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Daymé Arocena – “Cubafonia” – Browns Wood
Viene da Cuba Daymé Arocena da molti considerata una delle voci più interessanti e personali della moderna musica cubana. Ed in effetti non si può disconoscere il talento di questa vocalist che con “Cubafonia” (suo secondo album registrato a Cuba con musicisti cubani) si propone un obiettivo quanto mai stimolante e impegnativo: coniugare la musica etnica con input provenienti da mondi diversi quali, soprattutto, il jazz e poi la classica, la world music, il soul, il pop, la musica latina, anche se in effetti il punto di riferimento principale è costituito   dai diversi ritmi e stili dell’isola caraibica – dal changüí di Guantanamo, al guaguancó… alle ballate degli anni ’70. Risultato raggiunto? Sì… ma non del tutto. Certo, se l’attenzione dell’ascoltatore si concentra esclusivamente sulle capacità vocali dell’artista, se ne rimane colpiti, data la facilità, la naturalezza con cui Daymé affronta anche i passaggi più ardui mai denotando un attimo di incertezza. Il suo senso del ritmo è davvero straordinario così come la capacità di dialogare con la formazione piuttosto estesa. Se invece si allarga l’orizzonte anche al materiale tematico, il discorso cambia. Tutti i brani del CD sono stati composti dalla stessa vocalist e affrontano i territori più disparati cercando di mantenere come filo conduttore il valore delle tradizioni. Ecco, l’unico neo dell’album sta proprio in questa forse eccessiva eterogeneità, questo volersi muovere all’interno di universi sonori caratterizzati da situazioni, da paesaggi molto diversi. Intendiamoci: l’artista c’è sicuramente, le potenzialità sono straordinarie, ma proprio per questo è lecito attendersi qualcosa di più.

Avishai Cohen – “My Palm With Silver” – ECM 2548
Un anno dopo il successo dell’album di esordio per ECM “Into The Silence”, il trombettista Avishai Cohen si ripresenta con il suo quartetto completato da Yonathan Avishai piano, Barak Mori contrabbasso e Nasheet Waits batteria. Ancora una volta Cohen si conferma grande musicista non solo per le capacità tecniche e compositive ma anche – e forse soprattutto – per i sentimenti, le sensazioni che riesce a comunicare con la sua tromba. Emblematico, al riguardo, l’assolo che apre l’intero album: Cohen procede quasi a piccoli passi sulle note acute, creando un clima piuttosto cupo, con pianoforte e contrabbasso che contribuiscono in maniera determinante all’affermazione dell’atmosfera voluta dal leader. Al sassofonista americano e amico Jimmy Greene è dedicato il brano successivo, “Theme For Jimmy Greene”, in cui la tromba evidenzia il suo coté più lirico con Nasheet Waits in bella evidenza. In “340 Down”, il brano più breve del repertorio, Cohen dialoga con sobrietà con la sezione ritmica senza che il pianoforte faccia sentire la sua voce, pianoforte che ritorna in primo piano nel successivo “Shoot Me In The Leg” introducendo il brano che man mano assume un andamento sempre più frastagliato con la tromba a lambire territori caratterizzati da una totale improvvisazione e il pianoforte che a metà del brano s’incarica di ricondurre il pezzo ad atmosfere più liriche. L’album si conclude con un brano dalle forti connotazioni socio-politiche: “50 Years And Counting” si riferisce alla risoluzione 242 dell’ONU emanata mezzo secolo fa, che stabiliva il ritiro di Israele dai territori occupati, e che mai è stata applicata per problemi interpretativi e burocratici. Il tutto ben reso dall’intero quartetto che si esprime con compattezza.

