori del jazz parecchi appuntamenti degni di rilievo, su alcuni dei quali mi soffermerò qui di seguito.

Il 10 luglio, alla Cavea dell’Auditorium, appuntamento con Gregory Porter. Sono oramai parecchi anni che conosco ad apprezzo questo vocalist e ancora una volta la sua performance ha corrisposto in pieno alle mie aspettative. La sua musicalità, il feeling che riesce a trasmettere agli ascoltatori, il suo senso del ritmo, il modo in cui riesce ad interpretare qualsiasi testo sono davvero straordinari. E non è certo un caso che la sua carriera artistica sia costellata da grandi successi e riconoscimenti tra cui due Grammy Awards per Miglior Album Vocale.

Per celebrare un decennio di successi, Gregory Porter ha pubblicato “Still Rising”, un doppio album contenente 34 tracce tra brani inediti, covers, duetti e una selezione speciale delle sue canzoni più amate. Ed è proprio sul repertorio di quest’ultimo doppio album che si è incentrata la performance romana. Ben coadiuvato da Hip Crawford al piano, Tivon Pennicott al sax tenore, Emanuel Harrold alla batteria, Jahmal Nichols al basso elettrico e Ondrej Pivec all’organo (gli stessi che l’hanno accompagnato nella già citata ultima fatica discografica) Porter ha dato ancora una volta un saggio di bravura proponendo una musica in cui era facile scorgere echi di soul, di gospel, di blues, financo di pop, mescolati in un unicum tanto originale quanto suggestivo. Ed è stato a tratti entusiasmante sentirlo duettare con alcuni dei suoi compagni di viaggio in un concerto tutto sommato breve ma di grande intensità.
Ascoltando Porter viene naturale un parallelo con i nostri giovani rampanti: beh, penso che ai vari San Giovanni, Albe, LDA, Ultimo e via discorrendo non farebbe male ascoltare qualche disco di chi sa cantare veramente bene. Ma questo è un tema che mi sollecita oramai da tempo e su cui prima o poi vorrò intervenire.

Il 13, sempre alla Cavea, appuntamento con una vera e propria leggenda del jazz: Herbie Hancock. Spesso si adopera la parola “leggenda” in modo esagerato ma nel caso in questione non v’è dubbio alcuno che il termine sia più che appropriato. Non è questa la sede adatta per sintetizzare un curriculum assolutamente straordinario; basti solo dire che l’artista di Chicago, oggi ottantunenne, ha attraversato, sempre da protagonista, generi e mode come performer, compositore, arrangiatore, produttore, scopritore di talenti, inventore di nuove tendenze, senza mai perdere una coerenza di fondo. A Roma si è presentato alla testa di una band eccezionale completata da Terence Blanchard alla tromba, Lionel Loueke (chitarra), James Genus (basso) e Justin Tyson (batteria). Ascoltare un concerto di Hancock è come rivivere, in sintesi, buona parte della storia del jazz dal momento che questo artista ha sviluppato un’estetica giocata sempre su una sorta di doppio binario: da un canto virtuoso pianista del jazz acustico, dall’altro estimatore se non fondatore del funky elettronico. E questi due aspetti della sua personalità sono apparsi evidenti anche nel concerto romano; così in una prima parte abbiamo ascoltato alcuni classici del jazz come il sempre verde “Footprints” di Wayne Shorter, un altro giovanotto di 89 anni, omaggiato da Hancock che si alternava al piano e alle tastiere non disdegnando un ricorso mai esagerato al vocoder (ma che comunque se non ci fosse stato nulla avrebbe tolto alla validità del concerto). Nella seconda parte Hancock si richiamava al suo coté più funky e chiudeva il concerto con “Chameleon” brano tratto dal celebre album “Head Hunters” del 1973, scatenando l’entusiasmo del pubblico che si è accalcato a ballare sotto il palco.

E veniamo adesso ai concerti alla Casa del Jazz.

