Anche nella musica l’esperienza conta

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Foto Daniela Crevena

 

Franco D’Andrea è una delle punte di diamante del jazz internazionale. Grazie ad  una tecnica superlativa e ad una capacità improvvisativa che non teme confronti, il pianista di Merano è uno dei pochi artisti che riesca a coniugare, in mirabile sintesi, la tradizione e il linguaggio attuale del jazz. La sua oramai lunga carriera è costellata da esperienze tutte assai felici e da una serie di album che fanno oramai parte della storia del jazz italiano. Uomo affabile e dal facile eloquio, D’Andrea mai si sottrae ad un franco confronto…come accade nell’intervista che segue, realizzata in un ristorante di Ruvo di Puglia  sabato dieci ottobre, il giorno della sua esibizione al Talos Festival.

Tu sei uno dei pochi musicisti che suona un jazz estremamente moderno sulla base di una conoscenza approfondita della tradizione. Come sei arrivato a questo tuo linguaggio così particolare?

Questo fa parte della mia storia. Io, quand’ero ragazzino, mi sono innamorato del jazz ascoltando Louis Armstrong e ciò, prima o dopo, produce qualche effetto. Louis Armstrong con gli All Stars; ricordo che allora i dischi di Armstrong degli anni Venti erano difficili da ascoltare, gracchiavano , non si capiva granché; però quel disco degli All Stars che per caso mi fece ascoltare un mio compagno di scuola, era ben registrato, Louis Armstrong suonava al meglio con Barney Bigard al clarinetto, Trummy Young al trombone… insomma dei personaggi straordinari… davvero un bel gruppo. Mi piacque tantissimo per cui io ho cominciato ad interessarmi di jazz, a suonarlo con il jazz tradizionale. Ho voluto immediatamente comprare una tromba per cui hanno ragione quanti, tracciando la mia biografia, dicono che ho cominciato suonando la tromba. L’ho suonata veramente ma nel jazz tradizionale. Quando ho sentito Louis Armstrong avevo circa tredici anni per cui, circa quattro anni dopo, un mio amico – ma permettimi una digressione: io sono nato a Merano e Merano è un posto un po’ strano in quanto c’è una parte di lingua tedesca e una di lingua italiana – ebbene, questo mio amico di lingua tedesca ogni tanto andava a Monaco a cercare dei dischi particolari e mi portò un disco di Horace Silver. Era il primo disco che fecero con l’insegna dei Jazz Messengers, cioè non si era ancora deciso se il leader sarebbe stato Silver o Art Blakey. Era un bellissimo disco, c’erano pezzi come Nica’s Dream, Icaroh … è un disco che ancora oggi, quando l’ascolto, mi sembra bellissimo. Ecco, in quel momento ho capito che c’era un altro jazz, di un altro genere, egualmente bello, interessante. Io ero un tradizionalista convinto, potevo arrivare alla swing era, potevo spingermi sino a Benny Goodman ma di jazz moderno nulla conoscevo.

Quindi Silver ti ha aperto nuovi orizzonti.. ma hai avuto anche un ottimo viatico in quanto la musica di Silver è davvero trascinante, fresca ancora oggi a tanti anni di distanza.

Hai perfettamente ragione. Ho avuto fortuna perché Horace Silver è in effetti una buona porta d’ingresso per incontrare il jazz moderno: come tu dici, la sua è una musica piacevole, ha una sua melodicità, dei temi bellissimi, una semplicità molto accattivante. Partendo da lì è stato poi facile ascoltare tutto il resto e cioè Coltrane, Miles Davis, Cannonball Adderley… a quel punto però ero in gravi difficoltà. Io suonavo strumenti a fiato – oltre la tromba il clarinetto , il sax soprano – insomma tutti gli strumenti classici del dixieland, e non sapevo un accordo; da questo punto di vista la roba di Horace Silver era difficilissima.

-E’ questo che ti ha spinto verso il pianoforte?

Esatto. Trovandomi dinnanzi a queste difficoltà, ho cominciato a toccare il pianoforte che c’era a casa, il classico piano di famiglia, e lì – come dico spesso ai miei allievi – ci sono rimasto incollato. A quel punto della mia vita il pianoforte era indissolubilmente legato al jazz moderno; superati i venti anni, vado a Bologna e qui incontro un giro pazzesco; io ufficialmente avrei dovuto studiare a Bologna , all’Università, ma io coltivavo questa passione per la musica e così nella città felsinea trovo questi personaggi che mi traviano completamente: jam sessions che finivano alle cinque del mattino… Insomma finii con l’abbandonare l’Università; in compenso conobbi altre cose del jazz moderno a contatto con quell’ambiente.

