Inferno Delon: Alain Delon e L’inferno di Simone Graziano, passaggio di testimone tra Bergamo Film Meeting e Bergamo Jazz

Dal nostro inviato speciale a Bergamo, Massi Boscarol

BERGAMO il trade union tra il Film Festival e quello Jazz è fissato per un interminabile pomeriggio di domenica diciannove marzo all’Auditorium di Piazza della Libertà: Les félins + L’inferno. Protagonisti assoluti Alain Delon, prima – Simone Graziano, dopo. 
Tutto rigorosamente b/n nonostante mezzo secolo e diverse generazioni di cineasti che li separano, i titoli di testa aprono con un classico catwalk di Lalo Schifrin su espressione non ancora completamente glaciale modello lama di Toledo del divo francese per eccellenza, del quale si nota come si stia già affinando nell’arte della proverbiale quanto invidiabile e perfetta inespressività. Jane Fonda, che a quel tempo nell’atto di emanciparsi dall’essere la figlia di Henry, lo guarda con innocenza attonita mentre faccia d’angelo (solo la faccia, sia chiaro) si corrompe costruendosi da sé medesimo o quasi una prigione che non è assolutamente fuori luogo definire infernale.
Dall’altra parte, ovvero qualche ora dopo e tanto per rimanere in tema, i cent’anni (centododici per la precisione) de L’inferno di Dante trasposto su pellicola dalla triade costituita da Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan sono sottolineati, riespressi, amplificati dalla creatività vulcanica di Simone Graziano.
Mezzacoda scoperto, preparazione creativa sulle orme di John Cage e di altri grandi predecessori della sperimentazione pianistica, al parterre scorre circa un’ora accompagnata dal Sommo Poeta, Virgilio, il già citato Graziano appunto e un nugolo di dannati perennemente mezzi nudi che per l’epoca si sarebbero comunque guadagnati l’accesso ai gironi con le temperature più elevate, se non altro per la morale dei costumi
Pianismo lirico, a volte appena accennato, l’ottantotto tasti che saltuariamente funge da strumento percussivo di primitiva creazione, offre tuffi nelle profondità degli inferi alternati a impercettibili cenni di speranza: il conte Ugolino, Paolo & Francesca, Pier della Vigna, Lucifero a chiudere con effetti speciali primordiali che ora ci appaiono tanto improbabili ed ingenui quanto suggestivi. Già, quell’inferno religioso ed ancestrale fa quasi più paura dell’odierno, tecnologico. Quasi.
Si diceva, un punto di unione, uno scambio, un passaggio. Alain Delon, perché cinematografico e jazz. Cinematografico – icona assoluta adorata dal pubblico, in particolare da un certo pubblico, piuttosto disprezzata dalla critica, cosa che però non gli ha mai fatto perdere il sonno. E jazz – irriverente, sfrontato, impassibile e naturalmente bello. Qui, si diceva, con l’argento vivo del personaggio che interpreta cullato dalle note del compositore dei poi Callaghan, qualche anno più tardi assieme a Charles Bronson e quella loro straordinaria complicità con il sound funky e perentorio composée par François de Roubaix. E poi L’inferno, anch’esso cinematografico e jazz. Cinematografico – non serve neanche dirlo e jazz – nato come endecasillabo, piuttosto formale, rigido e rigoroso, nella versione della colonna sonora in differita di Graziano, apre con spunti di turbolenze armoniche esaltate dalla tecnica sopraffina dell’esecutore, piani e forti che nelle didascalie originali della pellicola Dante stesso faticherebbe a riconoscere ed improvvisazioni sempre piuttosto sulfuree e definitive, così come la tragica sorte di coloro che percorrono quei gironi a cono rovesciato.

Cala il sipario, non c’è speranza per nessuno. E quindi – questo fine settimana – uscimmo a riveder le stelle: Amaro Freitas, Paolo Fresu, Richard Galliano, Richard Bona, per citarne solo alcune. Le stelle del jazz!

Massi Boscarol

Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
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-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

Roberto Bottalico: non posso suonare solo standard

Il “Salotto Rosso” è la rubrica di interviste a cura di Daniele Mele: esponenti del Jazz italiano e internazionale parlano della propria visione musicale e del loro percorso artistico. In questa puntata, Roberto Bottalico racconta l’Alter&Go Project e il suo nuovo album: Il Favoloso Mondo di Wayne Lo Strambo.

