Ibrahim Maalouf incanta il pubblico nell’anteprima di Roma Jazz Festival

La 47° edizione del Roma Jazz Festival non poteva avere un’anteprima più riuscita: il concerto di giovedì 12 ottobre, sul palco della Sala Sinopoli dell’Auditorium Parco della Musica Ennio Morricone di Roma, è stato un successo clamoroso corroborato dalla standing ovation finale e da lunghi e convinti applausi da parte del numeroso pubblico. Ad esibirsi uno degli strumentisti più popolari della scena francese, il libanese nativo di Beirut ma naturalizzato francese Ibrahim Maalouf alla tromba e al pianoforte, accompagnato da François Delporte alla chitarra, mentre il giovane sassofonista rumeno Mihai Pirvan è stato presentato come una sorta d’ospite d’onore solo verso la fine della performance.

In occasione del concerto in Auditorium, Maalouf ha presentato alcune delle composizioni più celebri della sua carriera, a partire da quelle presenti nel suo ultimo album “40 Melodies”, un disco ricco di ospiti illustri come Sting, Marcus Miller, Matthieu Chedid, Alfredo Rodriguez, Richard Bona, Trilok Gurtu, Hüsnü Senlendrici, Jon Batiste, Arturo Sandoval e molti altri.

Ma nel caso del concerto romano non è stato tanto il repertorio che ha eseguito Maalouf, quanto il come lo ha eseguito. Sulla scia di altri straordinari performer tipo Jacob Collier nel campo del pop e Bobby McFerrin in quello del jazz, Ibrahim ha coinvolto il pubblico fin dalle primissime note del concerto. Entrato in scena con il fido chitarrista ha sollecitato il pubblico a battere le mani ed è stato immediatamente accompagnato dagli spettatori che, guarda caso, riuscivano a seguire il tempo. Poi ha spiegato il filo conduttore della sua esibizione: sciorinare in pubblico il filo rosso che lo ha accompagnato da bambino nell’amore per la musica. Di qui le prime lezioni di pianoforte, divenuto ben presto il suo primo strumento. Eccolo quindi seduto al pianoforte intonare i primi temi; così, in rapida successione, abbiamo ascoltato, tra gli altri, una cover del brano “Ama Fi Intizarak” eseguito originariamente dalla cantante egiziana Uum Kulthum, il suo più grande successo in termini di riproduzioni su Spotify (circa 22 milioni) “True Sorry”, “Lily Will Soon Be a Woman” dedicata alla crescita della sua primogenita, l’inno alla libertà “Red and Black Light”, “Happy Face”, tributo al grande Louis Armstrong…

Ma, indipendentemente dal brano, Ibrahim fa cantare il pubblico intero: lui stesso intona una melodia e poi la fa ripetere al pubblico, lo dirige con le mani per indicare la coda del motif, fa fare esercizi di vocal coaching per cercare di ottenere un effetto vocale simile a quello di Armstrong durante “Happy Face”, nel corso di “Red and Black Light” fa cantare al pubblico la melodia principale mentre lui e Delporte improvvisano alla chitarra e alla tromba, quasi si trattasse di un’enorme loopstation umana, per poi concludere facendo spegnere tutte le luci della sala, e affidando l’illuminazione alle torce degli smartphone degli spettatori, come le grandi popstar nei concerti agli stadi… e lui, al solito, pronto ad improvvisare sull’esperimento dirigendo con le mani il pubblico per dare gli accenti, le pause e quant’altro – il tutto condito da battute, aneddoti e spiegazioni sempre pertinenti. E questo esperimento, se si prendono come unità di misura gli applausi e le ovazioni ricevute da Maalouf dopo l’esecuzione di ogni singolo pezzo, può dirsi più che riuscito.

Un’ultima notazione: verso la fine, come accennato, entra in scena l’alto sassofonista rumeno Mihai Pirvan con cui Maalouf esegue gli ultimi due pezzi, “Feeling Good” (in origine eseguita con il rapper Dear Silas), e “Back to Baskinta”, comparsa nei film “In viaggio con Jacqueline” (2016) e “Regine del campo” (2020); il sassofonista evidenzia una tecnica prestigiosa mentre il timbro non ci ha del tutto convinti, un po’ troppo metallico, probabilmente anche per effetto dell’amplificazione.

Come bis un’altra trascinante composizione del leader, “All I Can’t Say”.

 

Gerlando Gatto

📷 Courtesy © Fondazione Musica per Roma / Musacchio, Ianniello, Pasqualini, Fucilla

I nostri CD.

EVA E IL JAZZ. DISCHI AL FEMMINILE

Non è una novità che il jazz italiano si arricchisca sempre più di apporti al femminile generalmente in ruoli di leader o coleader e non sempre solo canori. Ciò avviene in rassegne come, ad esempio, la recente Women for Freedom in Jazz (con Zoe Pia e Valeria Sturba in apertura di un cartellone molto nutrito) o quella storica di Lucca Jazz Donna. La constatazione si può estendere anche al mercato discografico sul quale forniamo, a seguire, un succinto aggiornamento su alcune produzioni recenti redatto all’insegna della varietà di album sicuramente degni di segnalazione.

Chiara Pelloni, “Eve”, Caligola Records

Debutto discografico per Chiara Pelloni, con Eve, album a marchio Caligola Records, che “racconta” di una donna in un viaggio verso la Spagna le cui tappe sono costituite da otto canzoni: un’interprete di sé stessa, essendo anche “liricista” oltre che autrice musicale di brani eseguiti con Matteo Pontegavelli (tr.), Alvaro Zarzuela (tr.ne), Francesco Salmaso (sax ten.), Lorenzo Mazzochetti (p), Francesco Zaccanti (cb) e Riccardo Cocetti (dr.), formazione ben assortita che “pedina” il canto con discrezione. Ed una voce, quella della Pelloni, che lascia insinuare venature pop sul sostrato armonico costruitole attorno con un gusto che è tutto jazzistico. Ne vengon fuori pezzi eterei come “Eve” e “Rebirth”, intimi come “First Peace”, ballad intense come “Blue Colored Streets” e “Please Love Me Too”, latin moderati come “Vega” e poi “Memories of You” omonimo della song di Benny Goodman, infine l’accorata “Quello che conta”. Dunque il suo approdo biennale nei Paesi Baschi, dove si è perfezionata con Deborah Carter, non ci ha restituito souvenir di cante hondo o similia. Chiara è ripartita da lì portandosi appresso un bagaglio di “canzoni di viaggio” in cui ha saputo descrivere stati d’animo ed emozioni prima ancora che paesaggi e skilines. Just like the jazz.

Marta Giuliani, “Up on A Tightrope”, Encore Music

Sarebbe forse più opportuno tradurre “Up on A Tightrope”, titolo del primo album da leader di Marta Giuliani, come La corda tesa e non Sul filo del rasoio. La vocalist marchigiana presenta infatti nove propri brani in cui, più che la tensione, è la ricerca di equilibrio ad esser protagonista. Un po’ come Il funambolo che lei canta, su testo di Giovanni Paladini che firma anche “Il cielo dei Rojava” : “non è magia, non è pazzia / questo sogno che / sopra un filo va / alto sulle ali”. L’idea espressa è quella di un percorso graduale che compie con degli amici con cui condivide lo spirito creativo e il senso del procedere con un’incertezza che, alla prova dei fatti musicali, si fa sicurezza. Ed è quella da cui traspare l’impronta di fertile autrice di partiture, di testi poeticamente validi – a partire dall’iniziale “Fleeting Beauty” – e di arrangiamenti dalle soluzioni armoniche spesso inedite, di interprete avvezza all’improvvisazione “senza fili”, di bussola del combo formato da Nico Tangherlini al piano, Gabriele Pesaresi al contrabbasso e Andrea Elisei alla batteria, rete protettiva per Marta, trapezista della voce. Da sentire, in proposito, le elucubrazioni virtuosistiche di “Colibri’ e, in “So What if I Fall?”, i raddoppi voce-tastiera. Ma piacciono anche la sospensione aerea di “Clouds”, il solo nervoso del piano. Pregevole la traduzione in musica di “Beneath The Mask” del poeta afroamericano Paul Laurence Dunbar.

Battaglia – Arrigoni – Caputo – Di Battista, “Questo Tempo”, Da Vinci Jazz

Nei festival di poesia in genere la forma di dialogo fra musica e poesia più praticata è il reading, pronipote del settecentesco “recitativo accompagnato” laddove si declama mentre scorrono note musicali a commento della declamazione. Per contro in molte performances musicali accade che sia la musica a prevalere lasciando l’intermezzo poetico a far da corollario. L’unione paritetica fra le due arti, sperimentata ab initio dagli antichi greci, trova ancora oggi delle occasioni di sperimentazione. Ed è quanto fatto da Stefano Battaglia in seno al Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale a Siena Jazz. Un risultato, incentrato nello specifico sul gemellaggio fra Improvvisazione e poesia, è l’album Questo Tempo, della Da Vinci Jazz, in cui quattro musicisti si cimentano davanti a una breve antologia poetica novecentesca e contemporanea di matrice femminile con l’intento di “sonorizzarla” e “vocalizzarla”. Protagonisti del lavoro, oltre al ricordato pianista, la cantante Beatrice Arrigoni, il vibrafonista Nazareno Caputo e il batterista Luca Di Battista. Un’operazione avventurosa, quella di congiungere parametri musicali e metriche versicolari ma soprattutto due tipi di ispirazione, appunto poetica e musicale, che nell’ordinarietà seguono iter autonomi. Il quadrivio improvvisativo incrocia disinvoltamente il proprio comporre istantaneo a liriche di Chandra Livia Candiani, Amelia Rosselli, Margherita Guidacci, Paola Loreto, Laura Pugno, Anna Maria Ortese dando così luogo ad una galleria di “poete” in cui, saltato il passaggio del testo scritto, le liriche si adagiano su un letto naturale di suono e canto, gioia e pathos, antico e moderno, disteso loro dalla musicista bergamasca che ha eletto e riletto Questo Tempo: che è, scrive Laura Pugno, “lana bianca che cade dalle mani / non si chiude il vestito / la sabbia nella mente ha formato la perla / e non ha luce”.

Paola Arnesano – Vince Abbracciante, “Opera!”, Dodicilune Records

L’opera lirica in formato cameristico, priva cioè di apparato scenico, sfavillio dei costumi, movenze attoriali dei cantanti, tessitura corale presuppone, da parte di interpreti e pubblico, una concentrazione mirata sulla musica “sola”, spoglia della cornice di “spettacolo totale” propria di quel tipo di messinscena. Il che, con i limiti del caso, alla fine può anche rivelarsi un’esaltante estrapolazione del momento compositivo. Dal canto loro i jazzisti che vi si confrontino senza voler sconfinare nella provocazione o ancor più nella dissacrazione, si trovano di fronte alla necessità di effettuare una scelta sul limite entro cui contenere la novità dell’arrangiamento, la libertà interpretativa e la creatività dell’improvvisazione senza incorrere nel peccato di lesa … Melodia. La vocalist Paola Arnesano e il fisarmonicista Vince Abbracciante, nell’album Opera! edito da Dodicilune Records, contemperano il rispetto dello spirito originario della partitura con il loro specifico approccio jazz. Dal corposo “songbook” operistico il duo ha prelevato musiche di Rossini Donizetti Bellini Verdi Leoncavallo Cilea Puccini, divinità dell’Olimpo melodrammatico, e seguendo le stecche di un ventaglio che va dal (pre)romanticismo al verismo alle suggestioni espressive del primo novecento, le ha riproposte con gusto personale ed accorto dosaggio delle componenti in campo. La Arnesano – musicista ferrata in latin e ben vocata per gli standards – ed Abbracciante – nomen omen se si pensa all’abbraccio multistyle della sua fisarmonica – hanno avvolto un involucro canoro/sonoro pertinente sia pure con alcune “zone franche” a mò di antiossidanti pietre filosofali che rimodellano arie immortali. Si va da un balcaneggiante “Io Son Docile” tratto dal “Barbiere”, alla rarefatta “Ecco Respiro Appena ripresa dalla “Adriana Lecouvreur”, da “O Mio Babbino Caro”, fonte “Gianni Schicchi”, reso a swing, al pathos di “Vesti la Giubba, maschera tragica di “Pagliacci”. E’ un altalenare fra i colori tenui diIeri Son Salita Tutta Sola” dalla “Butterfly” ed il volteggiare vocale su base sincopata di “Sempre Libera Degg’io” da “La Traviata” che è anche un inno alla varietà del Repertorio Lirico Nazionale e nel contempo alla sua unicità. C’è spazio per il walzer a tinte folk di “Mercè, Dilette Amiche” da “I Vespri Siciliani” ed il “Quando Men Vo” da “La Bohème” trasformato in chanson. Fra le chicche l’aria “Di Tal Amor Che Dirsi” da “Il Trovatore” in cui le volute belcantistiche si rivelano legittime antenate del vocalese e, dalla “Tosca”, le due perle “Vissi D’arte” ed “E Lucean le Stelle”. Non potevano mancare la “Norma” con “Casta Divae “Lucrezia Borgia” con “Il Segreto Per esser Felici” a completare quest’omaggio ad una nostra tradizione tuttora pulsante.

Vanessa Tagliabue Yorke, “The Princess Theatre”, Azzurra Music

The Princess Theatre di Vanessa Tagliabue Yorke (Azzurra Music) è album che vanta un legame ideale con il piccolo (meno di 300 posti) Teatro della Principessa della 39ma strada a New York, una struttura che, un paio d’anni dopo l’apertura nel 1913 e per un buon quadriennio, ospitò shows in formato “medium” a confronto dei reboanti musical di Broadway. Fu allora che, a causa della ristrettezza degli spazi, Jerome Kern fu obbligato a formulare melodie con le orchestrazioni di Frank Sadler scritte per ensembles non numerosi, forgiando così quell’innovativo e snello teatro musicale “americano” dell’epoca che si associa al team autoriale Kern, Guy Bolton, P.G. Wodehouse. Quello che la vocalist rievoca, a distanza di un secolo e passa e dopo due anni di pandemia, è il senso della spazialità ridotta, che non è angustia, e che “costringe” a pensare la musica in modo più raccolto e introspettivo. Ed è con questi occhiali che va interpretata la tracklist in cui accanto a brani di Strayhorn (“A flower is a Lovesome Thing”), Carmichael (“Stardust”), Green (“I Cover The Waterfront”), Kern (“The Way To Look Tonight”), Kitchings-Herzog jr (“Some Other Springs”), la Tagliabue “liricizza” Strayhorn (“Ballad for Very Tired and Very Sad Lotus Eaters”) o “musicalizza” Yeats (“Aedh Wishes for the Cloths of Heaven”). Va da sé che il disco non è costruito in laboratorio ma è il live del concerto tenutosi a Malcesine (VR) lo scorso 19 dicembre 2021 in cui figura al piano l’esperto Paolo Birro, peraltro coautore di “Leon”, con gli interventi della tromba di Fabrizio Bosso in “I’ve Stolen” e “Dream” e nel citato pezzo ripreso da Yeats dove il trombettista figura come coautore. Non c’è di che scegliere fra la Tagliabue autrice di “Ever” o “Don’t Leave Me” con la jazzista che completa il quadro armonico, elegante e forbito, di un pianista del livello di Birro. Tutto è al suo posto, quello ottimale per la dimensione del Princess Theatre in quel 1915-18, al riparo dai lontani venti di guerra che ancora oggi come allora soffiano e che la buona musica riesce a placare.

