Gino Marinuzzi in uno splendido CD Decca

Quali furono, quanti sono i direttori d’orchestra, attività pratica per eccellenza, esperìti anche nell’arte speculativa della composizione? Balzano alla mente parecchi nomi: Gustav Mahler anzitutto, ma anche il suo discepolo Bruno Walter (tra i più interessanti), Wilhelm Furtwangler, Franco Ferrara, Giorgio Federico Ghedini che iniziò la propria carriera proprio come direttore per ripiegare soltanto in seguito sulla composizione (con vivo disappunto da parte della moglie, che pensava di aver sposato un musicista dai potenziali, lauti guadagni..),

In epoca più vicina a noi si possono citare all’ordine del giorno Esa-Pekka Salonen, il dotatissimo André Previn – anche jazzista ‘da paura’ – Lorin Maazel… Con le generazioni nuove per la verità tale doppia perfezione dell’atto musicale sembra esser passata di moda: sostituita dall’attività, certo non meno laboriosa, della costruzione della propria immagine? Forse, parafrasando Vàclav Havel, si teme di non poter servire due padroni e ingannarli entrambi nello stesso momento?

Magari si pensa, come Ardengo Soffici, che “quando si vive non si scrive” specie in un’epoca come quella attuale ove regna la pigrizia mentale più incontrastata ?

Sia come sia, Gino Marinuzzi fu esempio di eccellenza in tutti i campi. Nato il 24 marzo del 1882 a Palermo, appartiene anche lui de facto a quella “generazione dell’ottanta” i cui più noti esponenti furono Pizzetti, Casella, Respighi, Busoni.

In un tempo nel quale dominava incontrastata l’opera verista, e il Melodramma più in generale, questi giovani musicisti cercavano di sviluppare una nuova poetica; alcuni puntando lo sguardo, con moderato entusiasmo, alle nascenti avanguardie; tutti, applicandosi con nuovo vigore alla musica cameristica e sinfonica. Va ricordato come il compositore italico sia, di natura, un tradizionalista, legato a quel magnete potentissimo che è la melodia, ansioso di abbeverarsi alle fonti ancestrali (quali ad esempio furono i modi gregoriani nella musica di Pizzetti). Nonostante ciò immaginiamoci quale pubblico dovettero trovarsi di fronte questi compositori in una società come quella italiana, dove la maggioranza degli appassionati la musica strumentale la frequentava pochissimo e, soprattutto, non gliene poteva calar di meno.

La carriera direttoriale del Marinuzzi fu di portata mondiale, con acuti di popolarità negli U.S.A., come al MET. A Chicago fu per qualche tempo direttore stabile. Ammiratissimo e sempre attento a valorizzare i compositori italiani suoi contemporanei, come il succitato Pizzetti, è ritenuto, per la  tecnica direttoriale e il gusto assai evoluto, un interprete ancora attuale e moderno. Così  afferma anche un esegeta severo e attendibile come Riccardo Muti.
Peccato ci rimangano poche testimonianze registrate dell’arte sua.
A differenza del direttore, il compositore Marinuzzi è invece totalmente misconosciuto.
Decca ha pensato quindi di dedicargli, meritoriamente e con intelligente coraggio, questo bel CD antologico.
Colma di quel fascino inapparente che appartiene soltanto alle creazioni artistiche nate per necessità spontanea, priva di protervia, non rivolta a compiacere, segnare un’epoca o tracciare un confine, la dolce e tuttavia fluente musicalità di Marinuzzi è sincera come un buon vino sìculo. Della Sicilia queste note senza finzioni trasfondono il paesaggio in una luce potente, cangiante, al cui interno sferza lo scirocco di un’orchestrazione d’ascendenza wagneriana e, per effetto di specchio riflesso, persino debussiàna. All’ascolto, la sua ‘voce’ compositiva sembra quella di un eclettico, non mostrando di possedere uno stile unitario. Ma è forse questo il punto di forza dell’artista, ciò che lo rende in grado di cogliere le differenze, e scegliere meglio i colori dei suoi quadri musicali.
Il disco contiene la Sinfonia in la, in tre tempi, scritta nel 1942 ed ispirata a Virgilio: opera a mio avviso stupenda e sorprendente. Del secondo lavoro presentato, la Suite Siciliana, basti dire qui che il terzo tempo, Valzer Campestre, fa balzare alla mente analoghi  ‘numeri’ più celebrati di Verdi e Sostakovič, nientepopodimeno, ma di fronte a quegli ingombranti ‘cugini’  Gino Marinuzzi non sfigura.
L’esecuzione è affidata all’Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi” guidata dal direttore Giuseppe Grazioli. Questi interpreti rendono all’ arte strumentale dell’autore il miglior servizio possibile con una lettura “naturale” ricca di gusto e forza drammatica. Ci spiace infrangere un’ennesima certezza dell’ avanguardia, ma Gino Marinuzzi va ad aggiungersi, anche in virtù della presente pubblicazione, al novero dei compositori ingiustamente considerati in ritardo sul proprio tempo, e per un pregiudizio infondato, ignorati quando non dileggiati. Parcere subiectis et debellare superbos…