 – Roberto, a che età hai iniziato a studiare sassofono?
“Fine liceo, 17-18 anni, a scuola. Il Jazz non sapevo neanche cosa fosse, all’inizio ascoltavo Progressive: Genesis, King Crimson…”.

– Classica e progressive? O solo progressive?
“No, classica dopo. Rock, progressive… comunque avevo 17 anni. Il percorso è stato Pearl Jam, Nirvana, The Doors, Led Zeppelin. Poi mi sono diplomato al liceo e ho iniziato Lettere a indirizzo Spettacolo all’università. Non era per me”.

– Indirizzo Spettacolo perché c’era già un’indole artistica?
“Sì, sempre andato a vedere concerti. E iniziavo a suonicchiare… e ad ascoltare Jazz, Blues. Ho iniziato ad andare a lezione da Deidda, Sandro”.

– Il fratello di Dario e Alfonso
“Sì. Dopo un po’ di tempo ho pensato di voler fare uno studio più accademico del sassofono, e lui mi indirizzò verso il Conservatorio (classico allora, non c’era Jazz). Io non conoscevo niente del mondo dei Conservatori, a casa mia non c’era una gran cultura musicale, al massimo si ascoltava Battisti. La prima volta che sono andato al Conservatorio mi hanno iniziato a parlare di orari di segreteria e di esami, ma io avevo bisogno di parlare con un docente. Un giorno mi sono presentato con il sassofono, ho detto che avevo lezione con il Maestro e son salito da lui. E lui mi ha detto “Ok, entra da me” “.

Ah così è andata?
“Sì, selvaggio proprio! (si ride) È che lui mi disse: “Sei troppo grande, al Santa Cecilia non hai possibilità, ci sono tre posti, prendono i minorenni” e io avevo questo sassofono da duecento euro. “A Perugia ci sono più cattedre, per te che suoni il tenore è più semplice”. Faccio l’ammissione ed entro con Mario Raia, la svolta della mia vita. Se non avessi incontrato lui, io non avrei fatto il musicista”.

– Ah sì?
“Mi ha insegnato che dipendeva solo da me, se volevo migliorare. È stata dura, sia psicologicamente che praticamente, perché ero solo con me stesso e questo rapporto interiore mi devastava… e io studiavo come un matto ma non bastava, 10 ore nette al giorno, le cronometravo e cercavo sempre di allungare i tempi degli esercizi. Il più grande insegnamento di Mario è stato il rispetto per la musica. Una volta mi disse: “Devi suonare il pezzo e cercare di comunicare sempre una sensazione, anche se è una Polka”. Non avrei capito molte cose senza di lui… anche perché sono entrato al Conservatorio già grande, a 23 anni. Mi ha salvato. Alla fine ho apprezzato il suo modo di fare, mi è stato dietro anche in momenti difficili. Mi ha fatto diventare un musicista”.

– E il recente percorso di studi ti ha portato al biennio a Santa Cecilia.
“Sì, e lì ho avuto una conferma che le cose che scrivevo piacevano. Potevo fare quello che volevo, e ho iniziato ad osare di più”.

– Ma tu già suonavi Jazz, anni prima, e pure parecchio bene.
”Sì sì, però lì mi sono realizzato completamente… soprattutto a livello compositivo. Al Conservatorio ho avuto dei riconoscimenti, in occasione della mia tesi, in cui ho portato un libro che ho scritto su Shorter e sui suoi principi compositivi e da cui nasce quest’ultimo disco “Il Favoloso Mondo di Wayne lo Strambo”. Anche grazie agli insegnanti che ho incontrato, in primis Pietro Leveratto che mi ha dato molta fiducia e molte idee, Fabio Zeppetella e Alfredo Santoloci, ho capito che nella musica potevo essere sincero con me stesso. Prima andavo alle Jam e studiavo il linguaggio, linguaggio, linguaggio… certo, la tradizione mi è servita, ma adesso suono come voglio. E non è che io sia innovativo, perché hanno fatto tutto, però mi sento libero di suonare come suono. Ho iniziato un percorso di elaborazione improvvisativa prima del conservatorio e qui ho capito che avevo delle particolarità che potevo sfruttare”.