Sonia Spinello – Roberto Olzer, “Silence”, Abeat

L’assenza di suono, come dimostrato da John Cage, non esiste. E neanche la pausa musicale, di per sé, è sinonimo di vuoto totale. Per questo un album che si denomini Silence, come quello della vocalist Sonia Spinello e del pianista Roberto Olzer editato da Abeat, prefigura comunque delle note o comunque delle vibrazioni che giungono al “pianoforte segreto” del nostro orecchio. E non è luogo di afasie nientificazioni o rumori ma vi fluiscono semmai consonanze sussurrate, accennate, sviluppate, interagite con il violino di Eloisa Manera e il violoncello di Daniela Savoldi oltre al soprano di Massimo Valentini in “Consequences” ed al bansuri di Andrea Zaninetti in “Tell Me”. Questo lavoro, che nasce sulla scia dei cd Abeat “Steppin’ Out” e “Wonderland”, premiato in Giappone nel 2017 come miglior album vocale dalla rivista “Critique Magazine”, nel collocarsi fra le fenditure di world music, ambient jazz e classico-moderna, regala delle occasioni di “copertura” armonica del silenzio mantenendone l’aura sullo sfondo. A voler sceverare fra la dozzina di brani del compact non si può non sottolineare la bellezza di “Softly”, i colori intimi di “Silence”, la poeticità di “Attimi”, ma è tutto il mondo sonoro evocato dai musicisti a far da contrappunto al silenzio per il sound unico di questo disco candidato, ancora una volta, a proiettarsi sul proscenio internazionale.

Barbara Casini, “Hermanos”, Encore Music

Gli Hermanos della cantante Barbara Casini, nell’album edito da Encore, sono il sassofonista Javier Girotto, il chitarrista Roberto Taufic e il pianista Seby Burgio. Fior di musicisti che partecipano all’esecuzione, oltre che con il proprio strumento, con interventi mirati come la quena di Girotto in “Hurry” dell’uruguagio Fattoruso e in “Tonada de Luna Llena” del venezuelano Simòn Diaz, la voce di Taufic in “Pasarero” di Carlos Aguirre, di Rosario, e in “Maria Landò” di Granda e Calvo in cui si sentono le claps di Burgio. Ma gli Hermanos di una Casini in gran spolvero di latin imbevuto da sempre nelle corde vocali li vediamo anche nella figura stratosferica del brasiliano Milton Nascimento che ha scritto “Milagre dos Peixes” con Fernando Brant e che il 4et interpreta mirabilmente in chiusura al disco. Una “squadra” di fuoriclasse con Taufic, nato in Honduras ma cresciuto in Brasile, l’italo-argentino Girotto e il siciliano Burgio che si affianca alla musicista fiorentina con in spalla il background di retaggi conoscenze e abilità, con intatto il proprio schietto versante jazz, ed un repertorio ricercato, vedansi “La Puerta” del messicano Luis Demetrio, “Candombe de la Azotea” e “La Maza” del grande Silvio Rodriguez. Non manca il “suo” Toninho Horta con “Viver de Amor” (cofirmata Bastos) e “Zamba de Carnaval” dell’argentino Cuchi Leguizamòn. Autori che configurano un orizzonte su cui la Casini impregna linee melodiche che tratteggiano il continente centrosudamericano senza cesura fra mpb e spanish tinge.

Juan Esteban Cuacci – Mariel Martinez y La Maquina del Tango, “Aca Lejos”, Caligola Records

Che tango ci sarà dopo il … tango? La domanda è abbastanza scontata quando è riferita a generi musicali circoscritti che potrebbero avere espresso il meglio di sé e toccato il “picco” artistico con maestri come Piazzolla per il tango. Eppure, parlando sempre di tango, se lo si slega dal contesto storico in cui si è sviluppato e lo si vede come una sorta di archetipo, allora ci si renderà conto che sono tuttora possibili operazioni che non siano di mera facciata ma che abbiano un carattere rigenerante. Dalla rivoluzione del nuevo tango alla evoluzione del tango contemporaneo: prendiamo Aca Lejos, album del pianista Juan Esteban Cuacci e della vocalist Mariel Martinez y La Maquina del Tango prodotto in Italia da Caligola Records. Intanto il repertorio registra classici tangueri di Gardel, V. Esposito, Troilo, S. Piana  etc. accanto a composizioni dello stesso Cuacci, motore della “macchina” che procede su binari (i tempi, ovviamente). A riprova della possibile convivenza e coesistenza del nuovo e delle rispettive radici. C’è poi la formazione con prevalenza femminile figurandovi la violista Silvina Alvarez e la contrabbassista Laura Asènsio Lopez unitamente al batterista Lauren Stradmann. Ancora, il climax. Pare molto più attenuato e dolce quel nostalgico “pensiero triste che si balla” grazie al canto della Martinez, virtualmente proiettato in avanti verso spazi sonori dischiusi, come un gaucho che scopre praterie prima sconosciute. Difficile, fra i tredici brani, stabilire un ordine di preferenze. E c’è dell’altro, sentiamo il lavoro vicino, “nostro” non solo per la radice di nomi che ricorrono – R. Calvo, L. Nebbia, A. Le Pera, J.M. Contursi – ma soprattutto per le forti tracce di melos sia pure corroborato da dna (poli)ritmico africano e da una persistente componente autoctona.

Amedeo Furfaro

I nostri CD

Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.

AB Quartet – “I bemolli sono blu” – TRJ records
L’AB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). L’album prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione così come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente l’influenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova già nel primo brano, “Moon”; il riferimento è al “Clair de Lune” vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto più sostenuto rispetto all’originale.

Tiziana Bacchetta – “Driving Home for Christmas” – G.T.
Un’indispensabile premessa: io non amo particolarmente gli “album di Natale” per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti “Have Yourself a Merry Little Christmas” di Martin -Blane e “White Christmas” di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca l’individualità di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, com’è fin troppo ovvio, il merito principale dell’ottima riuscita dell’album è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, l’artista dà prova di grande maturità sfoggiando notevoli capacità interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues “Christmas Tears” portato al successo da Freddy King uno dei più talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la “Title Track” un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con l’evergreen “White Christmas” di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festività, una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.

Michel Benita – “Looking at Sounds” – ECM
L’etichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In “Looking at Sounds” il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. L’album è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto all’assolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, “Inutil Paisegem” di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e “Never Never Land” di Styne, Comden, Green. L’intro affidata al leader è una sorta di manifesto dell’intera poetica dell’album: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dell’album. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dell’album anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo “Never Never Land” in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei più centrati assolo dell’album. Gustosa, infine, l’interpretazione di “Inútil Paisagem”.

Roberto Bindoni Unquiet Quartet – “Mediterranean Cowboy” – Alfa Music
E’ uscito di recente l’album d’esordio dell’Unquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dell’intero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio all’improvvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in “Unquiet Place” e nel già citato “Kamikaze”). Particolarmente suggestivo “Encanto” con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco d’esordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma già a questo punto è un bel sentire.

Matthieu Bordenave – “La traversée” – ECM

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Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, l’idea musicale che ha ispirato l’album è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. L’album oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialità dei tre artisti. Così se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in “Ventoux” o quello di Weber nel successivo “Incendie blanc”. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la ‘traversata’ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.

Yilian Canizares – “Erzulie” – Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare più e più volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste più originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicità nell’album in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtà prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. Quì Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso l‘album è dedicato a “Erzulie”, divinità del pantheon vudu che personifica l’essenza della femminilità e la sensualità. In effetto l’intento della Canizares è più ampio: “raccontare la storia dell’Africa attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans […] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamente”. Accanto all’artista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalità e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie “BKVK” Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. L’album si apre con la romanticamente coinvolgente “Habanera” e si chiude con “Yeyé” cantata in dialetto yoruba (o lucumi), così come “Yemayá” mentre nella title track e in “Noyé” l’artista utilizza il creolo haitiano. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: nel brano “Libertad” sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.

Donatello D’Attoma – “Oneness” – Dodicilune
Donatello D’Attoma è uno dei pianisti più interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando più indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, “Coming On Thwe Hudson”. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire l’ascoltatore, ma grande attenzione all’espressività e quindi alla volontà di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare D’Attoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dell’esecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni d’avventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, “Fluorescent Light”, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dell’album. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde d’intensità.

Elina Duni, Rob Luft – “Lost Ships” – ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue – albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in “Brighton”) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma l’album è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dell’emigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: «Ci sono canzoni – afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dell’Albania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americane…. ». Comunque l’album, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, l’una sempre più convincente nell’interpretazione di tematiche assai delicate, l’altro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. Così la musica acquista attimo dopo attimo sempre più consistenza, sorretta da un’intesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, “The Wayfaring Stranger”. Il controllo delle dinamiche è assoluto così come la capacità di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con “Hier Encore” di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.

Erodoto Project – “Mythos Metamorphosis” – Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dell’“Erodoto Project” giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo “Stories: Lands, Men And Gods” (2016) e “Molòn Labè” (2017) arriva “Mythos Metamorphosis” in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso l’avventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla Cumana…via via fino al brano di chiusura dedicato a “Leucosya”, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E così è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensità caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nell’occasione, dal trio d’archi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.

Marco Fumo – “Reflections” – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nell’ambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è l’ennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami – ora palesi ora più nascosti – tra l’universo euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulle due sponde dell’Oceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride piano…al jazz e alla musica classica europea in un confronto tutt’altro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. E’ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano l’album, ascoltando il “Tango” di Stravinsky risalente al 1940 e il “Café de Barracas” di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. Più evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per l’appunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia “frequentato sempre tutta la musica, indistintamente” non facendosi mai limitare “da barriere o pregiudizi”.

Danilo Gallo, Dark Dry Tears – “Hide, Show Yourself!” – PMR
Dopo lo splendido album “Thinking Beats Where Mind Dies” del 2016, il quartetto “Dark Dry Tears” si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nell’intenso dialogo tra i due fiati, nell’incessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per l’apporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuità, fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come l’uso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneità tutt’altro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca l’intero album nel brano “Demolition” caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.

Keith Jarrett – “Budapest Concert” – 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrà più suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. E’ il caso di questo “Budapest Concert” inciso il 3 luglio del 2016 alla Béla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard “It’s A Lonesome Old Town” di Tobias e Kisco e “Answer Me, My Love” di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la “Part I” sicuramente la più complessa e meno melodica dell’intero programma, in cui l’artista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quell’area culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dall’inizio da una atmosfera più raccolta, intimista e da una più avvertibile cantabilità. Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. E’ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di più, quell’artista che raccoglie in sé il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato così come noi che ascoltiamo l’album comodamente accovacciati in poltrona.

Anja Lechner, François Couturier – “Lontano” – ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con “Moderato cantabile” sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo “Lontano” articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dall’organico, si tratta di una musica dall’impianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dall’altro la scelta del repertorio. Ascoltando l’album sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. D’altro canto non mancano pagine in cui la capacità di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nell’intento – del tutto riuscito – di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. Così, dopo i primi tre brani di impronta “colta”, il ben noto e struggente “Alfonsina y el mar” di Ariel Ramirez. E questa particolare capacità di attualizzare alcune partiture appare altresì evidente, come chiarito nel libretto che accompagna l’album, in almeno altri quattro brani: in “Memory of a Melody” ci si richiama all’aria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in “Hymne” si avverte l’influenza di Gurdjieff, in “Postludium” fa capolino l’arte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel già citato “Moderato cantabile”.

Gianni Lenoci – “Wild Geese” – Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è l’ennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro nell’estremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunché perdere dell’originario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. L’album produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo l’ammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, “Latin Genetics” e il conclusivo “Ida Lupino”, senza alcunché togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso “And now the queen” cui fa seguito “Job Mob“ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dell’album costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerà anche a costoro.

Ivano Nardi – “Homage to Kandinsky” –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). L’Album, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nell’intento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dall’artista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni ’70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che “continuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano l’arte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!”.

Novotono – “Wood (Wind) at Work” – Autrecords
Sotto l’insegna dei “Novotono” incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. Già la struttura stessa dell’organico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sull’aspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico né quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacità improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. Così ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in “Melodie Per Un Burattino Di Legno”, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura più profonda, mentre in “Gegheghè” si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, “Old Durmast” caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e “Contratuba Seguoia” con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metà del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo l’originario schema. Bella la chiusura con “Wooden Toys” scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: l’improvvisazione è stato, è e sarà un elemento imprescindibile della musica jazz.

Enrico Pieranunzi – “Time’s Passage” – abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perché ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard l’uno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel l’altro. Già dalle prime note della title track si intuisce quale sarà l’andamento dell’album: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco così la delicata “Time’s Passage” impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il “Valzer” espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con “Biff” le atmosfere virano decisamente verso uno swing più accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E così fino all’ultimo brano, “Vacation from The Blues”. Una curiosità: nel disco c’è una doppia versione del brano “In the wee small hours of the morning” portata al successo da Frank Sinatra, una con l’ensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini “ha cantato così bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambe”. E come dargli torto?

Dino Rubino – “Time of Silence” – Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei più fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un po’ di tempo incide per la Tuk Music e con l’etichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Quest’ultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, “Settembre”, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dell’album con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso c’è ed è evidente. In un momento in cui chi strepita più forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. E’ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tutt’altro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in “Claire” il modo in cui, dopo un bell’assolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. Così come in “Karol”, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialità. Potenzialità che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in “Owl in the Moon” impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicità. Infine come non segnalare l’ultimo brano, il malinconico “Settembre”, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di là della musica, bella la cover dovuta all’artista svizzero Stephan Schmitz.

Terje Rypdal – “Conspiracy” – ECM
Conosco personalmente Rypdal da più di 40 anni e fin dall’inizio l’ho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilità: tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker così come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per l’appunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con Ståle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e Pål Thowsen batteria, l’album si articola in sei composizioni del leader che attraversano un po’ tutto il suo spettro compositivo. L’aggancio a quel jazz-rock degli anni ‘70 e ’80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernità che si respira evidente mai dando l’impressione del deja-vu. Così se il brano d’apertura “As if the Ghost… was Me?” (“Come se fossi io, il fantasma?”) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che già in “What was I thinking” ascoltiamo un chitarrista più pensoso, più intimista a dialogare con il basso. Più legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica più evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso un’oncia della sua creatività. Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad “By His Lonesome”.