Paesaggi del Novecento nel CD di Miranda Cuckson e Blair McMillen (ECM)

Mentre il mondo galoppa verso il tramonto ci ricordiamo che il programma da concerto, come quello discografico, è una forma di civismo. Dimmi che autori vai e come li accosti
(in una “miscela Lavazza” oppure con certosino e filologico criterio) e ti dirò chi sei.
Vi sono le partigianerìe del programma cronologico, quelle del programma geografico, topografico, persino geopolitico, i fautori del programma monografico, gli amanti degli accoppiamenti giudiziosi, quelli delle ammucchiate, della “lectio magistralis”, i fan del “contemporaneismo”, gli adepti museali, i feticisti, i pii devoti, i ragionieri ed i “bad boys”. Per tacere degli eccentrici, dei contaminatori, dei sicari del cross-over, di quelli che “mettiamo Piazzolla alla fine”, dei propugnatori delle rarità, degli spacciatori di chicche, dei cultori delle trascrizioni (autentiche o quasi) oltreché delle colonne sonore. Potremmo continuare. Ma la disamina dei gusti, psicologici, sessuali e di “gender” non esaurisce la questione nel merito: come si compone un bel programma? Lunga sarebbe la risposta; anzi, di risposte, al plurale, sarebbe più giusto parlare.
Il programma di questo disco è bello sia da leggere sia da ascoltare. Abbiamo, messi a confronto, tre grandi autori del Novecento storico, uno ormai da decenni ben piazzato nel novero dei massimi (Bartók), l’altro, almeno fino a qualche tempo fa, di gran successo (Schnittke), l’ultimo (Lutoslawski) forse più noto nei perimetri delle sale da concerto.
A montare per i tipi dell’ECM l’ardimentoso impaginato è il duo formato dalla violinista Miranda Cuckson e dal pianista Blair Mac Millen. (altro…)

“The Master” di Jonny Greenwood

Diceva André Breton: occorre che l’altro appaia dall’individuo, oltre il controllo esercitato dall’ “io”. Come dire: è dall’opera stessa che deve evidenziarsi il soggetto creatore, non deve quest’ultimo calarsi a forza nel prodotto della propria arte.
Non si vogliono qui rispolverare le analisi della post-avanguardia, di Cage e Boulez…parliamo in fondo di una semplice colonna sonora. Ma che colonna sonora, e che autore! Nulla sapevo di lui prima di vedere, correva l’anno 2012, “The Master” di Paul Thomas Anderson. Uscito dalla sala, quella sera, vagavo quasi tramortito da un film indubbiamente grandioso quanto poco generoso con lo spettatore. Sembrava però ingiusto avanzare riserve verso un’opera universalmente quanto giustamente lodata. Indiscutibile era stata però l’impressione suscitata in me dalla colonna musicale.
Scoprii allora che l’autore, Jonny Greenwood, classe 1971, milita come chitarrista nel gruppo rock Radiohead, una formazione molto stimata che ha venduto decine di milioni di dischi, influenzata anche dalla musica elettronica e contemporanea: un gruppo che tuttavia a me non piaceva, né
piace tuttora affatto. Proprio per questo la curiosità aumentava e, poco dopo, mi procuravo il disco, che confermava la mia impressione positiva. Oggi voglio riproporvene l’ascolto.
Bretonianamente, ma su un piano puramente psicologico, mi chiedo chi sia Jonny Greenwood. Rimanendo “in re ipsa” credo ci troviamo di fronte ad un musicista dalla spiccata natura, dotato di caparbia intuizione, capace di unificare atteggiamenti diversissimi, da Stravinsky a Strauss a Satie, per mezzo di una grande abilità naturale nel porsi, come soggetto creativo, al servizio della logica del materiale di volta in volta utilizzato.
Come si sa, gli anglo-sassoni hanno pregi preziosi, perlomeno nell’arte. Il principale è forse la capacità di essere liberi, senza che simile libertà assuma le forme, a loro volta coercitive, della contestazione o dell’avanguardia – che mai invecchia. Infatti quelle terre costituiscono la culla ideale per il ‘pop’ migliore del mondo.
Molto di quella scena artistica è pura illusione, ma tale panorama, tutto sommato, sa vivere di vita propria; soprattutto a quelle latitudini e tanto più se ci si sposta negli U.S.A. non si ha paura del nuovo. La bellezza invece, da noi nel Continente, tende ad essere collocata nel passato, rievocata attraverso la retorica (“è il nostro petrolio..”, “salverà il mondo..”), collocata entro i perimetri sicuri di un museo dal quale non possa evadere per nuocere. (altro…)