 

 

– Ti sei accorto che tanto più eri spontaneo tanto più eri apprezzato.
“È quello! Ho sempre fatto un lavoro sugli accordi, su idee armoniche personali che escono quando improvviso. Ci inculcano che dobbiamo essere sempre simili a qualcuno, ma io non posso suonare frasi di altri. Anche io mi ispiro ai grandi del jazz da cui prendo idee, non se ne può fare a meno, ma un conto è prendere, capire e rielaborare e un conto è l’imitazione. Non posso suonare solo standards”.

– Perché no? Perché sono stati già fatti troppo bene da troppi musicisti?
“Ma sì, li devo stravolgere, come se fosse un gioco. O sei Brad Mehldau, oppure… Per me gli standards vanno studiati, sono la tradizione che va prima conosciuta e da cui successivamente ci si può allontanare. Sono un veicolo per comunicare con gli altri, a sei vai a suonare a un festival importante ti devi presentare con un’idea tua, personale”.

– Certo. E preferisci esporti con pezzi originali piuttosto che con i soliti standards che tutti conoscono.
”Suonerei sempre pezzi originali se possibile, anche non miei volendo”.

– E in tal senso, ci sono dei musicisti che ti ispirano o che ti hanno ispirato a seguire questo “modo di fare musica”?
“Che sono in vita? In Italia… Manlio Maresca, lui fa tipo Punk-Jazz e secondo me ha moltissimo da dire. Anche Daniele Tittarelli è un grande, ma ce ne sono tanti altri… però ci sono altri che sono bravissimi, ma non hanno niente da dire”.

– Sono d’accordo, ma non basta.
“Non basta. Ormai chiunque suona è bravissimo, il sistema non premia chi è spontaneo ma premia chi si sa muovere, e ovviamente i talenti veri, che escono anche se non parlano con nessuno”.

– Che tipo di ascolti fai oggi?
“Io ascolto il Jazz che si ispira ai dischi Blue Note degli anni ’60. Coltrane, Hancock, Shorter… Shorter mi ha detto che potevo fare quello che volevo, basta che avesse un senso”.

– Sembra una cosa semplice. (si ride)
“Eh, certo. Scrivo dei brani a volte che armonicamente non si capiscono. Basta II-V-I, basta il V che va al primo, basta. Si gioca con gli accordi, è divertente, è artistico. Uso diversi metodi per unire gli accordi che non sono quelli del jazz standard, come il legame delle note guida, dare importanza alle singole note che insieme creano accordi e melodie, cercando di trovare un suono giusto completando la qualità degli accordi”.

– Quando devo scrivere una canzone Pop, io personalmente mi avvicino prima alla chitarra. Quando devo scrivere un tema strumentale, passo per il pianoforte. C’è una sorta di canovaccio che segui per la realizzazione di un brano, o di un album? Come si arriva alla fine?
“A volte non c’è niente. A volte c’è solo un’idea, ed è armonica. E passa sempre prima per il pianoforte, infatti i miei temi non sono mai tecnicamente difficili, perché inizio a comporre sulla tastiera e sono tecnicamente scarso. Sul disco ci sono due brani intitolati Giant Half Steps, e non c’entrano niente con Giant Steps, anche se gli accordi vengono da lì. Sono un esercizio, un lavoro mio fatto su quegli accordi. E nel comporre mi interessa più il lavoro “di concetto” che “di estetica”. Questi brani, per esempio, si chiamano così perché il tema è una sperimentazione cromatica sul giro armonico di Giant Steps. Parte sempre tutto da un’idea, un concetto con uno sviluppo in musica: così mi piace. Alter Shorter, il terzo brano, è stato scritto perché volevo approfondire gli accordi maj7(#11), senza accordi di dominante, tutto con quel suono. Ho scelto un suono, il tema è lento e melodico, e si ripete, tipo Nefertiti di Shorter stesso. Io scrivo molto dissonante, ma i temi sono melodici, creo un movimento che prepara all’ascolto”.

– E passi per il sassofono solo alla fine, in questo processo.
“Alla fine sì, se serve”.

– La parte compositiva è al piano. Perché sulla tastiera hai una visione “geometrica” del pezzo, oppure…?
“Il tema completa sempre gli accordi. Poi, prendo il sassofono per vedere come è in velocità, e improvviso, e qualcosa cambia”.

