Jimmy Cobb: il grande batterista se n’è andato in povertà

Il ricordo del batterista Giampaolo Ascolese

Carissimo Jimmy,
anche tu sei andato via e, spero, sia andato in un mondo migliore, che si chiami Paradiso o Inferno o Purgatorio, questo non lo so, ma la cosa importante è che sia un mondo migliore di questo, dove i grandi musicisti come te siano riconosciuti davvero per la loro grandezza e per le gioie che hanno dato alla Musica.

Jimmy Cobb

Poco prima di morire avevi sommessamente ma fermamente lanciato un grido di dolore perché non potevi più sostenere la tua famiglia con la tua stupenda musica, perché eri infermo e non potevi più suonare.

Hai chiesto aiuto e noi musicisti, sbigottiti, abbiamo cercato di aiutarti almeno psicologicamente, se non economicamente, poiché noi certo non abbiamo i mezzi, o per lo meno la maggior parte di noi.

Dovrebbe essere lo Stato in cui si vive, la Nazione a cui una persona “appartiene” ad occuparsi dei grandi Artisti e sicuramente io nulla so dell’America da questo punto di vista ma, ad esempio, qui in Italia non abbiamo alcuna possibilità di aiutare i grandi artisti, a qualsiasi arte essi appartengano.

Posso ricordare innumerevoli casi, come, ad esempio Salvo Randone, da tutti considerato uno dei nostri più grandi attori, morto fra gli stenti, e, molto più vicino a me, Nicola Arigliano, che è finito in una clinica privata, grazie al sostegno dei parenti più stretti e degli amici, perché le strutture sanitarie pubbliche non potevano assicurargli le terapie necessarie.

Ma gli esempi possono essere infiniti e quindi, spero vivamente che ora ti rifarai abbondantemente di tutti i sacrifici che hai dovuto affrontare, specialmente alla fine della tua vita, perché, per fortuna, quando eri giovane, ed anche dopo, la vita ti ha sorriso e ti sei potuto esprimere come il grandissimo batterista che eri.

Nel mio piccolo conservo il ricordo che ho di te, quando, dopo il concerto che feci con il Quartetto di Eddy Palermo a Perugia, in occasione di “UmbriaJazz 1985”, mi fermasti e mi facesti dei grandi complimenti, dicendo che io, oltre ad essere un batterista di Jazz “sapevo fare anche altro”, perché con Eddy suonavamo molti brani  latini e “fusion”.

Ecco, ora ti chiedo scusa se io non mi sono subito inginocchiato ai tuoi piedi, perché all’inizio non ci ho creduto, e forse non avevo nemmeno capito chi tu fossi, non ti ho riconosciuto subito… l’ho capito dopo, me lo hanno detto, quando non ti ho più visto e ti ho cercato… e non ti ho più trovato e le vicissitudini della vita non ci hanno più fatto incontrare.

Volevo ringraziarti poi anche perché, con “Kind of Blue” hai segnato il tempo, gli anni del mio primo amore, ascoltando continuamente il disco nei momenti più belli e poi anche perché, con il tuo tempo di spazzole su “All Blues”, hai definito la regola finale di come si debba suonare in 6/8 con le spazzole, e questa regola non si discute.., si impara.

Grazie Jimmy, e buona musica !!!

Giampaolo Ascolese

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste… in Sicilia: Rosalba Bentivoglio, vocalist

Intervista raccolta da Gerlando Gatto

Rosalba Bentivoglio, vocalist

-Come stai vivendo queste giornate?
“La necessità di seguire le linee guida dettate dal governo e dal buonsenso fanno da filo conduttore nelle mie giornate e non ti nascondo che la drammaticità del momento la vivo ogni giorno pensando ai miei cari (figlio, nipoti e madre la quale si trova ricoverata in un centro per anziani) poi penso a tutta la comunità, a tutti gli italiani che in questo momento come me soffrono ma devono soffocare i sentimenti familiari e dare ascolto all’intelletto, al raziocinio”.

-Come ha influito sul tuo lavoro; pensi che in futuro sarà lo stesso?
“Certo lo stato attuale ha influito e continua ad influire sul mio lavoro, così come credo sul lavoro di tutti gli artisti, musicisti e non, basti solo pensare che i concerti annullati sono tanti anche perché questa emergenza cade in un momento dell’anno in cui si concretizzano tante nostre presenze sui palchi di tutto il territorio nazionale ed anche europeo. Ma su questo vorrei dire che queste giornate di forzata reclusione in casa ci stanno permettendo di rallentare i tempi sia di lavoro che di pensiero in generale creando, o meglio generando, una forza introspettiva maggiore. Ciò porterà immancabilmente ad una crescita interiore più consapevole e profonda e di tutto ciò avremo la tangibilità in un futuro prossimo e, come ciò che accade dopo grandi eventi disastrosi che inevitabilmente portano indietro le lancette dell’orologio sociale e umano, arriverà un momento di primavera interiore che verrà (come già accade) percepito nelle composizioni musicali che scriveremo con animo diverso”.

-Come riesci a sbarcare il lunario?

“Attualmente sono titolare di cattedra di canto jazz presso il conservatorio A. Corelli di Messina, quindi a differenza di tanti altri colleghi musicisti credo di potermi reputare fortunata, almeno per la mia sopravvivenza fisica. Ma la mia attività artistica ne risente: le collaborazioni, i progetti in fase di realizzazione ed altro non vedranno la luce a breve termine. Tutto ciò è gravissimo per un artista”.

-Vivi da sola o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“Anche in questo caso visto la reclusione forzata sono stata fortunata, condivido questo periodo (ma già tutta la vita) con il mio compagno Enrico il quale non mi fa mancare l’affetto, le attenzioni e una profonda e proficua collaborazione. Abbiamo un figlio anch’egli musicista (suona meravigliosamente il sax soprano) e inoltre ci “affolliamo” la famiglia con due bellissimi nipotini. Purtroppo in questo periodo, ovviamente, non possiamo frequentarci ma ci colleghiamo ogni giorno su WhatsApp o su Skype per sentirci vicini”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Sì, credo che in questo specifico momento storico di sofferenza umana in cui tutto dovrebbe essere condiviso e in cui l’individuo non viene visto solo come “individuo” ma così come il macrocosmo ingloba il microcosmo riusciremo ad avere una maggiore visione dell’uomo nella sua interiorità e integrità universale. La nostra stessa sorte (ma non solo per questo singolo evento) è posta in uno dei periodi più difficili della storia del mondo; un periodo caratterizzato da profondi sconvolgimenti, dalla rottura di vecchi metodi, legami e rapporti anche e soprattutto con la terra, dal delinearsi all’orizzonte della distruzione di una civiltà. Una visione del dopo ci viene fornita e la troviamo attuale nella letteratura anche in quella greca antica ma soprattutto in un testo scritto nel finire dell’ottocento da H.G.Wells scrittore inglese che ha scritto, tra le altre opere: “La guerra dei mondi” . Scritta nel 1898, l’opera narra di un tempo in cui la terra viene attaccata e invasa da forze aliene, noi terrestri ci difendiamo con cannoni, navi, aerei etc. e mettendo in campo tutte le nostre forze militari, ma veniamo sottomessi dagli alieni che sono in possesso di armi di distruzione più avanzate e a noi sconosciute. Dobbiamo solo ribaltare i piani di visione, come in uno specchio, ed ecco che tutto cambia: «Noi “umani” abbiamo attaccato la terra, e finiamo con… un “semplice raffreddore” che ci stermina tutti, così come nella guerra dei mondi gli alieni verranno sconfitti da un “semplice raffreddore” a cui loro non erano immunizzati, e i terrestri vincono la guerra aiutati dalla “terra”». Credo che questo periodo di transizione contenga in sé le più grandi promesse che il mondo abbia mai veduto, e non bisogna disperarsi ma essere profondamente ottimisti. Le strutture del pensiero religioso e filosofico sembrano sul punto di modificarsi, ma non sappiamo ancora come. Se la distruzione avviene, è soltanto perché la vita possa evolvere. Nel processo cosmico ognuno ha la propria minuscola parte da compiere”.

-Credi che la musica possa dare forza per superare questo terribile momento?
“Sì sono certa e credo che la musica ne uscirà più forte e più insostituibile che mai, anzi il linguaggio musicale sarà veicolo di vita essendo stata essa stessa “incipit di vita” con l’universo. A questo proposito voglio citare: «esisteva Eru, l’uno, chiamato Iluvatar che creò per primi gli Ainur, i santi scaturiti dal suo pensiero ed erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto ed egli ne fu lieto […] ciascuno di essi penetrava quella parte della mente di Iluvatar da cui proveniva. Ma già solo ascoltando si perveniva ad una comprensione più profonda e s’accresceva l’unisono e l’armonia. E all’improvviso gli Ainur (santi, scaturiti dal pensiero dell’uno indivisibile Iluvatar ) scorsero una remota luce, quasi una nuvola con un vivente cuore di fiamma; e seppero che non era soltanto visione, ma che Iluvatar aveva “creato con il loro canto” una nuova cosa: “Ea”, “il mondo che è“ ». [dal Silmarillion di J.R.R.Tolkien ]. Il suono del cristallo stabilizza, amplifica e trasmette il tono puro. Le campane di cristallo emettono una purissima nota dominante, creando un campo vibrazionale armonico che entra in risonanza con il corpo, queste vibrazioni esprimono la più alta armonia e purezza del suono. Nell’universo tutto è energia in vibrazione, anche il corpo umano ed ogni suo organo risponde ad una risonanza. La voce è lo strumento magico per eccellenza e la base è il canto degli armonici studiati nell’antichità dal matematico musicista e filosofo Pitagora che troviamo nella sua pitagorica musica delle sfere, ed è il cosiddetto canto degli armonici, conosciuto anche come canto degli angeli e che oggi con espressione americana è detto overtones. La riscoperta attuale di questa antica tecnica consente di aumentare come una canopia l’effetto del suono. La voce si moltiplica allora in due o tre note contemporanee che agiscono con lentezza su diversi livelli psicofisici, tecnica che io applico nei miei concerti. La vocalizzazione funziona da massaggio psichico e consente di ritrovare l’armonia della propria identità vocale, smarrita nello stress, nel rumore, nello squilibrio del corpo e della mente. Si può riscoprire così il silenzio (tanto trattato e divulgato dal monaco tibetano Thích Nhất Hạnh con il “dono del silenzio”) troppo spesso dimenticato perché lo riempiamo di pensieri negativi e parole inutili, brutta musica, rumore. Invece è il “suono della meditazione”, la voce del futuro: sembra vuoto, ma è pieno di “fantasia e creatività” “.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare
“Certo che per me la musica è fondamentale diciamo che è una necessità di vita e «tra le righe di ogni mia composizione c’è sempre l’espressione jazz, da me mediata fino al punto da utilizzare il jazz come nutrimento della mia cultura mediterranea ed europea». Comunque la mia passione per la pittura a olio è riuscita ad appassionarmi al punto tale che spesso mi ritrovo a dipingere in tutti i ritagli di tempo possibili che la musica mi lascia. Ho già organizzato diverse mostre personali sia in
Italia che in Europa e comincio ad essere sempre più apprezzata e questo mi fa stare bene. In questo periodo di quarantena forzata non posso incontrarmi con i miei musicisti con i quali abbiamo lasciato progetti in sospeso e approfitto di tutto questo per comporre e suonare da sola, certo prima viene l’insegnamento, svolgo on line le mie lezioni di canto jazz (detengo, come già detto, la cattedra e fino a ieri sono stata la coordinatrice del dipartimento jazz nel conservatorio A. Corelli di Messina), e debbo dire che gli allievi mi seguono. L’altro mio grande interesse è la lettura con la poesia in primo piano seguita dalla filosofia, e anche se durante la giornata lavorativa non ho spazio da dedicarle, la sera a letto prima di dormire leggo sempre almeno mezz’ora”.

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Platone la chiamava psicagogia (formazione degli animi per mezzo della parola). Oggi più che mai credo che il governo italiano, e l’opposizione  parlamentare di estrema destra (come oramai  quest’ultima si è qualificata venendo allo scoperto) facciano riferimento alla retorica sull’unità nazionale ognuno a proprio vantaggio; il governo cerca di tenere compatta la nazione in un momento di grave crisi sanitaria, ideologica e socio-economica mentre l’opposizione di destra fa sì richiami all’unità ma con chiaro riferimento  al popolo specificatamente  solo di alcune regioni italiane”.

-Sei soddisfatta di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?
“Se per rappresentanza intendiamo ciò che stanno facendo i sindacati per noi artisti, sinceramente direi di sì, ad esempio il nostro sindacato abc con a capo Giancarlo Iacomini segue con molta attenzione tutti gli iter burocratici e legislativi  legati alla nostra figura professionale soprattutto (ma non solo) per l’insegnamento, addirittura creando tavoli di lavoro con il ministero suggerendo soluzioni  per meglio collocare i musicisti nel mondo del lavoro, soprattutto come insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado compresi conservatori e università. Abbiamo un canale on line in cui veniamo informati in tempo reale e aiutati se necessario negli iter da seguire. Esiste anche un gruppo di lavoro denominato MIdJ (Musicisti Italiani di Jazz) che sotto la guida di Paolo Fresu, Ada Montellanico e oggi Simone Graziano, è nato qualche anno fa con l’intento di creare un circuito musicale per i jazzisti ed ha concretizzato anche altre iniziative molto importanti, presente con i referenti (di cui anche io ho fatto parte per la Sicilia) in quasi tutto il territorio nazionale”.

Se avessi la possibilità di essere ricevuta dal governo, cosa chiederesti?
“In questo momento drammatico sento forte il problema sanitario, quindi di attenzionare la sanità pubblica ri-statalizzarla, togliendola dalle mani delle regioni, tutte. Riportare al primo posto cultura e ricerca e quando parlo di cultura parlo di scuole, dalle elementari alle università, conservatori e accademie comprese, la musica in tutte le sue forme di rappresentazione e organizzazione, teatro, editoria, biblioteche, musei, ripristinare la storia dell’arte come materia fondamentale in un Paese come l’Italia che vive di arte. Affrontare e risolvere il conflitto di interessi grande quanto una montagna, di un imprenditore italiano proprietario di giornali e TV che egemonizza la comunicazione di massa. Oramai in nessun canale televisivo troviamo informazioni chiare e neutrali senza l’intervento di manipolazione per interessi di parte”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Sì, subito ti dico: gli Azimuth con il disco “Départ” con una grandissima Norma Winstone alla voce, (divina, sensibile e intramontabile Norma), al piano, Kenny Wheeler alla tromba e ospite Ralph Towner, chitarra. Poi “Kind of Blue” di Miles Davis, pietra miliare di questo grande trombettista che ha saputo incarnare il jazz nella sua accezione più assoluta e in questo disco si è avvalso della collaborazione di John Coltrane, Bill Evans, Wynton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb.  Altro artista importante per cultura musicale e voce è il grande cantante e scrittore di testi Kurt Elling anche lui dell’area newyorchese come Jazzmeia Horn che invece trova ispirazione in un jazz più Hard nel suo “Love and Liberation” e per finire la più innovativa e poetica Gretchen Parlato nel suo “Live in NYC”. Buon ascolto”.