-Ma chi erano i personaggi che animavano la scena bolognese di quegli anni?

Il personaggio più importante, l’animatore era Alberto Alberti che all’epoca vendeva dischi, soprattutto di jazz, e fomentava un enorme interesse, passione per questa musica. L’ambiente che gli stava attorno era costituito nella quasi totalità da musicisti appassionati e anche bravi, alle volte molto bravi… ricordo che tra questi musicisti c’era Lucio Dalla che all’epoca suonava il clarinetto, tra l’altro abbastanza bene . A un certo punto conosco Maurizio Maiorana che era il bassista di Amedeo Tommasi , però il Maiorana aveva avuto un invito per andare a Roma con Nunzio Rotondo. Maiorana mi aveva sentito in queste jam sessions e gli piaceva come suonavo; così mi raccomandò presso Nunzio Rotondo e mi propose di seguirlo nella Capitale. Così nel ’63 sono andato a Roma e a quel punto è cominciata la mia carriera da professionista, avevo ventidue anni.

-Come è stato questo inizio a Roma?

Entusiasmante. Ho cominciato a lavorare con  Nunzio Rotondo, a fare registrazioni… e poi è venuto Gato Barbieri, perché Gato , in quello stesso periodo, era venuto in Italia, per un certo periodo stava a Roma e quando stava a Roma lui veniva, si suonava assieme, si facevano delle jam sessions… delle cose pazzesche! Ricordo ancora una di queste jam sessions perché lui suonava Mr. P.C .che è un pezzo di John Coltrane che io avevo sentito con l’accompagnamento di Tommy Flanagan e quindi suonato in modo diverso; Gato, invece, lo eseguiva come se avesse già ascoltato il quartetto di Coltrane, modale… una follia. Io non capivo, non sentivo gli accordi, li suonavo gli accordi ma non c’entravano nulla: lui suonava su una sorta di ambiente pentatonico che girava un po’ dappertutto e io mi sentivo assolutamente inadeguato. La cosa più bella fu che alla fine della jam session lui venne da me e mi disse ‘bravo, hai suonato bene’.. ma in realtà quello che avevo fatto non c’entrava nulla, facevo i vecchi accordi di Tommy Flanagan…

-A questo punto, se non sbaglio, c’è l’incontro con Enrico Rava…

Sì, pochi mesi dopo comincio a suonare con Gato Barbieri ed Enrico Rava, abbiamo un quintetto con cui suoniamo in un locale di Roma ed è stata un’esperienza unica. Nel frattempo avevo studiato per capire come un pianista potesse interagire in quel tipo di situazione sonora.

-Ti sei formato da autodidatta o hai avuto qualche maestro?

Inevitabilmente sono stato un autodidatta perché ero stato fulminato dal jazz… non ho avuto esperienze classiche o di altro genere. Il jazz era l’unica musica che mi aveva attratto perché io prima , quando ero piccolo, non è che la musica m’interessasse più di tanto. Leggevo libri di fantascienza, facevo sport… facevo altre cose, invece quando sento Armstrong mi dico “ oh, questa musica mi piace… è strano perché la musica di solito non mi interessa”. Insomma il mio fine era quello di suonare bene il jazz e all’epoca non c ‘era proprio niente, niente di niente, non c’erano libri, non c’erano scuole. Forzatamente, noi di quella generazione lì,  eravamo tutti autodidatti o parzialmente autodidatti nel caso in cui qualcuno avesse fatto qualcosa di classica. In definitiva, per rispondere alla tua domanda: sono completamente autodidatta. Ho preso solo due lezioni di clarinetto perché non capivo un tubo di questo strumento difficilissimo … ma il docente era un musicista di classica per cui non suonava il clarinetto così come io lo avevo sentito nel jazz per cui non mi interessava più di tanto. Poi, andando avanti ho sentito molte altre cose interessanti: mi riferisco a Ornette Coleman, Archie Shepp… negli anni Sessanta c’erano tutti questi personaggi, tutti insieme … c’erano dei vecchioni formidabili e dei giovani che presentavano delle cose interessantissime. Mi sono innamorato di questa musica e così ho formato con Franco Tonani e Bruno Tommaso il Modern Art Trio che era un gruppo di estrema avanguardia; io avevo lavorato molto su questo concetto, sul free jazz, di come suonare in strutture diverse che non fossero i giri armonici o il modale. Poi è venuta l’esperienza con il Perigeo, quindi una situazione molto, molto diversa. Ma in quel periodo ho suonato anche con Johnny Griffin, con un sacco di musicisti americani suonando quindi bop, hard bop… ho conosciuto Steve Lacy e in quegli anni anche lui navigava a Roma. Io ho vissuto a Roma dal ’63 al ’75 con un piccolo interludio a Milano .