Davide Cabassi e il “suo” Beethoven

 

 

 

 

Serve un bel coraggio per intraprendere, oggi, una nuova integrale pianistica beethoveniana, e l’ardimento vale doppio se la pubblicazione avviene sotto l’egida di un’etichetta storica come Decca, che può annoverare incisioni di pianisti entrati nell’immaginario collettivo.
Serve lucida inventiva per riuscire a individuare idee, spunti creativi in grado di rigenerare un’interpretazione giunta dopo mille altre.
Occorre infine, ma non da ultimo, possedere mezzi tecnici adeguati.
A me pare Davide Cabassi possieda i requisiti per soddisfare tutte queste condizioni. Il suo lavoro merita il più alto rispetto e la direzione da lui intrapresa può dirsi, nel senso migliore del termine, quella giusta.

Cabassi sceglie infatti la via più difficile: la fedeltà. La sua lettura è uno specchio nel quale vediamo riflessi il testo e le intenzioni palesi dell’autore. Realizzando l’essoterico, il pianista giunge a una lettura imprevedibilmente e magnificamente esoterica, rendendo manifesto il senso celato di composizioni che, per quanto mai troppo note, sono pur tuttavia assai popolari e battute. In questo disco siamo nel cuore del Beethoven che, ai tempi passati, usava definirsi del “secondo periodo” o “secondo stile”: già maturo e grandioso, l’autore però non spìntosi ancora nella fase più sperimentale che giungerà approssimativamente dopo il 1825, è repertorio di sublime profondità. Qui siamo per la precisione tra il 1803 e il 1806.

Le Sonate proposte nel presente CD Decca, il secondo dell’annunciata ed auspicata integrale, sono appunto l’opera 53, dedicata al conte Waldstein, l’opera 54 in due movimenti che è una delle più brevi, e l’opera 57, colloquialmente nota come “Appassionata”, titolo assegnatole surrettiziamente dopo la morte del compositore. A guisa di  suggello il pianista presenta, giustamente, anche l’ampio “Andante favori” che doveva fungere originariamente da tempo lento della “Waldstein”, poi  scartato per via dell’eccessiva lunghezza. Tuttavia, ci racconta Carl Czerny, il brano era spesso eseguito da Beethoven, che gli affibbiò personalmente il nomignolo di “favori”, ossia favorito. (Tra parentesi voglio aggiungere che l’esecuzione di Cabassi è  la mia preferita tra quante, discograficamente, conosco di questo prelibato ‘gateau’: non sono poche). Il pianista italiano suona con un ammirevole senso delle proporzioni. Sono interpretazioni nelle quali la propulsione ritmica gioca una parte dominante, come è giusto accada in Beethoven, i cui elementi architettonici vengono ispirati dal ritmo così come certe case lo sono dai fantasmi. I ‘fortissimo’ improvvisi, gli ‘sforzati’, le sorprese talora minacciose e talvolta ironiche di cui le partiture sono disseminate, così come i motivi ornamentali e tutte le componenti melodiche e affettuose, tutto viene reso da Cabassi con gusto, senza eccessi. Non c’è in questo pianista manifesta volontà di stupire, soltanto l’intento apprezzabile di veicolare nel modo più chiaro la musica. Penso sia il modo migliore di far emergere la poesia.