– Al sassofono si concretizza la parte più creativa. Quella più… autentica?
“Sì. Non è “bella questa frase, ora ci faccio un pezzo” quanto “bello questo giro, ora ci faccio un pezzo”. Voglio fare un pezzo “con questo suono”, voglio sviluppare quest’idea/concetto in musica”.

Molto interessante Roberto. La melodia viene dopo, è a funzione del brano. Pensi che questo posso contribuire a rendere le melodie più interessanti? Perché, dal mio punto di vista, se parti dalla melodia ti incaselli, anche se comunque seguendo il tuo gusto musicale, in una sorta di “catologo di idee melodiche” già preconfigurato. Invece, partire da un suono che ti stuzzica e poi “forzarsi” a costruire una linea che faccia da collante…
“Esatto. Così sei costretto a trovare delle soluzioni diverse. Shorter ci ha detto tutto eh: la struttura, per esempio, non viene prima. La struttura viene col pezzo. Vuoi farla durare 7, 8, 13? Ha senso? E va bene, se l’artista vuole farsi capire trova un modo efficace per comunicare quella spigolosità”.

– Roberto volevo chiederti: quanto è durata la scrittura dell’album?
“I brani li ho scritti velocemente. Tre-quattro brani erano fatti, il resto è venuto in tre giorni. Alter Shorter è, secondo me, il pezzo più bello che abbia mai scritto in vita, e l’ho scritto in un due ore. Un pezzo puro, spontaneo. Anche se, ovviamente, il lavoro di studio delle sonorità è durato molto tempo”.

E il tempo di produzione?
“Due-tre giorni, mi sono visto con il gruppo e gli ho dato temi e accordi. Alcuni brani sono cambiati in quei giorni, perché i ragazzi hanno dato il loro contributo. Non ho detto loro come si dovevano comportare, ed è stato meglio così”.

– Un bel lavoro di gruppo. Due parole sui musicisti?
“Augusto Creni mi completa, accompagna con la chitarra in un modo molto pianistico, mi asseconda a seconda del mio fraseggio come un pianista ma in modo meno “invadente” di un pianista. Il bassista Alessandro Del Signore e il batterista Massimo Di Cristofaro, sempre pronti a prendere delle idee e rinnovarle, sono, oltre che musicisti eccezionali, grandi amici ormai grazie alle molte prove che abbiamo fatto. Sono molto contento”.

Splendido. Grazie Roberto per l’intervista.

Daniele Mele

Aurora, Fortuna, Naima e Isabel Con “LEI SI CHIAMERA’” Giusi Mitrano canta di donne migranti e violenza di genere

Quattro nomi di donne, quattro possibili vite. In “Lei si chiamerà”, Giusi MITRANO, racconta, cantando, la speranza di vivere in un modo senza più violenza sulle donne: quelle subite da chi fugge da terre martoriate alla ricerca di una vita migliore o da chi le subisce nel silenzio delle mure domestiche. Il brano uscirà il 25 novembre in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Ad accompagnare le note della canzone, il video realizzato da Daniele Chariello – Zork Digital Planet di Buccino, dove alle immagini dei musicisti si alternano quelle di bambini intenti a giocare sulla battigia con l’acqua del mare, altro simbolo forte di libertà. Bambini nei quali la Mitrano ripone la speranza di un futuro migliore. A fare da corona alla voce della Mitrano i musicisti del Sincretico, formazione nata nel 2011, composta da Bruno Salicone al pianoforte, Aldo Vigorito al contrabbasso, Giulio Martino al sassofono soprano e Luca Mignano alla batteria.

E’ un brano scritto di getto durante il primo lockdown – spiega Giusi MITRANOE’ la storia di questa giovane donna fuggita da un campo profughi in Libico dopo aver subito ripetute violenze fisiche e psicologiche. Riuscita a scappare dai suoi aguzzini, raggiunge Lampedusa. E qui, dopo aver partorito, muore. Ascoltai questa storia durante un telegiornale e ne rimasi scossa. Tanto che scrissi il testo di getto e ora finalmente è pronta per essere cantata”.