Gerlando Gatto

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste… in Sicilia: Rosalba Bentivoglio, Francesco Branciamore, Stefano Maltese

Interviste raccolte da Gerlando Gatto

Rosalba Bentivoglio – vocalist

-Come stai vivendo queste giornate?
“La necessità di seguire le linee guida dettate dal governo e dal buonsenso fanno da filo conduttore nelle mie giornate e non ti nascondo che la drammaticità del momento le vivo ogni giorno pensando ai miei cari (figlio, nipoti e madre la quale si trova ricoverata in un centro per anziani) poi penso a tutta la comunità, a tutti gli italiani che in questo momento come me soffrono ma devono soffocare i sentimenti familiari e dare ascolto all’intelletto, al raziocinio”.

-Come ha influito sul tuo lavoro; pensi che in futuro sarà lo stesso?
“Certo lo stato attuale ha influito e continua ad influire sul mio lavoro, così come credo sul lavoro di tutti gli artisti, musicisti e non, basti solo pensare che i concerti annullati sono tanti anche perché questa emergenza cade in un momento dell’anno in cui si concretizzano tante nostre presenze sui palchi di tutto il territorio nazionale ed anche europeo. Ma su questo vorrei dire che queste giornate di forzata reclusione in casa ci sta permettendo di rallentare i tempi sia di lavoro che di pensiero in generale creando, o meglio generando una forza introspettiva maggiore e ciò porterà immancabilmente ad una crescita interiore più consapevole e profonda e di tutto ciò avremo la tangibilità in un futuro prossimo e come ciò che accade dopo grandi eventi disastrosi che  inevitabilmente portano indietro le lancette dell’orologio sociale e umano, arriverà un momento di primavera interiore che verrà (come già accade) percepito nelle composizioni musicali che scriveremo con animo diverso”.

-Come riesci a sbarcare il lunario?

“Attualmente sono titolare di cattedra di canto jazz presso il conservatorio A. Corelli di Messina, quindi a differenza di tanti altri colleghi musicisti credo di potermi reputare fortunata, almeno per la mia sopravvivenza fisica. Ma la mia attività artistica ne risente: le collaborazioni, i progetti in fase di realizzazione, ed altro non vedranno la luce a breve termine. Tutto ciò è gravissimo per un artista”.

-Vivi da sola o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“Anche in questo caso visto la reclusione forzata sono stata fortunata, condivido questo periodo (ma già tutta la vita) con il mio compagno Enrico il quale non mi fa mancare l’affetto, le attenzioni e una profonda e proficua collaborazione. Abbiamo un figlio anch’egli musicista (suona meravigliosamente il sax soprano) e inoltre ci affolliamo la famiglia con due bellissimi nipotini. Purtroppo in questo periodo, ovviamente, non possiamo frequentarci ma ci colleghiamo ogni giorno su WhatsApp o su Skype per sentirci vicini”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Sì credo che in questo specifico momento storico di sofferenza umana in cui tutto dovrebbe essere condiviso e in cui l’individuo non viene visto solo come “individuo” ma così come il macrocosmo ingloba il microcosmo riusciremo ad avere una maggiore visione dell’uomo nella sua interiorità e integrità universale. La nostra stessa sorte (ma non solo per questo singolo evento) è posta in uno dei periodi più difficili della storia del mondo; un periodo caratterizzato da profondi sconvolgimenti, dalla rottura di vecchi metodi, legami e rapporti anche e soprattutto con la terra, dal delinearsi all’orizzonte della distruzione di una civiltà. Una visione del dopo ci viene fornita e la troviamo attuale nella letteratura anche in quella greca antica ma soprattutto in un testo scritto nel finire dell’ottocento da H.G.Wells scrittore inglese che ha scritto tra le altre opere : “La guerra dei mondi” scritta nel 1898 e narra di un tempo in cui la terra viene attaccata e invasa da forze aliene, noi terrestri ci difendiamo con cannoni, navi, aerei etc. e mettendo in campo tutte le nostre forze militari, ma veniamo sottomessi dagli alieni che sono in possesso di armi di distruzione più avanzate e a noi sconosciute. Dobbiamo solo ribaltare i piani di visione, come in uno specchio, ed ecco che tutto cambia: << Noi “umani” abbiamo attaccato la terra, e finiamo con…un “semplice raffreddore” che ci stermina tutti, così come nella guerra dei mondi gli alieni verranno sconfitti da un “semplice raffreddore” a cui loro non erano immunizzati, e i terrestri vincono la guerra aiutati dalla “terra”>>. Credo che questo periodo di transizione contiene in sé le più grandi promesse che il mondo abbia mai veduto, e non bisogna disperarsi ma essere profondamente ottimisti. Le strutture del pensiero religioso e filosofico sembrano sul punto di modificarsi, ma non sappiamo ancora come. Se la distruzione avviene, è soltanto perché la vita possa evolvere. Nel processo cosmico ognuno ha la propria minuscola parte da compiere”.

-Credi che la musica possa dare forza per superare questo terribile momento?
“Sì sono certa e credo che la musica ne uscirà più forte e più insostituibile che mai anzi il linguaggio musicale sarà veicolo di vita essendo stata essa stessa “incipit di vita” con l’universo. A questo proposito voglio citare: <<esisteva Eru, l’uno, chiamato Iluvatar che creò per primi gli Ainur, i santi scaturiti dal suo pensiero ed erano con lui prima che ogni altro fosse creato. Ed egli parlò loro, proponendo temi musicali; ed essi cantarono al suo cospetto ed egli ne fu lieto[…] ciascuno di essi penetrava quella parte della mente di Iluvatar da cui proveniva. Ma già solo ascoltando si perveniva ad una comprensione più profonda e s’accresceva l’unisono e l’armonia. E all’improvviso gli Ainur (santi, scaturiti dal pensiero dell’uno indivisibile Iluvatar ) scorsero una remota luce, quasi una nuvola con un vivente cuore di fiamma; e seppero che non era soltanto visione, ma che Iluvatar aveva “creato con il loro canto” una nuova cosa: “Ea”, “il mondo che e’ “ >>. [dal Silmarillion di J.R.R.Tolkien ]. Il suono del cristallo stabilizza, amplifica e trasmette il tono puro. Le campane di cristallo emettono una purissima nota dominante, creando un campo vibrazionale armonico che entra in risonanza con il corpo, queste vibrazioni esprimono la più alta armonia e purezza del suono. Nell’universo tutto è energia in vibrazione, anche il corpo umano ed ogni suo organo risponde ad una risonanza. La voce è lo strumento magico per eccellenza e la base è il canto degli armonici studiati nell’antichità dal matematico musicista e filosofo Pitagora che troviamo nella sua pitagorica musica delle sfere, ed è il cosiddetto canto degli armonici, conosciuto anche come canto degli angeli e che oggi con espressione americana è detto overtones. La riscoperta attuale di questa antica tecnica consente di aumentare come una canopia l’effetto del suono. La voce si moltiplica allora in due o tre note contemporanee che agiscono con lenezza su diversi livelli psicofisici, tecnica che io applico nei miei concerti. La vocalizzazione funziona da massaggio psichico e consente di ritrovare l’armonia della propria identità vocale, smarrita nello stress, nel rumore, nello squilibrio del corpo e della mente. Si può riscoprire così il silenzio (tanto trattato e divulgato dal monaco tibetano Thích Nhất Hạnh con il “dono del silenzio”) troppo spesso dimenticato perché lo riempiamo di pensieri negativi e parole inutili, brutta musica, rumore. Invece è il “suono della meditazione”, la voce del futuro: sembra vuoto, ma è pieno di “fantasia e creatività” “.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare
“Certo che per me la musica è fondamentale diciamo che è una necessità di vita e <<tra le righe di ogni mia composizione c’è sempre l’espressione jazz, da me mediata fino al punto da utilizzare il jazz come nutrimento della mia cultura mediterranea ed europea>>. Comunque la mia passione per la pittura a olio è riuscita ad appassionarmi al punto tale che spesso mi ritrovo a dipingere in tutti i ritagli di tempo possibili che la musica mi lascia. Ho già organizzato diverse mostre personali sia in
Italia che in Europa e comincio ad essere sempre più apprezzata e questo mi fa stare bene. In questo periodo di quarantena forzata non posso incontrarmi con i miei musicisti con i quali abbiamo lasciato progetti in sospeso e approfitto di tutto questo per comporre e suonare da sola, certo prima viene l’insegnamento, svolgo on line le mie lezioni di canto jazz (detengo, come già detto, la cattedra e fino a ieri sono stata la coordinatrice del dipartimento jazz nel conservatorio A. Corelli di Messina), e debbo dire che gli allievi mi seguono. L’altro mio grande interesse è la lettura con la poesia in primo piano seguita dalla filosofia, e anche se durante la giornata lavorativa non ho spazio da dedicarle, la sera a letto prima di dormire leggo sempre almeno mezz’ora”.

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Platone la chiamava psicagogia (formazione degli animi per mezzo della parola). Oggi più che mai credo che il governo italiano, e l’opposizione  parlamentare di estrema destra (come oramai  quest’ultima si è qualificata venendo allo scoperto) facciano riferimento alla retorica sull’unità nazionale ognuno a proprio vantaggio; il governo cerca di tenere compatta la nazione in un momento di grave crisi sanitaria, ideologica e socio-economica mentre l’opposizione di destra fa sì richiami all’unità ma con chiaro riferimento  al popolo specificatamente  solo di alcune regioni italiane”.

-Sei soddisfatta di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?
“Se per rappresentanza intendiamo ciò che stanno facendo i sindacati per noi artisti, sinceramente direi di sì, ad esempio il nostro sindacato abc con a capo Giancarlo Iacomini segue con molta attenzione tutti gli iter burocratici e legislativi  legati alla nostra figura professionale soprattutto (ma non solo) per l’insegnamento, addirittura creando tavoli di lavoro con il ministero suggerendo soluzioni  per meglio collocare i musicisti nel mondo del lavoro, soprattutto come insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado compresi conservatori e università. Abbiamo un canale on line in cui veniamo informati in tempo reale e aiutati se necessario negli iter da seguire. Esiste anche un gruppo di lavoro denominato MIDJ (musicisti italiani di jazz) che sotto la guida di Paolo Fresu, Ada Montellanico e oggi Simone Graziano, è nato qualche anno fa con l’intento di creare un circuito musicale per i jazzisti ed ha concretizzato anche altre iniziative molto importanti, presente con i referenti (di cui anche io ho fatto parte per la Sicilia) in quasi tutto il territorio nazionale”.

Se avessi la possibilità di essere ricevuta dal governo, cosa chiederesti?
“In questo momento drammatico sento forte il problema sanitario, quindi di attenzionare la sanità pubblica ri-statalizzarla, togliendola dalle mani delle regioni, tutte. Riportare al primo posto cultura e ricerca e quando parlo di cultura parlo di scuole, dalle elementari alle università, conservatori e accademie comprese, la musica in tutte le sue forme di rappresentazione e organizzazione, teatro, editoria, biblioteche, musei, ripristinare la storia dell’arte come materia fondamentale in un Paese come l’Italia che vive di arte. Affrontare e risolvere il conflitto di interessi grande quanto una montagna, di un imprenditore italiano proprietario di giornali e TV che egemonizza la comunicazione di massa. Oramai in nessun canale televisivo troviamo informazioni chiare e neutrali senza l’intervento di manipolazione per interessi di parte”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Sì, subito ti dico: gli Azimut con il disco “Depart” con una grandissima Norma Winstone alla voce, (divina, sensibile e intramontabile Norma), John Taylor al piano, Kenny Wheeler alla tromba e ospite Ralph Towner chitarra. Poi “Kind of Blue” di Miles Davis, pietra miliare di questo grande trombettista che ha saputo incarnare il jazz nella sua accezione più assoluta e in questo disco si è avvalso della collaborazione di John Coltrane, Bill Evans, Wynton Kelly, Paul Chambers, Jimmy Cobb.  Altro artista importante per cultura musicale e voce è il grande cantante e scrittore di testi Kurt Elling anche lui dell’area newyorchese come Jazzmeia Horn che invece trova ispirazione in un jazz più Hard nel suo “Love and Liberation” e per finire la più innovativa e poetica Gretchen Parlato nel suo “Live in NYC”. Buon ascolto”.


Francesco Branciamore – Batterista, pianista

-Come sta vivendo queste giornate?
“Sicuramente mordendo il freno in attesa che qualcuno ci dia una data definitiva per ritornare al fluire normale pur con le dovute precauzioni”.

-Come ha influito tutto ciò sul suo lavoro; pensa che in futuro sarà lo stesso?
“Intanto l’annullamento di alcune date per l’emergenza ha influito sull’umore musicale. Preparare un concerto richiede un dispendio d’energie non indifferente, come nel mio caso per il piano solo. Se ne esce continuando a rinforzare la vis creativa con nuove composizioni e a prepararsi ancora meglio al primo concerto utile che faremo. Il futuro spero sia migliore di questo che stiamo vivendo noi musicisti e jazzisti in modo particolare, che abbiamo sempre suonato senza paracadute di alcun tipo. Quindi prevedo concerti con meno gente, anche per grosse star, perché le sale da concerto saranno rimodulate per garantire la distanza di sicurezza, magari faranno due turni nello stesso giorno per artista, per permettere a tutti di gustare la performance”.

-Come riesce a sbarcare il lunario?  
“Sono concertista e docente di composizione jazz al conservatorio di Vibo Valentia, in stato di stabilizzazione, con cattedra annuale”.

-Vive da solo o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“La mia famiglia è un piccolo nucleo familiare, siamo 3 persone. Io, mia moglie, docente di Storia dell’Arte contemporanea all’Accademia di Belle Arti di Catania e mio figlio ventenne prossimo alla maturità al liceo scientifico. Diciamo che per adesso lo status di sopportazione reciproco è buono. Forse perché ognuno ha un suo spazio vitale dove annullarsi e rigenerarsi. Comunque una bella esperienza. Cerchiamo di animarci l’un l’altro inventandoci ruoli per stupirci reciprocamente e quale miglior modo se non cimentarsi a turno in cucina?  A parte qualche lieve malessere allo stomaco, specialmente quando sono io ai fornelli, il resto è condivisibile”.

-Pensa che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Direi che saremo più selettivi. Perché continuare ad abbracciare gente che è stata lontana da noi in un momento in cui il contatto, anche se virtuale, poteva accendere entusiasmo e spegnere ansie? Direi pochi ma buoni, come le note in musica, Miles Davis docet”.

-Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
“La musica è un grande antidoto universale, sia per chi la fa che per chi l’ascolta. Me ne accorgo con i miei studenti, con cui sono in contatto giornalmente. Non li ho mai visti lavorare così tanto e sentirli così vicino. Vogliono sicurezze e abbracciando la musica in toto riescono ad avere quella leggerezza positiva che permette loro di superare questo difficile momento”.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Ognuno ha un suo angolo di fede e la cerca dove è abituato a cercarla”.

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Beh, si stanno muovendo tutti verso un over exposition per mettersi in luce per raccogliere fondi. Mi riferisco agli artisti di musica pop in genere e non solo, a cui va riconosciuto il merito. Ma quelli famosissimi, tipo le regine e i re dello show business con lauti guadagni di diritti d’autore e con conti in banca sostanziosi, potevano far a meno di fare il siparietto mediatico e invece fare di tasca propria una donazione alla protezione civile. Il jazz non ha di questi leoni in Italia, se non davvero pochi”.

-E’ soddisfatto di come si stanno muovendo i V/si organismi di rappresentanza?
“Oggi la Siae manda a tutti i soci un invito a corrispondere un buono spesa agli artisti bisognosi. La NuovoImaie ha organizzato un fondo già attivo per emergenza Coronavirus per dare un contributo a tutti coloro che hanno avuto date annullate da aprile a giugno, ben fatto quindi. Il MIDJ e altre istituzioni jazz  so che si sono mosse in tal senso, ma hanno solo chiesto  per adesso, si attende che venga recepito dagli organi istituzionali”.

-Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederebbe?
“Maggior tutela per la nostra categoria di musicisti, una maggiore considerazione per il ruolo sociale che la musica e l’arte in genere hanno e una maggiore visibilità mediatica di tutti i protagonisti del  mondo del jazz per la raccolta di fondi per l’emergenza, noi non siamo da meno degli altri, lo abbiamo dimostrato nel triennio di raccolta fondi per l’Aquila nel context “Il jazz per le terre del sisma”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
https://vimeo.com/145825359 – The Ballad of Fred Hersch”.


Stefano Maltese, sassofonista, con Gerlando Gatto

-Come sta vivendo queste giornate?
“Trascorro il tempo suonando, scrivendo musica, leggendo, studiando. Da questo punto di vista per me non è cambiato molto. Allo stesso tempo cerco di comprendere quello che sta accadendo e i pensieri sono molto contrastanti. In questo maltrattato pianeta la maggior parte dei governanti – indotti da coloro che controllano l’economia – ha sempre preferito rafforzare il proprio potere investendo ingentissime somme in armamenti e guerre e sviluppando nel corso del tempo una sopraffina capacità di manipolare le masse e indurle a seguire stili di vita che sempre più allontanano gli esseri umani dal vivere in armonia con sé stessi, con la natura e con i propri simili. Avviene così che un microscopico organismo – un virus – nel volgere di breve tempo riesca a stravolgere l’esistenza degli abitanti di questo mondo. Abbiamo aerei da guerra che si rendono invisibili, navi portaerei che possono colpire da enormi distanze, missili telecomandati che possono colpire obiettivi con assoluta precisione, ma non abbiamo ospedali attrezzati per situazioni come quella che stiamo vivendo; abbiamo telefonini dalle funzioni fino a qualche tempo fa inimmaginabili e sulle nostre teste satelliti di ogni genere per poter essere sempre connessi ma non possiamo fermare una pandemia. Si è costretti alla reclusione – con tutti i rischi che potrebbero esserci di qualsiasi espansione autoritaria – ma non si è in grado di capire qual è la situazione reale”.

-Come ha influito tutto ciò sul suo lavoro? Pensa che in futuro sarà lo stesso?
“Ovviamente sono stati annullati concerti e tutte le proposte sono congelate, probabilmente disperse in questo mare di incertezze. Inoltre, saltano a data da destinarsi due rassegne di cui sono direttore artistico, “Labirinti Sonori” e una nuova rassegna prevista per l’inizio dell’estate, e altre due rassegne di cui sono collaboratore. Credo che occorrerà molto tempo prima che si possa ricominciare a lavorare come prima e probabilmente bisognerà organizzarsi in modi differenti”.

-Come riesce a sbarcare il lunario?
“Per il momento non ho difficoltà di questo genere, e spero che lo stato di inattività non si prolunghi troppo”.

-Vive da solo o con qualcuno? E quanto ciò risulta importante?
“Vivo con la mia compagna, Roberta Maci, come è noto anche lei musicista, il che aggiunge un punto di forza al legame affettivo, poiché ogni giorno condividiamo ascolti, suoniamo insieme, progettiamo le nostre attività e così via”.

-Pensa che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa?
“Io sono stato sempre abbastanza solitario, conosco la forza interiore che possono dare l’introspezione e la riflessione – nonché le buone letture e l’ascolto di buona musica –, quindi mi auguro che questo triste periodo possa comunque essere colto come un momento di rinascita, che possa far prendere coscienza della necessità di rallentare i ritmi della vita, di prendersi maggior cura di sé stessi e di ciò che ci circonda, capire che lo sfrenato consumismo porta alla distruzione di qualsiasi valore umano ed etico, nonché alla devastazione del pianeta. Questa pandemia, anche se molto dolorosa per i molti che si sono ammalati e per i deceduti, dovrebbe veramente essere un monito, un ulteriore segnale per far riflettere l’Umanità, anche se non nutro molte speranze, in merito. Se pensiamo che ogni giorno muoiono per fame circa 24.000 persone, che oltre due miliardi e mezzo di persone vivono con circa due dollari al giorno e che situazioni catastrofiche di questo genere sono in atto da tempo immemorabile in varie parti del pianeta, senza che la parte di mondo benestante, quella che oggi è più colpita dal Coronavirus, abbia mai veramente cercato di risolvere il problema, non è facile essere ottimisti. Bisognerebbe sanare certe diseguaglianze sociali, bisognerebbe riscoprire il valore di una vita più semplice e ricca di soddisfazioni culturali: ma temo che la maggioranza sia troppo pigra per compiere la più grande rivoluzione che si possa mai attuare, appunto quella culturale”.

-Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
“La musica è una delle più grandi forze dell’universo e certamente può contribuire in modo determinante per avere consapevolezza, per lo sviluppo delle capacità cerebrali, per sviluppare maggiore sensibilità, per risvegliare sentimenti umani. Nella scena finale di “Orizzonti di gloria”, il capolavoro di Stanley Kubrick, una ragazza tedesca viene costretta a cantare in un bar di fronte a soldati francesi in procinto di ritornare al fronte: questi iniziano a sbeffeggiarla in quanto appartenente alla nazione nemica. La ragazza, con il volto segnato da lacrime silenziose, incomincia a cantare una canzone nella sua lingua, sola, senza alcuno strumento, e i militari pian piano smettono di insultarla e rimangono in impietrito silenzio, poi sommessamente si uniscono al canto della ragazza – senza parole, perché non le conoscono – e i loro occhi diventano umidi e piangono insieme a lei. Non ci sono più nemici, solo essere umani accomunati dal terribile dolore della guerra e dall’impossibilità di comprendere perché tutto ciò sta accadendo. Ecco la forza della musica, potente, che annulla le barriere e diventa il più alto livello di comunicazione e fratellanza”.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Come dicevo prima, bisogna affidarsi alle buone letture, riconsiderare gli stili di vita, interrogarsi, cercare di capire come affrontare il futuro”.

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Di solito non guardo la televisione, adesso lo faccio quel poco che serve per informarmi sulla situazione, quindi non so molto di richiami all’unità, ma in quel po’ che ho sentito la retorica è veramente tanta, e poi non capisco: unità per cosa? Sono assolutamente allergico a questi luoghi comuni”.

-È soddisfatto di come si stanno muovendo i vari organismi di rappresentanza?
“Non saprei, non seguo ciò che accade in tal senso, ho una certa riluttanza verso aggregazioni di questo genere, troppo spesso ho visto che servono al beneficio di pochi. Credo che manchi qualcosa che possa far sentire i musicisti come parte di un unico organismo culturale, e a mio avviso questo dovrebbe essere il primo obiettivo da raggiungere, altrimenti le esigenze e le aspettative saranno sempre troppo differenti all’interno della stessa categoria, se così posso definirla”.

-Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederebbe?
“Ma io non vorrei mai essere ricevuto da nessun esponente di questo governo! Tranne rari e isolati casi, sono più di vent’anni che il Paese è stato portato verso una deriva culturale che ne ha segnato in modo devastante il declino. Insisto sull’importanza della vita culturale perché da ciò dipende la possibilità di progettare un serio programma per lo sviluppo della società, perché se regna l’ignoranza allora nascono corruzione, diseguaglianze sociali, sopraffazione, povertà e crimine, e non potrà mai esservi un vero sviluppo sociale. Certo, se questo governo non affronta subito il problema immediato di una crisi economica più che incombente non so quali scenari potranno prospettarsi. E qui tornano i dubbi: in questi ultimi 15-20 anni una serie di crisi economiche ha portato la gente a essere sempre più sfiduciata e sempre meno interessata all’arte, più propensa a cambiare telefonino due volte all’anno piuttosto che andare a concerti, mostre e altro”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Suggerirei di cercare qualcosa che non si conosce o si conosce poco, la curiosità può ripagarci piacevolmente, a volte. Detto questo potrei suggerire qualcosa: “November Steps” e “A Flock Descends Into The Pentagonal Garden”, di Toru Takemitsu; “Pres and Teddy” e “Cool Riffs” di Lester Young; Bach, “The Well-Tempered Clavier Complete” by Glenn Gould; “Mingus Oh Yeah” e “Mingus Pre Bird”, di Charles Mingus; “Black Brown and Beige” di Duke Ellington; “The Inflated Tear” e “I talk with the Spirits”, di Roland Kirk; “Bring ‘Em In”, di Buddy Guy; “Rubber Soul” e “The White Album”, dei Beatles, “The Complete Decca Recordings” e “Lady In Satin”, di Billie Holiday. Mi fermo qui, perché di buona musica ce n’è veramente tanta, basta cercare”.

                                                                                                                                     Gerlando Gatto

Michel Legrand: dal cinema al jazz, un viaggio senza barriere

Era un jazzista? Certo che sì…ma era soprattutto un grande compositore che amava il jazz e che dal mondo del jazz era profondamente ricambiato.
Michel Legrand se n’è andato a Parigi all’età di 86 anni dopo una vita intensa dedicata alla musica e densa di soddisfazioni: ha composto più di duecento colonne sonore per film e televisione e diversi musical e ha registrato oltre un centinaio di album. Ha vinto tre volte l’Oscar per la migliore colonna sonora: nel 1969 con “Il caso Thomas Crown” di Norman Jewison, nel 1972 con “Quell’estate del ’42” di Robert Mulligan e nel 1984 con “Yentl” di Barbra Streisand, meritandosi inoltre numerose nominations, a partire da quella per le musiche di “Les parapluies de Cherbourg” (1964) di Jacques Demy.
Michel comincia ad interessarsi di musica, e in special modo di pianoforte, sin da bambino da autodidatta, nei pomeriggi passati da solo a casa, mentre la madre è al lavoro. Entra, quindi, al Conservatorio di Parigi, dove studia direzione d’orchestra e composizione con Nadia Boulanger e Henri Chaland. Dopo il diploma, comincia a farsi conoscere come cantante e autore di canzoni nonché come pianista e direttore di gruppi di musica leggera e di jazz. A partire dagli anni Sessanta si dedica in modo quasi esclusivo alla musica da film; nel 1968 si trasferisce negli Stati Uniti, alla ricerca di migliori condizioni di lavoro, ma successivamente torna in Francia, pur continuando a collaborare con Hollywood.


Il primo grande successo arriva presto, nel 1954, all’età, quindi, di 22 anni: il suo primo album, “I Love Paris”, diviene uno dei dischi strumentali più venduti mai pubblicati.
Qualche anno dopo, a New-York City, il 5, 27 e 30 giugno 1958 viene registrato “Legrand Jazz”: si tratta di un vero e proprio atto d’amore del compositore francese verso la musica afro-americana; undici le tracce, tutti standard scelti e arrangiati dallo stesso Legrand che assume anche il ruolo di direttore d’orchestra; tra i musicisti presenti nelle nelle tre sedute di registrazione figurano alcuni grandi del jazz come Herbie Mann (flauto) Phil Wood (saxophone alto), Bill Evans (piano), Paul Chambers (contrabbasso), Ben Webster (saxophone tenore), Hank Jones (piano), George Duvivier (contrabbasso), Art Farmer e Donald Byrd (tromba)… e soprattutto Miles Davis con il quale Legrand avrebbe collaborato anche in seguito. Eccoli quindi ancora assieme nel 1990 quando collaborano alla scrittura della colonna sonora del film “Dingo”.
Nel 1970, quasi parafrasando il titolo di “Legrand Jazz”, Michel pubblica “Le Jazz Grand” sempre coadiuvato da illustri jazzisti quali Phil Woods (sax alto), Gerry Mulligan (sax baritono), Ron Carter (basso), Jon Faddis (tromba); questa volta il repertorio non è costituito da standard ma da cinque original di Legrand che more solito siede al piano e arrangia il tutto. Anche se di eccellente livello, questo album non raggiunge comunque i vertici toccati dal disco del ’58.
Ma gli inizi, le collaborazioni con Davis e gli altri grandi jazzisti, i due album sopra citati non restano episodi isolati nel corso della vita di Legrand; le sue frequentazioni con il mondo del jazz se non proprio assidue sono comunque costanti nel tempo: eccolo, ad esempio, nel 2001 in quartetto con Phil Woods a Montreal; nel 2009 è in trio al Ronnie Scott’s di Londra con Geoff Gascoyne al basso e Sebastiaan de Krom alla batteria; ancora in trio nel 2018 è invitato a festeggiare il trentesimo anniversario del BlueNote di Tokyo.
Ma a confermare l’amore del compositore francese verso il jazz forse è ancora più probante dare un’occhiata a quanti jazzisti hanno inciso sue composizioni.
A livello internazionale le registrazioni in cui si ritrovano brani di Legrand sono davvero innumerevoli; qui di seguito un sommario elenco di grandi artisti che si sono misurati con le partiture del compositore francese: Rosewll Rudd, Blossom Dearie, Bill Evans, Kenny Burrell, Richard Galliano, Lena Horne, Carmen McRae, Dee Dee Bridgewater, George Shearing… e l’elenco potrebbe continuare a lungo ma credo sia inutile dal momento che il concetto dovrebbe essere ben chiaro.
Per quanto concerne, infine, il jazz made in Italy gli artisti che hanno preso in considerazione brani di Legrand sono tutti di eccelso livello e appartenenti a stili, correnti assolutamente diversificati: da Massimo Urbani a Marcello Rosa, da Esmeralda Ferrara a Raimondo Meli Lupi, da Enzo Randisi ad Antonio Flinta (pianista argentino ma oramai naturalizzato italiano), da Marilena Paradisi a Lara Iacovini, da Andrea Dulbecco a Claudio Filippini… ad Ada Montellanico con Jimmy Cobb.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Jazz internazionale Tante le novità di rilievo

John Abercrombie – “Open Land” Meeting J. Abercrombie – DVD ECM 675
Prodotto e filmato dal regista Arno Oehri (artista multimediale e filmmaker del Liechtenstein) e dal produttore Oliver Primus (musicista e articolista svizzero) questo documentario, al di là delle intenzioni degli autori, si è purtroppo trasformato in un omaggio alla memoria dal momento che l’artista è scomparso nell’agosto 2017, pochi mesi prima che l’opera fosse ufficialmente presentata. Ovviamente ciò nulla toglie alla valenza della produzione che, anzi, ci offre l’occasione per ricordare e riflettere sulla figura di un musicista straordinario non sempre valorizzato in base ai suoi meriti. La tecnica scelta dagli autori per raccontare il chitarrista è quella che personalmente prediligo, vale a dire far parlare direttamente il personaggio. Così i due sono andati ad intervistare Abercrombie nella sua casa e si son fatti raccontare le vicende principali della sua vita e della sua arte. Così ci restituiscono oltre che l’artista anche e forse soprattutto l’uomo Abercrombie, con le sue aspirazioni, i suoi desideri, il suo amore per la moglie Lisa…e perché no le sue paure come quando il 7 dicembre del 2003 si incendiò la sua casa con la conseguente perdita di quasi tutto ciò che possedeva. Il risultato è un ritratto vivido, a tratti toccante, di un artista che ha saputo coniugare la musica con la vita di tutti i giorni. Dal punto di vista musicale, il brano forse più interessante è “Another Ralph’s” registrato al Tangente Club di Eschen (Liechtenstein) nel 2014 dal trio comprendente, oltre ad Abercrombie, Adam Nussbaum alla batteria e
Gary Versace all’organo Hammond (i due sono anche intervistati in merito al loro rapporto umano e professionale con Abercrombie). Tra gli altri momenti degni di nota da ricordare l’esibizione a New York in quartetto con Rob Sheps al sax, Eliot Zigmund alla batteria e David Kingsnorth al basso.