Lars Danielsson – Liberetto III – ACT 9840-2
Eccoci al terzo capitolo di questo “Liberetto” ovvero del gruppo che il contrabbassista svedese Lars Danielsson ha creato nel 2012; da allora molta della classica acqua è passata sotto i ponti ma il combo mantiene quasi intatta la sua struttura originaria in quanto sono rimasti al loro posto John Parricelli alla chitarra e Magnus Öström batteria e percussioni mentre Tigran al piano è stato sostituito dall’astro nascente franco-caraibico Grégory Privat; a loro si aggiungono, come ospiti, i trombettisti Arne Henriksen e Mathias Eick , Björn Bohlin all’oboe d’amore e al corno inglese, Dominic Miller alla chitarra acustica e Hussam Aliwat all’oud. More solito le composizioni sono tutte del leader che ad onor del vero comincia a denotare qualche segno di stanchezza…almeno da questo punto di vista. In effetti se i primi due album erano stati caratterizzati dalla bellezza del materiale tematico, questo terzo capitolo mostra un po’ la corda dal momento che ad una prima parte convincente fa seguito una seconda parte in cui sembra quasi che sia andato perso il bandolo della matassa alla ricerca di un vacuo espressionismo fine a se stesso. La musica perde mordente, fascinazione; di qui il ricorso a facili stilemi: si ascolti al riguardo “Sonata in Spain” in cui la chitarra di John Parricelli sembra evocare Paco De Lucia. Ciò non toglie, comunque, che anche nella seconda parte dell’album si ascoltino momenti felici come “Mr Miller” in cui Danielsson riesce a ben amalgamare la natura di jazzista scandinavo con l’amore per la musica mediterranea. L’album si chiude con una ballade, “Berchidda”, che evidenzia ancora una volta il senso melodico del compositore.

Bill Frisell, Thomas Morgan – “Small Town” – ECM 2525
Sono passati più di 30 anni da quando Bill Frisell esordiva in casa ECM con “In Line” un album in duo con il contrabbassista Arild Andersen. Adesso il chitarrista ritorna alla formula del duo assieme a quel Thomas Morgan che compare anche in “When You Wish Upon A Star” del 2015. Questo “Small Town”, registrato dal vivo al mitico Village Vanguard di New York nel marzo del 2016, è semplicemente superlativo sia per la ben nota maestria dei protagonisti, sia per l’empatia che si è sviluppata tra i due, sia per la valenza del materiale tematico scelto con accuratezza e comprendente un sentito omaggio a Paul Motian con “It Should Have Happened a Long Time Ago” brano inciso per la prima volta nel 1985 per l’ esordio del trio Motian-Frisell-Lovano, il country song “Wildwood Flower” portato al successo nel 1928 dalla Carter Family, il trascinante “What a Party” del rocker di New Orleans Fats Domino, l’hit di Lee Konitz’ “Subconscious-Lee”, il celebre tema di “Goldfinger” scritto da John Barry, cui si aggiungono tre original di Frisell di cui uno scritto con Morgan. In questa occasione Frisell dà l’ennesimo saggio delle sue capacità tecnico-interpretative: il suo linguaggio è del tutto personale riuscendo a coniugare i diversi input che da anni contribuiscono a determinarne la forza espressiva (jazz, rock, blues, folk); di qui l’alternarsi di frasi costituite da poche note a più complessi fraseggi con cui Frisell racconta le sue storie. Il tutto in un clima intimistico caratterizzato da un sound spesso ovattato e comunque mai gridato. Dal canto suo Morgan si dimostra partner ideale: il suo suono così personale, bellissimo, si sposa magnificamente con la chitarra di Frisell esprimendosi su un piano di assoluta parità; lo si ascolti con quanta personalità e sicurezza interpreta “It Should Have Happened a Long Time Ago”, brano di apertura che introduce al meglio l’intero, straordinario album.

Jan Lundgren – “Potsdamer Platz” – ACT 9831
Il pianista svedese Jan Lundgren è uno dei più originali jazzman europei, ben noto anche al pubblico italiano per la sua collaborazione con Paolo Fresu e Richard Galliano nel progetto “Mare Nostrum”. In questo nuovo album si presenta alla testa di un quartetto che rappresenta una sorta di mini-internazionale scandinava dato che a lui, svedese, si affiancano il sassofonista finlandese Jukka Perko, il batterista danese Morten Lund e l’altro svedese, il contrabbassista Dan Berglund. Per chi conosce Jan Lundgren l’album non presenta particolari novità dal momento che il pianista-compositore ricalca le orme di quanto fatto nei precedenti lavori. Quindi un jazz di ottima fattura, in cui convergono le diverse influenze che hanno forgiato la sua personalità artistica, dalla musica classica al folk scandinavo, dalla contemporanea al jazz propriamente detto con la sua inevitabile carica di improvvisazione. Certo, la ricetta non è nuova ma Lundgren ha saputo “cucinare” molto bene tutti questi elementi conservando quella certa malinconia propria della musica nordica e impreziosendo il tutto con un tocco di impressionismo sì da creare un sound che non a torto molti critici definiscono “europeo”. Il suo stile è di quelli che potremmo definire “apparentemente semplice” data la naturalezza con cui affronta qualsivoglia passaggio mentre in effetti si tratta della conseguenza di studi approfonditi anche in territorio classico. Cosa che si riverbera sulle sue composizioni che costituiscono l’asse portante dell’album (dieci su undici portano la sua firma). Dato a Lundgren quel che è di Lundgren bisogna aggiungere che l’ottima riuscita dell’album è dovuta anche alla bravura degli altri tre musicisti, sempre puntuali, precisi sia in fase di accompagnamento sia nelle uscite solistiche, a conferma dell’ottimo stato di salute che in questo momento caratterizza il jazz nordico.