Nel testo, quattro nomi di donna: Aurora, Fortuna, Naima e Isabel scandiscono i passaggi e diventano significato e significante della narrazione del brano scritto dalla Mitrano. Aurora rappresenta l’alba, la speranza riposta in un domani migliore. E questo nome è dedicato a tutte quelle donne fuggite dai loro paesi alla ricerca di una vita dignitosa. Il velo che benda la Dea e la casualità di essere nate libere, ecco il significato di Fortuna. Naima, straordinaria ballad che John Coltrane dedicò alla moglie e sulle cui note, anni dopo, Jon Hendricks scrisse un testo dedicato alla donna come simbolo di amore, bellezza e vita, è dedicato alla giovane madre morta dopo il parto a Lampedusa. Infine Isabel è dedicato a tutte quelle giovani bimbe costrette a diventare troppo presto mogli e donne.

L’altra metà del Jazz, il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, continua a far parlare di sé…

Il secondo libro di interviste di Gerlando Gatto, “L’Altra Metà del Jazz – Voci di donne nella musica Jazz” (2018, KappaVu – Euritmica edizioni) continua a far parlare di sé, anzi a far parlare il suo autore e, soprattutto, le trenta musiciste intervistate! (Redazione)

Cliccando qui potrete accedere all’articolo completo di Guido Michelone pubblicato su Doppio Jazz, con l’intervista in esclusiva a Gerlando Gatto 

Riportiamo il testo dell’intervista:

quote
«Gerlando Gatto, giornalista professionista, decano della critica jazz italiana di alto livello, negli ultimi anni ha composto una sorta di trittico librario (destinato forse a diventare un polittico) con tre volumi dedicati alla realtà locale, sia pur con apertura internazionali: il primo testo è Gente di Jazz. Interviste e personaggi dentro un festival jazz e l’ultimo, al momento, è Il Jazz Italiano in Epoca Covid. Parlano i jazzisti. Nel mezzo c’è questo originalissimo L’Altra Metà del Jazz. Voci di donne nella musica jazz, di cui l’autore stesso ci parla approfonditamente in quest’intervista esclusiva.

-Gerlando, come ti è venuta in mente l’idea di un libro di interviste a sole donne jazziste?
La genesi di questo libro è piuttosto particolare. Nel maggio del 2017, quando si trattava di dare l’ok alla stampa, in fase di impaginazione del mio primo libro Gente di Jazz, per ragioni di spazio saltarono due interviste a Tiziana Ghiglioni e Rita Marcotulli. Così il libro uscì con interviste solo a “maschietti”. La prima ad accorgersi di questa anomalia fu mia moglie di solito molto attenta al mio lavoro; lei mi rimproverò aspramente anche perché poteva venir fuori l’immagine di un giornalista (il sottoscritto) che non considerava le musiciste di jazz mentre nella vita privata aveva molte amicizie reali con jazziste quali la stessa Marcotulli, Maria Pia De Vito, Marilena Paradisi, Antonella Vitale… e l’elenco potrebbe allungarsi di molto.

-Anche per esperienza personale, i rimproveri delle mogli hanno spesso risvolti positivi…
Infatti, questa ramanzina mi fece riflettere molto e mi rafforzò in un’idea che già da tempo mi frullava in testa: dedicare un libro di interviste solo alle jazziste e non già per ghettizzarle ancora una volta ma per dimostrare con i fatti quale importanza abbiano oggi le musiciste jazz, concetto che stenta a passare nella mentalità comune. Parlai, quindi, di questo progetto con Giancarlo Velliscig presidente di Euritmica che insieme a KappaVu avevano curato l’edizione di Gente di Jazz e con Marina Tuni che mi è stata accanto nella stesura di tutti e tre i libri che ho pubblicato. Ambedue trovarono l’idea giusta e così il libro è uscito ottenendo un grande successo. Una precisazione: grande successo non di vendite ma di attestati di stima.

-In che modo le hai prevalentemente intervistate? Telefono, e-mail, prima o dopo i concerti? In hotel? O altro ancora?
Ovviamente un po’ di tutto. Tengo a precisare che il libro contiene alcune interviste storiche, tra cui una a Dora Musumeci mai pubblicate in precedenza e interviste – la maggior parte – realizzate proprio per questa pubblicazione. Ovviamente se dovessi raccontare la storia di ogni singola intervista forse potrei scrivere un altro libro, ma colgo l’occasione per segnalartene qualcuna. Innanzitutto, in questa sede vorrei ancora una volta ricordare la figura di Dora Musumeci la prima vera jazzista italiana, pianista e vocalist, di grandissimo spessore del tutto ignorata dai critici vecchi e nuovi, così come evidenziato anche nelle più recenti Storie del jazz. Ebbene la intervistai nel 1998 come primo atto di un libro a lei dedicato. Purtroppo, un pirata della strada la falciò nel pieno centro di Catania e ovviamente non fu possibile proseguire. Nel 2017 era a Roma Sarah Jane Morris un’artista che in famiglia amiamo tutti e tre: io, mia moglie e mio figlio.