Dino Saluzzi – “Albores” – ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalità che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attività, tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra l’altro assai particolare in quanto dopo più di trent’anni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressività mai raggiunti fino ad oggi. Certo c’è sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sì da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad “Albores” che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (“Adios Maestro Kancheli”) la cui musica ha già inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (“La cruz del Sur”) così come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (“Don Caye – Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzzi”). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires d’altri tempi: si ascolti “Segun me cuenta la vida” una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo “Intimo”. L’album si conclude con “Ofrenda – Toccata”, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeità e spiritualità a cui tutti noi siamo invitati.

The Auanders – “Text (us)” – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma l’idea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dell’etichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte città con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti più attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(“Scrivici un messaggio”) – contiene di per sé una della carte vincenti dell’etichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale l’album risulta interessante soprattutto per le modalità di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti d’assieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per l’appunto, modo di esprimere le proprie potenzialità. Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in “Song to the Unborn”, Filippo Vignato in “One Week”, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.

Tingvall Trio – “Dance” – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e Jürgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la “Skip Records”. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da quest’ultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di un’empatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Quest’ultimo “Dance” è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In “Spanish Swing”, “Cuban SMS” e “Bolero” è l’anima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in “Bolero” mentre in “Arabic Slow Dance” si avvertono i profumi dell’Oriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. “Ya Man” tratteggia un’atmosfera diversa dal resto dell’album in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della “danza” non mancano mezzi più meditativi e introspettivi come il conclusivo “In memory…”.
Oltre al CD e all’uscita digitale, sarà presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.

Dominik Wania – “Lonely Shadows” – ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (“Unloved”, “Three crowns”, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un ‘piano solo’ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma già alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato “Unloved”. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarà sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacità improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova più difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati all’improvvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacità compositive e interpretative. La sua musica, tutt’altro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande l’attenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come già accennato, siamo nel campo dell’improvvisazione totale che l’artista maneggia con disinvoltura e con originalità mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare “AG76” un omaggio all’artista polacco Zdzisław Beksiński (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre “Indifferent Attitude” si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.

Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano – “Arctic Riff” – ECM
Incontro al vertice tra uno dei più grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilità di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualità indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva già evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anch’egli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. Così, ad esempio, nella doppia versione di “Vashkar” di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in “Fading Sorrow” mentre in “L’Amour Fou” è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, “Old Hat”, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare all’unisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel già rodato meccanismo del trio polacco.

I nostri CD

Carla Bley – “Life Goes On”- ECM 2669
Carla Bley con il fido Steve Swallow al basso e Andy Sheppard ai sax tenore e soprano sono i protagonisti di questo nuovo album registrato nel maggio del 2019 a Lugano. In repertorio tre suite intitolate rispettivamente “Life Goes On”, “Beautiful Telephones” e “Copycat” tutte composte dalla stessa Bley. Chi ha seguito negli anni la Bley, sa bene come ad onta dei suoi ottantaquattro anni, l’artista di Oakland conservi intatta la sua straordinaria vena creativa e una stupefacente capacità di arrangiare e presentare in forme sempre originali le sue composizioni. Altro dato che si può ricavare dall’ascolto di questo suo ultimo lavoro, è la consapevolezza raggiunta dall’artista di poter finalmente trarre le fila di un discorso portato avanti oramai da molti anni. In effetti la musica che si ascolta soprattutto nella prima suite rappresenta un po’ la cifra stilistica della Bley in cui il blues viene coniugato con una certa malinconia di fondo che ben si affianca a quella carica iconoclasta e ironica che nel passato aveva caratterizzato molte composizioni della pianista. Ed ecco infatti la seconda suite che nel polemico titolo “Beautiful Telephones” richiama quella assurda espressione del presidente Trump che installandosi nello studio ovale della Casa Bianca, fu colpito soprattutto dai telefoni che definì “i più bei telefoni che abbia mai visto in vita mia”. Comunque, al di là di tutto, la musica di Carla Bley convince ancora una volta per la straordinaria carica di eleganza, modernità, coerenza in essa contenuta nonché per aver creato un jazz cameristico – se mi consentite il termine – che dovrebbe mettere d’accordo gli amanti del jazz e quelli della musica “colta” dati gli espliciti riferimenti a quel coté artistico che la Bley spesso mette in campo. Ovviamente la bella riuscita dell’album è dovuta anche alla personalità artistica dei due compagni di viaggio. Steve collabora con la Bley oramai da venticinque anni e la loro intesa è parte integrante di ogni loro album dato il peso specifico che il bassista riesca ogni volta ad assumere (lo si ascolti soprattutto nel primo movimento della “Beautiful Telephones”); dal canto suo Andy Sheppard è in grado di inserirsi autorevolmente e coerentemente nel fitto dialogo pianoforte-basso.

Paolo Damiani – “Silenzi luterani” – Alfa Music 214
Due i riferimenti colti esplicitati dallo stesso Damiani nelle note che accompagnano il CD: da un lato la Riforma di Martin Lutero che nel 1517 si staccò dalla Santa Sede romana introducendo il canto in chiesa di tutti i fedeli e componendo egli stesso musica, dall’altro l’evocazione nel titolo del CD… e non solo, delle “Lettere Luterane” di Pier Paolo Pasolini, articoli scritti nel 1975 e pubblicati sul Corriere della Sera. Ambedue, Lutero e Pasolini, si scagliavano contro i mali della società ovviamente delle rispettive epoche: ebbene, Damiani con la sua musica intende protestare contro uno stato di cose per cui l’indignazione non basta più. Di qui una musica a tratti sghemba, difficile, ma di sicuro fascino, impreziosita dal fatto che viene liberamente interpolata con frammenti melodici scritti da Lutero e testi di Pasolini. Ancora una volta Damiani evidenzia la sua ottima conoscenza del mondo musicale, inteso nell’accezione più ampia del termine, riuscendo così a far convivere nella stessa espressione artistica echi di mondi assai lontani con suggestioni derivate dal presente, in un gioco di incastri, di rimandi che disegnano un universo davvero senza confini. Insomma un’operazione tutt’altro che banale per la cui riuscita era necessaria una perfetta intesa degli esecutori. Ecco quindi la formazione posta in campo da Damiani, formata dai migliori ex allievi del dipartimento jazz del conservatorio di Santa Cecilia, dipartimento fondato e guidato dallo stesso Damiani fino al 2018: quattro voci capitanate da Daniela Troilo (in questa sede anche arrangiatrice), Erica Scheri al violino, Lewis Saccocci al pianoforte, Francesco Merenda alla batteria cui si aggiunge, in veste di ospite, Daniele Tittarelli ai sassofoni. In repertorio sette brani, tutti composti dal leader, registrati in occasione di due concerti tenuti presso la Sala Accademia del Conservatorio di Santa Cecilia di Roma e la Sala Concerti della casa del Jazz di Roma, nel 2017.

Vittorio De Angelis – “Believe Not Belong” – Creusarte Records
Una delle strade maestre su cui oramai si è indirizzato il jazz è quella di far confluire in un unico linguaggio input derivanti da varie fonti, soprattutto jazz mainstream, soul e funk. Certo, se la strada è la stessa, il modo di percorrerla è diverso ed è proprio su questo parametro che si può valutare oggi la valenza di una esecuzione. Da questo punto di vista, l’album in oggetto si lascia ascoltare non tanto per l’originalità delle composizioni (7 brani tutti composti dal leader sassofonista, flautista e compositore napoletano) quanto per il particolare organico. De Angelis ha infatti scelto di puntare sul “double trio” vale a dire due batterie, due tastiere, due fiati; manca il bassista in quattro dei sette brani sostituito dai due tastieristi (Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes). Insomma due trio indipendenti che suonano assieme e che proprio per questo producono una sonorità particolare, pregio principale di queste registrazioni. E non è poco ove si tenga conto che si tratta del primo album di Vittorio De Angelis leader, il quale, tra l’altro ha avuto l’intelligenza di chiamare accanto a sé musicisti di livello tra cui Domenico Sanna pianista di Gaeta, classe 1984, che ha già collaborato con musicisti di livello internazionale quali Steve Grossman, Rick Margitza, Dave Liebman, JD Allen, Greg Hutchinson; Seby Burgio, altro talentuoso tastierista (Siracusa 1989 ) che può vantare collaborazioni con, tra gli altri, Larry James Ray, Tony Arco, Michael Rosen, Alfredo Paixao; Francesco Fratini uno dei più promettenti trombettisti italiani e Takuya Kuroda trombettista e arrangiatore giapponese, classe 1980, che incide per la Blue Note e ha già al suo attivo cinque album sotto suo nome.

e.s.t. – “Live in Gothenburg” – ACT 9046 2
Ascoltando queste registrazioni effettuate live il 10 Ottobre del 2001 alla Concert Hall di Gothenburg si rinnova il rimpianto per aver perso troppo presto e in maniera davvero assurda un talento come Esbjörn Svensson qui accompagnato dai fidi partner Dan Berglund al basso e Magnus Ostrom alla batteria. Siamo negli anni in cui il trio sta consolidando il proprio essere gruppo omogeneo, compatto in grado di dire qualcosa di nuovo nel pur affollato panorama dei trii piano-basso-batteria. Ciò ovviamente per merito di tutti e tre i musicisti ma in modo particolare, del leader, il pianista Esbjörn Svensson affermatosi in brevissimo tempo come uno dei più fulgidi talenti del piano jazz a livello internazionale. In questo concerto, poi riportato sul doppio CD in oggetto, il trio rivisita alcuni dei brani contenuti nei due album già usciti in quel periodo, vale a dire “From Gagarin´s Point of View” del 1999 e “Good Morning Susie Soho” del 2000. E si è trattato di una performance davvero molto rilevante se lo stesso Svensson aveva più volte dichiarato di considerare questo concerto uno dei migliori della sua carriera. E come dargli torto? La musica è assolutamente ben costruita, ben arrangiata e altrettanto ben eseguita con i tre artisti che si ascoltano e interagiscono con immediatezza e pertinenza. Ascoltando in sequenza tutti e gli undici brani dei due CD è davvero difficile, se non impossibile, capire quando i tre improvvisano e quando seguono qualcosa di stabilito in precedenza. E non credo di esagerare affermando che dopo i mitici trii di Bill Evans, che hanno rivoluzionato il modo di concepire il combo piano-batteria-contrabbasso, questa di Svensson e compagni sia stato la formazione che più di altre è riuscita a dire qualcosa di nuovo e originale in materia.

Giovanni Falzone – “L’albero delle fate” – Parco della Musica
Il trombettista Giovanni Falzone, il pianista Enrico Zanisi, il contrabbassista Jacopo Ferrazza e il batterista Alessandro Rossi sono i protagonisti di questo album registrato nel febbraio del 2019 all’Auditorium Parco della Musica di Roma. La musica è di segno naturistico, se mi consentite l’espressione, in quanto Giovanni per comporla si è ispirato ai sentieri, ai grandi sassi, agli alberi, agli animali, ai colori, alle fonti d’acqua che vivificano il lago di Endine, in provincia di Bergamo, dove il trombettista ama trascorrere parte del suo tempo libero. Di qui nove brani che lo stesso Falzone definisce “cartoline sonore”; ma attenzione, quanto fin qui detto non tragga in inganno ché quella di Falzone resta una musica ben lontana dal New Age e viceversa ben ancorata alle grandi tradizioni del jazz. Così nel suo linguaggio è possibile riscontrare echi di Armstrong così come, per venire a tempi a noi più vicini, di Kenny Wheeler, di Enrico Rava (al quale in occasione dell’ottantesimo compleanno il 20 agosto scorso ha dedicato una intensa ballad), di Miles Davis (ma quale trombettista non è stato influenzato da Miles?). Quindi un jazz ora vigoroso (“Il mondo di Wendy”), ora più intimista (“Capelli d’argento”) ma sempre splendidamente suonato e arrangiato. Frutto evidente dell’intesa che si respira nel gruppo in cui tutti si esprimono al meglio delle rispettive possibilità.

Claudio Fasoli – “The Brooklyn Option” – abeat 206
Questo album è in realtà la riedizione di un CD pubblicato nel 2015; quindi, dal punto di vista del contenuto musicale, nessuna novità; cambia, invece, la copertina adesso rappresentata da una bella foto scattata dallo stesso Fasoli. Il sassofonista è reduce da una serie di brillanti riconoscimenti: nel 2018 ha vinto il Top Jazz come musicista dell’anno mentre nel 2017 il suo album “Selfie” sul mercato francese è stato votato dalla rivista “JazzMagazine” come “disco shock” del mese. In questa occasione è alla testa di un quintetto all stars comprendente Ralph Alessi alla tromba, Matt Mitchell al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Nasheet Waits alla batteria. Fasoli è in forma smagliante sia come compositore sia come esecutore. In effetti tutti e tredici i brani contenuti nell’album sono da lui stesso firmati e ci mostrano un musicista maturo, assolutamente consapevole dei propri mezzi ed in grado di scrivere musica a tratti coinvolgente, sempre, comunque, interessante e ben lontana dal ‘già sentito’. Ovviamente almeno parte di queste positive valutazioni dipende anche dall’esecuzione: ebbene al riguardo occorre sottolineare come il gruppo funzioni a meraviglia, con un altissimo grado di interplay che consente ai musicisti di muoversi in assoluta libertà, certo che il compagno di strada saprà quasi percepire in anticipo le sue proposte e sarà quindi in grado di condurle alle finalità desiderate. Straordinario, al riguardo, il modo in cui tromba e sassofono dialogano e suonano anche all’unisono sul filo di un idem sentire non facilissimo da raggiungere. Ancora una volta Alessi si qualifica come una delle più belle e originali voci trombettistiche degli ultimi anni. E non c’è un solo momento nel disco che non si percepisca questa intesa, questa gioia di suonare assieme. Tali caratteristiche si colgono sin dall’inizio, vale a dire dai tre movimenti che compongono la suite “Brooklyn Bridge”, aperta da una esposizione del tema armonizzata dai fiati che lasciano quindi spazio alla sezione ritmica con Mitchell, Gress e Waits a dimostrare quanto sia meritata la fama raggiunta nel corso degli ultimi anni.