-Quando è arrivata la “tua” musica?

 

Poco dopo, all’inizio degli anni Ottanta , sono riuscito a mettere in piedi una mia musica, e vorrei al riguardo citare i dischi di piano solo che incisi in quel periodo come es , dialogues with super-ego, e lì è cominciato tutto, ho cominciato a  far funzionare un certo sistema che coniugava modernità e tradizione. Ad esempio in es si sentiva uno stride un po’ strano, cose un po’ astratte, folli e da lì è cominciata la mia musica che veniva fuori da una sintesi di tutte le esperienze precedenti. Questa è la ragione.

 

-Da quanto mi dici, mi sorge spontanea una considerazione: molti cosiddetti vecchi del jazz italiano sono stati veramente dei geniacci; oggi ci sono molti giovani, bravissimi, eccellenti sotto il profilo tecnico ma nessuno – o quasi – riesce a raggiungere i vostri livelli. Condividi questo tipo di analisi e, se la condividi, come lo spieghi?

Adesso abbiamo dei musicisti giovani molto forti che da un punto di vista tecnico e della conoscenza del linguaggio sono di gran lunga superiori a quello che eravamo noi all’epoca, hanno molte più frecce al loro arco, quindi tecnicamente, di conoscenza del linguaggio ne sanno di cose per cui non sfigurano in alcun contesto internazionale. Il discorso, poi, di avere una profondità è qualcosa che raramente accade. Ci sono dei casi limite nella storia del jazz, ad esempio Tony Williams che fra i diciassette e i ventidue anni diede il meglio di sé, con una musica mai sentita, un nuovo stile… Quindi era un artista di grande profondità oltre a possedere una tecnica prodigiosa e ad avere una grande conoscenza del linguaggio… insomma capita che un giovane possa avere questa conoscenza ma secondo me l’esperienza conta… non c’è niente da fare. Conta soprattutto perché – e sono molto d’accordo con quanto diceva Rita Levi Montalcini riguardo al cervello umano: ‘noi siamo progrediti moltissimo, grazie alla nostra corteccia cerebrale, ma all’interno del cervello siamo poco più avanti dell’Uomo di Neanderthal – è una frase che mi ha sempre molto colpito, una sorta di paradosso perché ci avvertiva ‘attenzione, la corteccia cerebrale viaggia ad una certa velocità, ma sotto, la parte dove ci sono le emozioni, i sentimenti viaggia molto più piano’ . Allora, secondo me, per creare una musica davvero formidabile e che abbia un certo tipo di profondità ed una certa carica inventiva oltre che una consistenza tecnica ci vogliono degli anni perché devi arrivare oltre la corteccia cerebrale e ci vogliono anni… c’è poco da fare. In generale è così. Certo, ci sono le eccezioni, ma, come si dice, l’eccezione conferma la regola. Quindi questi ragazzi, magari quando compiranno i loro quarant’anni, quarantacinque potrebbero fare delle cose straordinarie perché hanno già le carte in regola dal punto di vista tecnico, il linguaggio lo conoscono, hanno un enorme vantaggio rispetto a noi… manca l’esperienza. E poi nel calcolo delle probabilità è quasi certo che ciò accada. Poi, diciamolo chiaro, non è che nella storia del jazz i geniacci siano stati tanti… ci sono stati tantissimi formidabili musicisti ma i veri geni sono stati relativamente pochi e parliamo di Charles Mingus, di Thelonious Monk, Duke Ellington… Ellington ha raggiunto il massimo della sua arte nella fase mediana della sua esistenza… Coltrane non è che facesse grandissime cose prima dei suoi quaranta, quarantadue anni .

-Tu ti esibisci in diversi contesti: da solo, in trio, in gruppi più allargati. Qual è quello che preferisci?