Linda May Han Oh – “Walk Against Wind” – Biophilia Records
Quando si chiede ad un musicista il perché si pubblichino tanti dischi che per la maggior parte rimangono invenduti, la risposta è sempre la stessa: il disco oggi rappresenta una sorta di biglietto da visita e serve ad illustrare lo stato dell’arte, ossia il particolare momento che l’artista sta vivendo. Ecco, questo album risponde appieno a questo tipo di esigenze dal momento che evidenzia al meglio lo stile compositivo, la maestria tecnica e la straordinaria facilità improvvisativa di questa artista di origine malese, cresciuta in Australia e attualmente cittadina newyorkese. Per questa sua quarta impresa discografica da leader, la Oh è accompagnata dal sassofonista tenore Ben Wendel, dal chitarrista Matthew Stevens, dal batterista Justin Brown, in tre brani dal pianista Fabian Almazan mentre nell’ottava traccia, “Mantis”, si ascolta la percussionista coreana Minji Park impegnata al janggu e al kkwaenggwari, due strumenti tipici del sud-est asiatico. L’album è declinato su undici brani originali che riflettono le varie influenze comunque ricondotte ad unità dalla contrabbassista, compositrice. Così accanto ad arrangiamenti di chiara matrice fusion e soul, con chitarra e basso in primo piano (si ascolti ad esempio “Speech Impediment” illuminato anche da un bell’assolo di Justin Brown), si apprezzano gli interventi del sassofonista Ben Wendel più vicino al jazz (lo si ascolti in “Perpuluzzle” magnificamente sostenuto dal basso e nella suggestiva title track “Camminare contro vento” che richiama apertamente una delle pièce più amate dal grande mimo Marcel Marceau) e del pianista cubano Fabian Almazan che in passato aveva già collaborato con Linda (efficace nei tre brani in cui è impegnato). Comunque la mattatrice rimane lei, Linda Ho, che in questa occasione appare artista matura specie sotto il profilo compositivo dal momento che la sua scrittura, oltre ad evidenziare le sue capacità tecniche, lascia ampio spazio ai componenti la band per esprimere appieno le proprie potenzialità.

Sarah McKenzie – “Paris In The Rain” – Impulse
Dopo “We Could Be Lovers” album di debutto del 2015 per la Impulse! l’avvenente cantante e songwriter australiana Sarah McKenzie torna con questo “Paris in the Rain” prodotto da Brian Bacchus (già con Norah Jones, Lizz Wright e Gregory Porter). Accanto a lei la tromba di Dominick Farinacci, il sax tenore di Ralph Moore e l’alto di Scott Robinson, le chitarre di Mark Whitfield e di Romero Lubambo, il vibrafono di Warren Wolf, il contrabbasso di Reuben Rogers e la batteria di Greg Hutchinson. L’album si configura come una sorta di viaggio attraverso le città che la McKenzie ama e che hanno rappresentato qualcosa nella sua vita di donna e di artista. Così ecco “Tea For Two” di Vincent Youmans e Irving Caesar in omaggio a Londra, il delizioso e accattivante “Paris In The Rain” da lei scritto in onore della ville lumière, “When in Rome” di Cy Coleman e Carolyn Leigh per la sua visita in Italia, “Triste” di Antonio Carlos Jobim a ricordare il periodo trascorso in Portogallo. Accanto a questi brani, che rappresentano l’ossatura dell’album troviamo altri pezzi tratti dal classico songbook americano nonché cinque originals della McKenzie tra cui la già citata title track, il sapido blues “One Jealous Moon” impreziosito da un assolo di Ralph Moore e il brano conclusivo “Road Chops”, giocato su ritmi sostenuti, in cui la McKenzie pone le sue capacità strumentali al servizio del gruppo ben sostenendo le uscite solistiche di Farinacci alla tromba e di Moore al tenore, prima di lanciarsi essa stessa in un convincente assolo. Ma è tutto l’album che si fa ascoltare con piacere vista la verve della vocalist che affronta il repertorio con meticolosità dando particolare attenzione ai testi.