Luca Flores – “Innocence” – Auand 2 cd
Ascoltare un inedito di Luca Flores è sempre emozionante e non solo per le vicende umane legate alla prematura scomparsa dell’artista, quanto perché la sua musica è come una sorta di scrigno contenente delle perle rare e preziose. Ovviamente anche quest’ultimo doppio album non sfugge alla regola: sedici tracce inedite incise da Luca Flores tra il 1994 e il 1995 di grande livello. Ma prima di spendere qualche parola sul contenuto artistico di “Innocence” vorrei ringraziare, a nome di tutti gli appassionati di jazz, l’amico Luigi Bozzolan, anch’egli valente pianista, il quale da tempo si sta adoperando per illustrare al meglio il lavoro di Flores, Stefano Lugli, il sound engineer che aveva curato quelle registrazioni, e Michelle Bobko, che ne aveva conservate delle copie, per aver ritrovato questo materiale e averlo regalato all’ascolto di noi tutti. E un doveroso riconoscimento va anche al pianista Alessandro Galati che ha curato selezione e mastering dell’opera. Il titolo di questo doppio cd è quello che Luca aveva indicato al produttore Peppo Spagnoli della Splasc(H) per quello che sarebbe stato il suo nuovo lavoro, un disco dedicato alla sua infanzia in Mozambico e che prevedeva un organico allargato con violoncello, percussioni, vibrafono e armonica, nonché la voce di Miriam Makeba. Data la complessità del progetto, dai costi piuttosto elevati, si decise di pubblicare un piano solo (“For Those I Never Knew”, edito da Splasch Records), con l’aggiunta di nuove tracce registrate il 19 marzo 1995; il pianista sarebbe scomparso dieci giorni dopo cosicché l’album uscì postumo. Tornando a “Innocence” i due CD si differenziano per un particolare non secondario: il primo è dedicato a brani mai incisi mentre il secondo presenta versioni alternative di pezzi già registrati. Ovviamente ciò nulla toglie all’omogeneità delle registrazioni che ci restituiscono ancora una volta un musicista straordinario dal punto di vista sia tecnico sia interpretativo. Il suo pianismo è sempre lucido, fluido, mai teso a stupire l’ascoltatore ma sempre rivolto ad esprimere il proprio io, la propria anima. Di qui una capacità di scavare all’interno di ogni singolo brano che solo i grandi possiedono. Si ascolti al riguardo come sia riuscito a fondere in un unicum “Broken Wing” e “Lush Life” e come dimostri di saper padroneggiare diversi stili, dal bop di “Work” di Thelonious Monk e “Donna Lee” di Charlie Parker, allo swing di “Strictly Confidential” fino ad un pianismo di marca intimista in “Kaleidoscopic Beams” impreziosito da un unisono piano/voce prima e dopo il lungo assolo e “Silent Brother” che chiude degnamente il cd.

Jan Garbarek, The Hilliard Ensemble – “Remember me, my dear” – ECM New Series 2625
Ho conosciuto personalmente Jan Garbarek nel 1982 quando abitavo in Norvegia; in quella occasione l’ho trovato persona squisita, cortese, sensibile…oltre che straordinario musicista. E questa valutazione sull’artista nel corso degli anni non è mutata di una virgola…anzi. Quest’ultimo album mi conferma vieppiù nel considerare Jan Garbarek uno dei musicisti più originali, maturi, straordinari degli ultimi decenni. Ancora una volta accanto all’Hilliard Ensemble (questo è il quinto album da loro inciso nel corso degli ultimi ventisei anni), il sassofonista norvegese ci regala un’altra rara perla, una musica assolutamente inconsueta che affascina chi mantiene mente e cuore aperti. Qui non c’è più la distinzione tra generi: non si tratta di jazz, di musica classica, di folk, di musica religiosa ma di una straordinaria miscela di suoni, ricca di pathos, che ci trasporta in una dimensione trascendente l’attualità per instaurare un colloquio diretto con l’anima di chi ascolta. Ecco quindi un repertorio che abbraccia un lunghissimo arco di tempo, con quattordici brani di cui due firmati rispettivamente da Christ Komitas e Nikolai N. Kedrov autori a cavallo tra Otto e Novecento, cinque di autore anonimo, uno a testa per Guillaume le Rouge, maestro Pérotin, Hildegard von Bingen, Antoine Brumel tutti databili da 1098 al 1500,lo splendido “Most Holy Mother of God” di Arvo Pärt, più due composizioni originali dello stesso Garbarek. L’apertura è affidata a “Ov zarmanali” inno battista del religioso armeno Christ Komitas, interpretato da Garbarek in solitudine ed è questo il brano in cui si ascolta maggiormente il sax soprano del musicista norvegese, dal momento che negli altri pezzi a prevalere sono sostanzialmente le voci. Particolarmente degna di nota l’”Alleluia Nativitas” del Maestro Perotino. Un’ultima notazione: la registrazione, effettuata nella Chiesa della Collegiata dei SS.Pietro e Stefano di Bellinzona risale all’ottobre del 2014; come mai è stata pubblicata solo adesso?

Ghost Horse – “Trojan” – Auand 9090
Ecco la nuova formazione posta in essere sulle orme del precedente gruppo “Hobby Horse” dal sassofonista Dan Kinzelman con Filippo Vignato al trombone, Gabrio Baldacci alla chitarra baritona, Joe Rehmer al basso elettrico, Stefano Tamborrino alla batteria e Glauco Benedetti all’eufonio e alla tuba. Come si nota un organico piuttosto insolito così come insolita è la musica proposta. Una musica che trae spunti dal jazz, dal rock, dalla psichedelia cui si riferisce la frequente reiterazione di brevi frasi musicali che finiscono per ottenere un effetto in bilico tra l’onirico e l’ipnotico. Il tutto impreziosito da una intelligente ricerca sul suono, sulla timbrica e sulla dinamica particolarmente evidente nel brano di chiusura “Pyre” di Kinzelman (autore di cinque degli otto brani in repertorio) caratterizzato sul finire da quella reiterazione cui prima si faceva riferimento. Ma è l’intero album che si fa ascoltare con interesse dal primo all’ultimo minuto. Così, tanto per citare qualche altro titolo, la title track che apre l’album evidenzia la volontà del gruppo di non fermarsi su terreni particolarmente frequentati e di ricercare da un canto una propria specificità con frasi oblique, sghembe, tutt’altro che scontate, dall’altro una dimensione quasi orchestrale con un crescendo in cui tutti i componenti il sestetto hanno modo di mettersi in luce. In “Il bisonte” è in primo piano il sound così particolare della tuba utilizzata in un ruolo tutt’altro che coloristico. Convincente l’impianto narrativo di “Five Civilized Tribes” con in primo piano Gabrio Baldacci e Stefano Tamborrino autore del brano. Più legato a stilemi tradizionali, ma non per questo meno affascinante, “Hydraulic Empire” con un Vignato in grande spolvero mentre in “Dancing Rabbit” è in primo piano la sezione ritmica di Tamborrino e Rehmer. Per chiudere una menzione la merita anche la crepuscolare “Forest For The Trees” (di Kinzelman) in cui si avverte forse più che altrove quel fine lavoro di cesello cui si dedicano i fiati.

Rosario Giuliani – “Love in Translation” – VVJ 133
Una sezione ritmica tra le migliori del jazz non solo italiano (Dario Deidda basso e Roberto Gatto batteria; li si ascolti in “Hidden force of love”) e una front line costituita da due grandi performer quali Rosario Giuliani ai sax alto e soprano e Joe Locke al vibrafono: ecco in poche righe spiegati i motivi del perché questo album si percepisce con grande piacere. Come solo i grandi musicisti sanno fare, i brani si susseguono con scioltezza e si ha l’impressione che tutto sia facile anche quando, ascoltando più attentamente, si scopre che le cose non stanno proprio così. In effetti gli arrangiamenti sono tutt’altro che banali e il modo di interloquire vibrafono-sax è il frutto di un’intesa assai solida, cementificata da un ventennio di collaborazione che i due intendono festeggiare proprio con l’uscita di questo album. Il repertorio è quanto mai variegato passando da classici del jazz (“Duke Ellington’s Sound of Love” di Charles Mingus, o “Everything I Love” di Cole Porter”) a hit della musica pop quali “I Wish You Love”, versione inglese della celeberrima “Que reste-t-il de nos amours?” di Charles Trenet o quel “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss che inopinatamente troveremo anche nel CD di Oded Tzur di cui si parla più in basso; a questi si aggiungono alcuni original quali “Raise Heaven” dedicato da Joe Locke a Roy Hargrove e “Tamburo” di Rosario Giuliani per l’amico Marco Tamburini. Come prima sottolineato, tutti e dieci i brani in repertorio si ascoltano con molta piacevolezza, tuttavia mi ha particolarmente impressionato il dialogo di sax e vibrafono in “Can’t Help Falling In Love” e le modalità con cui il gruppo nella sua interezza ha approcciato un brano non facile come il mingusiano “Duke Ellington’s Sound of Love”.

Wolfgang Haffner – “Kind of Tango” – ACT 9899-2
Ad alcuni sembrerà forse strano che dei musicisti nordeuropei si interessino di tango, ma si tratta di una impressione totalmente errata. In effetti il Paese dove il tango è più frequentato, ascoltato, ballato – ovviamente al di fuori dell’Argentina – è un Paese del Nord Europa e precisamente la Finlandia. Chiarito questo equivoco, con questo album siamo in terra di Germania dove il batterista Wolfgang Haffner ha costituito un gruppo di stelle a livello internazionale per affrontare un repertorio piuttosto impegnativo dal momento che sotto l’insegna del tango si ascoltano sia brani di compositori celebri come Astor Piazzolla, Gerardo Matos Rodriguez sia original dei componenti il sestetto. Ecco quindi uno accanto all’altro il già citato Haffner, gli altri tedeschi Christopher Dell al vibrafono e Simon Oslender al piano, il francese Vincent Peirani all’accordion, gli svedesi Lars Danielsson al basso e cello e Ulf Wakenius alla chitarra, “rinforzati” dalla presenza in alcuni brani dei tedeschi Alma Naidu vocalist e Sebastian Studnitzky trombettista, dello svedese Lars Nilsson flicorno e del sassofonista statunitense Bill Evans. E c’è un altro equivoco da chiarire. In questo caso non si tratta della m era riproposizione delle atmosfere tipiche del tango, quanto di un’operazione un tantino più complessa e ben illustrata dallo stesso batterista quando afferma che per lui ascoltare e scrivere un tango non è una semplice traduzione in musica di ciò che ha sentito ma l’assorbire e l’adattare degli input ricevuti in un processo da cui può scaturire qualcosa di nuovo e contemporaneo. Ed in effetti ascoltando la riproposizione dei tanghi più celebri da tutti conosciuti quali “La Cumparista”, “Libertango” e “Chiquilin de Bachin” da un lato non c’è quel pathos che caratterizza le esecuzioni di un Astor Piazzolla, dall’altro si avverte la volontà di distaccarsi dai modelli originari per giungere su spiagge inesplorate. Tentativo riuscito? A mio avviso sì, ma ascoltate e giudicate.

Ayler’s Mood “Combat joy” e Pasquale Innarella “Go Dex”Quartet– aut records 051, 053
Due cd dedicati a due giganti del sax: il Trio Ayler’s Mood, costituito da Pasquale Innarella al sax, Danilo Gallo al basso elettrico e Ermanno Baron alla batteria sono i protagonisti di “Combat Joy”, dedicato ad Albert Ayler, e Pasquale Innarella e “Go Dex Quartet” dedicato a Dexter Gordon. Una sfida molto, molto difficile, quella con i mondi sonori di due grandi sassofonisti molto diversi tra di loro e quindi impossibili da ricondurre ad un unicum. Di qui l’intelligenza poetica – mi si passi il termine – di questi due gruppi e di Innarella che, come sassofonista, ben lungi dal voler imitare l’inimitabile, ha voluto con i suoi compagni di viaggio, piuttosto, rileggere le esperienze dei due grandi artisti. In particolare nel primo album, “Ayler’s Mood”, registrato live durante un concerto a “Jazz in Cantina”, zona Quarto Miglio, Roma, il 22 dicembre del 2018, Innarella (nell’occasione anche al sax soprano) coadiuvato da due eccellenti partner quali Danilo Gallo al basso e Ermanno Baron alla batteria, si rivolge all’universo di Albert Ayler (1936-1970) considerato a ben ragione uno dei massimi esponenti del free anni sessanta; lo stile del musicista di Cleveland era caratterizzato da un vibrato molto aggressivo e da un linguaggio che destrutturava gli elementi fondativi della musica, vale a dire melodia, armonia e timbro. Come affrontare quindi, tale musica senza ricorrere a sterile imitazioni? Lasciandosi andare ad una improvvisazione pura, estemporanea (come sottolineato nella presentazione dell’album) è stata la risposta di Innarella e compagni. Un flusso sonoro di circa un’ora che coinvolge l’ascoltatore in una sorta di viaggio senza meta, assolutamente coinvolgente. I tre suonano liberamente ma con estrema lucidità, in un quadro in cui nessuno ha la prevalenza sull’altro e in cui la musica di Ayler rivive in tutta la sua drammatica attualità con lacerti di free che si alternano con accenni di calypso o di R&B…senza trascurare alcune citazioni ben riconoscibili.
Nel secondo CD, “Go Dex”, Innarella è in quartetto con Paolo Cintio al piano, Leonardo De Rose al contrabbasso e Giampiero Silvestri alla batteria. In questo caso il discorso è completamente diverso e non potrebbe essere altrimenti dato che Dexter Gordon (1923-1990) è stato uno degli alfieri del bebop, un artista straordinario di recente ricordato in un bel volume della EDT di cui ci si occuperà quanto prima. Nell’album Innarella esegue sette composizioni di Dexter Gordon con l’aggiunta di un celeberrimo standard, “Misty” di Errol Garner. Ma è già nel termine “Go Dex” che si vuole omaggiare il sassofonista di Los Angeles dal momento che “Go” è il titolo che lo stesso Dexter volle dare ad un suo album registrato nell’agosto del 1962 con Sonny Clark piano, Butch Warren basso e Billy Higgins batteria. Ma Pasquale non si è fermato qui: Gordon ha scritto pochi brani e Innarella ha voluto, quindi, riproporne almeno una parte tenendosi però ben lontano da una pedissequa imitazione. Quindi non un linguaggio boppistico ma un jazz moderno, attuale, che non disdegna incursioni nel mondo del free. Ecco le prime battute dell’album eseguite secondo stilemi molto vicini al free accanto ad una convincente e canonica interpretazione di “Misty” con sonorità più legate alla tradizione; ecco “Soy Califa” dall’andamento funkeggiante, illuminato da uno splendido assolo di Paolo Cintio accanto al conclusivo “Sticky Wichet” che ci riconduce ad atmosfere molto accese… il tutto senza perdere di vista, in alcun momento, quelli che erano i principi ispiratori di Gordon e che ritroviamo intatti in questo pregevole album.