Arild Andersen – “In-House Science” – ECM 2594
Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Arild Andersen a Stavanger, in Norvegia, nell’oramai lontano 1983 quando già era considerato un astro nascente della nuova scena scandinava. Sono passati tanti anni e Arild ha confermato appieno tutte le premesse di quei tempi essendo considerato, oggi, uno dei migliori e più innovativi bassisti dell’intero panorama jazzistico. E questo CD ne è l’ennesima riprova… se pur ce ne fosse stato bisogno. Registrato il 29 settembre del 2016 in un luogo storico quale il museo Villa Rothstein a Bad Ischl in Austria, Andersen capeggia un formidabile trio completato da Tommy Smith al sax tenore e dal “nostro” paolo Vinaccia alla batteria. Quindi un trio che fa a meno di uno strumento armonico senza che ciò abbia la minima influenza sulla qualità della musica. I tre si muovono all’insegna di una empatia totale, con Arild che detta i tempi, Smith che sfoggia un fraseggio elastico, vivace, sempre in linea con le atmosfere volute dal leader (autore, tra l’altro, di tutti e sei i brani in programma) e Vinaccia che si esprime con la solita maestria producendo un volume sonoro denso e trascinante. Di qui una musica che si dipana per tutta la durata dell’album con grande scioltezza passando da atmosfere romantiche, sognanti, a climi più torridi ai confini dell’avanguardia, sempre impreziosita dalla massima attenzione alla più piccola sfumatura. E per avere un’idea di quanto si sta dicendo, basta ascoltare attentamente, in rapida successione “North Of The Northwind” dai toni soffusi e il sax di Smith a ricordare a tratti l’espressività propria di Gato Barbieri, e “In-House” in cui i tre scatenano una vera e propria tempesta sonora con un Andersen che sfoggia una padronanza dello strumento davvero non comune e un Vinaccia che ancora una volta evidenzia il perché sia considerato dai musicisti nordici un sodale imprescindibile.

Maxime Bender – “Universal Sky” – Cam Jazz 7924-2
Per avere una chiara idea di ciò che Maxime propone basta rifarsi alla definizione da lui stesso coniata circa il jazz che ama: “con meno swing e più pop”. Quindi un linguaggio che intende allontanarsi dal jazz canonico per affrontare nuovi lidi. In ciò il multistrumentista lussemburghese (sax tenore, sax soprano, flauto, pianoforte) è coadiuvato nell’occasione da Manu Codjia alla chitarra, Jean-Yves Jung all’organo Hammond B3 e Jérôme Klein alla batteria. Etichette a parte, il risultato è ancora una volta positivo. In repertorio dieci brani di cui otto scritti dallo stesso Bender e gli altri due rispettivamente dal compositore americano Justin Vernon e dal batterista del gruppo Jérôme Klein, quindi una prova di piena maturità per Bender anche come compositore. Ed in effetti i brani sono tutti ben strutturati, altrettanto ben arrangiati, sostenuti da un gruppo quanto mai coeso che riesce ad eseguire in grande scioltezza sia le parti obbligate sia quelle improvvisate tanto che risulta oggettivamente difficile distinguerle. Ogni singola nota è come distillata sapientemente, avendo riguardo a dove andrà a collocarsi, Di qui anche una ricchezza timbrica, dinamica e di atmosfere che prende l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota dell’album. Ecco quindi il clima sognante, onirico di “Dust Of Light” (con il chitarrista Manu Codjia in bella evidenza) cui si contrappone la forza ritmica di “Missing Piece”, ecco “Fly” con l’Hammond in grande evidenza mentre in “Infinity” è il sax di Bender a disegnare la sinuosa linea melodica… e via di questo passo in un continuo alternarsi di ruoli che evidenzia quella compattezza cui prima si faceva riferimento.

Ketil Bjørnstad & Anneli Drecker – “A Suite Of Poems” – ECM 2440
La genesi di questo toccante album è illustrata chiaramente dallo stesso Bjørnstad nelle note che accompagnano il CD laddove ci racconta che, durante le sue più che frequenti nottate passate in albergo, riceveva poesie inviategli dall’amico Lars Saabye Christensen dalle varie località che il poeta e scrittore norvegese era solito visitare. Dopo averle custodite per anni, il pianista ha pensato di rivestirle di musica, di affidarne l’interpretazione alla voce di Anneli Drecker eccellente vocalist norvegese, originaria della città di Tromsø, sulla scena oramai da più di vent’anni e già collaboratrice di artisti quali Jah Wobble e Hector Zazou. I titoli dei pezzi sono di per sé esplicativi: ecco quindi l’apertura affidata a “Mayflower, New York”, seguita da “Duxton, Melbourne” e giù fino al conclusivo “Schloss Elmau”. Da quanto sin qui detto risulta abbastanza chiaramente il tipo di musica che si ascolta nell’album tenendo ben presente che Ketil Bjørnstad è pianista capace di interpretare con eguale bravura e partecipazione musica classica, jazz e folk. Bjørnstad cerca quindi, il più delle volte riuscendoci perfettamente, di ricreare con la sua musica le atmosfere suggeritegli dall’amico Christensen e legate alle località visitate. Ecco l’intimismo di “L’Hotel” e di “Lutetia” legati ad una romantica e nostalgica Parigi, ecco il sapore blues di “Astor Crowne, New Orleans”, ecco l’atmosfera vagamente orientaleggiante di “Mayday Inn, Hong Kong”. Insomma un ‘altra prova di grande maestria da parte di Ketil Bjørnstad che ha operato anche una scelta felicissima nel chiamare accanto a sé una interprete come Anneli Drecker capace di dare un peso specifico ad ogni singola sillaba, ad ogni parola, rendendo così giustizia a dei testi di per sé quanto mai significativi.

Art Blakey – “Moanin” – Green Corner – 100901 2 CD
In altra occasione ho illustrato il perché molte case discografiche, in un certo periodo del passato, abbiano preferito immettere sul mercato copie in versione sia stereo sia mono. Ecco, questi due album appartengono per l’appunto a questa serie di registrazioni effettuate ad Hackensack il 30 ottobre del 1958. More solito, in questi casi il doppio album conserva intatto il suo valore sia storico sia musicale. Dal primo punto di vista è la prima volta che la versione mono viene prodotta su CD. Quanto alla valenza della musica non credo ci sia chi dubita della stessa. Si tratta, in effetti, della terza edizione dei Jazz Messengers comprendente artisti quali Lee Morgan alla tromba, Benny Golson nella duplice veste di tenorista e compositore (molti dei brani sono suoi), Bobby Timmons al piano e Jymie Merritt al contrabbasso. Come bonus le sole due alternate tracks tratte dalla seduta del 30 ottobre 1958 e non comprese nell’originario LP, e altri quattro brani registrati dalla stessa formazione durante un concerto all’Olympia di Parigi nel novembre, dicembre dello stesso 1958. Esaurite queste delucidazioni, resta ben poco da dire se non che si tratta di registrazioni davvero imperdibili; basti citare l’entusiasmante “Moanin” di Bobby Timmons e la trascinante “Blues March” di Benny Golson così aderente allo spirito delle marching band di New Orleans. Insomma una ghiotta occasione per chi ancora non avesse queste registrazioni nella propria discoteca.

Rainer Böhm – “Hydor” Piano Works XII
La ACT può vantare una lunga e ricca tradizione in fatto di pianisti dal momento che per l’etichetta hanno inciso personaggi internazionali del calibro di Joachim Kuhn, Esbjorn Svensson e Michael Wollny… tanto per citare qualche nome. Coerentemente con tale impostazione, il produttore Siggi Loch ha creato una collana di album dedicati al piano solo, “Piano Works”, giunta al suo tredicesimo volume. Il nuovo protagonista è Rainer Böhm. Nato a Ravensburg nel sud della Germania nel 1977, Böhm è considerato dai critici tedeschi uno dei migliori pianisti jazz del suo Paese, ma non ha ancora raggiunto una notorietà a livello internazionale. Ecco, quindi, una buona occasione per farne conoscenza. Il suo è, in effetti, un pianismo maturo, consapevole, un linguaggio che coniuga brillantemente una eccellente tecnica pianistica con notevoli capacità espressive. Frutto, tutto ciò, non solo di una squisita sensibilità ma anche di un approfondito studio della letteratura pianistica globalmente intesa. In effetti Böhm si è fatto conoscere in patria soprattutto per gli adattamenti in termini jazzistici dei grandi classici quali Verdi, Wagner, Beethoven e Bach. In questo album Böhm si fa notare anche come eccellente compositore (tutti i tredici brani del disco sono a sua firma), e proprio attraverso questi pezzi l’artista evidenzia la sua capacità di assorbire molto di ciò che i grandi pianisti del passato ci hanno lasciato. Così nel suo stile è possibile rintracciare echi della tradizione classica così come del jazz soprattutto di quello nord-europeo senza che tutto ciò si ripercuota minimamente sull’originalità della proposta.

Jakob Bro – “Bay Of Rainbows” – ECM 2618
L’album è il frutto delle registrazioni effettuate nel luglio del 2017 al club Jazz Standard di New York; protagonista il trio del chitarrista danese Jakob Bro (1978), con il bassista Thomas Morgan e il batterista Joey Baron. L’album assume una doppia importanza nella vita di Bro in quanto da un lato è il coronamento di un sogno più volte espresso dall’artista (registrare un album live a New York), dall’altro è il primo disco live da lui registrato per la ECM. Bro non si lascia sfuggire l’occasione e dà vita ad un album eccellente confermando, anche come autore (tutte e sei le tracce dell’album sono sue composizioni), quanto già di buono si era ascoltato nelle sue precedenti produzioni: una musica nitida, costruita quasi per sottrazione, con la chitarra del leader a imbastire eteree trame sonore ben sostenute da una sezione ritmica esemplare per leggerezza e pertinenza. Così la musica si sviluppa come su un tappeto di nuvole, sorvolando diversi territori senza atterrare completamente. L’andamento generale è quindi piuttosto rarefatto anche se in alcuni brani assume una più concreta matericità: si ascolti, ad esempio, l’unico inedito “Dug” dove l’accompagnamento sostenuto della sezione ritmica si coniuga con una fraseggio chitarristico sicuramente non etereo come nei precedenti brani, ai limiti del free, oseremmo dire. Sottolineavamo come “Dug” fosse l’unico inedito in quanto gli altri brani erano già stati incisi da Bro nei suoi precedenti album. Tornando a “Bay Of Rainbows” il brano che più ci ha colpiti è stato “Evening Song” (già presente in “Balladeering”, Loveland Records, inciso nel 2008 ma pubblicato l’anno successivo in cui Bro capeggiava una all stars comprendente l’altro chitarrista Bill Frisell, Lee Konitz sax alto, Ben Street basso e Paul Motian batteria). L’album si chiude con una differente versione del brano d’apertura, “Mild”.

Miles Davis – “Jazz Track” – Poll Winners 27385
Prima di illustrare brevemente il contenuto di questo album, credo sia importante sottolineare il perché vi sto proponendo molti album della serie “Poll Winners”. In effetti l’etichetta “Poll Winners” dedica il proprio catalogo alle ristampe di quei titoli recensiti dalla rivista ‘Down Beat’ con il massimo dei voti (cinque stelle). Tale premiazione è talmente significativa e importante che molti di questi album diventano spesso dei veri classici. Le nuove edizioni presentano la versione integrale degli album originali a cinque stelle***** con l’aggiunta di brani di altri titoli dello stesso autore all’apice del proprio successo artistico. La raccolta comprende, quindi, vere e proprie pietre miliari della storia del jazz prodotte dai più grandi musicisti del genere, tra cui va senza dubbio annoverato questo “Jazz Track” che nelle sue componenti essenziali ha costituito una parte essenziale nella storia di Miles Davis e quindi del jazz nella sua interezza. Il CD è idealmente suddiviso in tre parti: i primi dieci brani contengono la colonna sonora del film francese “Ascensore per il patibolo” registrata nel dicembre 1957 a Parigi da Miles Davis con il batterista statunitense Kenny Clarke e altri due musicisti locali capitanati dal pianista René Urtreger (Barney Wilen sax tenore e Pierre Michelot basso). I successivi quattro brani sono tratti dalle sedute di registrazione del 26 maggio del 1958 quando Miles Davis rinnovò il suo sestetto con Bill Evans al posto di Red Garland e la riammissione nel gruppo del contralto di Julian Cannonball Adderley che veniva così ad affiancare il sax tenore di John Coltrane; la sezione ritmica era completata dal batterista Jimmy Cobb al posto di Philly Joe Jones e da Paul Chambers al basso. Gli ultimi 3 sono bonus e provengono dalla seduta del 16 marzo 1956, protagonista un quintetto con Davis, Sonny Rollins sassofono tenore, Tommy Flanagan pianoforte, Paul Chambers contrabbasso, Art Taylor – batteria

Mathias Eick – “Ravensburg” – ECM 2584
Tutto all’insegna della ricerca melodica questo album del trombettista norvegese Mathias Eick che dopo aver collaborato con alcune delle formazioni norvegesi più interessanti e innovative (Motif, JagaJazzist, Motorpsycho and Lars Horntvedt) è approdato in casa ECM dando vita a questo suo quarto album da leader (dopo “The Door”, “Skala” e “Midwest”). La più importante novità di questo CD è data dalla presenza del violinista, anch’egli norvegese, Håkon Aase, messosi già in luce collaborando con la formazione di Thomas Strønen. In effetti tromba e violino dialogano magnificamente conferendo al gruppo un sound del tutto particolare e ben sostenuto dal resto del gruppo formato da Andreas Ulvo piano, Audun Erlien basso elettrico e due batteristi, Torstein Lofthus e Helge Andreas Norbakken (quest’ultimo anche alle percussioni) che interagiscono con sapiente equilibrio. Ma il protagonista resta senza alcun dubbio Mathias: il suo linguaggio appare allo stesso tempo antico (molti e ben individuabili i richiami al jazz propriamente detto) e attuale (nel suo stile evidenti le influenze da un canto della musica classica contemporanea, dall’altro della new age intesa soprattutto come un genere in cui si mescolano echi provenienti da culture diverse come quelle indiane, ebree e magrebine)… cui si aggiungono echi della cultura scandinava presenti nella maggior parte dei musicisti nordici. Insomma un universo di riferimento assai vasto e variegato che Eick padroneggia assai bene anche dal punto di vista compositivo dal momento che tutti e otto i brani in programma sono dovuti alla sua penna. Brani che, ferma quella ricerca melodica cui prima si faceva riferimento, alternano atmosfere intimiste, oniriche a climi più materici, terrene.