In questo momento, per mia grande fortuna riesco a fare cose buone un po’ dappertutto perché ho studiato molto su queste cose. Io sono partito come uno che suonava in piccoli gruppi, quartetto , quintetto in massima parte. Poi è successo che ho dovuto insegnare jazz al conservatorio di Trento e in quel periodo, tra il ’93 e il 2007, ho dovuto fronteggiare una situazione in cui dovevo far suonare un ensemble piuttosto grosso anche con organici strani . Lì è nato il progetto di eleven che comprendeva undici musicisti, quindi un gruppo allargato… e così ho imparato ad interpretare, a coniugare un gruppo allargato secondo quelle che erano le mie concezioni. Per quanto concerne il piano solo, ci sono stati due anni di preparazione dopo di ché questa pratica mi è diventata familiare… e siamo nel periodo in cui incido es vale a dire i primi anni Ottanta e io avevo quarant’anni. Insomma per il piano-solo c’è voluto del tempo… io sono del ’41. Il trio è una formazione che mi è familiare ma che mai ho usato per le mie cose più importanti…. Non so perché… mi riesce facile fare delle cose in trio, ma mi riesce difficile pensare che non ci sia anche uno strumento a fiato e questo deriva molto probabilmente dal fatto che, come ti dicevo, io ho iniziato suonando strumenti a fiato. Insomma ho sempre preferito avere accanto a me qualcuno che suonasse uno strumento a fiato. E mi riferisco al quartetto degli anni Ottanta che veniva subito dopo la nascita della “mia” musica: è venuto fuori perché ho incontrato Tino Tracanna che all’epoca era un ragazzino ma già suonava benissimo e Tino fu un partner fantastico assieme agli altri due che fornivano un apporto enorme.

 

-Ed erano?

Attilio Zanchi al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria. Con questo quartetto ho suonato per una decina d’anni, tutti gli anni Ottanta. Poi c’è stato un periodo un po’ particolare in cui avevo sempre in testa la mia musica, però facevo anche altre cose, in situazioni di collaborazione con personaggi molto diversi … ho cominciato a girare il mondo fino a quando non mi è tornata voglia di fare qualcosa di importante che riprendesse il discorso che avevo interrotto con il quartetto. Così misi su questo quartetto che ho ancora oggi con Aldo Mella al contrabbasso, Andrea Ayace Ayassot  al sax e Zeno De Rossi alla batteria … all’epoca c’era Alex Rolle che purtroppo è deceduto. Con questo gruppo, in diciotto anni, abbiamo fatto un sacco di cose. Poi dieci anni fa, all’incirca, ho incontrato Mauro Ottolini e Daniele D’Agaro che suonavano insieme. Lì mi è rispuntato il pallino, la passione del jazz tradizionale; parlando con loro ho capito che sia Ottolini sia D’Agaro conoscevano benissimo e apprezzavano il jazz tradizionale per cui ho pensato che forse sarebbe stato possibile fare qualcosa in cui usare del colore del jazz tradizionale… mi è rimasto un amore viscerale per questa front line che improvvisa – clarinetto, trombone, tromba – era una magia, bellissimo sentire questi tre con gli All Stars che improvvisavano e non suonavano in sezione ma contrappuntando… cose da pazzi. Anche nell’epoca del free jazz, mi piaceva molto l’aspetto dell’improvvisazione collettiva  che si riannodava al jazz tradizionale coniugandolo, ovviamente, in maniera diversa. Quindi ho cercato di creare un collettivo in cui si improvvisasse assieme, in questo caso addirittura rifacendosi in qualche modo al jazz tradizionale. Così questo progetto del trio assomma cose di oggi con colori, anche piuttosto forti, che arrivano dal primo Ellington , dal jazz classico, dal jazz tradizionale. Poi c’è il sestetto che è l’unione di queste due anime che io porto sempre insieme: l’anima del ricercatore più incarnata nel quartetto e l’anima di quello che apprezza la tradizione. Io sulla tradizione ho una visione molto semplice nel senso che , secondo me, in tutto il jazz c’è qualcosa di buono, non possiamo fossilizzarci sull’idea che solo un certo tipo di jazz contenga il buono e il resto è tutto cattivo… Molto semplicemente si deve andare a cercare in ogni periodo, in ogni stile quel che c’è di buono. Io nei vari periodi in cui mi innamoravo di Coltrane piuttosto che di Ornette Coleman sceglievo in quanto da autodidatta potevo avere una libertà enorme nel maneggiare certe cose. Non è che io mi sentissi in dovere di esplorare tutto, mi piaceva quella cosa là di quel musicista che, magari per altre cose, non mi interessava tanto. Così  ho collezionato nella mia mente una serie di immagini che vengono dalla storia del jazz che ora posso rimandare in maniera fluida senza sforzo alcuno…anzi provando piacere.

-Nella tua musica di oggi, che ruolo ha l’improvvisazione?