Keith Jarrett – “Munich 2016” – ECM 2667/68
Passano gli anni ma è sempre un’esperienza appagante ascoltare Keith Jarrett specie su disco (ché dal vivo alcune intemperanze sono francamente insopportabili). In questo doppio CD, registrato alla Philarmonic Hall di Berlino il 16 luglio del 2016, ultima sera di un tour europeo, Jarrett, in totale solitudine, ci presenta una suite in dodici parti dal titolo “Munich” totalmente improvvisata e tre bis, “Answer Me, My Love” (versione inglese della canzone tedesca del 1953, “Mütterlein”), “It’s A Lonesome Old Town” e “Somewhere Over The Rainbow”. Com’è facile immaginare, il Jarrett migliore lo si trova nella prima parte, e soprattutto nel primo movimento dove, in circa quindici minuti di musica magmatica e complessa, il pianista improvvisa liberamente mescolando gli input che oramai da tempo costituiscono gli ingredienti fondamentali della sua cifra stilistica, vale a dire jazz, blues, gospel, folk, musica colta. Ed è davvero un bel sentire: gli intricati percorsi disegnati da Jarrett confluiscono sempre laddove l’artista vuole arrivare, nonostante le spericolate armonizzazioni e la velocissima diteggiatura che alle volte non consentano all’ascoltatore, seppur attento, di immaginare il percorso immaginato dall’artista. E seppur meno intense anche i successivi momenti della suite mantengono davvero alto lo standard esecutivo ed improvvisativo di Jarrett. Leggermente diverso il discorso per i tre brani. Jarrett sembra essersi relativamente placato fino a regalarci una splendida versione del celeberrimo “Over The Rainbow” che da solo vale l’acquisto dell’album.

Lydian Sound Orchestra – “Mare 1519” – Parco della Musica Records
Oramai da tempo la Lydian Sound Orchestra viene a ben ragione considerata una delle migliori big band a livello internazionale e ciò per alcuni validi motivi; innanzitutto la bontà dell’organico che prevede artisti tutti di assoluto spessore quali i sassofonisti Robert Bonisolo, Rossano Emili e Mauro Negri anche al clarinetto, Gianluca Carollo alla tromba e flicorno, Roberto Rossi al trombone, Giovanni Hoffer al corno francese, Glauco Benedetti alla tuba, Paolo Birro al piano e al Fender Rhodes, Marc Abrams al basso e Mauro Beggio alla batteria, Riccardo Brazzale piano e direzione, Bruno Grotto electronics e Vivian Grillo voce. In secondo luogo il grande lavoro svolto da Riccardo Brazzale che è stato capace di mettere assieme una compagine di tutto rispetto e di scrivere per essa arrangiamenti coinvolgenti che non a caso sono stati interpretati dall’orchestra con estrema compattezza. A ciò si aggiunga una sempre lucida scelta del repertorio che anche questa volta è composto sia da composizioni originali del leader sia da composizioni di alcuni grandi della musica come Ellington, Monk, Shorter, Miles Davis, Paul Simon. In più questo album è una sorta di concept dal momento che, come spiegato nelle note, due numeri, 1 e 9, accompagnano nel corso dei secoli i viaggi e i viaggiatori, a partire dall’impresa di Magellano del 1519 ( considerata l’inizio dell’era moderna ) per finire al 2019 quando il mar Mediterraneo continua a raccontare di nascite e di morti; insomma questa volta Brazzale vuole prendere per mano l’ascoltatore e condurlo attraverso quel mar Mediterraneo, testimone delle più importanti vicende dell’umanità, per un viaggio che metaforicamente riproduce alcune fasi della storia del jazz. Di qui una musica immaginifica, travolgente a tratti, sempre improntata alla commistione di più elementi, dal jazz al folk alla musica classica, il tutto impreziosito da una originalità di linguaggio vivificata dal grande livello dei vari solisti cui prima si faceva riferimento.

Christian McBride – “The Movement Revisited” – Mack Avenue 1082
“The Movement Revisited: A Musical Portrait of Four Icons” è esplicitamente dedicato a quattro figure chiave del movimento per i diritti civili degli afro-americani: Rev. Dr. Martin Luther King Jr., Malcolm X, Rosa Parks e Muhammad Ali. In realtà questa monumentale opera ha una storia piuttosto complessa che ha origine nel 1998 quando, su commissione della Portland Arts Society, McBride scrisse una composizione per quartetto e coro gospel che rappresenta, per l’appunto, la prima versione di “The Movement Revisited”. Nel 2008 la L.A. Philharmonic chiese a McBride di farne una versione orchestrale e così “The Movement Revisited” diventò una suite in quattro parti per big band jazz, piccolo gruppo jazz, coro gospel e quattro narratori. In questa registrazione, effettuata nel 2013, è stato aggiunto un quinto movimento, “Apotheosis”, dedicato all’elezione di Barack Obama come primo presidente afroamericano degli Stati Uniti. Evidente, quindi, l’intento di Christian McBride (contrabbassista, compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra, poeta, vincitore di due Grammy con “The Good Feeling” nel 2011 e “Bringin ‘It” nel 2017) di presentare un album che andasse ben al di là del fattore squisitamente musicale riallacciandosi direttamente alla lotta per una effettiva eguaglianza tra bianchi e neri, ancora ben lungi dall’essere raggiunta negli States. La suite è eseguita da una big band di 18 elementi, con coro gospel e narratori, questi ultimi nelle persone di Sonia Sanchez, Vondie Curtis-Hall, Dion Graham, e Wendell Pierce. E come accade alle volte, è impossibile scindere il mero valore artistico dal valore sociale, politico, culturale che questa musica veicola. Non a caso l’album ha ottenuto i più sinceri riconoscimenti da parte di accreditati critici statunitensi. In effetti ascoltando il CD è come se ci si muovesse in un contesto teatrale con i quattro attori che riportano stralci dei discorsi dei protagonisti e un sound che è una sorta di summa di tutta la musica nera, quindi jazz, soul, funk, gospel, spiritual…Insomma una musica che è allo stesso tempo un grido di dolore per quanto accaduto e un segno di speranza per un futuro che non può essere disgiunto dal passato in quanto, come nota lo stesso McBride, “ci sono oggi nuove battaglie che stiamo combattendo, ma sento che queste nuove battaglie cadono sotto l’ombrello di uguaglianza, equità e diritti umani – e questa è una vecchia battaglia». Particolarmente emozionante, al riguardo, riascoltare “I Have a Dream”, un discorso che credo tutti dovremmo, ancora oggi, apprezzare nei suoi profondi significati.

Dino e Franco Piana – “Open Spaces” – Alfa Music
Conosco Dino e Franco Piana oramai da tanti anni e mi ha sempre stupito la straordinaria intesa tra padre e figlio che ha portato questi due personaggi ad attraversare l’oceano del jazz con signorilità, competenza e pochi ma significativi album. In effetti i due (il primo nella veste di trombonista dalla classe eccelsa, il secondo nella quadruplice funzione di compositore, arrangiatore, direttore d’orchestra e flicornista) entrano in sala di incisione solo quando sentono di avere qualcosa di nuovo da dire. Di qui gli ultimi tre album particolarmente significativi, tutti registrati per l’Alfa Music, “Seven” (2012), “Seasons” (2015), e adesso questo “Open Spaces” il cui organico è sostanzialmente lo stesso dell’album precedente cui si aggiungono i cinque archi della Bim Orchestra. Quindi, oltre a Dino e Franco Piana, si possono ascoltare Fabrizio Bosso alla tromba, Max Ionata al sax tenore, Ferruccio Corsi al sax alto, Lorenzo Corsi al flauto, Enrico Pieranunzi al piano, Giuseppe Bassi al basso e Roberto Gatto alla batteria. In repertorio due suite, “Open Spaces” e “Sketch of Colours”, articolate la prima su una Introduzione e tre Variazioni, la seconda su una Introduzione e due Movimenti, ed in più altri tre brani “Dreaming”, “Sunshine” e “Blue Blues”, tutti composti e arrangiati da Franco Piana eccezion fatta per “Sketch of Colours” scritto da Franco Piana e Lorenzo Corsi. L’album è davvero di assoluto livello e per più di un motivo. Innanzitutto la scrittura di Franco che, accoppiata ad una evidente bravura nell’arrangiamento, riesce a ricreare una sonorità caratterizzata da timbri e colori assolutamente originali, rimanendo fedele ad un linguaggio prettamente jazzistico. In secondo luogo l’affiatamento dell’orchestra che pur essendo composta da grandi personalità ha trovato una sua cifra di coesione che l’accompagna in tutte le esecuzioni. In terzo luogo la caratura dei vari assolo che vedono protagonisti tutti i componenti della band. A questo punto non resta che auguravi buon ascolto!

Stefania Tallini – “Uneven” – Alfa Music 226
Ebbene lo confesso: sono un grande amico di Stefania Tallini che ammiro non solo come pianista e compositrice ma anche come persona gentile, equilibrata, mai sopra le righe e soprattutto affettuosa, che si è sempre mantenuta con i piedi per terra nonostante gli innumerevoli successi a livello internazionale. Ecco, questo album inciso in trio con Matteo Bortone valente contrabbassista che ha suonato tra gli altri con Kurt Rosenwinkel, Ben Wendel, Tigran Hamasyan, Ralph Alessi, e Gregory Hutchinson statunitense a ben ragione considerato uno dei migliori batteristi di questi ultimi anni, è probabilmente uno degli album più significativi registrati dalla pianista. La filosofia dell’album è racchiusa nello stesso titolo, “Uneven” ovvero “Irregolare”: in effetti, spiega la stessa Tallini, “questa parola inglese è l’espressione di qualcosa di inatteso, di inaspettato, che rimanda ad un carattere di imprevedibilità, appunto, che è proprio ciò che amo nella musica e nella vita.” E per esplicitare al meglio queste sue posizioni, Stefania ha voluto fortemente accanto a sé i due musicisti cui prima si faceva riferimento. I risultati le danno ragione. L’album è convincente in ogni suo aspetto: intelligente la scelta del repertorio che accanto a dieci composizioni originali della pianista annovera “Inùtìl Paisagem” di Antonio Carlos Jobim e lo standard “The Nearness of You” di Hoagy Carmichael eseguito in solo; assolutamente ben strutturata la scrittura in cui ricerca della linea melodica e armonizzazione si equilibrano in un linguaggio che non consente espliciti punti di riferimento. Tra i vari brani una menzione particolare, a mio avviso, per il brano di Jobim proposto con grande partecipazione e delicatezza, impreziosito anche dagli assolo dei compagni di viaggio, e l’original “Triotango” che ben cattura l’essenza di questo genere musicale.

Oded Tzur – “Here Be Dragons” – ECM 2676
Questo “Here Be Dragons” è l’album d’esordio in casa ECM per il sassofonista israeliano, ma da tempo residente a New York, Oded Tzur. Accanto a lui Nitai Hershkovits al pianoforte, Petros Klampanis al contrabbasso e Johnathan Blake alla batteria, quindi una piccola internazionale del jazz dal momento che se Hershkovits è anch’egli israeliano, il bassista è greco di Zakynthos‎ e il batterista statunitense di Filadelfia. Registrato nel giugno del 2019 presso l’Auditorio Stelio Molo in Lugano, l’album presenta in repertorio otto brani di cui ben sette scritti dallo stesso sassofonista cui si aggiunge “Can’t Help Falling In Love” di Peretti-Creatore-Weiss, portato al successo nientemeno che da Elvis Presley. Fatte queste premesse, anche per inquadrare il personaggio ancora non molto noto presso il pubblico italiano, occorre sottolineare la valenza della musica proposta. Una musica che sottende una particolare bravura di Tzur sia nell’esecuzione sia ancora – e forse di più – nella scrittura, sempre fluida, facile da assorbire seppure non banale e soprattutto frutto di una straordinaria capacità di introiettare input provenienti da mondi i più diversi. In effetti egli, israeliano di nascita, ha dedicato molta parte del suo tempo a studiare la musica classica indiana considerata, come egli stesso afferma, “un laboratorio di suoni”. Ecco quindi stagliarsi in modo del tutto originale il suono del suo sassofono chiaramente influenzato dagli studi con il maestro di bansuri (flauto traverso tipico della musica classica indiana) Hariprasad Chaurasia, iniziati nel 2007. Ed è proprio la particolarità del sound che a mio avviso caratterizza tutto l’album, con i quattro musicisti che si intendono a meraviglia pronti a supportarsi in qualsivoglia momento. I brani sono tutti ben scritti e arrangiati con una prevalenza, per quanto mi riguarda, per “20 Years” la cui linea melodica viene splendidamente disegnata da Hershkovits altrettanto splendidamente sostenuto da Blake il cui lavoro alle spazzole andrebbe fatto studiare ai giovani batteristi.

Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand – ACT 9739-2
Ecco un album che sicuramente susciterà l’interesse e la curiosità degli appassionati italiani: protagonisti due artisti estoni, la cantante, pianista e compositrice Kadri Voorand e il bassista Mihkel Mälgand. Kadri da piccola cantava nel gruppo di musica popolare di sua madre, avvicinandosi successivamente al pianoforte classico e quindi al jazz nelle accademie di Tallinn e Stoccolma.  Oggi viene considerata una stella nel proprio Paese grazie ad uno stile versatile che le consente di mescolare jazz contemporaneo, folk estone, rhythm & blues e ritmi latino-americani. Non a caso nel 2017 è stata insignita del premio musicale estone per la miglior artista ed è stata premiata per il miglior album jazz dell’anno (“Armupurjus”). Mihkel Mälgand è uno dei bassisti estoni di maggior successo, avendo lavorato, tra gli altri, con musicisti come Nils Landgren, Dave Liebman e Randy Brecker. In questo album si presentano nella rischiosa formula del duo con la vocalist che suona anche kalimba e violino mentre Mihkel si cimenta anche con bass guitar, bass drum, cello e percussioni. In un brano ai due si aggiunge come special guest Noep. In repertorio 12 brani scritti in massima parte dalla Voorand e cantati in inglese eccezion fatta per due nella sua lingua madre (due splendide song tratte dal patrimonio folcloristico estone). L’album è notevole ed è stato apprezzato anche al di fuori dell’Estonia: Europe Jazz Network, la rete europea di operatori del settore jazz, che stila la Europe Jazz Media Chart, una selezione mensile dei migliori titoli usciti curata da un pool di giornalisti specializzati, ha incluso “Kadri Voorand – In duo with Mihkel Mälgand” tra le migliori registrazioni del marzo 2020. La musica scorre fluida ed evidenzia appieno la valenza dei due musicisti che si muovono con maestria ben supportati da un tappeto intessuto dagli effetti elettronici padroneggiati con misura ed euqilibrio. La voce della Voorand è fresca, e affronta il difficile repertorio con disinvoltura non scevro da una certa dose di ironia. Dal canto suo Mälgand non si limita ad accompagnare la vocalist ma ci mette del suo prendendo spesso in mano il pallino dell’esecuzione sempre con pertinenza.

Gonzalo Rubalcaba: è difficile restare in alto

 

 

L’appuntamento è fissato per le 18,30 nel migliore albergo di Grado, poche ore prima del concerto che lo vedrà trionfare alla prima edizione di Grado Jazz.