Sheila Jordan – “Lucky to be me” – abeat 185
Sheila Jordan è una di quelle rare artiste di cui parlano tutti bene: pubblico, critica, colleghi. E questo album non fa certo eccezione alla regola. La vocalist americana, che raggiunse una fama internazionale aggiungendo le parole alla musica di Charlie Parker, è amata ed apprezzata anche in Italia dove ha registrato live questo album l’11 novembre del 2016 a Castellanza (MI) accompagnata da Attilio Zanchi al contrabbasso, Roberto Cipelli al piano e Tommaso Bradascio alla batteria. Da quanto sin qui detto si deduce facilmente che si tratta di un ottimo album che mette in luce da un canto le indiscusse qualità vocali di Sheila, dall’altro la capacità dei musicisti italiani di stare a fianco, validamente, anche delle più importanti stelle del firmamento jazzistico internazionale. E la valenza di Zanchi e compagni è testimoniata dalla stessa Jordan la quale, riferendosi al titolo dell’album, afferma di aver “chiamato questo disco ‘Lucky to be me’ non solo perché è uno dei brani, ma perché mi sento veramente fortunata nella vita ad avere amici e musicisti così meravigliosi, che si divertono a fare musica con me, ad organizzare tour e registrazioni. Sono come una famiglia e mi sento fortunata ad averli con me in questa vita”. Ed è bello avvertire come un’artista che nella sua vita ha conosciuto tantissimi successi, sia ancora sorretta da un tale entusiasmo ed una così grande voglia di cantare, di appassionare il pubblico. E la cosa risulta ancora più straordinaria ove si tenga conto che la Jordan, nata nel 1928, a Detroit, Michigan, frequenta le scene da molti anni avendo debuttato da bambina: poco più che adolescente lavorava già nei club di Detroit. Da allora non si più fermata inanellando una serie di performances – sia live sia su disco – davvero straordinarie. E per quei quattro o cinque che ancora non la conoscessero, ecco questo album è un’ottima occasione per avere un piccolo saggio di chi è Sheila Jordan.

Janne Mark – “Pilgrim” – ACT 9735-2
Questo “Pilgrim” ci presenta la vocalist danese Janne Mark in una sorta di nazionale danese completata dal pianista Henrik Gunde Pedersen, dal bassista Esben Eyermann, dal batterista Jesper Uno Kofoe, dal chitarrista ‘lap steel’ Gustaf Ljunggren cui si affianca, per esplicita volontà della vocalist, il trombettista norvegese Arve Henriksen.
L’album ha una sua specificità che lo pone al di fuori di qualsivoglia schema con cui al difuori della Scandinavia siamo abituati ad ascoltare la musica jazz. Ciò perché Janne Mark scrive, oggi, inni, cosa assolutamente inconsueta…da noi ma del tutto normale al Nord ove questo genere ha una grande importanza costituendo la fonte di molte canzoni. In particolare in Danimarca la tradizione dell’inno è sostanzialmente agraria in quanto la maggior parte della popolazione viveva in campagna e quindi gli inni venivano da quella realtà. Oggi le cose sono ovviamente cambiate e la Mark scrive musica in cui alla tradizione agraria aggiunge l’input derivante dalla realtà urbana; per completare il tutto la vocalist rivolge lo sguardo anche al jazz (proprio per questo ha chiamato Arve Henriksen) giungendo ad un unicum davvero irripetibile. Ed è la stessa Mark ad illustrare il senso della sua poetica affermando che “la musica di Pilgrim è scritta per quanti non hanno alcuna familiarità con la chiesa ma anche per quanti, viceversa, conoscono assai bene la religione”. Ed in effetti ascoltando le dieci tracce dell’album, a farla da padrona è una musica riflessiva, che trasporta l’ascoltatore in una dimensione ‘altra’, lontana dalle problematiche dell’oggi, della vita di tutti i giorni, trasmettendo un senso di pace che difficilmente ritroviamo nelle espressioni artistiche attuali. Insomma un album che ci fa conoscere una musicista di grande spessore, affascinante, matura, dotata di una squisita sensibilità e di una grande capacità di scrittura e ci conferma Arve Henriksen come una delle personalità più spiccate dell’odierno panorama jazzistico del Nord Europa.

Thelonious Monk Quartet – “Monk’s Dream” – Green Corner 100899 2 CD
Anche questo doppio album fa parte della serie “The Stereo & Mono Versions” cui si faceva cenno a proposito dell’album di Art Blakey. Questa volta il protagonista è Thelonious Monk alla testa del suo celeberrimo quartetto con Charlie Rouse al sax tenore, John Ore al basso e Frankie Dunlop alla batteria. In programma il primo LP che Monk, dopo la fine della sua collaborazione con la Riverside Records, incise per la Columbia. “Monk’s Dream”, prodotto da Teo Macero, registrato alla fine del 1962 e pubblicato nel 1963, divenne nel corso degli anni l’album più venduto di Monk e fu determinante nella scelta del Times Magazine di dedicargli una copertina nel 1964. Originariamente l’LP conteneva otto pezzi, di cui cinque originali di Monk, cui si aggiungono “Body and Soul” di Green- Heyman-Sour-Eyton, “Just a Gigolo” di Caesar-Brammer-Casucci e “Sweet and Lovely” di Arnheim-Tobias-Lemare; le esecuzioni sono affidate al quartetto eccezion fatta per “Just a Gigolò” e “Body and Soul” affidate al piano solo di Monk. In questa riedizione come bonus troviamo quattro ‘alternative trakes’ tratte dalle stesse sedute di registrazione dell’ottobre-novembre del 1962, le prime versioni in studio di Monk della maggior parte dei brani dell’album e una versione per pianoforte dal vivo del 1961 di “Body and Soul”. A Questo puto credo non ci sia molto altro da aggiungere: si tratta di grande musica, di alcune delle pietre miliari del jazz che ci raccontano del genio di un grandissimo pianista e compositore quale Thelonious Monk.

Wolfgang Muthspiel – “Where The River Goes” – ECM 2610
Questo album è la logica prosecuzione di “Rising Grace” pubblicato nel 2016; non a caso la formazione è quasi identica dal momento che accanto al chitarrista austriaco ritroviamo Brad Mehldau al pianoforte, Ambrose Akinmusire alla tromba e Larry Grenadier al contrabbasso mentre Eric Harland alla batteria sostituisce Brian Blade.
Ma, come si dice, cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia per cui la musica si mantiene su livelli di assoluta eccellenza grazie, soprattutto, alla valenza del gruppo in quanto tale. Non si tratta, cioè, di cinque grandi musicisti che messi assieme producono buona musica dato il loro peso specifico individuale, ma di cinque artisti che decidono di unirsi per dar vita a qualcosa di nuovo, qualcosa che abbia una propria identità senza per questo trascurare il talento di ognuno. Il tutto impreziosito dalle capacità compositive del leader chitarrista che firma tutte le composizioni in programma eccezion fatta per “Blueshead” di Mehldau e “Clearing” improvvisazione collettiva dell’intero gruppo. E l’improvvisazione non è certo elemento secondario in queste registrazioni caratterizzate da un eccellente equilibrio tra parti scritte e spazio lasciato all’estro dei singoli. Ecco ad esempio il contrabbasso di Grenadier impegnato in un trascinante assolo nel già citato “Blueshead” mentre Muthspiel evidenzia il proprio talento in tutti i brani con una menzione particolare per il pezzo di chiusura, “Panorama”. Ma è l’atmosfera generale del disco che incanta, un’atmosfera in cui la bellezza della linea melodica si impone su tutto grazie soprattutto a Brad Mehldau e Ambrose Akinmusire che riescono ad interpretare al meglio le intenzioni del leader-compositore.

Barre Phillips – “End To End” – ECM 2575
Un album di solo contrabbasso non è certo di facile ascolto anche se ad eseguirlo è un fuoriclasse come Barre Phillips. In buona sostanza si tratta dell’ennesima prova senza rete di uno dei più grandi solisti di tutti i tempi, un artista che, ad onta dei suoi ottantatre anni, pur non avendo alcunché da dimostrare, si lancia in una impresa temeraria come questa. D’altro canto chi conosce Barre Phillips, chi ha imparato ad apprezzarlo negli anni anche attraverso le sue numerose collaborazioni con musicisti d’avanguardia quali Dave Holland, Paul Bley e Evan Parker, non si stupirà più di tanto nel constatare come Barre abbia deciso di imbarcarsi in questa ardua operazione. Risultato? Certo molto dipende da come si ascolta questo tipo di musica: per i tradizionalisti sarà d’obbligo storcere il naso, per chi preferisce stilemi più all’avanguardia si tratta di un’opera assolutamente straordinaria. Barre evidenzia ancora una volta non solo una tecnica sopraffina ma un rapporto quasi simbiotico con lo strumento che lo porta ad esprimersi compiutamente nei tredici brani in repertorio. Quindi la necessità da parte dell’ascoltare di immergersi totalmente nell’universo sonoro immaginato da Phillips per gustarne appieno ogni minimo risvolto e comprendere ciò che l’album rappresenta per il contrabbassista. Al riguardo è lo stesso artista, nelle note di copertina che accompagnano l’album, a chiarire come si tratti della “fine di un ciclo, non un riassunto, ma l’ultima pagina di un diario iniziato cinquant’anni fa”. L’album è diviso in tre parti: “Quest” (comprendente i primi cinque brani); “Inner Door” (con i successivi quattro) e “Outer Window” (gli ultimi quattro). Nonostante la presenza di un unico strumento, le atmosfere sono assai variegate passando da momenti lirici ad altri caratterizzati da una maggiore fisicità con in primo piano sempre tecnica ed espressività

Antonio Sanchez & Migration – “Lines in The Sand” – Cam Jazz 7940-2
Come ho già avuto modo di esprimere in diverse occasioni, non credo molto nella musica “politica” vale a dire in quelle espressioni musicali che ancor prima del contenuto artistico pongono in evidenza quello politico. Ma, come ogni buona regola, anche questa soffre le sue brave eccezioni e “Lines in The Sand” è una di queste. In effetti l’album per specifica ammissione dello stesso batterista, si pone come uno specifico atto d’accusa contro la politica posta in essere da Donald Trump nei confronti degli emigranti che arrivano dal Messico, terra d’origine di Sanchez. Nel libretto che accompagna l’album, Sanchez dichiara di sentirsi un uomo fortunato perché la sorte, oltre a concedergli affetti familiari e un’istruzione gli ha consentito di vivere un quarto di secolo in un Paese che ha saputo accettare il suo talento. Purtroppo gli Stati Uniti di oggi non sono quelli del 1993 quando Antonio si stabilì a New York: alla Casa Bianca è la demagogia a dettar legge. Come accennavo credo fortemente all’onestà intellettuale di Sanchez in quanto dopo aver ottenuto quattro Grammy Awards, una nomina per un Golden Globe e aver collaborato con alcuni dei più grandi jazzisti di sempre (Chick Corea, Charlie Haden, Gary Burton, Toots Thielemans, Pat Metheny tra gli altri) non ha certo bisogno di ricorrere a certi mezzucci per affermare le proprie qualità. E d’altro canto la stessa musica da lui proposta in questo “Lines in The Sand” trasuda tristezza, protesta, ferma volontà di non accettare passivamente questo stato di cose. Dal punto di vista più strettamente musicale, quello proposto da Sanchez è un mix di jazz contemporaneo, rock, elettronica e altre influenze, il tutto declinato attraverso la bellezza delle linee melodiche e un perfetto equilibrio tra sonorità acustiche e suoni elettronici. In questo ambito particolarmente efficace risulta l’affiatamento del gruppo completato da John Escreet piano e tastiere, Matt Brewer al basso, Chase Baird al sax tenore, Thana Alexa alla voce sua compagna nella musica e nella vita, cui si aggiungono in due brani Nathan Shram alla viola e Elad Kabilio al cello.

Ida Sand – “My Soul Kitchen” – ACT 97362
E’ proprio vero che la musica non conosce confini e così eccoci in Svezia per apprezzare una vocalist svedese che canta con pertinenza soul e funky. Si tratta di Ida Sand accompagnata da “Stockholm Undeground” ovvero un quintetto all stars comprendente Jesper Nordenström organo Hammond, synt e tastiere, Henrik Janson chitarra elettrica, Lars DK Danielsson basso elettrico, Per Lindvall batteria e Magnus Lindgren sax tenore e baritono, flauti e clarinetto con in più alcuni ospiti illustri tra cui Nils Landgren trombone e vocale. In repertorio brani, tra gli altri, di Al Green, Stevie Wonder, Ray Charles e The Meters cui si aggiungono alcuni original della vocalist e reinterpretazioni, sempre in chiave soul, di composizioni firmate da John Fogerty e Mike Shapiro. Il risultato, come si accennava, è ottimo in quanto la Sand aderisce perfettamente ai canoni non solo estetici della soul-music. Le sue interpretazioni sono una palese dimostrazione di come ella ami questo genere musicale riuscendo a coglierne l’intima essenza. D’alto canto bisogna riconoscere che in Svezia il soul gode di molta popolarità e che altri artisti vi si sono dedicati con successo; come non ricordare, al riguardo, quel Nils Landgren che con la sua “Funk Unit”, per esplicita ammissione della stessa Sand, ha avuto una indiscussa influenza sul suo stile vocale. Comunque tornando alla Sand, questo suo quarto album si differenzia notevolmente dai precedenti in cui aveva esplorato le vie del jazz, del blues e del folk, coronando un vecchio sogno. In ciò perfettamente coadiuvata dai musicisti scelti per accompagnarla tra cui particolarmente rilevante il ruolo di Magnus Lindgren non solo come solista ma anche come arrangiatore delle parti riservate ai fiati.