Il 12 luglio una vecchia e cara conoscenza del pubblico romano: John Scofield. Il chitarrista può a ben ragione essere considerato una delle massime espressioni della chitarra jazz degli ultimi decenni. Musicista eclettico, voglioso sempre di sperimentare strade nuove, questa volta si è presentato con un progetto del tutto nuovo, “Yankee Go Home”, con cui torna alle radici del rock americano, riscoprendo classici fra il folk e il rock’n’roll. Accanto a lui Jon Cowherd (pianoforte e tastiere), Vicente Archer (contrabbasso)e Josh Dion (batteria). E’ lo stesso Scofield a illustrare il senso di questo nuovo progetto, non senza elogiare i suoi compagni di viaggio: “L’idea –afferma Scofield – è di coprire successi americani/rock e canzoni folk jazz, più alcuni dei miei brani originali scritti in quel modo. Mi sto riconnettendo con molte delle mie radici Rock ‘n Roll da adolescente, naturalmente colorate dai miei 50 anni di pratica Jazz…. Questi ragazzi sono straordinariamente versatili, altrettanto bravi quando si tratta di suonare in modo interattivo e creativo. Stiamo esplorando rock, funk, country, jazz e musica libera e ci divertiamo moltissimo. Sono entusiasta di questa collaborazione”. Risultato raggiunto? Assolutamente sì; il repertorio, comprendente brani tra gli altri di Bob Dylan, Neil Young, Grateful Dead, B.B. King, Buddy Holly, viene declinato attraverso quella maestria strumentale che ben conosciamo oramai da tanti anni. Scofield è sempre lì a tessere le fila del discorso, con un solismo preciso, elegante, raffinato mai soverchiante cosicché tutti i suoi compagni di viaggio hanno la possibilità di mettersi in luce. I vari pezzi vengono riletti alla luce di quelle esperienze cui lo stesso Scofield faceva riferimento ridando loro una sorta di nuova linfa e il pubblico dimostra di apprezzare con lunghi appalusi a scena aperta. Immancabile il bis: un coinvolgente blues che evidenzia come Scofield rimanga solidamente ancorato anche alle radici della musica afro-americana.

Il 21 uno dei concerti inseriti nell’ambito della rassegna, tutta dedicata alle nuove tendenze e, dunque, alle più interessanti proposte di jazz contemporaneo. Un mondo affascinante, in cui si incontrano jazz, soul, funk, hip-hop, elettronica e spoken word.
In particolare giovedì 21 di scena il batterista Makaya McCraven produttore e batterista emergente, definito da Down Beat come uno dei più influenti musicisti del prossimo decennio.
In effetti Makaya McCraven, figlio di Stephen McCraven, batterista di Archie Shepp tra gli altri, è tutto questo e molto di più: americano di Parigi classe ‘83, iniziato alla musica jazz dal padre, cresciuto tra gli altri con la formazione derivante dal già citato Shepp, inizia a collaborare con artisti del calibro di Kris Delmhorst e gli Apollo Sunshine, prima di stabilire un suo complesso con il bassista Junius Paul, il chitarrista Matt Gold e il trombettista già attivo autonomamente Marquis Hill, formazione con cui si è presentato alla Casa del Jazz, per un concerto che ha soddisfatto appieno le più rosee aspettative.

La band inizia a suonare senza presentare alcunché; McCraven è uomo di poche parole, e non si concede quasi mai pause, tranne una ogni tre pezzi circa per presentare e ringraziare la sua band e per annunciare – qualche volta – il nome del prossimo pezzo. Per il resto è stata una serata di pura musica ed energia: non solo di McCraven, il cui vigore era pari alla sua abilità – mai sentito un batterista che suonasse per circa un’ora e mezza, senza mai smettere di percuotere pelli e piatti con tanta ininterrotta energia – ma anche di tutti gli altri musicisti, che durante il concerto si cimentavano con diversi tipi di percussioni. Altra nota di merito va alla varietà di brani suonati: si passa da pezzi ormai diventati standard del jazz, come “Autumn in New York”, Frank’s Tune” di Frank Strzier o “A Slice of the Top” a pezzi originali di McCraven, come “In These Times”, “The Bounce!” e un inedito tratto dal suo prossimo album in uscita a settembre.
Riguardo alla performance dell’”archeologo del beat”, (come si definisce lo stesso batterista), essa nel suo complesso si basava su due punti di forza: la leadership di McCraven, che con grande forza e precisione trascinava sia i suoi musicisti sia il pubblico durante le esibizioni, nonché l’approccio inedito da DJ dello stesso McCraven specie nelle sue composizioni: infatti in gran parte dei brani veniva ripetuto un leitmotif al basso, che diventava il vero centro motore della situazione, attorno a cui venivano aggiunte gradualmente la batteria, la chitarra, la tromba e varie percussioni; in seguito si passava ad una graduale elaborazione dei motiv aggiunti alla linea di basso che, rimanendo sempre costante, forniva all’ascoltatore un filo rosso che legava le varie elaborazioni e improvvisazioni e un senso di familiarità all’interno della composizione. Quest’operazione coniuga a mio parere il processo creativo di numerose canzoni house, dance ed EDM con l’improvvisazione tipica del jazz: inoltre l’enfasi posta sulle percussioni nel concerto è caratteristica anche dei beat dei brani hip hop, dove il ritmo della base è cruciale per orientare il rapper durante il brano in questione.