Ogni volta che ci incontriamo ho sempre un po’ di timore: lui è diventato una stella di primaria grandezza, acclamato da pubblico e critica sotto ogni latitudine; io un cronista di jazz che continua a fare il suo lavoro con passione e onestà intellettuale. E quindi: sarà affettuoso come sempre o sarà annoiato dalla mia presenza?

Per fortuna anche questa volta i miei dubbi si sciolgono immediatamente: appena mi vede mi corre incontro e mi abbraccia con il calore e l’affetto di sempre.

In effetti molta acqua è passata sotto i classici ponti da quando nel 1991, in Martinica, ho avuto il piacere di conoscere Gonzalo Rubalcaba; da allora ci siamo mantenuti in contatto e ogni volta che viene in Italia se possibile lo raggiungo e lo sottopongo alla rituale tortura di un’intervista, cui egli non si sottare…anzi.

Entriamo subito in argomento, regalandogli il mio libro – “Gente di jazz” – contenente la prima intervista che gli feci nell’oramai lontano 1991.

 

-Gonzalo, dopo tutti questi anni, come ci si sente ad essere considerati una stella di assoluta grandezza nel firmamento del jazz?

“Bene, ovviamente, anche se tu mi conosci bene e sai che ho dovuto faticare non poco per raggiungere questi risultati. Credo, per rispondere più dettagliatamente alla tua domanda, che oggi sono un pò più in linea con ciò che per molti anni ho cercato di raggiungere. Però questa è una carriera come altre in cui non si arriva mai. Certo, ciò dipende da ciascun individuo, da ciascuna persona, da ciò che ognuno pensa. Ci sono alcuni che trovano – e si accontentano – la formula di fare musica, per me è molto importante trovare la forma di fare musica. La forma io credo che non sia legata ad alcun tipo di ordine di moda, o di ordine commerciale. La forma è essere più fedele alla creazione stessa senza che tu sia troppo interessato a quali siano le strade che ti portano ad un risultato più rapido; l’importante per me è sentirmi bene con ciò che faccio e sentire che sono sincero, coerente con ciò che dico. Comunque non ti credere, anche se sono arrivato in alto, la vita è sempre difficile anche perché c’è molta concorrenza e quando questa è leale no problem, quando invece è scorretta allora le cose si complicano”.

-Senti mai il bisogno di rifugiarti in seno alla tua famiglia?

“No anche perché ho sempre accanto a me la mia famiglia. Noi viviamo in Florida, a Coral Springs, un’ora di macchina più su di Miami. Come forse ricorderai ho tre figli, due maschi ed una femmina e tutti e tre sono in qualche modo impegnati nella musica”.

 

-Chissà perché la cosa non mi stupisce affatto. Come articolerai il concerto di questa sera e cosa puoi dirmi dei tuoi attuali partner?

“Per quanto riguarda il repertorio sarà una sorta di summa della mia carriera sino a questo momento, vale a dire brani, suggestioni tratti dai molti album che ho registrato fino ad oggi. Per quanto concerne i miei attuali compagni di viaggio, con il bassista Armando Gola collaboro oramai da molti anni e quindi l’intesa è perfetta, quasi telepatica. Il batterista, Ludwig Afonso, è con me solo da un anno ma sentirai: è un drummer sontuoso”.

 

-Conoscendo la cura con cui scegli i tuoi partner non ne dubito. Poco fa hai fatto cenno alla tua produzione discografica. Quali progetti hai in cantiere al riguardo?

“Come probabilmente saprai, qualche anno fa ho fondato una mia etichetta indipendente – “5 Passion” – con cui realizzo i miei nuovi album. Adesso ne ho pronti tre ma sto ancora cercando la casa di distribuzione. Il primo di questi CD si chiama “Skyline” e vorrei uscisse entro quest’anno”.

 

-Mi sembra di aver letto che si tratta di una sorta di omaggio a Ron Carter e Jack DeJohnette.

“Esatto: il trio è composto da me e da questi due straordinari artisti. L’album lo abbiamo registrato in ottobre ai Power Station di New York durante una session di due giorni. Sono gli studi di registrazione un tempo chiamati Avatar ricchi di ricordi per tutti noi tre”.

 

-Perché hai sentito l’esigenza di questo omaggio?

“Perché non dimenticherò mai quello che artisti come Ron Carter e Jack DeJohnette, fra molti altri, hanno fatto per me al mio arrivo negli Stati Uniti quando avevo meno di trent’anni. Mi vengono in mente, oltre a Ron e Jack, Joe Lovano, Chick Corea, Herbie Hancock, Paul Motian… tutte persone che si sono prese cura di me, accettandomi all’interno della comunità musicale. E da loro ho cercato di imparare il più possibile. Da allora ho cercato, quasi, di pagare loro un tributo invitandoli a suonare con me 20 o 30 anni dopo. L’album sarà composto da 6 tracce originali, due firmate da ognuno di noi tre. Ho poi voluto aggiungere due brani di piano solo, il primo scritto da Jose Antonio Mendez mentre il secondo è una versione di “Lágrimas negras” reso famoso in tutto il mondo dai Buena Vista Social Club, c he presenterò anche questa sera. A chiudere un brano nato spontaneamente, quasi un blues, che è venuto davvero bene”.

 

-Questo senza ovviamente dimenticare Dizzy Gillespie e soprattutto Charlie Haden con il quale, come tu stesso hai avuto speso modo di dichiarare, hai avuto un rapporto stretto, non solo in campo artistico ma anche personale.

“Certo”.

-Bene parliamo adesso degli altri due album pronti sulla rampa di lancio.

“Il secondo è stato inciso dal “Trio d’été” che mi vede accanto a Matthew Brewer basso  ed Eric Harland batteria. E con questa formazione mi sono esibito anche all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Il terzo, cui tengo particolarmente, è la registrazione di un recital per piano solo che ho tenuto il 16 maggio del 2017 al Teatro Olimpico di Vicenza, un concerto che ricordo con particolare piacere per le sensazioni straordinarie che ho vissuto”.

-Dischi a parte, hai qualche altro progetto in mente?

“Sì, tra qualche mese con una tournée in Giappone, partirà un progetto particolare con la vocalist Aymee Nuviola che si chiama “Viento y Tiempo”. Aymee è una straordinaria vocalist cubana che conosco praticamente da sempre. Quando avevo dieci anni, e lei sette, andavamo dalla stessa maestra di piano, Silvia; abitavamo nello stesso barrio e ci vedevamo spesso. Poi, come puoi ben immaginare, le vicende della vita ci hanno portato lontani. Ma poco tempo fa ci siamo rivisti, abbiamo ricordato i vecchi tempi e abbiamo scoperto la possibilità, anzi la voglia di mettere su un progetto assieme, incentrato non sul jazz ma sulle musiche tradizionali cubane. L’abbiamo fatto ed ora siamo sui blocchi di partenza. E’ un progetto di cui sono davvero entusiasta e spero tanto che vada bene”.

 

-Se non sbaglio avete già collaborato in passato

“Sì, sono stato suo ospite nell’album “First Class to Havana”.

 

-Quando pensi che sarà possibile ascoltarlo in Italia?

“Lo porteremo in Europa il prossimo anno e sono sicuro che verremo anche in Italia dove so di poter contare su molti estimatori”.

 

-Ci sono altri artisti cubani che si stanno mettendo particolarmente in luce?

“Ce ne sono davvero tanti e sparsi in tutto il mondo. Tanto per farti qualche nome c’è Alfredo Rodriguez, pianista e compositore che adesso ha 33 anni e che ha collaborato con Quincy Jones; c’è David Virelles statunitense d’adozione; a Madrid opera Iván ‘Melón’ Lewis che viene da Pinar del Río; ad Amsterdam è possibile ascoltare Ramón Valle… insomma ce n’è davvero tanti e come vedi sono davvero in giro per il mondo”.

 

-Un’ultima domanda che spero non ti crei imbarazzo: come vedi la situazione attuale a Cuba?

“Come sempre… nel senso che non vedo segni di profondo cambiamento. Negli ultimi cinquant’anni Cuba è stata totalmente scollegata dal resto del mondo per cui reputo improbabile una sua veloce e specifica ripartenza. Certo, è possibile che tra poco si possano trovare anche a Cuba quantità rilevanti di prodotti di qualità ma le incrostazioni nella struttura mentale dei cubani, il modo in cui ormai intendono la vita sono assai difficili da sconfiggere. C’è chi da tempo si è messo l’animo in pace con ciò che passava il convento e non ha altre ambizioni; altri, invece, sperano nel cambiamento; vedremo!”.

 

I NOSTRI CD. Dalle ristampe musica senza tempo. Dalle novità la conferma del made in Italy

Oscar Brown Jr. – “Between Heaven And Hell” plus “Sin & Soul” – Soul Jam 600912
Nel corso degli anni Oscar Brown Jr. è diventato famoso non solo e non tanto per le sue grandi capacità di vocalist quanto per l’aver assunto determinate posizioni politiche che sarebbero divenute patrimonio di tutta la musica nera al di là di ogni distinzione tra jazz, funk, rap, R&B. In effetti considerare Brown solo come jazzista è piuttosto riduttivo dal momento che lo stesso si è affermato anche come poeta e drammaturgo. Questo album ci restituisce, comunque, Oscar Brown Jr. nella sua veste di eccellente jazzista quale lo si ritrova in due LP, “Between Heaven And Hell” del 1962 e “Sin & Soul” del 1960 con l’aggiunta di tre bonus tracks sempre dei primissimi anni sessanta. Si tratta, in buona sostanza, dei primi due LP incisi da Oscar Brown e che anche per questo assumono una precisa rilevanza storica. In “Sin & Soul” Oscar Brown ha scritto parole e musica della maggior parte dei brani in repertorio; da segnalare come in tre pezzi la musica sia opera di altrettanti personaggi all’epoca emergenti ma che in breve sarebbero diventati celebri: “Work Song” di Nat Adderley, “Dat Dere” di Bobby Timmons e “Afro-Blue” di Mongo Santamaria. Ma è proprio nelle composizioni ascrivibili in toto al vocalist che troviamo i motivi di maggiore interesse con brani emblematici quali “Bid’em In” e “Humdrum Blues” che rappresentano in toto la poetica dell’artista così complessa e così calata nella realtà degli afro-americani.
Nell’altro LP – “Between Heaven And Hell” – possiamo ascoltare dodici brani di cui ben dieci scritti totalmente dal vocalist e due in cui Oscar Brown ha composto la musica su testi di poeti quali Gwendolyn Brooks e Paul L. Dunbar. Notevoli in questo caso non solo l’interpretazione del leader ma anche i preziosi arrangiamenti di Ralph Burns e, in due brani “Mr. Kicks” e “Hazel’s Hips”, di Quincy Jones. Altresì notevoli gli apporti dei solisti quali, ad esempio, il trombettista Joe Newman e il pianista Patti Bown.

Miles Davis – “In Person Friday and Saturday Nights at the Blackhawk” – Poll Winners 27373 2 CD
E rimaniamo negli anni ’60 con queste straordinarie registrazioni di Miles Davis. Questo doppio cd ripropone, infatti, lo storico concerto registrato dal trombettista il 21 e 22 aprile del 1961 al Blackhawk di San Francisco, originariamente pubblicato come “Miles Davis in Person at the Blackhawk Vols. 1 & 2” (Columbia CS8469/CS 8470).
Anche in questo caso sono molti i motivi di interesse. Innanzitutto, dal punto di vista storico, si tratta di una delle pochissime registrazioni di Miles Davis con Hank Mobley al sax tenore (le altre due registrazioni di questo quintetto furono “Someday My Prince Will Come” e “Miles Davis at Carnegie Hall”). In secondo luogo si tratta delle prime performances e relative registrazioni che Miles, alla testa di questo gruppo, abbia effettuato in un club. Inoltre è possibile ascoltare una delle migliori sezioni ritmiche che la storia del jazz possa vantare, vale a dire Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria che non a caso hanno suonato e registrato spesso come un trio a sé stante. Dal punto di vista squisitamente musicale non credo siano necessarie molte parole per illustrare la valenza di questa musica e ne era convinto lo tesso Miles che rispondendo ad alcune domande di Ralph J. Gleason, incaricato di scrivere le note di copertina, affermò che non c’era alcunché da scrivere sulla musica dal momento che la stessa parlava da sé. E parlava un linguaggio allo stesso tempo moderno ma legato alle tradizioni, con una front-line in cui Hank Mobley riusciva a dialogare con grande intensità con Miles in uno dei suoi giorni migliori. Il tutto supportato da una sezione ritmica, come si diceva, di assoluta eccellenza. Tutti i brani sono da godere nella loro interezza anche se personalmente ho apprezzato in modo particolare “Walkin’” e “Softly As In A Morning Sunrise”.

Bill Evans – “New Jazz Conceptions” – Poll Winner 27364
Durante questa rassegna di ristampe mi leggerete usare spesso l’aggettivo ‘storico’ ma in taluni casi è davvero indispensabile. Ad esempio come meglio definire questo CD di Bill Evans dal momento che si tratta dell’album d’esordio dell’allora ventisettenne pianista come leader (prodotto da Orrin Keepnews per la Riverside Records RLP-12-223) riprodotto nella sua interezza e comprendente quindi un’alternate take di “No Cover, No Minimum” che chiude la session. Originariamente l’lp, registrato nel settembre del 1956, conteneva undici tracce di cui otto in trio con Teddy Kotick al basso e Paul Motian alla batteria, e tre in piano solo tra cui la prima registrazione del capolavoro di Evans, “Waltz for Debby”. Basterebbero queste poche note per far capire come si tratti di un album che ogni appassionato di jazz dovrebbe possedere e ascoltare con attenzione. Quell’attenzione che evidentemente non prestarono gli ascoltatori dell’epoca dato che il primo anno della sua uscita l’album vendette appena 800 copie. In effetti, anche se Evans stava ancora mettendo a punto il suo stile che avrebbe dato una svolta imprescindibile alla concezione del piano-trio, tuttavia non era certo difficile cogliere le potenzialità di questo straordinario artista. E le possibilità di comparazione erano lì, sotto gli occhi di tutti, dal momento che in questo specifico album Evans poneva il focus della sua ricerca ancora sul grande song book americano proponendo solo poche sue composizioni – “Five” , “Displacement”, oltre ai già citati “No Cover, No Minimum” e “Waltz for Debby”. Quasi inutile sottolineare come a distanza di oltre sessanta anni queste incisioni conservino intatta tutta la loro freschezza, originalità a conferma che la grande musica non conosce confini di spazio o di tempo. Magnifica, in particolare, l’interpretazione di “My Romance” di Rodgers-Hart. L’album è completato da altri sei brani provenienti da due session dello stesso periodo in cui Evans suona con Dick García chitarra, Jerry Bruno basso e Camille Morin batteria nei primi tre, e con Eddie Costa vibrafono, Joe Puma chitarra, Oscar Pettiford basso e Paul Motian batteria negli altri tre. Da leggere, infine, la recensione scritta per Down Beat da Nat Hentoff e fedelmente riportata nel libretto che accompagna l’album unitamente alle note originarie di Orrin Keepnews e ad un ulteriore contributo di Mel Parson redatte per la riedizione del disco.