Woody Shaw – “Tokyo ‘81” – Elemental 5990429
E’ il 7 dicembre 1981 e il trombettista-flicornista Woody Shaw si esibisce a Tokyo con
Steve Turre trombone e percussioni, Mulgrew Miller piano, Stafford James basso e Tony Reedus batteria. La session viene registrata e adesso è a disposizione di tutti noi. A chi conosce minimamente la storia del jazz, non sfugge l’importanza di Woody Shaw artista che forse non ha ottenuto tutti i riconoscimenti che avrebbe meritato. Nonostante una vita piuttosto breve – scomparve all’età di 45 anni – Woody è considerato da buona parte della critica l’ultimo musicista che sia riuscito ad elaborare un nuovo linguaggio improvvisativo sulla tromba. E queste registrazioni ne sono l’ennesima conferma. Woody suona magnificamente, senza un attimo di stanca, dando nuova linfa a pezzi già ultra battuti. Si ascolti, ad esempio, con quanta maestria interpreti il celeberrimo “’Round Midnight” di Monk perfettamente coadiuvato dal suo quartetto che evidenzia un’intesa difficile da non aggettivare come ‘perfetta’. Turre e Miller seguono le improvvisazioni del leader con il pianista che esplora tutte le possibilità armoniche insite nel brano e Turre che sfoggia il suo solismo così fluido e spesso contrastante con le asperità del linguaggio di Shaw. L’album presenta sette tracce di cui l’ultima, “Sweet Love Of Mine” dello stesso Shaw, registrata live a L’Aia il 14 luglio del 1985 dalla Paris Reunion Band comprendente, oltre al leader, Jimmy Woode al basso, Billy Brooks alla batteria, Kenny Drew al piano, Johnny Griffin al sax tenore, Nathan Davis al sax tenore e soprano, Slide Hampton al trombone e Dizzy Reece alla tromba.

Omar Sosa, Yilian Cañizares – “Aguas” – Otà Records
Il pianista cubano Omar Sosa si è fatto conoscere dal pubblico italiano grazie alle collaborazioni con Paolo Fresu. Abbiamo, quindi, imparato ad apprezzare un musicista colto, sensibile, che lavora quasi per sottrazione, un musicista che mai fa ricorso a virtuosismi puntando, piuttosto, a trasmettere stati d’animo, emozioni. Di qui un pianismo che accarezza le melodie con un andamento ritmico solo all’apparenza semplice ma in realtà mai banale e del tutto coerente con il contesto in cui si inserisce. E questo nuovo album non fa che confermare queste doti. Omar, nell’occasione, suona con la violinista e vocalist Yilian Cañizares, nata a L’Avana nel 1981, e il percussionista Inor Sotolongo, nato anch’egli a L’Avana nel 1971, ma oggi residente in Francia sin dal 2001. Omar e Yilian si sono conosciuti nel corso delle rispettive tournée nel vecchio continente e non c’è voluto molto per scoprire un idem sentire che li ha condotti alla realizzazione di questo album. In repertorio undici tracce scritte da Omar Sosa e Yilian Cañizares e riflette appieno le vedute musicali dei due artisti. Così se Omar Sosa non nasconde la nostalgia per la sua isola rivendicando l’importanza delle tradizioni musicali cubane da cui deriva la sua musica “contemplativa, piena di umiltà, dignità e pace”, la vocalist pone l’accento sulla necessità di “mettere da parte te stessa e il tuo ego” per far sì che la musica possa prendere vita. Così quanto si ascolta in “Aguas” è un mix perfettamente riuscito tra il jazz e la musica tradizionale cubana con qualche rimando anche alla musica classica. Sosa disegna un tappeto melodico- ritmico di rara e moderna lucentezza mentre la Cañizares dimostra di saper improvvisare sia con la voce sia con il violino. Prezioso anche il lavoro del percussionista Sotolongo mai invadente. Tra i vari brani particolarmente rilevanti “Milonga” impreziosito da un assolo di Sosa e ““La Respiracion”

Steve Tibbetts – “Life Of” – ECM 2599
Steve Tibbetts incise il suo primo album nel 1977; nel 1981 l’album d’esordio con la ECM; da allora il chitarrista è divenuto uno degli artisti più presenti nel catalogo della casa tedesca tanto da impersonare, si potrebbe dire, l’estetica voluta da Manfred Eicher. Un’estetica basata sulla raffinatezza, sulla purezza del suono, su una certa atmosfera ‘globalista’ con l’esplicito richiamo a popoli e strumenti esotici. E tutta la carriera di questo personaggio è stata caratterizzata da tali elementi, con la costante di una ricerca che mai si è soffermata sui traguardi raggiunti. Di qui un costante allargamento degli orizzonti musicali di Tibbetts che strada facendo ha trovato nel percussionista Mark Anderson un partner ideale cui, nell’occasione di quest’ultimo album (il nono per ECM), si aggiunge Michelle Kinney (cello, drone). Il risultato è ancora una volta eccellente. L’album si articola attraverso una serie di bozzetti che lasciano all’ascoltatore la possibilità di viaggiare con la fantasia e immaginare luoghi e situazioni. Così non mancano i riferimenti alla musica medioevale, al blues, ma anche a quei luoghi lontani del sud est asiatico, quali il Bali e soprattutto il Nepal dove ha lungamento soggiornato conoscendo il vocalist monaco buddista Chöying Dolma con il quale ha inciso due stupendi album intitolati “Chö” e “Selwa”. E ascoltando anche la musica di “Life Of” non si può non riconoscere come non solo i suoni, ma anche qualcosa di molto più profondo, insito nella spiritualità di quei luoghi, sia rimasta per sempre impressa nell’anima del chitarrista del Minnesota. Anche di qui la ricchezza espressiva della sua chitarra Martin a 12 corde mentre il piano assume spesso coloriture simili ad un gamelan; immancabili alcune campionature che richiamano gong balinesi. Come già accennato, fondamentale anche l’apporto del percussionista Mark Anderson che introduce elementi ritmici tutt’altro che consueti mentre la Kinney, per utilizzare le stesse parole di Tib betts “è capace di portare la struttura musicale del brano come su una nuvola”.

Mark Turner, Ethan Iverson – “Temporary Kings” – ECM 2583
Sicuramente uno dei dischi più interessanti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi mesi. Uno accanto all’altro un grandioso tenor-sassofonista quale Mark Turner che abbiamo imparato a conoscere sia per le numerose collaborazioni con gruppi di eccellenza quali il Billy Hart Quartet (in cui suonava anche Iverson), e il trio con il bassista Larry Grenadier e il batterista Jeff Ballard, sia per i progetti che lo hanno visto leader, ed un pianista quale Ethan Iverson che ha raggiunto eccezionali livelli di notorietà (assolutamente meritati) con i “Bad Plus” da cui si è staccato negli ultimi tempi. Questa formula del duo senza sezione ritmica è particolarmente rischiosa in quanto praticamente i due artisti sono costretti a muoversi senza rete, inerpicandosi per sentieri impervi da loro stessi immaginati e costruiti. Di qui una musica che definire cameristica non è certo una forzatura: le influenze del cool-jazz sono evidenti – e non solo per la riproposizione di un brano di Warne Marsh, “Dixie’s Dilemma” – così come evidenti appaiono i richiami alla musica colta del Novecento. Tutto ciò crea un’atmosfera generale del tutto atipica e intrigante, grazie anche ad una continua ricerca timbrica e ad un contrapporsi di linee tracciate dai due musicisti che mai scadono nel banale. In repertorio, oltre al già citato brano di Marsh, sei pezzi del sassofonista e due del pianista, tutti declinati attraverso una profonda intesa che trova, forse, nel pianismo di Iverson il suo maggior punto di riferimento. Gli interventi pianistici sono sempre perfetti quanto a tempismo e coerenza con il discorso che si vuol portare avanti, dando così a Turner l’opportunità di librarsi leggero, etereo con il suo bellissimo sound.

I NOSTRI CD. Dalle ristampe musica senza tempo. Dalle novità la conferma del made in Italy

Oscar Brown Jr. – “Between Heaven And Hell” plus “Sin & Soul” – Soul Jam 600912
Nel corso degli anni Oscar Brown Jr. è diventato famoso non solo e non tanto per le sue grandi capacità di vocalist quanto per l’aver assunto determinate posizioni politiche che sarebbero divenute patrimonio di tutta la musica nera al di là di ogni distinzione tra jazz, funk, rap, R&B. In effetti considerare Brown solo come jazzista è piuttosto riduttivo dal momento che lo stesso si è affermato anche come poeta e drammaturgo. Questo album ci restituisce, comunque, Oscar Brown Jr. nella sua veste di eccellente jazzista quale lo si ritrova in due LP, “Between Heaven And Hell” del 1962 e “Sin & Soul” del 1960 con l’aggiunta di tre bonus tracks sempre dei primissimi anni sessanta. Si tratta, in buona sostanza, dei primi due LP incisi da Oscar Brown e che anche per questo assumono una precisa rilevanza storica. In “Sin & Soul” Oscar Brown ha scritto parole e musica della maggior parte dei brani in repertorio; da segnalare come in tre pezzi la musica sia opera di altrettanti personaggi all’epoca emergenti ma che in breve sarebbero diventati celebri: “Work Song” di Nat Adderley, “Dat Dere” di Bobby Timmons e “Afro-Blue” di Mongo Santamaria. Ma è proprio nelle composizioni ascrivibili in toto al vocalist che troviamo i motivi di maggiore interesse con brani emblematici quali “Bid’em In” e “Humdrum Blues” che rappresentano in toto la poetica dell’artista così complessa e così calata nella realtà degli afro-americani.
Nell’altro LP – “Between Heaven And Hell” – possiamo ascoltare dodici brani di cui ben dieci scritti totalmente dal vocalist e due in cui Oscar Brown ha composto la musica su testi di poeti quali Gwendolyn Brooks e Paul L. Dunbar. Notevoli in questo caso non solo l’interpretazione del leader ma anche i preziosi arrangiamenti di Ralph Burns e, in due brani “Mr. Kicks” e “Hazel’s Hips”, di Quincy Jones. Altresì notevoli gli apporti dei solisti quali, ad esempio, il trombettista Joe Newman e il pianista Patti Bown.

Miles Davis – “In Person Friday and Saturday Nights at the Blackhawk” – Poll Winners 27373 2 CD
E rimaniamo negli anni ’60 con queste straordinarie registrazioni di Miles Davis. Questo doppio cd ripropone, infatti, lo storico concerto registrato dal trombettista il 21 e 22 aprile del 1961 al Blackhawk di San Francisco, originariamente pubblicato come “Miles Davis in Person at the Blackhawk Vols. 1 & 2” (Columbia CS8469/CS 8470).
Anche in questo caso sono molti i motivi di interesse. Innanzitutto, dal punto di vista storico, si tratta di una delle pochissime registrazioni di Miles Davis con Hank Mobley al sax tenore (le altre due registrazioni di questo quintetto furono “Someday My Prince Will Come” e “Miles Davis at Carnegie Hall”). In secondo luogo si tratta delle prime performances e relative registrazioni che Miles, alla testa di questo gruppo, abbia effettuato in un club. Inoltre è possibile ascoltare una delle migliori sezioni ritmiche che la storia del jazz possa vantare, vale a dire Wynton Kelly al piano, Paul Chambers al contrabbasso e Jimmy Cobb alla batteria che non a caso hanno suonato e registrato spesso come un trio a sé stante. Dal punto di vista squisitamente musicale non credo siano necessarie molte parole per illustrare la valenza di questa musica e ne era convinto lo tesso Miles che rispondendo ad alcune domande di Ralph J. Gleason, incaricato di scrivere le note di copertina, affermò che non c’era alcunché da scrivere sulla musica dal momento che la stessa parlava da sé. E parlava un linguaggio allo stesso tempo moderno ma legato alle tradizioni, con una front-line in cui Hank Mobley riusciva a dialogare con grande intensità con Miles in uno dei suoi giorni migliori. Il tutto supportato da una sezione ritmica, come si diceva, di assoluta eccellenza. Tutti i brani sono da godere nella loro interezza anche se personalmente ho apprezzato in modo particolare “Walkin’” e “Softly As In A Morning Sunrise”.

Bill Evans – “New Jazz Conceptions” – Poll Winner 27364
Durante questa rassegna di ristampe mi leggerete usare spesso l’aggettivo ‘storico’ ma in taluni casi è davvero indispensabile. Ad esempio come meglio definire questo CD di Bill Evans dal momento che si tratta dell’album d’esordio dell’allora ventisettenne pianista come leader (prodotto da Orrin Keepnews per la Riverside Records RLP-12-223) riprodotto nella sua interezza e comprendente quindi un’alternate take di “No Cover, No Minimum” che chiude la session. Originariamente l’lp, registrato nel settembre del 1956, conteneva undici tracce di cui otto in trio con Teddy Kotick al basso e Paul Motian alla batteria, e tre in piano solo tra cui la prima registrazione del capolavoro di Evans, “Waltz for Debby”. Basterebbero queste poche note per far capire come si tratti di un album che ogni appassionato di jazz dovrebbe possedere e ascoltare con attenzione. Quell’attenzione che evidentemente non prestarono gli ascoltatori dell’epoca dato che il primo anno della sua uscita l’album vendette appena 800 copie. In effetti, anche se Evans stava ancora mettendo a punto il suo stile che avrebbe dato una svolta imprescindibile alla concezione del piano-trio, tuttavia non era certo difficile cogliere le potenzialità di questo straordinario artista. E le possibilità di comparazione erano lì, sotto gli occhi di tutti, dal momento che in questo specifico album Evans poneva il focus della sua ricerca ancora sul grande song book americano proponendo solo poche sue composizioni – “Five” , “Displacement”, oltre ai già citati “No Cover, No Minimum” e “Waltz for Debby”. Quasi inutile sottolineare come a distanza di oltre sessanta anni queste incisioni conservino intatta tutta la loro freschezza, originalità a conferma che la grande musica non conosce confini di spazio o di tempo. Magnifica, in particolare, l’interpretazione di “My Romance” di Rodgers-Hart. L’album è completato da altri sei brani provenienti da due session dello stesso periodo in cui Evans suona con Dick García chitarra, Jerry Bruno basso e Camille Morin batteria nei primi tre, e con Eddie Costa vibrafono, Joe Puma chitarra, Oscar Pettiford basso e Paul Motian batteria negli altri tre. Da leggere, infine, la recensione scritta per Down Beat da Nat Hentoff e fedelmente riportata nel libretto che accompagna l’album unitamente alle note originarie di Orrin Keepnews e ad un ulteriore contributo di Mel Parson redatte per la riedizione del disco.