 

Il 23 la Casa de Jazz proponeva un quesito intrigante: può la sofisticata poetica di un Pieranunzi coniugarsi con l’incredibile carica energetica di Antonello Salis? In altri termini possono coesistere due musicisti stilisticamente quasi all’opposto, uniti solo dalla grande passione e dedizione alla musica? Ciò perché il concerto in programma prevedeva per l’appunto un duo di piano composto da questi due artisti che mai avevano avuto modo di incontrarsi sul palco. Grande attesa, quindi, e non a caso grande affluenza di pubblico…ripagato da un concerto sicuramente interessante. Seduti l’uno di fronte all’altro i due hanno suonato per circa un’ora e mezza sciorinando un’intesa che non era facile prevedere. Spesso si partiva da un tema che veniva sviluppato, esaminato, sviscerato fin nelle sue più intime pieghe e quindi riproposto in una veste totalmente diversa che traeva nelle capacità improvvisative dei due nuova linfa vitale. E questa volta non si può dire che l’uno si sia piegato alle esigenze dell’altro in quanto ambedue hanno sviluppato appieno le proprie tematiche che finivano con l’incontrarsi su un terreno ben frequentato sia da Enrico sia da Antonello: l’improvvisazione pura o forse meglio la capacità di creare musica strada facendo. In effetti, oltre che partire da un dato tema, i due si sono spesso avventurati anche sul foglio bianco, vale a dire cominciando a suonare senza conoscere il punto di approdo, con una maestria che solo pochi posseggono.
Ed è stato lo stesso Pieranunzi a svelare come la musica eseguita sia stata tutta improvvisata. Tra i brani eseguiti, da ricordare una sempre suggestiva “Moon River” di Henry Mancini, una “Well, you needn’t” di Thelonious Monk che nulla ha perso dell’originario fascino, una memorabile versione di “Naima” di John Coltrane, nonché un sentito omaggio ad Ennio Morricone con “Il clan dei siciliani”.
E a conferma della splendida atmosfera che si respirava sul palco, Pieranunzi è apparso particolarmente in forma anche quando ha intrattenuto il pubblico con sagaci commenti sulla “strumentazione” di Antonello (tra cui una latta di tonno Callipo) e con un sentito ricordo della sua esperienza a fianco di Morricone.

Ed eccoci alla serata di lunedì 25. Mi reco alla Casa del Jazz al solito orario e noto immediatamente una sorta di novità: una fila interminabile di auto parcheggiate sul marciapiedi a indicare una straordinaria affluenza di pubblico. Cosa che verifico subito: i giardini della Casa del Jazz sono letteralmente invasi da una massa di giovani festanti in attesa dell’evento: il concerto di “Sons of Kemet”.
La band inglese è giunta a Roma preceduta da una formidabile campagna di stampa che la indicava come una delle massime espressioni del cosiddetto nu jazz; a richiamare il pubblico anche la considerazione che si trattava dell’ultima tournée del gruppo che nei prossimi mesi dovrebbe sciogliersi. Insomma tutto pronto per un grande successo di pubblico… che puntualmente è arrivato.