Un ruolo importantissimo, determinante tanto è vero che, ad esempio, negli anni Ottanta, con il quartetto che avevo allora, scrivevo moltissimo perché qualcuno un giorno si era alzato e aveva detto che probabilmente io non sapevo scrivere. Allora mi sono messo lì, di buzzo buono, per dimostrare quanto si fosse sbagliato e così ho scritto un sacco di musica: pezzi di centotre battute, cose da pazzi. Questi poveretti del quartetto sono stati dei santi perché , dovendo fare dei brani di una difficoltà enorme, non si sono tirati indietro . Poi, ad un certo punto mi sono calmato e sono tornato quel che in realtà ero. Certo, anche con il quartetto si improvvisava all’interno di quelle strutture ma la situazione era molto scritta. Io sono uno che ama moltissimo l’improvvisazione che però, per me, è una scienza: non è che vai lì e suoni e non importa cosa esce, devi studiare tante cose, tante strutture, tante possibilità che ti dà  la musica, il jazz in particolare con i parametri infiniti da sviluppare che ha questa musica come il parametro ritmico… devi razionalizzare tutto questo . In questo processo di studio, di razionalizzazione mi è stato molto utile insegnare : dal momento che ho cominciato ad insegnare, ho capito che dovevo colmare qualche lacuna e ovviamente nel colmare queste lacune ho imparato qualcosa. La mia propensione di oggi, che in realtà dura da vent’anni, è di scrivere veramente poco , scrivere delle cose sintetiche il più possibile che però diano una direzione alla musica in modo che noi sappiamo che in quel pezzo andiamo in quella certa direzione, esploriamo questa fetta di musica… in quest’altro pezzo, invece, andremo là…. Potrei dire che la  mia metodologia è un’improvvisazione collettiva in cui noi teniamo sempre conto del fatto che tutti dobbiamo essere partecipi di quel che stiamo facendo in quel determinato momento: mi sono sentito sempre imbarazzato a pensare che magari quando uno sta facendo un solo, un altro vada fuori a fumare una sigaretta o pensa ai fatti suoi… no , ma perché, sei lì sul palco, la musica si suona insieme… fai un riff, fai qualcosa , magari stai zitto per un po’ ma poi intervieni, fai qualcosa per aiutare la musica , magari per contrappuntare  qualcuno. Loro lo sanno : il gioco è questo e questo gioco contempla un’improvvisazione che va molto intorno al tema che mai viene perso di vista tranne in alcuni punti dove vogliamo fare un volta pagina e per farlo dobbiamo andare altrove, con una improvvisazione che diviene del tutto libera.

-Quindi un’improvvisazione più orizzontale che verticale…

L’improvvisazione che noi pratichiamo ha molti riferimenti tematici; vuol dire che da un lato prende qualcosa degli intervalli del tema o comunque aspetti della melodia del tema che vengono frammentati  e usati come struttura, poi anche l’aspetto ritmico va studiato perché ogni pezzo ha una sua condotta ritmica e ti suggerisce alcune cose. Ciò però non vuol dire che devi andare dietro all’esecuzione di chi ha inventato questo pezzo, tu scavi dentro questo pezzo alla ricerca di cose nuove anche se il pezzo non è tuo. La stessa cosa se il pezzo è tuo: devi sempre approfondire le ragioni per cui è uscito così, perché tu inventi senza pensarci troppo, ti esce di getto …ma poi devi tornarci su, devi approfondire. Quindi per me l’improvvisazione è il normale svolgimento di aspetti del tema o di aspetti che esulano dal tema ma che agiscono per contrasto .

-Non solo come artista, ma anche come uomo che effetto ti fa essere considerato uno dei più grandi pianisti jazz a livello internazionale?

Lentamente, piano piano, mi sono abituato a pensare che in qualche maniera non è che ci fossero in giro delle cose così straordinarie per cui io dovessi pensare tutto il tempo di essere l’ultimo o di restare intruppato in una situazione del genere. Specialmente costruendo la mia musica ho acquisito una certa consapevolezza, una certa coscienza che questa musica avesse una qualche valenza, arrivava in qualche maniera e che io la stavo costruendo coscientemente. E funzionava. Così quando risentivo le registrazioni mi accorgevo che forse c’era ancora qualcosa da limare ma il nocciolo c’era, eccome! Quindi, in fin dei conti, sono cosciente di poter essere oggi un personaggio di una certa levatura dal punto di vista creativo. Ma certo ce ne sono tanti altri! Sono contento comunque di far parte di quegli artisti che stanno portando avanti il linguaggio e stanno inventando qualcosa per domani .

 

 

 

 

 

 

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