-Un’occasione da cogliere al volo, come si suol dire

Così quando l’artista ci concesse un appuntamento per intervistarla ci recammo tutti e tre e lei [Sarah Jane Morris] fu di una straordinaria dolcezza. Un altro episodio: ho sempre ammirato la pianista e compositrice Myra Melford ma non avevo avuto l’occasione di incontrarla; quasi per caso, decisi di contattarla su Facebook ed ebbi così modo di conoscere non solo un’artista formidabile ma una persona di squisita gentilezza. Non altrettanto potrei dire di una celebre vocalist statunitense di cui non farò il nome che aveva delegato tutto a un portavoce, il quale voleva indicarmi lui quali domanda fare e quali no, al che si beccò un bel… infine vorrei ricordare l’intervista a Radka Toneff, una straordinaria cantante norvegese che ebbi modo di intervistare durante il mio soggiorno in quel Paese e che purtroppo se ne andò suicida nel 1983 a soli 30 anni. Ma, come accennavo, ogni intervista contiene in sé un’altra storia per cui mi fermo qui.

-Pensi che in questa fase storica (il XXI secolo grosso modo) ci sia stata davvero un’emancipazione per la donna che vuole occuparsi di jazz?
In una certa misura sì… ma solo in una certa misura.

-Come spieghi la cronica scarsa presenza nella storia del jazz dell’universo femminile (a parte quello canoro)?
Questa domanda si riallaccia alla precedente. Il jazz è nato in un ambiente prevalentemente maschilista e anche quando negli anni Venti si affermò il blues classico portato in auge da vocalist donne, queste donne faticarono non poco per far assurgere in primo piano tematiche femministe. Al riguardo consiglierei di leggere il bel libro di Angela Davis Blues e femminismo nero. In buona sostanza i maschi l’hanno sempre fatta da padroni nel micro-universo jazzistico anche quando si sapeva benissimo che c’erano moltissime musiciste al di fuori dell’ambito vocale che potevano suonare in qualsivoglia contesto.

-Nel tuo libro su 31 intervistate ben 11 sono straniere da tutto il mondo. Riveli diversità d’approccio, nel parlare e nel dialogo, tra italiane e straniere?
Sostanzialmente no. Ho notato invece diversità di approccio a seconda del rapporto con le intervistate. Ad esempio, Marilena Paradisi si è aperta in modo davvero straordinario, così come Enrica Bacchia si è rivelata nella sua complessa umanità al limite del commovente. Con le straniere questo non è stato possibile in quanto con nessuna c’era un vero e proprio legame di amicizia.

-E fra le straniere noti particolari differenze fra le jazziste?
C’è poco da fare: tranne qualche eccezione le star mai dimenticano di essere tali e non vorrei aggiungere altro.

-A differenza delle straniere (dove per circa metà incontriamo strumentiste o bandleader) le jazz woman tricolori sono tutte cantanti: perché questa penuria in Italia di donne che non suonano uno strumento (salvo qualche eccezione che tu hai ovviamente evidenziato)?
Hai ragione… ma solo in parte. Tornando al mio libro ci sono, infatti, ben sei musiciste che non sono solo vocalist: Giulia Barba si sta sempre più confermando eccellente sassofonista, Marcella Carboni è arpista di assoluto livello, Rita Marcotulli è pianista che tutto il mondo ci invidia, Silvia Bolognesi è considerata una delle migliori contrabbassiste a livello europeo, Donatella Luttazzi oltre a cantare suona bene la chitarra mentre di Dora Musumeci ho già parlato. Questo per dire che anche in Italia la situazione sta cambiando anche se attraversiamo un momento particolarmente difficile e delicato le cui responsabilità, a mio avviso, ricadono anche sugli stessi musicisti alcuni troppo ideologizzati, altri troppo poco.

-Vero o no che sembra essere tornato (magari con ironia) lo stereotipo della cantante jazz un po’ vamp o sexy o dark lady rispetto alle femministe alla Jeanne Lee o Nina Simone degli anni ’60-’70?
Francamente non mi sembra. Ma la mia opinione vale per quel che vale dal momento che negli ultimi anni ho di molto diradato la mia presenza ai concerti e quindi non ho avuto modo di percepire ciò che tu affermi.