Guidati dal funambolico sassofonista Shabaka Hutchings, il quartetto (completato dal basso tuba di Theon Cross e ben due batterie nelle mani di Eddie Hick e della giovanissima e bravissima Jas Keyser in sostituzione di Tom Skinner in tour con Thom Yorke) ha sciorinato una musica di grande intensità, basata sul fitto tappeto ritmico intessuto dalle due batterie su cui svolgevano i loro interventi i due fiati. In particolare il sax del leader, spesso effettato con delay o reverberi, non disegnava lunghe linee melodiche ma intonava frasi ritmiche e frammenti melodici ripetuti più volte mentre il basso tuba contribuiva in maniera determinante a completare il tessuto ritmico delle due batterie. Il tutto ‘condito’ da un volume molto, molto elevato a creare una musica che raggiungesse l’obiettivo di portare al massimo l’eccitazione dell’uditorio e di coinvolgerlo in una sorta di rito collettivo in cui i richiami all’Africa erano ben evidenti. Si tenga presente che il concerto si è sviluppato su una linea di continuità ininterrotta tranne due momenti in cui Shabaka Hutchings ha imbracciato un flauto di legno per intonare una splendida melodia di origine africana e il tubista si è espresso in solitudine. Obiettivo raggiunto? Quanto al coinvolgimento direi proprio di sì… anche se non al cento per cento. Nel senso che, ad esempio, il vostro cronista non si è sentito coinvolto dalla musica dei Sons of Kemet. Ed il perché non è difficile da spiegare: avendo avuto la fortuna di ascoltare anche dal vivo alcuni dei più grandi musicisti  – per intenderci quelli che hanno scritto davvero la storia del jazz – non è facile lasciarsi impressionare da qualcuno che pur suonando bene non raggiunge quei vertici cui prima si faceva riferimento. Quanto ai messaggi che questa musica così aggressiva intende veicolare, ci viene in soccorso lo stesso Shabaka Hutchings affermando che “Black to the Future (ultimo album del gruppo) è un poema sonoro di invocazione del potere, del ricordo e della guarigione. Raffigura un movimento, quello della ridefinizione e riaffermazione di cosa significa lottare per il black power”. Ma anche sotto questo aspetto non riusciamo a vedere una grande novità dal momento che il jazz come musica di protesta non è certo cosa di oggi.
Quindi ben vengano gruppi del genere ma se mi si dice che questa è la nuova strada che il jazz si avvia a percorrere devo confessare che il jazz dei prossimi anni non mi avrà tra i suoi massimi sostenitori. Ovviamente la cosa poco importerà ai più ma a mio avviso il ruolo di un cronista-critico non è quello di affermare sempre che tutto va bene, ma anche di esprimere qualche perplessità, sempre motivandole, è ovvio.

Smaltita la sbornia dell’“Afrofuturism” (così viene definita la musica di Sons of Kemet da chi se ne intende), ecco il 27 sempre alla Casa del Jazz, la giovane e brava sassofonista Nubya Garcia, reduce dallo straordinario successo ottenuto dal suo primo album “Source” su etichetta Concord. Bel concerto questo con una musica sì proiettata verso il futuro ma sempre memore di ciò che il jazz ha rappresentato fino ad oggi. Anche la Garcia viene fuori dalla tumultuosa scena londinese di questi ultimi anni affermandosi passo dopo passo come una delle strumentiste più preparate e fantasiose del pur vasto panorama. In effetti Nubya frequenta il sax da tanti anni riuscendo così a raggiungere una tecnica tutt’altro che banale, una tecnica comunque sempre messa al servizio dell’espressività e di una concezione musicale fortemente inclusiva dal momento che nelle sue performances sono ben riscontrabili echi di jazz spirituale, dub, reggae, ritmi latini e suoni africani. Così il concerto si è sviluppato lungo modalità contrassegnate da notevoli assolo non solo della leader ma anche del pianista-tastierista Alastair MacSween mentre la sezione ritmica (Daniel Casimir contrabbasso e Sam Jones batteria) forniva un supporto sempre preciso, puntuale, propositivo. E a proposito di ritmo, da sottolineare la sensualità dei ritmi colombiani rinverdita dalla Nubya nella riproposizione di uno dei brani più riusciti dell’intera serata, “La Cumbia Me Está Llamando”, scritta con il trio colombiano al femminile “La Perla”.

Gerlando & Beny Gatto