Aaron Parks – “Find The Way” – ECM 2489
In altre parti di questa stessa rubrica incontrerete la fatidica domanda se una certa musica possa ancora oggi essere considerata jazz. Ecco, con riferimento a questo album non ci sono dubbi, questo è jazz, con la J maiuscola, senza se e senza ma. Protagonista forse la più classica delle formazioni jazzistiche vale a dire il piano trio: Aaron Parks pianoforte, Ben Street contrabbasso e Billy Hart batteria. In programma nove composizioni di cui otto a firma del pianista e la title track scritta da Ian Bernard, brano portato al successo da Rosemary Clooney con l’orchestra di Nelson Riddle grazie all’album “Love” del 1963. Dopo l’esperienza del piano-solo in “Arborescence”, per questa seconda impresa in casa ECM il pianista ha scelto, quindi, la formula del trio che se possibile esalta vieppiù le sue doti sia strumentali sia compositive. Sotto quest’ultimo punto di vista, Parks mostra una profonda liricità, un soave gusto melodico che lo porta a comporre musica di sicura fruibilità anche se non banale. Sotto il profilo esecutivo, il confrontarsi con gli altri due partners rivela vieppiù un Parks che lontano da qualsivoglia ansia esibizionistica mette la propria arte al servizio della musica. Il senso dello spazio, la divisione delle parti, l’apparente semplicità del suo pianismo, la pulizia dello stesso, il modo in cui utilizza la sezione ritmica la dicono lunga sulle capacità di questo artista. D’altro canto la sezione ritmica è di quelle che non si fatica a definire stellare: Ben Street e Billy Hart hanno lungamento collaborato e in questo album la loro intesa è quanto mai evidente. Si ascolti, ad esempio, con quanta delicatezza i due introducono e lanciano l’assolo del pianista nel brano di apertura “Adrift” e nel successivo “Song for Sashou” mentre in “Hold Music” l’introduzione è lasciata al tom-tom di Hart superlativo in ogni momento dell’album.

Quercus – “Nightfall” – ECM 2522
Quercus è un trio composto da June Tabor voce, Iain Ballamy sax tenore e soprano,
Huw Warren piano, che, dopo l’omonimo album d’esordio registrato nel 2006, si ripresenta al pubblico con questo secondo album perfettamente in linea con quanto di buono avevamo già ascoltato. In effetti si tratta di una musica affascinante, che riesce a trovare un punto di sintesi assolutamente originale tra il folk inglese e il jazz senza che si perda alcunché delle originarie fonti ispirative. Così Juna Tabor si conferma splendida divulgatrice del folk inglese grazie ad una voce limpida e ad una non comune capacità interpretativa, sempre ben sostenuta dal pianista gallese Huw Warren suo compagno d’avventura da oltre due decenni mentre il sassofonista si inserisce perfettamente nel dialogo tra i due, cesellando le melodie con grande raffinatezza (lo si ascolti, ad esempio in “Christchurch”). Il repertorio è ancora una volta costituito da ballate tradizionali, poesie e canzoni ma, a differenza del precedente album, questa volta troviamo alcuni brani chiaramente più vicini al jazz e anche ad un certo pop come “You Don’t Know What Love Is” di Don Raye e Gene de Paul (splendida l’interpretazione della vocalist che abbandona il suo territorio naturale per cimentarsi con uno standard non facilissimo), “Somewhere” di Leonard Bernstein e “Don’t Think Twice It’s Alright” di Bob Dylan. Di qui le straordinarie atmosfere che i tre riescono a disegnare, atmosfere che oscillando tra jazz, folk, musica da camera riescono comunque a mantenere l’ascoltatore in una dimensione senza tempo, in cui le barriere tra i generi si annullano.