Maynard Ferguson – “The Birdland Dream Band” – RCA Victor 88985407092
Ancora una ristampa di grande importanza storica e artistica. Siamo a metà degli anni ’50, per la precisione nel 1956, e Maynard Ferguson ha l’opportunità di formare una orchestra stellare significativamente chiamata “Birdland Dream Band” con cui effettua numerose tournée e incide qualche album come quello presentato in questo CD, impreziosito dalla presenza di altri nove alternate tracks non comprese nell’originale LP. Le registrazioni, effettuate alla Webster Hall di New York nel settembre del 1956, evidenziano tutta la potenza interpretativa dell’orchestra. In effetti grazie agli arrangiamenti di personaggi quali Al Cohn, Bob Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Ernie Wilkins, Bill Holman, Marty Paich, Willie Maiden, Johnny Mandel, Herb Geller, e a solisti del calibro del trombonista Jimmy Cleveland, dell’altista Herb Geller, del tenorista Al Cohn, del trombettista Nick Travis, del pianista Hank Jones la band raggiunge un successo strepitoso e costituisce di fatto la base di lancio per la prestigiosa carriera da band-leader che avrebbe contrassegnato la vita di Ferguson. Successo, intendiamoci, del tutto meritato come avrete modo di constatare ascoltando l’album. La musica è serrata, lo swing intenso, trascinante, il sound orchestrale compatto, gli interventi solistici perfetti con il leader sovente in primo piano; i brani si susseguono senza un attimo di tregua a declinare un repertorio di assoluto livello in cui figurano, in veste di autori, Al Cohn, Bill Holman, Bobby Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Marty Paich, Manny Albam e John Mandel, come a dire una piccola enciclopedia del jazz.

Ella Fitzgerald – “Sings the Cole Porter Song Book” – Poll Winners 27363 – 2 CD
Rimaniamo negli anni cinquanta; Lady Ella è in piena attività, oramai riconosciuta come una delle più importanti vocalist jazz; così si esibisce in tournée attraverso l’Europa e il Nord America, accompagnata dall’orchestra di Duke Ellington e instaura una proficua collaborazione con Louis Armstrong documentata da tre indimenticabili album: “Porgy and Bess”, dedicato all’omonima opera di George Gershwin, e due incisioni di standard jazz, “Ella and Louis” e “Ella and Louis Again”. In questo stesso periodo incide per l’etichetta discografica Verve Records una serie di Songbooks, prodotta da Norman Granz, contenenti le canzoni scritte dai più grandi compositori americani. Questo doppio CD, registrato nel 1956, ci presenta per l’appunto Ella Fitzgerald impegnata nella interpretazioni del song book di Cole Porter. Questa volta l’aggettivo “storico” è quanto mai opportuno: in effetti l’album già nel 2000 entra a far parte del Grammy Hall of Frame e nel 2003 è uno dei 50 dischi scelti dalla Libreria del Congresso per far parte del “National Recording Registry”. In effetti l’album è semplicemente straordinario: Ella è in gran forma, la sua voce è fresca, caratterizzata come al solito da un’ampia estensione e da una perfetta intonazione, sorprendente il suo scat che avrebbe poi costituito parte integrante della sua cifra stilistica, grande la capacità di improvvisazione jazzistica. Assolutamente pertinente l’accompagnamento fornito dalla big band di Buddy Bergman in cui spiccano solisti come i trombettisti Pete Candoli, Harry “Sweets” Edison, Maynard Ferguson, i sassofonisti Herb Geller, Bud Shank, Bob Cooper, il chitarrista Barney Kessel, il contrabbassista Joe Mondragon e il batterista Alvin Stoller. A ciò si aggiunga la bellezza dei temi firmati da Cole Porter: brani come “In The Still Of The Night”, “I Get A Kick Of You”, “Just One of Those Things”, “Begin the Beguine”…tanto per citare qualche titolo, vengono lumeggiati nelle pieghe più remote e riproposte in tutta la loro valenza. Il doppio album contiene come bonus track “Love For Sale” registrato il 29 aprile del 1957 con Don Abney piano, Herb Ellis chitarra, Ray Brown basso e Jo Jones batteria. Ad impreziosire il tutto un ampio libretto con interventi di Alan Guntry, Don Freeman, Norman Granz, Fred Lounsberry.

Oliver Nelson – “The Blues and the Abstract Truth” – The Stereo & Mono Versions – Green Corner 100894 – 2 CD
Oliver Nelson nasce a St.Louis, Missouri, nel 1932 e comincia a suonare il pianoforte all’età di sei anni per passare al sassofono ad undici. Nel 1947 le prime scritture professionali con diverse band nei dintorni di St.Louis, finché nel 1950 entra nella big band di Louis Jordan suonando il sassofono contralto ed occupandosi altresì degli arrangiamenti. Il grande successo arriva nel 1961 quando, dopo sei album come leader, incide per l’appunto “The Blues and the Abstract Truth” (che contiene tra gli altri il famoso “Stolen Moments”, poi diventato uno standard); accanto a lui una serie di musicisti eccezionali quali George Barrow al sax baritono, il trombettista Freddie Hubbard, il sassofonista e flautista Eric Dolphy (alla sua ultima collaborazione con Nelson dopo una serie di registrazioni per la Prestige), Bill Evans al piano (nel suo unico album con Nelson), Paul Chambers e Roy Haynes rispettivamente basso e batteria. L’album ci viene proposto nella duplice versione mono e stereo e la cosa non deve stupire più di tanto ove si consideri che nei primissimi anni sessanta le case discografiche erano solite pubblicare nella duplice versione dato che ancora la stereofonia non era molto diffusa. Dal punto di vista squisitamente musicale, l’album è una vera e propria perla nella discografia di quegli anni; dall’alto della sua perizia di arrangiatore e compositore, Nelson, pur non rispettando la canonica struttura delle 12 battute, si lancia in una profonda esplorazione del blues di cui ci propone una sua particolarissima e brillante visione, in ciò perfettamente assecondato da quei grandiosi musicisti cui prima si faceva riferimento. Il brano più noto e probabilmente il migliore è “Stolen Moments”; dopo una introduzione collettiva è Freddie Hubbard a prendere un convincente assolo, seguito dal flauto di Dolphy e dal sax tenore di Nelson. L’assolo di Bill Evans e la riproposizione corale del tema chiudono il brano. Un’ultima non secondaria notazione: il doppio CD contiene altri due album, “Trane Whistle” (1960), della big band del sassofonista Eddie “Lockjaw” Davis con arrangiamenti di Oliver Nelson e Ernie Wilkins, e “Straight Ahead” (1961) dello stesso Nelson.

Art Pepper – “Smack Up” – Poll Winners 27360
Anche questo album ha una sua precisa caratterizzazione storica: si tratta, infatti, della penultima registrazione effettuata dal sassofonista e clarinettista Art Pepper come leader prima che lo stesso fosse incarcerato a S. Quentino per motivi di droga e tornasse a registrare solo nel 1964. Purtroppo la frequentazione con le droghe fu una costante nella vita di Pepper condizionandolo in maniera decisiva e riducendo in maniera sostanziale le sue possibilità espressive. In altri termini Pepper avrebbe potuto dare molto di più se avesse avuto una vita regolata. Chiaramente influenzato da Charlie Parker all’inizio della carriera, Pepper riuscì a trovare una sua strada nel corso degli anni, specie nel periodo che va dal 1957 al 1960. Ed in effetti questo “Smack Up” venne registrato a Los Angeles nell’ottobre del 1960 in quintetto con il trombettista Jack Sheldon, il pianista Pete Jolly, il bassista Jimmy Bond e il batterista Frank Butler. Nelle note di copertina originarie, scritte da Leonard Feather e riportate nel libretto che accompagna il CD, si può leggere come le doti principali dell’altosassofonista vadano ricercate nella passionale eloquenza anche se chiaramente influenzata da Parker e nell’assoluta originalità del suo sound che lo rendono immediatamente riconoscibile. Molti anni sono trascorsi da quando Feather formulò tali valutazioni ma non si può non essere d’accordo con lui ascoltando questo splendido album in cui Pepper evidenzia appieno la sua complessa personalità, ben coadiuvato da eccellenti compagni d’avventura tra cui in primissimo piano il trombettista Jack Sheldon e il pianista Pete Jolly. Come bonus track l’album contiene l’unico brano della colonna sonora del film The Subterraneans in quintetto co-guidato da Pepper e Sheldon, ed una sessione completa del 1959 in nonetto, con Jack Sheldon e Chet Baker alla tromba, Art Pepper e Herb Geller al sax alto, Stu Williamson al trombone a valve, Harold Land al sax tenore, Paul Moer al pianoforte, Buddy Clark al basso e Mel Lewis alla batteria.

Sonny Stitt, Hank Jones – “Cherokee” – Phono 2 CD
Ecco una ristampa imperdibile per chi ama Sonny Stitt e per chi, più in generale, ama la buona musica. Questo doppio cd riunisce, infatti, quattro sessioni complete nella loro interezza da cui sono scaturiti gli album “Sonny Stitt with The New Yorkers”, “Now!”, e “Salt and Pepper”, così come l’album “Stitt in Orbit” (comprendente altri due brani, non inclusi qui, poiché tratti da una sessione con una formazione diversa) registrati tra il 1957 e il 1963. In tutte queste registrazioni il sassofonista ha al suo fianco il pianista Hank Jones con il quale aveva già collaborato nel 1953 come membri del Buddy Rich Quartet, e, dopo le session qui presentate, non avrebbero registrato insieme fino al 1972 nell’album “Goin’ Down Slow” in quartetto con George Duvivier basso e Idris Muhammad batteria. In tutti i brani qui proposti Sonny Stitt e Hank Jones suonano in quartetto o con Wendell Marshall al basso e Shadow Wilson alla batteria o con Tommy Potter basso e Roy Haynes batteria o ancora con Al Lucas basso e Osie Johnson batteria. Nell’album “Salt and Pepper”, si aggiunge Paul Gonsalves, per la sua unica collaborazione registrata con Stitt mentre la sezione ritmica è affidata a Milt Hinton e Osie Johnson. Dal punto di vista musicale i brani che possiamo ascoltare in queste registrazioni sono un valido esempio del migliore jazz che si suonava in quel periodo. Stitt è in gran forma ed ha già intrapreso la strada che man mano lo porterà a distaccarsi dal suo modello d’ispirazione, Charlie Parker, come dimostrano, tra l’altro, le registrazioni effettuate nel ’60 con Miles Davis. Dal canto suo Hank Jones è nel pieno della maturità espressiva e proprio negli anni sessanta costituisce un suo quartetto, assieme al batterista Osie Johnson, al chitarrista Barry Galbraight e al bassista Milt Hinton che ottiene un clamoroso successo di pubblico e di critica. Come avrete modo di ascoltare il suo pianismo si integra perfettamente con le linee bop tracciate da Stitt per una musica che davvero non conosce l’usura del tempo.

Kai Winding – “Solo + Kai Olé” – Phono 870284
Quella di Kai Winding è stata una sorte piuttosto strana: nonostante nessuno metta in dubbio le sue qualità, tuttavia lo si ricorda soprattutto per le registrazioni effettuate durante gli anni ’50 con Jai Jai Johnson e viene assolutamente trascurata tutta la produzione successiva. Invece questo cd riunisce due album completi degli anni ‘60, che compaiono per la prima volta su CD: “Solo” (Verve V6-8525) e “Kai Olé” (Verve V6-8427). Il primo album, registrato tra gennaio e febbraio del 1963, vede il trombonista alla testa di un combo con Ross Tompkins al piano, Dick Garcia chitarra, Russell George basso, Gus Johnson o Tommy Check batteria. Nel secondo, registrato nel 1961, il trombonista di Aarhus, Danimarca, guida una grande orchestra di dodici elementi arrangiata e condotta da Al Cohn e dal collega trombonista Billy Byers. Nella band spiccano solisti come Phil Woods, Clark Terry, Joe Newman e lo stesso Byers. Dal punto di vista squisitamente musicale, “Solo” si caratterizza per il fatto che Winding, contrariamente a quanto era solito fare in quel periodo, abbandona la formazione con più tromboni e si presenta come unico fiato in quartetto o in quintetto. In tali contesti ha modo di esprimere appieno tutte le proprie potenzialità tanto che ancora oggi l’album viene considerato uno dei migliori registrati da Winding negli anni ’60. Anni in cui Kai incide soprattutto anche album jazz-pop per la Verve Records con il produttore Creed Taylor. Tornando a “Solo”, lo si ascolti particolarmente in “Days Of Wine And Roses”. Diverse le atmosfere ricercate in “Kai Olé” che può essere considerato un album di latin jazz; non a caso in repertorio figurano brani come “Manteca”, “Caribe” e “Besame Mucho”. Winding e compagni esplorano questo linguaggio e trovano piena libertà espressiva servendosi al meglio delle percussioni latine nella mani dell’eccellente Willie Rodriguez. Ma il protagonista è sempre lui, il trombonista danese, che mette in vetrina una sonorità ancora una volta splendida ed un fraseggio sempre fluido e preciso.

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Ajugada Quartet – “Hand Luggage” – Filibusta 1813
Quattro donne per questo Ajugada Quartet al suo debutto discografico: Antonella Vitale voce, Gaia Possenti pianoforte, Giulia Salsone chitarra e Danielle Di Maio sax alto e soprano, con l’aggiunta, in veste di special guest, di Juan Carlos Alberto Zamora armonica, Neney Santos percussioni e Stefano Isola synth. Costituitosi recentemente, il gruppo ha già potuto riscuotere l’interesse del pubblico nei concerti tenutisi alla Casa del Jazz di Roma, al Festival R-Esistenza Jazz presso l’Acrobax a Roma, al Festival del Jazz Teatro di Ostia Lido, Teatro Palladium di Roma Festival delle Compositrici e a “L’Aquila Jazz per le Terre del sisma edizione 2018”. Quindi, se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino non c’è dubbio che sentiremo ancora parlare di questa formazione. Senza alcuna pretesa di sperimentazione né di stupire l’ascoltatore, con molta umiltà e onestà intellettuale (merce oltremodo rara di questi tempi), le quattro artiste si muovono alla ricerca di belle melodie, senza per questo disdegnare la scrittura, con la presenza, quindi, in repertorio di ben sette original. In altre parole il gruppo prende per mano l’ascoltatore e lo conduce in un affascinante viaggio musicale attraverso stili e input differenti: così partendo da un brano di grande jazz come “Kind Folk” di Kenny Wheeler si arriva al Brasile di Egberto Gismonti e a Fito Paez, grande personaggio della scena artistica argentina. L’intesa è notevole: la voce si integra perfettamente in un contesto strumentale in cui piano e chitarra non fanno avvertire la mancanza di una sezione ritmica canonica (basso e batteria) mentre gli interventi degli ospiti appaiono quanto mai centrati e pertinenti. Si ascolti, al riguardo, Juan Carlos Albeto Zamora ne “Il regalo” e in “Livingstone”.