Pare che un giorno Stravinsky avesse rivolto ad una pianista alcune osservazioni critiche in merito a un’esecuzione da lui ritenuta troppo carica di effetti e nuances. “Suono così, Maestro” – fu la risposta – “poichè reputo questo pezzo “espressivo”.
“Se è “espressivo”, ribatté il maestro, “perché, di grazia, lo esegue “espressivamente”? Non basterebbe semplicemente.. eseguirlo, siccome già espressivo di suo?”. In questo aneddoto, se non vero sicuramente veritiero, c’è tutto Stravinsky. E anche tutto Cabassi, a mio giudizio, che rende a Beethoven il miglior servizio possibile. Scusate se è poco.

IL VENTO DA EST PIEGA L’ERBA DELLA CONSUETUDINE

Nello stupendo romanzo di Julian Barnes “Il senso di una fine” si pronuncia, a un certo punto, la seguente affermazione: “ La nostra vita non è la nostra vita, ma la storia che ne abbiamo raccontato”. Si potrebbe dire altrettanto della storia della musica europea? Ben assestata e avviata sulle solide ‘coulisse’ di stili e autori celebrati, essa presenta, come tutte le invenzioni ‘a posteriori’, delle zone d’ombra. Non si dice alcunché di nuovo affermando che, della musica di alcuni stati, ben poco si conosce, un bel nulla si esegue. Prendiamo a esempio la Bulgaria: a parte la famosa ed eccellente compagine corale “Le Mystère des Voix Bulgares”, nota nello stivale perlopiù per il “Pippero”, nient’altro ci sovviene; e lo stesso si potrebbe dire degli altri molteplici aspetti, tutti molto ricchi, della cultura di un popolo la cui tradizione affonda le radici in terra greca, altra landa musicalmente misconosciuta. È quindi con curiosità che ho iniziato ad ascoltare “Wind from the East” (Geganew), il CD che la pianista italo-bulgara Victoria Terekiev ha dedicato a tre compositori della terra dei suoi avi. Tale curiosità poteva restare semplicemente sentimento in sé conchiuso destinato ad essere archiviato all’ascolto, invece man mano si è trasformata in piacere, infine in gioia. Cosa accomuna le opere che Victoria ha scelto per il suo disco? Sono pezzi brevi articolati in raccolte, “suites” di danze o studi melodici, come avviene spesso con la musica dei paesi dell’est dove mai si dimentica il legame con il folklore tradizionale e l’ispirazione si adatta particolarmente alle piccole forme. (altro…)

Vino, donne e canto: Willi Boskovsky interpreta gli Strauss

Johann Strauss jr. e Josef Strauss, figli del patriarca Johann Strauss comunemente detto Johann Strauss ‘padre’, scrissero a Vienna i loro Walzer raggiungendo acuti di popolarità difficilmente immaginabili persino ai nostri giorni e non soltanto in terra di Cacania. Pensate che, a proposito di Johann Strauss jr. (1825-1899), si andò esercitando in un certo periodo, con lauti profitti, persino un commercio al dettaglio avente come oggetto le ciocche dei suoi capelli; roba che Justin Bieber manco se la sogna. Come giudicare questa musica? Un aneddoto rivelatore pare quello, poco importa se è leggenda, attribuito a Johannes Brahms che avrebbe così apostrofato il rampollo Johann :” Bello il suo ‘Danubio Blu’…complimenti vivissimi …peccato non l’abbia scritto io!”
E’ musica non tanto da valutarsi con il metro della profondità e della creatività, qualità che pure non mancano, quanto da gustare come si apprezza un manufatto d’epoca, un piatto tipico, una creazione autoctona… come, che so, le uova Fabergé, le Porcellane di Capodimonte, il Gamelàn balinese, le Altane veneziane. Altrettante, va senza dire, serie forme d’arte,
Il Walzer di Strauss è infatti Vienna, le Gasthaus e i palazzi, quel conservatorismo come calore rassicurante, l’umorismo anche a volte un poco sempliciotto ma di tradizione poetica fortissima, senza il il bisogno di aprirsi ad ogni costo al futuro.
Va detto anche che è musica, a dispetto dell’apparente semplicità del dettato testuale, assai difficile da interpretare; occorre non tanto conoscerne la sintassi, quanto saperne padroneggiare la complessa semantica: se non di persona, toccherebbe almeno spiritualmente recarsi in loco, alla Salgari, respirare l’aria della città, trovarcisi bene,. (altro…)