Andreas Schaerer – “The Big Wig” – ACT 9824-2 cd e dvd
Lo svizzero di Berna Andreas Schaerer, è considerato, a ben ragione, uno dei più talentuosi vocalist della nuova scena jazzistica internazionale. Non a caso nel 2015 ha vinto il prestigioso Echo Jazz Award nella categoria “Cantante internazionale dell’anno”. Ma considerarlo solo un cantante risulta piuttosto riduttivo: Andreas è sì una sorta di straordinario acrobata che può toccare con facilità ogni registro vocale passando con estrema disinvoltura dal canto più tradizionale, alle modalità espressive care ai crooner, fino allo scat più jazzistico, il tutto adoperando la sua voce in modo affatto inusuale così da imitare diversi strumenti. Ma è anche raffinato compositore nonché navigato orchestratore. Insomma musicista completo a 360 gradi. E questo lavora lo dimostra. “The Big Wig” è una suite in sei movimenti scritta da Schaerer su commissione del 2014 della Lucerna Festival Academy fondata nel 2004 da Pierre Boulez in collaborazione con il direttore esecutivo del Festival, Michael Haefliger. Il lavoro è stato registrato dal vivo il 5 settembre del 2015 al Lucerne Festival dall’orchestra della “Lucerne Festival Academy” diretta da Mariano Chiacchiarini e rinforzata dall’ “Hildegard Lernt Fliegen” ovvero il gruppo di Andreas comprendente cinque solisti: il trombonista Andreas Tschopp, i sassofonisti Matthias Wenger e Benedikt Reising, il bassista Marco Muller e il batterista Christoph Steiner che possiamo ascoltare anche alla marimba. La scrittura di Schaerer è multiforme avvicinandosi ora ad una pagina sinfonica, ora ad alcuni artisti difficilmente classificabili come Frank Zappa. Il risultato è una musica eccitante, coinvolgente, spesso fortemente materica, percussiva, a tratti anche aggressiva – se ci consentite il termine – al cui interno la voce di Andreas si muove con sicurezza, tenendo testa alla massa di suono prodotta dall’orchestra cha certo non si fa pregare per sviluppare tutto il suo potenziale sonoro.

Louis Sclavis – “Asian Fields Variations” – ECM 2504
Ascoltando questo eccellente album, qualcuno si chiederà ancora: ma questo è jazz? E’ invariabilmente la nostra risposta resta la medesima: non lo sappiamo, ma poco importa. La vera domanda è: si tratta di musica valida o no? E al riguardo, invece, la risposta la conosciamo bene, benissimo: è musica di altissimo livello. Protagonisti tre giganti della scena musicale odierna che registrano in trio per la prima volta, Louis Sclavis ai clarinetti, Dominique Pifarély al violino e Vincent Courtois al violoncello (in effetti i tre avevano già suonato assieme ma in quintetto nel 2000 per “Dans La Nuit” album con cui Sclavis aveva reinventato la colonna sonora del celebre film di Charles Vanel, e nel 2012 in “Flying Soul”, un disco in quartetto del pianista giapponese residente a Berlino, Aki Takase). In questo “Asian Fields Variations” i tre si misurano su un repertorio di undici brani, tutti originali (cinque a firma di Sclavis, tre di Courtois e due di Pifarély, più uno a tripla firma). Data la particolare attenzione con cui tutti e tre i musicisti guardano all’universo “colto”, risulta agevole capire come il risultato delinei atmosfere molto vicine alla musica da camera, specie sotto il profilo timbrico ché, viceversa, sotto il profilo meramente improvvisativo nessuno dei tre si risparmia. Di qui un incrociarsi di linee melodiche davvero stupefacente, a creare situazione assai differenziate: così in “Asian Fields”, nella prima parte, il violino sorregge le improvvisazioni di Sclavis al clarinetto basso, dopo di che ascoltiamo un solitario assolo di Vincent Courtois seguito da un ribaltamento delle parti, con Sclavis a sostenere un liquido assolo di Pifarély. E via di questo passo sino alla conclusione dell’album affidata ad un’altra bella composizione di Sclavis, “La Carrière”, nella cui prima parte Courtois all’archetto, dopo una suggestiva introduzione, accompagna il dolce clarinetto di Sclavis che rimane, comunque, il principale attore di questo album.

Tomas Stanko – “December Avenue” – ECM 2532
Stanko è uno dei musicisti più creativi, immaginifici, personali che il Vecchio Continente possa vantare, e lo ha chiaramente confermato anche durante i recenti concerti “italiani” con Enrico Rava. Doti che vengono ulteriormente esaltate da questo album in cui il trombettista polacco, dopo l’eccellente “Wislawa” del 2013, si ripresenta con il suo New York Quartet identico per tre quarti al precedente combo in quanto l’unica modifica riguarda il contrabbasso (al posto di Thomas Morgan ecco Reuben Rogers originario delle isole Vergini, che si è costruita una solida reputazione lavorando, tra gli altri, con Charles Lloyd) mentre restano al loro posto il pianista cubano David Virelles e il batterista di Detroit, Gerald Cleaver. Di qui un’intesa straordinaria che si respira fin dal primo brano; Stanko si muove secondo le coordinate che ben conosciamo, quindi un intenso lirismo, una certa propensione a delineare atmosfere piuttosto melanconiche, grandi capacità improvvisative che lo portano spesso (accade anche nella seconda parte di questo album) a sfiorare terreni in qualche modo contigui al free. Ottima la prestazione del gruppo nel suo insieme: il nuovo contrabbassista sembra essersi integrato alla perfezione nelle strutture disegnate dal leader con il quale dialoga felicemente mentre Virelles si conferma pianista di enormi possibilità, in grado di prendere in mano il pallino del discorso quando il leader – cosa certo non rara – decide di lasciare spazio ai compagni d’avventura: ecco, quindi, il pianista lanciarsi in assolo ora travolgenti, ora meditativi ma sempre in linea con le atmosfere volute da Stanko. Dal canto suo Cleaver sostiene il gruppo con un drumming di grande energia ed eleganza.