-Da quanto ti hanno raccontato, rispetto alle narrazioni del passato, il jazz è ancora un ambiente maschilista?
A questa domanda ho già risposto seppur tra le righe in precedenza. Comunque lo ribadisco in modo chiaro e netto: il jazz rimane un ambiente maschilista e ci vorrà ancora qualche tempo perché le cose cambino realmente e non solo di facciata”.

-Come mai nel giornalismo, nella critica, nell’insegnamento, nella fotografia, nell’organizzazione del jazz la donna è largamente e tristemente assente (o minoritaria)?
Innanzitutto vorrei sottolineare come in tutti gli ambiti che hai citato si prosegue lungo la vecchia strada per cui il merito, le capacità sono all’ultimo posto. Vedi ciò che accade nell’editoria, nei Conservatori per cui gli studenti pagano cifre rilevanti per avere un’educazione al massimo livello e i direttori viceversa pensano a risparmiare a scapito della qualità dell’insegnamento. Purtroppo, valgono altri elementi. Ciò detto la risposta alla tua domanda va ricercata nel fatto che gli spazi sono veramente pochi e dato il maschilismo imperante per le donne non è facile trovare un terreno su cui avventurarsi».
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Un critico, una musica, una pandemia: “Il Jazz italiano in Epoca Covid”. Gerlando gatto dialoga con Guido Michelone

Pubblichiamo con grande piacere una nuova intervista al nostro direttore Gerlando Gatto, in cui racconta la genesi e le motivazioni che hanno portato alla pubblicazione dell’instant-book “Il Jazz italiano in Epoca Covid”.
L’intervista, pubblicata sul portale “Doppio Jazz”, è stata realizzata da Guido Michelone, docente di Storia della Musica Afroamericana al Master in Comunicazione Musicale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, e Popular Music e Storia ed Estetica del Jazz presso il Conservatorio Vivaldi di Alessandria. (Redazione)

Questo è il link a Doppio Jazz e di seguito la trascrizione dell’intervista.

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// di Guido Michelone //

Alcuni mesi fa, autoprodotto, esce un interessantissimo volume “Il jazz italiano in epoca covid”, scritto o meglio curato da Gerlando Gatto, tra i più autorevoli critici italiani, ormai specializzati in libri di interviste, come dimostrano anche i due precedenti “Gente di jazz” e “L’altra metà del jazz”. In questo nuovo Gatto intervista 41 noti jazzmen italiani – Angeleri, Ascolese, Bearzatti, Bosso, la DeVito, Favata, Fresu, la Marcotulli, Piana, Tucci per citarne solo alcuni – in piena emergenza Covid affinché essi raccontino il loro lockdown e il loro modo di vivere un’esperienza per tutti senza precedenti. Ne parla direttamente l’Autore in un dialogo molto preciso e molto franco.

-Gerlando, quali sono i motivi che ti hanno spinto a scrivere il libro?
“Scusa se la prendo da lontano ma è importante per rispondere compiutamente alla tua domanda. Nella mia vita io ho sempre fatto il giornalista; sono diventato professionista nel 1974 e da allora mi sono guadagnato da vivere facendo il giornalista ‘economico’ nel senso che oltre a non essere particolarmente esoso, mi occupavo di economia. Trattando una materia così delicata posso affermare con orgoglio che mai ho ricevuto una smentita o una querela. A questo punto ti starai chiedendo: ma tutto questo che c’entra con il libro? C’entra in quanto è rimasto forte in me il desiderio di documentare, di raccontare i fatti come li vedo, a differenza di quanto fanno oggi i miei colleghi che scendono in campo lancia in Testa non già per raccontare fatti, ma per distruggere l’avversario politico ovviamente in linea con gli interessi dell’editore.

-E quindi hai voluto differenziarti nell’affrontare la professione giornalistica?