Maynard Ferguson – “The Birdland Dream Band” – RCA Victor 88985407092
Ancora una ristampa di grande importanza storica e artistica. Siamo a metà degli anni ’50, per la precisione nel 1956, e Maynard Ferguson ha l’opportunità di formare una orchestra stellare significativamente chiamata “Birdland Dream Band” con cui effettua numerose tournée e incide qualche album come quello presentato in questo CD, impreziosito dalla presenza di altri nove alternate tracks non comprese nell’originale LP. Le registrazioni, effettuate alla Webster Hall di New York nel settembre del 1956, evidenziano tutta la potenza interpretativa dell’orchestra. In effetti grazie agli arrangiamenti di personaggi quali Al Cohn, Bob Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Ernie Wilkins, Bill Holman, Marty Paich, Willie Maiden, Johnny Mandel, Herb Geller, e a solisti del calibro del trombonista Jimmy Cleveland, dell’altista Herb Geller, del tenorista Al Cohn, del trombettista Nick Travis, del pianista Hank Jones la band raggiunge un successo strepitoso e costituisce di fatto la base di lancio per la prestigiosa carriera da band-leader che avrebbe contrassegnato la vita di Ferguson. Successo, intendiamoci, del tutto meritato come avrete modo di constatare ascoltando l’album. La musica è serrata, lo swing intenso, trascinante, il sound orchestrale compatto, gli interventi solistici perfetti con il leader sovente in primo piano; i brani si susseguono senza un attimo di tregua a declinare un repertorio di assoluto livello in cui figurano, in veste di autori, Al Cohn, Bill Holman, Bobby Brookmeyer, Jimmy Giuffre, Marty Paich, Manny Albam e John Mandel, come a dire una piccola enciclopedia del jazz.

Ella Fitzgerald – “Sings the Cole Porter Song Book” – Poll Winners 27363 – 2 CD
Rimaniamo negli anni cinquanta; Lady Ella è in piena attività, oramai riconosciuta come una delle più importanti vocalist jazz; così si esibisce in tournée attraverso l’Europa e il Nord America, accompagnata dall’orchestra di Duke Ellington e instaura una proficua collaborazione con Louis Armstrong documentata da tre indimenticabili album: “Porgy and Bess”, dedicato all’omonima opera di George Gershwin, e due incisioni di standard jazz, “Ella and Louis” e “Ella and Louis Again”. In questo stesso periodo incide per l’etichetta discografica Verve Records una serie di Songbooks, prodotta da Norman Granz, contenenti le canzoni scritte dai più grandi compositori americani. Questo doppio CD, registrato nel 1956, ci presenta per l’appunto Ella Fitzgerald impegnata nella interpretazioni del song book di Cole Porter. Questa volta l’aggettivo “storico” è quanto mai opportuno: in effetti l’album già nel 2000 entra a far parte del Grammy Hall of Frame e nel 2003 è uno dei 50 dischi scelti dalla Libreria del Congresso per far parte del “National Recording Registry”. In effetti l’album è semplicemente straordinario: Ella è in gran forma, la sua voce è fresca, caratterizzata come al solito da un’ampia estensione e da una perfetta intonazione, sorprendente il suo scat che avrebbe poi costituito parte integrante della sua cifra stilistica, grande la capacità di improvvisazione jazzistica. Assolutamente pertinente l’accompagnamento fornito dalla big band di Buddy Bergman in cui spiccano solisti come i trombettisti Pete Candoli, Harry “Sweets” Edison, Maynard Ferguson, i sassofonisti Herb Geller, Bud Shank, Bob Cooper, il chitarrista Barney Kessel, il contrabbassista Joe Mondragon e il batterista Alvin Stoller. A ciò si aggiunga la bellezza dei temi firmati da Cole Porter: brani come “In The Still Of The Night”, “I Get A Kick Of You”, “Just One of Those Things”, “Begin the Beguine”…tanto per citare qualche titolo, vengono lumeggiati nelle pieghe più remote e riproposte in tutta la loro valenza. Il doppio album contiene come bonus track “Love For Sale” registrato il 29 aprile del 1957 con Don Abney piano, Herb Ellis chitarra, Ray Brown basso e Jo Jones batteria. Ad impreziosire il tutto un ampio libretto con interventi di Alan Guntry, Don Freeman, Norman Granz, Fred Lounsberry.

Oliver Nelson – “The Blues and the Abstract Truth” – The Stereo & Mono Versions – Green Corner 100894 – 2 CD
Oliver Nelson nasce a St.Louis, Missouri, nel 1932 e comincia a suonare il pianoforte all’età di sei anni per passare al sassofono ad undici. Nel 1947 le prime scritture professionali con diverse band nei dintorni di St.Louis, finché nel 1950 entra nella big band di Louis Jordan suonando il sassofono contralto ed occupandosi altresì degli arrangiamenti. Il grande successo arriva nel 1961 quando, dopo sei album come leader, incide per l’appunto “The Blues and the Abstract Truth” (che contiene tra gli altri il famoso “Stolen Moments”, poi diventato uno standard); accanto a lui una serie di musicisti eccezionali quali George Barrow al sax baritono, il trombettista Freddie Hubbard, il sassofonista e flautista Eric Dolphy (alla sua ultima collaborazione con Nelson dopo una serie di registrazioni per la Prestige), Bill Evans al piano (nel suo unico album con Nelson), Paul Chambers e Roy Haynes rispettivamente basso e batteria. L’album ci viene proposto nella duplice versione mono e stereo e la cosa non deve stupire più di tanto ove si consideri che nei primissimi anni sessanta le case discografiche erano solite pubblicare nella duplice versione dato che ancora la stereofonia non era molto diffusa. Dal punto di vista squisitamente musicale, l’album è una vera e propria perla nella discografia di quegli anni; dall’alto della sua perizia di arrangiatore e compositore, Nelson, pur non rispettando la canonica struttura delle 12 battute, si lancia in una profonda esplorazione del blues di cui ci propone una sua particolarissima e brillante visione, in ciò perfettamente assecondato da quei grandiosi musicisti cui prima si faceva riferimento. Il brano più noto e probabilmente il migliore è “Stolen Moments”; dopo una introduzione collettiva è Freddie Hubbard a prendere un convincente assolo, seguito dal flauto di Dolphy e dal sax tenore di Nelson. L’assolo di Bill Evans e la riproposizione corale del tema chiudono il brano. Un’ultima non secondaria notazione: il doppio CD contiene altri due album, “Trane Whistle” (1960), della big band del sassofonista Eddie “Lockjaw” Davis con arrangiamenti di Oliver Nelson e Ernie Wilkins, e “Straight Ahead” (1961) dello stesso Nelson.

Art Pepper – “Smack Up” – Poll Winners 27360
Anche questo album ha una sua precisa caratterizzazione storica: si tratta, infatti, della penultima registrazione effettuata dal sassofonista e clarinettista Art Pepper come leader prima che lo stesso fosse incarcerato a S. Quentino per motivi di droga e tornasse a registrare solo nel 1964. Purtroppo la frequentazione con le droghe fu una costante nella vita di Pepper condizionandolo in maniera decisiva e riducendo in maniera sostanziale le sue possibilità espressive. In altri termini Pepper avrebbe potuto dare molto di più se avesse avuto una vita regolata. Chiaramente influenzato da Charlie Parker all’inizio della carriera, Pepper riuscì a trovare una sua strada nel corso degli anni, specie nel periodo che va dal 1957 al 1960. Ed in effetti questo “Smack Up” venne registrato a Los Angeles nell’ottobre del 1960 in quintetto con il trombettista Jack Sheldon, il pianista Pete Jolly, il bassista Jimmy Bond e il batterista Frank Butler. Nelle note di copertina originarie, scritte da Leonard Feather e riportate nel libretto che accompagna il CD, si può leggere come le doti principali dell’altosassofonista vadano ricercate nella passionale eloquenza anche se chiaramente influenzata da Parker e nell’assoluta originalità del suo sound che lo rendono immediatamente riconoscibile. Molti anni sono trascorsi da quando Feather formulò tali valutazioni ma non si può non essere d’accordo con lui ascoltando questo splendido album in cui Pepper evidenzia appieno la sua complessa personalità, ben coadiuvato da eccellenti compagni d’avventura tra cui in primissimo piano il trombettista Jack Sheldon e il pianista Pete Jolly. Come bonus track l’album contiene l’unico brano della colonna sonora del film The Subterraneans in quintetto co-guidato da Pepper e Sheldon, ed una sessione completa del 1959 in nonetto, con Jack Sheldon e Chet Baker alla tromba, Art Pepper e Herb Geller al sax alto, Stu Williamson al trombone a valve, Harold Land al sax tenore, Paul Moer al pianoforte, Buddy Clark al basso e Mel Lewis alla batteria.

Sonny Stitt, Hank Jones – “Cherokee” – Phono 2 CD
Ecco una ristampa imperdibile per chi ama Sonny Stitt e per chi, più in generale, ama la buona musica. Questo doppio cd riunisce, infatti, quattro sessioni complete nella loro interezza da cui sono scaturiti gli album “Sonny Stitt with The New Yorkers”, “Now!”, e “Salt and Pepper”, così come l’album “Stitt in Orbit” (comprendente altri due brani, non inclusi qui, poiché tratti da una sessione con una formazione diversa) registrati tra il 1957 e il 1963. In tutte queste registrazioni il sassofonista ha al suo fianco il pianista Hank Jones con il quale aveva già collaborato nel 1953 come membri del Buddy Rich Quartet, e, dopo le session qui presentate, non avrebbero registrato insieme fino al 1972 nell’album “Goin’ Down Slow” in quartetto con George Duvivier basso e Idris Muhammad batteria. In tutti i brani qui proposti Sonny Stitt e Hank Jones suonano in quartetto o con Wendell Marshall al basso e Shadow Wilson alla batteria o con Tommy Potter basso e Roy Haynes batteria o ancora con Al Lucas basso e Osie Johnson batteria. Nell’album “Salt and Pepper”, si aggiunge Paul Gonsalves, per la sua unica collaborazione registrata con Stitt mentre la sezione ritmica è affidata a Milt Hinton e Osie Johnson. Dal punto di vista musicale i brani che possiamo ascoltare in queste registrazioni sono un valido esempio del migliore jazz che si suonava in quel periodo. Stitt è in gran forma ed ha già intrapreso la strada che man mano lo porterà a distaccarsi dal suo modello d’ispirazione, Charlie Parker, come dimostrano, tra l’altro, le registrazioni effettuate nel ’60 con Miles Davis. Dal canto suo Hank Jones è nel pieno della maturità espressiva e proprio negli anni sessanta costituisce un suo quartetto, assieme al batterista Osie Johnson, al chitarrista Barry Galbraight e al bassista Milt Hinton che ottiene un clamoroso successo di pubblico e di critica. Come avrete modo di ascoltare il suo pianismo si integra perfettamente con le linee bop tracciate da Stitt per una musica che davvero non conosce l’usura del tempo.

Kai Winding – “Solo + Kai Olé” – Phono 870284
Quella di Kai Winding è stata una sorte piuttosto strana: nonostante nessuno metta in dubbio le sue qualità, tuttavia lo si ricorda soprattutto per le registrazioni effettuate durante gli anni ’50 con Jai Jai Johnson e viene assolutamente trascurata tutta la produzione successiva. Invece questo cd riunisce due album completi degli anni ‘60, che compaiono per la prima volta su CD: “Solo” (Verve V6-8525) e “Kai Olé” (Verve V6-8427). Il primo album, registrato tra gennaio e febbraio del 1963, vede il trombonista alla testa di un combo con Ross Tompkins al piano, Dick Garcia chitarra, Russell George basso, Gus Johnson o Tommy Check batteria. Nel secondo, registrato nel 1961, il trombonista di Aarhus, Danimarca, guida una grande orchestra di dodici elementi arrangiata e condotta da Al Cohn e dal collega trombonista Billy Byers. Nella band spiccano solisti come Phil Woods, Clark Terry, Joe Newman e lo stesso Byers. Dal punto di vista squisitamente musicale, “Solo” si caratterizza per il fatto che Winding, contrariamente a quanto era solito fare in quel periodo, abbandona la formazione con più tromboni e si presenta come unico fiato in quartetto o in quintetto. In tali contesti ha modo di esprimere appieno tutte le proprie potenzialità tanto che ancora oggi l’album viene considerato uno dei migliori registrati da Winding negli anni ’60. Anni in cui Kai incide soprattutto anche album jazz-pop per la Verve Records con il produttore Creed Taylor. Tornando a “Solo”, lo si ascolti particolarmente in “Days Of Wine And Roses”. Diverse le atmosfere ricercate in “Kai Olé” che può essere considerato un album di latin jazz; non a caso in repertorio figurano brani come “Manteca”, “Caribe” e “Besame Mucho”. Winding e compagni esplorano questo linguaggio e trovano piena libertà espressiva servendosi al meglio delle percussioni latine nella mani dell’eccellente Willie Rodriguez. Ma il protagonista è sempre lui, il trombonista danese, che mette in vetrina una sonorità ancora una volta splendida ed un fraseggio sempre fluido e preciso.

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Ajugada Quartet – “Hand Luggage” – Filibusta 1813
Quattro donne per questo Ajugada Quartet al suo debutto discografico: Antonella Vitale voce, Gaia Possenti pianoforte, Giulia Salsone chitarra e Danielle Di Maio sax alto e soprano, con l’aggiunta, in veste di special guest, di Juan Carlos Alberto Zamora armonica, Neney Santos percussioni e Stefano Isola synth. Costituitosi recentemente, il gruppo ha già potuto riscuotere l’interesse del pubblico nei concerti tenutisi alla Casa del Jazz di Roma, al Festival R-Esistenza Jazz presso l’Acrobax a Roma, al Festival del Jazz Teatro di Ostia Lido, Teatro Palladium di Roma Festival delle Compositrici e a “L’Aquila Jazz per le Terre del sisma edizione 2018”. Quindi, se, come si dice, il buongiorno si vede dal mattino non c’è dubbio che sentiremo ancora parlare di questa formazione. Senza alcuna pretesa di sperimentazione né di stupire l’ascoltatore, con molta umiltà e onestà intellettuale (merce oltremodo rara di questi tempi), le quattro artiste si muovono alla ricerca di belle melodie, senza per questo disdegnare la scrittura, con la presenza, quindi, in repertorio di ben sette original. In altre parole il gruppo prende per mano l’ascoltatore e lo conduce in un affascinante viaggio musicale attraverso stili e input differenti: così partendo da un brano di grande jazz come “Kind Folk” di Kenny Wheeler si arriva al Brasile di Egberto Gismonti e a Fito Paez, grande personaggio della scena artistica argentina. L’intesa è notevole: la voce si integra perfettamente in un contesto strumentale in cui piano e chitarra non fanno avvertire la mancanza di una sezione ritmica canonica (basso e batteria) mentre gli interventi degli ospiti appaiono quanto mai centrati e pertinenti. Si ascolti, al riguardo, Juan Carlos Albeto Zamora ne “Il regalo” e in “Livingstone”.