Enrica Bacchia – “E ritorno a casa” – Accordo BGZ/001
Spesso, parlando del mio recente volume “L’altra metà del jazz”, ho detto che una delle interviste che mi aveva maggiormente colpito per la capacità dell’interlocutore di mettersi a nudo era stata quella con Enrica Bacchia. E la capacità di questa straordinaria artista di andare dritta al cuore si manifesta sì con le parole… ma ancor meglio con la musica. Non è certo un caso che la Bacchia sia considerata una delle massime espressioni del canto europeo e se ce ne fosse stato ulteriore bisogno questo album è lì a dimostrarlo. Perfettamente coadiuvata da Massimo Zemolin (chitarra 7 corde), e Stefano Graziani (chitarra) cui si aggiungono in alcuni brani Luigi Sella al sax soprano, Francesco Pollon al pianoforte, David Boato alla tromba e Stefano Panizzo come arrangiatore nel brano di chiusura, la Bacchia affronta un repertorio all’apparenza “leggero” ma proprio per questo difficile da tradurre in qualcosa di completamente diverso dalla pop-routine. Ma la vocalist ci riesce perfettamente aderendo al titolo dell’album. E di un ritorno a casa in effetti si tratta dal momento che dopo aver declinato repertori americani, sudamericani ed europei, questa volta si rivolge a melodie di stampo italico che tutti conosciamo perfettamente. Particolarmente toccante l’apertura affidata a “Se io fossi un angelo” di Lucio Dalla, cantautore in cima alle preferenze del vostro cronista; Enrica affronta il brano con sincera partecipazione e grande trasporto nel raccontare ciò che Dalla voleva dirci con i suoi testi tutt’altro che banali. E l’attenzione ai testi è una costante di tutto il CD sottolineata dal fatto che la vocalist è accompagnata, per quasi tutto l’album, solo dalle corde di chitarra all’interno di un’architettura sonora semplice ma efficace. L’album si chiude con un brano strumentale scritto da Stefano Graziani con il trombettista David Boato in bella evidenza.

Maurizio Brunod – “Nostalgia progressiva” – Caligola 2241
Album di notevole interesse questo firmato da tre fra gli artisti più innovativi del panorama musicale italiano: il chitarrista Maurizio Brunod, il vocalist Boris Savoldelli e il trombettista Giorgio Li Calzi. Più volte ho espresso la mia avversione nei confronti di un uso eccessivo dell’elettronica nella musica; in questo caso, viceversa, siamo di fronte a tre artisti che sanno molto bene come padroneggiare le nuove tecnologie sì da offrire una musica allo stesso tempo moderna ma non slegata dal passato, una musica che suona estremamente attuale ma che allo stesso tempo guarda – con “nostalgia progressiva” – alla stagione d’oro del rock progressivo e della psichedelia. Insomma non un nostalgico ritorno al passato ma una rivisitazione originale di un patrimonio caro a noi tutti. Di qui un repertorio di dieci brani in cui ci sono i King Crimson, i Beatles, Elvis Costello, i Nucleus di Ian Carr… insomma alcuni di quei musicisti che hanno dato vita alla straordinaria stagione che ha caratterizzato l’Inghilterra di fine anni ’60… fino ai Kraftwerk banda tedesca pioniera della musica elettronica e alle italianissime Orme di cui viene riproposto “Gioco di bimba”. I tre si integrano alla perfezione e potendo contare su un tappeto ritmico-percussivo di grande efficacia, affrontano con estrema disinvoltura anche i passaggi più ardui, senza alcuna preoccupazione di andare oltre il limite, di assecondare un facile ascolto lasciandosi andare all’ispirazione del momento. Prova ne sia che l’album, nonostante la sua complessità, è stato realizzato in un solo giorno. Notevole l’equilibrio raggiunto tra le citazioni quasi filologiche di queste immortali melodie e la capacità di improvvisare che riguarda sia il singolo musicista sia il trio nella sua totalità.

Kulu Sé Mama – “Nécessaire de Voyage” – Dodicilune 380
Album gradevole e interessante questo “Nécessaire de Voyage”, primo lavoro discografico del quintetto Kulu Sé Mama. Diretto da Gabriele Rampino (sax tenore e soprano, sound design) e completato da Maurizio Bizzochetti (chitarre), Maurizio Ripa (piano), Maurizio Manca (basso elettrico) e Daniele Bonazzi (batteria). In repertorio 7 brani originali (firmati da Rampino e Ripa) che non difettano certo quanto ad originalità e valenza di scrittura. Ma quel che forse maggiormente colpisce è l’empatia che evidenziano questi musicisti, la facilità con cui si cercano, si trovano e riescono a dialogare su un canovaccio spesso non banale. E la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che il gruppo nasce verso la fine degli anni ’80 ospitando diversi musicisti fino a giungere alla formazione attuale in cui ritroviamo due tra i cofondatori del gruppo vale a dire Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti. Dal punto di vista musicale, il gruppo si muove lungo direttrici non particolarmente nuove in quanto il suo stile raccoglie input provenienti da diversi generi musicali che oggi vanno per la maggiore, ivi compresi, ovviamente, il jazz. Ma lo fa con originalità e con una certa raffinatezza timbrica. A ciò si aggiunga la buona scrittura e si avrà un quadro completo del perché l’album merita attenzione. Tra i brani vi consigliamo di ascoltare “To the Forgotten” e “Endless Mirror”, ambedue impreziositi dagli assolo di Gabriele Rampino sia al sax tenore sia al sax soprano, mentre nel brano di chiusura – “They Say It’s A Ballad” a mettersi in evidenza è la chitarra di Maurizio Bizzochetti.

Late Sense Quartet – “Meetings” – Improvvisatore Involontario 054
Altro disco d’esordio; a presentarsi al pubblico del jazz è il Late Sense Quartet ovvero Gaetano Santoro al sax, Edoardo Ponzi al vibrafono e marimba, Francesco Marchetti al basso e Mauro Cimarra alla batteria cui si aggiunge in veste di ospite speciale il trombonista Massimo Morganti e un non meglio identificato N2B all’elettronica, probabilmente responsabile della ghost track a chiusura dell’album. Il quartetto si muove lungo direttrici certo non nuove ma percorse con sicurezza cementata da una profonda intesa, dato che il gruppo nasce come trio nel 2015 cui l’anno successivo si aggiunge Gaetano Santoro. Di qui il titolo dell’album che vuole significare la profonda importanza degli incontri e proprio “Meetings fanno notare i musicisti – rappresenta l’incontro fra sensibilità e vite diverse alla ricerca di un minimo comun denominatore che sia il trampolino per creare una musica davvero condivisa”. Ed è proprio grazie a questa intesa che il gruppo riesce a ben districarsi tra atmosfere bop ed un linguaggio che vuole essere più libero, più moderno. Risultato raggiunto appieno soprattutto quando il quartetto diventa quintetto con l’aggiunta di Morganti che si fa ascoltare nella suggestiva “Ballad for my Valentine”, in “Come una rima semplice” (con in bella evidenza anche il vibrafono di Edoardo Ponzi) e nel più movimentato “Broken blue” pezzi firmati i primi due da Marchetti e Ponzi, e il terzo da Gaetano Santoro. Quest’ultimo evidenzia un bel timbro ed una facilità di fraseggio specie quando si trova a dialogare con l’altro fiato. Precisa, mai invadente ma sempre propositiva la sezione ritmica. Insomma un gruppo da cui aspettiamo belle sorprese.

Ugo Moroni – “Pinturas” – Dodicilune 408
Registrato nel giugno del 2017 l’album presenta il chitarrista e compositore campano di adozione bolognese alla testa di una formazione piuttosto ampia (quattordici elementi) ad interpretare cinque brani di cui tre originals cui si affiancano “A Foggy Day” di George Gershwin e “Demon’s Dance” di Jack McLean eseguita in ottetto. Come sottolinea lo stesso Moroni, i titoli dei brani sono ripresi dalle opere di Francisco Goya mentre la copertina è stata realizzata da Korvo appositamente per questo lavoro. Devo confessare che ho dovuto ascoltare diverse volte l’album in oggetto per realizzare un’opinione compiuta. In effetti ai primi ascolti l’album scorreva bene, con la band ottimamente rodata e alcuni brani particolarmente gradevoli… ma c’era qualcosa che non girava a dovere; successivamente ho realizzato che i pezzi in cui a mio avviso la band si esprimeva meglio erano i due standard ben arrangiati e altrettanto ben eseguiti. Ciò significava, quindi, che erano le altre tre composizioni a non convincere pienamente. In altri termini se Moroni evidenzia una certa maturità sia come strumentista sia come band-leader, probabilmente deve ancora approfondire l’elemento compositivo. Certo nessuno si aspetta che i nostri musicisti sfornino capolavori alla Porter o alla Nelson (per citare due autori di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica) ma delle composizioni ben strutturate, equilibrate e in cui parti scritte e improvvisazione si integrino senza sforzo almeno apparente, questo sì. Ecco in alcuni passaggi dei pezzi di Moroni mi è parso di percepire qualche forzatura, qualche sbavatura che sono sicuro saranno superati nei prossimi lavori. Un’ultima considerazione: come ho detto centinaia di volte, queste mie notazioni non hanno la pretesa di essere verità assolute, costituendo un punto di vista assolutamente personale.

NovoTono – “Overlays” – ParmaFrontiere 04
Conoscevo già i NovoTono per l’album “Wanderung” registrato nel 2007 in quartetto dai fratelli Ferrari con Federico Cumar al trombone e Luca Serrapiglio al sax soprano.
Adesso ritroviamo il combo che si identifica, però, solo con il duo costituito dai fratelli Ferrari, Adalberto (clarinetto basso, clarinetto, sax soprano, clarinetto contralto) e Andrea (clarinetto basso). L’album, registrato nell’aprile di questo 2018, contiene dodici tracce di cui ben undici originali firmate ora da uno ora dall’altro fratello, e una breve medley costituita da “Odwalla” e “Lonely Woman” scritti rispettivamente da Roscoe Mitchell e Ornette Coleman. Praticamente nudi dinnanzi alla musica, senza il supporto di strumenti armonici e ritmici, i due fratelli se la cavano egregiamente grazie ad un’empatia che si avverte, prepotente, sin dalle primissime note. Senza alcuno sforzo apparente, clarinetto e sassofono si accarezzano, si scontrano, si inseguono in un perfetto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione; il dialogo è fitto, complesso, ma sempre coinvolgente e soprattutto mai banale; le personalità dei due musicisti sono diverse ma riescono ad integrarsi nel proporre una musica assolutamente personale. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: splendida la copertina opera di Cristina Crippa, regista e fotografa, che ha immortalato i due artisti in un luogo magico quale la Città Fantasma di Consonno, il borgo che nel 1976 vide naufragare a causa di una frana il tentativo del conte Bagno di costruire in Brianza una Las Vegas nostrana.

Enzo Pietropaoli Wire Trio – “Woodstock Reloaded” – Jando Music Via Veneto 123
E’ il 1969 e dal 15 al 18 agosto si svolge a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, una manifestazione che sarebbe stata ricordata come la “tre giorni di pace e musica rock”: è il festival di Woodstock che richiama circa 400.000 giovani e a cui partecipano trentadue musicisti e gruppi, fra i più noti del tempo. Quanto sia stato importante questo evento lo dimostra il fatto che è rimasto indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore di noi tutti che amiamo la musica. Ad ulteriore conferma ecco questo nuovo album del bassista Enzo Pietropaoli in trio con Enrico Zanisi al piano e tastiere e Alessandro Paternesi alla batteria. In programma otto brani tratti da Woodstock 1969 cui si aggiunge, in chiusura, un original dello Stesso Pietropaoli significativamente intitolato “Back Home”. Ecco quindi “Soul Sacrifice” di Carlo Santana, “With A Little Help From My Friends” magnificamente interpretato allora da Joe Cocker, “Seel Me Feel Me” che ci riporta ai Who… e via di questo passo in una sorta di immaginaria galleria in cui incontriamo Janis Joplin, Joan Baez, Creedence Clearwater Revival, Sly And The Family Stone, Jimi Hendrix… Ma, attenzione, non si tratta di una semplice ripresentazione di cover ché Pietropaoli è musicista troppo bravo ed esperto per cadere in simili banalità. Il progetto è completamente diverso e la stessa struttura dell’organico lo dimostra: Enzo vuole rileggere questi celebri brani alla stregua di un linguaggio più moderno che, nel rispetto assoluto delle valenze originarie, abbia comunque assorbito quanto in campo musicale è avvenuto nel corso di questi decenni. E il risultato è perfettamente raggiunto: i tre si muovono con grande disinvoltura ed empatia evidenziando come si possa fare grande jazz anche rifacendosi ad un repertorio che poco o nulla ha a che vedere con la musica afro-americana.

Sonia Spinello – “Café Society” – abeat 182
Una bella voce perfettamente intonata, giocata prevalentemente sul registro medio, eccellenti capacità interpretative, una spiccata personalità nel riproporre un repertorio assai impegnativo come quello scelto per questo album. La Spinello è andata, infatti, a ripescare alcune perle del songbook americano, brani incisi più e più volte da stelle di primaria grandezza con cui è difficile confrontarsi. Ma la vocalist non è certo tipo da impressionarsi come dimostra l’originale rilettura contenuta nel “Billie Holiday project” (abjz 545) e “Wonderland” (abjz 162), in cui va a rivisitare brani di Steve Wonder e Sting. E lo fa con tale originalità da meritare da parte di “critique award magazine” in Giappone il riconoscimento di miglior disco voce femminile dell’anno 2016. E forse ricorderete che anche il sottoscritto era rimasto particolarmente colpito dall’album tanto da aver votato la Spinello come miglior nuovo talento nell’annuale “Top Jazz” Ma torniamo a questo “Café Society” in cui Sonia è inserita in un quintetto completato da Fabio Buonarota alla tromba (con il quale aveva già collaborato in “Wonderland”), Lorenzo Cominoli alla chitarra, Attilio Zanchi al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria, come a dire una delle migliori sezioni ritmiche che sia possibile ascoltare nel nostro Paese. Ben coadiuvata da cotanti compagni d’avventura, la Spinello sfodera una prestazione maiuscola; così proseguendo nella linea stilistica che la contraddistingue, la vocalist ancora una volta ha voluto rispettare le melodie originarie sì da farle vieppiù risaltare. E in questo senso particolarmente apprezzabile le interpretazioni di “Love for Sale” di Cole Porter e “Our Love Is Here to Stay” di George e Ira Gershwin impreziosito da una brillante intro di Attilio Zanchi.

Gerlando Gatto