A ciò aggiungi il fatto che il jazz è sempre stato la mia passione, un universo in cui rifugiarmi e trovare quella bellezza fuori difficile da riscontrare. Da quando sono in pensione ho abbandonato l’economia e mi occupo solo di musica. Partendo da queste considerazioni, durante il periodo del lockdown, quando non si sapeva bene cosa fare, con un governo che stentava a trovare una via precisa, ho sentito forte l’esigenza non già di esprimere un mio parere, ma di documentare una realtà, quella dei tanti musicisti di jazz italiani che stavano vivendo un periodo così terribile. Ecco, il libro nasce da questa esigenza di far conoscere al di fuori del nostro microcosmo jazzistico la situazione di una importante categoria di artisti”.

-Il tuo è forse l’unico instant book italiano sul jazz: condividi l’inserimento in questa ‘categoria che ha spesso (come nel tuo caso) una valenza positiva?
“Onestamente non so cosa dirti. Probabilmente è vero: è un instant book e non mi pare siano stati pubblicati altri documenti di questo tipo su questa triste vicenda; ciò detto se lo consideri un fatto positivo, lo prendo come un complimento e ti ringrazio”.

-Come hanno reagito gli intervistati alle tue richieste?
“Devo confessarti che avendo programmato di porre delle domande a volte scomode, a volte potenzialmente irritanti, ho scelto con una certa cura i personaggi da intervistare. Di qui la preferenza in primo luogo di artisti che conosco da molti anni e con i quali c’era una confidenza tale da potermi consentire di porre certe questioni. Per il resto sono andato un po’ ad intuito e devo dire che mi è andata bene perché non ho trovato un solo jazzista che si sia rifiutato di rispondermi o che lo abbia fatto con fastidio o insofferenza”.

-Hai notato se i jazzisti hanno amato di più certe domande rispetto ad altre?
“Quelle che hanno amato di più sono state le seguenti: ”È soddisfatto di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?”; “Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo cosa chiederebbe?”. Rispondendo a queste domande hanno, infatti, avuto modo da un canto di esprimere tutto il carico di frustrazione che si viveva in quel momento, dall’altro di poter almeno dire a chiare lettere quali fossero le aspettative e cosa si aspettassero dal Governo da molti considerato in quei momenti, a torto o a ragione, completamente assente”.

-Quali sono i tratti comuni che accomunano i jazzmen italiani durante il lockdown?
“Devo dire che i tratti comuni erano veramente pochi per i motivi che spiegherò tra poco. Comunque un tratto che accomuna quasi – e sottolineo la parola quasi – tutte le risposte è la speranza in un domani migliore. Tornando al perché dei pochi tratti in comune, ciò deriva dal fatto che gli intervistati si possono grosso modo dividere in tre categorie con vissuto e interessi molto diversificati. Così ci sono alcuni grandi del jazz italiano (Rava, Fasoli, D’Andrea, Intra…) che hanno avuto una carriera splendida e che poco hanno sofferto, almeno dal punto di vista economico, per le ristrettezze causate dalla pandemia; ci sono poi molti musicisti nella fascia di età compresa tra i 40 ei 60 anni che se la sono cavata abbastanza bene anche perché molti di questi insegnano nei Conservatori; chi invece se l’è vista brutta sono i tanti giovani che senza concerti e senza insegnamento non hanno avuto molte occasioni di guadagno”.

-Che conclusioni puoi trarre oggi (a pandemia finita o quasi) sulla situazione di allora (2 anni fa) e su quella odierna (post-Covid)?
“Purtroppo nessuna conclusione particolarmente ottimistica. Ricordo che in quel periodo, forse per consolarci vicendevolmente, ci dicevamo che ne saremmo usciti tutti più buoni, più comprensivi. Ecco, devo constatare che nulla di tutto ciò è avvenuto sul piano umano: ne siamo usciti tutti più incazzati, se mi consentite il termine. Dal punto di vista prettamente musicale, l’unica nota positiva è che in qualche modo si è ripreso a fare musica dal vivo. Con quali esiti? Anche al riguardo non vedo grandi luci… ma qui mi fermo perché non voglio farmi più nemici di quanti già non ne abbia”.

-Gerlando, altro, infine, da aggiungere sul libro?
“Solo che mi è costato molta fatica in quanto rivolgere domande tipo “Come riesce a sbarcare il lunario?” o “Vive da solo o in compagnia?” non è stato particolarmente facile specie in certe situazioni. Comunque penso sia valsa la pena. Ma questo probabilmente devono dirlo altri”.

Cfr.: Gatto Gerlando, “Il jazz italiano in epoca covid”, GG, Roma, 2021, pagine 219, s.i.p.
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