Enrica Bacchia – “E ritorno a casa” – Accordo BGZ/001
Spesso, parlando del mio recente volume “L’altra metà del jazz”, ho detto che una delle interviste che mi aveva maggiormente colpito per la capacità dell’interlocutore di mettersi a nudo era stata quella con Enrica Bacchia. E la capacità di questa straordinaria artista di andare dritta al cuore si manifesta sì con le parole… ma ancor meglio con la musica. Non è certo un caso che la Bacchia sia considerata una delle massime espressioni del canto europeo e se ce ne fosse stato ulteriore bisogno questo album è lì a dimostrarlo. Perfettamente coadiuvata da Massimo Zemolin (chitarra 7 corde), e Stefano Graziani (chitarra) cui si aggiungono in alcuni brani Luigi Sella al sax soprano, Francesco Pollon al pianoforte, David Boato alla tromba e Stefano Panizzo come arrangiatore nel brano di chiusura, la Bacchia affronta un repertorio all’apparenza “leggero” ma proprio per questo difficile da tradurre in qualcosa di completamente diverso dalla pop-routine. Ma la vocalist ci riesce perfettamente aderendo al titolo dell’album. E di un ritorno a casa in effetti si tratta dal momento che dopo aver declinato repertori americani, sudamericani ed europei, questa volta si rivolge a melodie di stampo italico che tutti conosciamo perfettamente. Particolarmente toccante l’apertura affidata a “Se io fossi un angelo” di Lucio Dalla, cantautore in cima alle preferenze del vostro cronista; Enrica affronta il brano con sincera partecipazione e grande trasporto nel raccontare ciò che Dalla voleva dirci con i suoi testi tutt’altro che banali. E l’attenzione ai testi è una costante di tutto il CD sottolineata dal fatto che la vocalist è accompagnata, per quasi tutto l’album, solo dalle corde di chitarra all’interno di un’architettura sonora semplice ma efficace. L’album si chiude con un brano strumentale scritto da Stefano Graziani con il trombettista David Boato in bella evidenza.

Maurizio Brunod – “Nostalgia progressiva” – Caligola 2241
Album di notevole interesse questo firmato da tre fra gli artisti più innovativi del panorama musicale italiano: il chitarrista Maurizio Brunod, il vocalist Boris Savoldelli e il trombettista Giorgio Li Calzi. Più volte ho espresso la mia avversione nei confronti di un uso eccessivo dell’elettronica nella musica; in questo caso, viceversa, siamo di fronte a tre artisti che sanno molto bene come padroneggiare le nuove tecnologie sì da offrire una musica allo stesso tempo moderna ma non slegata dal passato, una musica che suona estremamente attuale ma che allo stesso tempo guarda – con “nostalgia progressiva” – alla stagione d’oro del rock progressivo e della psichedelia. Insomma non un nostalgico ritorno al passato ma una rivisitazione originale di un patrimonio caro a noi tutti. Di qui un repertorio di dieci brani in cui ci sono i King Crimson, i Beatles, Elvis Costello, i Nucleus di Ian Carr… insomma alcuni di quei musicisti che hanno dato vita alla straordinaria stagione che ha caratterizzato l’Inghilterra di fine anni ’60… fino ai Kraftwerk banda tedesca pioniera della musica elettronica e alle italianissime Orme di cui viene riproposto “Gioco di bimba”. I tre si integrano alla perfezione e potendo contare su un tappeto ritmico-percussivo di grande efficacia, affrontano con estrema disinvoltura anche i passaggi più ardui, senza alcuna preoccupazione di andare oltre il limite, di assecondare un facile ascolto lasciandosi andare all’ispirazione del momento. Prova ne sia che l’album, nonostante la sua complessità, è stato realizzato in un solo giorno. Notevole l’equilibrio raggiunto tra le citazioni quasi filologiche di queste immortali melodie e la capacità di improvvisare che riguarda sia il singolo musicista sia il trio nella sua totalità.

Kulu Sé Mama – “Nécessaire de Voyage” – Dodicilune 380
Album gradevole e interessante questo “Nécessaire de Voyage”, primo lavoro discografico del quintetto Kulu Sé Mama. Diretto da Gabriele Rampino (sax tenore e soprano, sound design) e completato da Maurizio Bizzochetti (chitarre), Maurizio Ripa (piano), Maurizio Manca (basso elettrico) e Daniele Bonazzi (batteria). In repertorio 7 brani originali (firmati da Rampino e Ripa) che non difettano certo quanto ad originalità e valenza di scrittura. Ma quel che forse maggiormente colpisce è l’empatia che evidenziano questi musicisti, la facilità con cui si cercano, si trovano e riescono a dialogare su un canovaccio spesso non banale. E la cosa non stupisce più di tanto ove si consideri che il gruppo nasce verso la fine degli anni ’80 ospitando diversi musicisti fino a giungere alla formazione attuale in cui ritroviamo due tra i cofondatori del gruppo vale a dire Gabriele Rampino e Maurizio Bizzochetti. Dal punto di vista musicale, il gruppo si muove lungo direttrici non particolarmente nuove in quanto il suo stile raccoglie input provenienti da diversi generi musicali che oggi vanno per la maggiore, ivi compresi, ovviamente, il jazz. Ma lo fa con originalità e con una certa raffinatezza timbrica. A ciò si aggiunga la buona scrittura e si avrà un quadro completo del perché l’album merita attenzione. Tra i brani vi consigliamo di ascoltare “To the Forgotten” e “Endless Mirror”, ambedue impreziositi dagli assolo di Gabriele Rampino sia al sax tenore sia al sax soprano, mentre nel brano di chiusura – “They Say It’s A Ballad” a mettersi in evidenza è la chitarra di Maurizio Bizzochetti.

Late Sense Quartet – “Meetings” – Improvvisatore Involontario 054
Altro disco d’esordio; a presentarsi al pubblico del jazz è il Late Sense Quartet ovvero Gaetano Santoro al sax, Edoardo Ponzi al vibrafono e marimba, Francesco Marchetti al basso e Mauro Cimarra alla batteria cui si aggiunge in veste di ospite speciale il trombonista Massimo Morganti e un non meglio identificato N2B all’elettronica, probabilmente responsabile della ghost track a chiusura dell’album. Il quartetto si muove lungo direttrici certo non nuove ma percorse con sicurezza cementata da una profonda intesa, dato che il gruppo nasce come trio nel 2015 cui l’anno successivo si aggiunge Gaetano Santoro. Di qui il titolo dell’album che vuole significare la profonda importanza degli incontri e proprio “Meetings fanno notare i musicisti – rappresenta l’incontro fra sensibilità e vite diverse alla ricerca di un minimo comun denominatore che sia il trampolino per creare una musica davvero condivisa”. Ed è proprio grazie a questa intesa che il gruppo riesce a ben districarsi tra atmosfere bop ed un linguaggio che vuole essere più libero, più moderno. Risultato raggiunto appieno soprattutto quando il quartetto diventa quintetto con l’aggiunta di Morganti che si fa ascoltare nella suggestiva “Ballad for my Valentine”, in “Come una rima semplice” (con in bella evidenza anche il vibrafono di Edoardo Ponzi) e nel più movimentato “Broken blue” pezzi firmati i primi due da Marchetti e Ponzi, e il terzo da Gaetano Santoro. Quest’ultimo evidenzia un bel timbro ed una facilità di fraseggio specie quando si trova a dialogare con l’altro fiato. Precisa, mai invadente ma sempre propositiva la sezione ritmica. Insomma un gruppo da cui aspettiamo belle sorprese.

Ugo Moroni – “Pinturas” – Dodicilune 408
Registrato nel giugno del 2017 l’album presenta il chitarrista e compositore campano di adozione bolognese alla testa di una formazione piuttosto ampia (quattordici elementi) ad interpretare cinque brani di cui tre originals cui si affiancano “A Foggy Day” di George Gershwin e “Demon’s Dance” di Jack McLean eseguita in ottetto. Come sottolinea lo stesso Moroni, i titoli dei brani sono ripresi dalle opere di Francisco Goya mentre la copertina è stata realizzata da Korvo appositamente per questo lavoro. Devo confessare che ho dovuto ascoltare diverse volte l’album in oggetto per realizzare un’opinione compiuta. In effetti ai primi ascolti l’album scorreva bene, con la band ottimamente rodata e alcuni brani particolarmente gradevoli… ma c’era qualcosa che non girava a dovere; successivamente ho realizzato che i pezzi in cui a mio avviso la band si esprimeva meglio erano i due standard ben arrangiati e altrettanto ben eseguiti. Ciò significava, quindi, che erano le altre tre composizioni a non convincere pienamente. In altri termini se Moroni evidenzia una certa maturità sia come strumentista sia come band-leader, probabilmente deve ancora approfondire l’elemento compositivo. Certo nessuno si aspetta che i nostri musicisti sfornino capolavori alla Porter o alla Nelson (per citare due autori di cui ci occupiamo in questa stessa rubrica) ma delle composizioni ben strutturate, equilibrate e in cui parti scritte e improvvisazione si integrino senza sforzo almeno apparente, questo sì. Ecco in alcuni passaggi dei pezzi di Moroni mi è parso di percepire qualche forzatura, qualche sbavatura che sono sicuro saranno superati nei prossimi lavori. Un’ultima considerazione: come ho detto centinaia di volte, queste mie notazioni non hanno la pretesa di essere verità assolute, costituendo un punto di vista assolutamente personale.

NovoTono – “Overlays” – ParmaFrontiere 04
Conoscevo già i NovoTono per l’album “Wanderung” registrato nel 2007 in quartetto dai fratelli Ferrari con Federico Cumar al trombone e Luca Serrapiglio al sax soprano.
Adesso ritroviamo il combo che si identifica, però, solo con il duo costituito dai fratelli Ferrari, Adalberto (clarinetto basso, clarinetto, sax soprano, clarinetto contralto) e Andrea (clarinetto basso). L’album, registrato nell’aprile di questo 2018, contiene dodici tracce di cui ben undici originali firmate ora da uno ora dall’altro fratello, e una breve medley costituita da “Odwalla” e “Lonely Woman” scritti rispettivamente da Roscoe Mitchell e Ornette Coleman. Praticamente nudi dinnanzi alla musica, senza il supporto di strumenti armonici e ritmici, i due fratelli se la cavano egregiamente grazie ad un’empatia che si avverte, prepotente, sin dalle primissime note. Senza alcuno sforzo apparente, clarinetto e sassofono si accarezzano, si scontrano, si inseguono in un perfetto equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione; il dialogo è fitto, complesso, ma sempre coinvolgente e soprattutto mai banale; le personalità dei due musicisti sono diverse ma riescono ad integrarsi nel proporre una musica assolutamente personale. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: splendida la copertina opera di Cristina Crippa, regista e fotografa, che ha immortalato i due artisti in un luogo magico quale la Città Fantasma di Consonno, il borgo che nel 1976 vide naufragare a causa di una frana il tentativo del conte Bagno di costruire in Brianza una Las Vegas nostrana.

Enzo Pietropaoli Wire Trio – “Woodstock Reloaded” – Jando Music Via Veneto 123
E’ il 1969 e dal 15 al 18 agosto si svolge a Bethel, una piccola città rurale nello stato di New York, una manifestazione che sarebbe stata ricordata come la “tre giorni di pace e musica rock”: è il festival di Woodstock che richiama circa 400.000 giovani e a cui partecipano trentadue musicisti e gruppi, fra i più noti del tempo. Quanto sia stato importante questo evento lo dimostra il fatto che è rimasto indelebilmente scolpito nella mente e nel cuore di noi tutti che amiamo la musica. Ad ulteriore conferma ecco questo nuovo album del bassista Enzo Pietropaoli in trio con Enrico Zanisi al piano e tastiere e Alessandro Paternesi alla batteria. In programma otto brani tratti da Woodstock 1969 cui si aggiunge, in chiusura, un original dello Stesso Pietropaoli significativamente intitolato “Back Home”. Ecco quindi “Soul Sacrifice” di Carlo Santana, “With A Little Help From My Friends” magnificamente interpretato allora da Joe Cocker, “Seel Me Feel Me” che ci riporta ai Who… e via di questo passo in una sorta di immaginaria galleria in cui incontriamo Janis Joplin, Joan Baez, Creedence Clearwater Revival, Sly And The Family Stone, Jimi Hendrix… Ma, attenzione, non si tratta di una semplice ripresentazione di cover ché Pietropaoli è musicista troppo bravo ed esperto per cadere in simili banalità. Il progetto è completamente diverso e la stessa struttura dell’organico lo dimostra: Enzo vuole rileggere questi celebri brani alla stregua di un linguaggio più moderno che, nel rispetto assoluto delle valenze originarie, abbia comunque assorbito quanto in campo musicale è avvenuto nel corso di questi decenni. E il risultato è perfettamente raggiunto: i tre si muovono con grande disinvoltura ed empatia evidenziando come si possa fare grande jazz anche rifacendosi ad un repertorio che poco o nulla ha a che vedere con la musica afro-americana.

Sonia Spinello – “Café Society” – abeat 182
Una bella voce perfettamente intonata, giocata prevalentemente sul registro medio, eccellenti capacità interpretative, una spiccata personalità nel riproporre un repertorio assai impegnativo come quello scelto per questo album. La Spinello è andata, infatti, a ripescare alcune perle del songbook americano, brani incisi più e più volte da stelle di primaria grandezza con cui è difficile confrontarsi. Ma la vocalist non è certo tipo da impressionarsi come dimostra l’originale rilettura contenuta nel “Billie Holiday project” (abjz 545) e “Wonderland” (abjz 162), in cui va a rivisitare brani di Steve Wonder e Sting. E lo fa con tale originalità da meritare da parte di “critique award magazine” in Giappone il riconoscimento di miglior disco voce femminile dell’anno 2016. E forse ricorderete che anche il sottoscritto era rimasto particolarmente colpito dall’album tanto da aver votato la Spinello come miglior nuovo talento nell’annuale “Top Jazz” Ma torniamo a questo “Café Society” in cui Sonia è inserita in un quintetto completato da Fabio Buonarota alla tromba (con il quale aveva già collaborato in “Wonderland”), Lorenzo Cominoli alla chitarra, Attilio Zanchi al contrabbasso e Gianni Cazzola alla batteria, come a dire una delle migliori sezioni ritmiche che sia possibile ascoltare nel nostro Paese. Ben coadiuvata da cotanti compagni d’avventura, la Spinello sfodera una prestazione maiuscola; così proseguendo nella linea stilistica che la contraddistingue, la vocalist ancora una volta ha voluto rispettare le melodie originarie sì da farle vieppiù risaltare. E in questo senso particolarmente apprezzabile le interpretazioni di “Love for Sale” di Cole Porter e “Our Love Is Here to Stay” di George e Ira Gershwin impreziosito da una brillante intro di Attilio Zanchi.

Gerlando Gatto