Viktoria Tolstoy – “Meet Me At The Movies” – ACT 9827-2
Il rapporto tra cinema e jazz non è certo cosa di oggi eppure riesce ancora a regalarci delle perle come questo nuovo album della vocalist Viktoria Tolstoy. Nata in Svezia, a Stoccolma il 29 luglio del 1974, la Tolstoy conserva ancora tracce della sua anima russa dato che è pro-pronipote di Lev Tolstoj, per linea materna, tracce che si ritrovano evidenti nelle sue capacità di interpretare, di narrare delle storie. E queste capacità la Tolstoy le estrinseca appieno in questo album che contiene undici brani tratti da altrettante colonne sonore, alcune ben note altre meno. Accompagnata da Krister Jonsson chitarre, Mattias Svensson contrabbasso e basso elettrico, Rasmus Kihlberg batteria cui si affiancano come special guests Iiro Rantala piano e Nils Landgren trombone e vocale, la Tolstoy affronta questo repertorio non facilissimo con grazia e pertinenza e con un accompagnamento strumentale tanto essenziale quanto efficace. In realtà la vocalist in un primo momento aveva pensato ad una grande orchestra, preferendo poi focalizzare la parte strumentale sul classico trio chitarra, basso, batteria impreziosito da due ospiti di grande livello quali Rantala e Landgren (li si ascolti rispettivamente in “”As Time Goes By” da Casablanca e “Calling You” da Bagdad Café”). Scelta azzeccata? Assolutamente sì in quanto l’essenzialità giova a mettere in risalto da un lato la bellezza dei temi scelti, dall’altro quelle capacità interpretative della Tolstoy cui prima si faceva riferimento. Particolarmente suggestive e indovinate le versioni di “Calling You”, “Kiss From A Rose” da “Batman Forever” e il sempre verde “Smile” da “Modern Times”.

Trio Mediaeval & Arve Henriksen – “Rimur” – ECM 2520
Dobbiamo confessare che fino a qualche anno fa la musica “antica” non rientrava nella sfera dei nostri interessi. Senonché per vicende familiari mi sono trovato alle prese con questa musica e ho imparato ad apprezzarla scoprendone le mille sfaccettature. E’ quindi con una certa cognizione di causa che possiamo consigliarvi l’ascolto di questo album (sempre che, ben inteso, la musica corale susciti in voi almeno un pizzico di curiosità). L’album nasce dalla profonda intesa stabilitasi fra il Trio Mediaeval ed il trombettista Arve Henriksen che hanno trascorso insieme molti giorni sul bellissimo fiordo Dalsfjorden, sulla costa occidentale della Norvegia, località in cui trova i natali buona parte della musica tradizionale norvegese. Ma non è solo musica norvegese quella che si trova nell’album: accanto ad essa figurano saghe islandesi, canti folk, inni religiosi e melodie di violino provenienti anche dalla vicina Svezia. Insomma, affascinati da questo imponente lascito della tradizione nordica, i quattro musicisti hanno pensato bene di arrangiare una serie di brani cercando di far coesistere jazz e musica medievale, improvvisazione e rispetto del linguaggio originario. Ad onor del vero questa sorta di sintesi era stata tentata con successo da Jan Garbarek collaborando con l’Hilliard Ensemble; anche in questo “Rimur” il risultato è notevole: le tre voci femminili riescono a produrre un sound affascinante, di rara bellezza e soavità, che si sposa magnificamente con la tromba così lirica, dolce, meditativa del norvegese Henriksen. Insomma un album sicuramente inusuale ma che, forse proprio per questo, potrebbe interessare pubblici assai diversi.

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