I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto

Jazz ‘n Fall torna a Pescara con la nuova edizione in programma a novembre

Con la nuova stagione musicale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” torna, a novembre, la nuova edizione di Jazz ‘n Fall: un programma di grande livello che si aprirà martedì 9 novembre 2021 con Bruno Biriaco & Saxes Machine, prosegue con il duo formato da John Scofield e Dave Holland (mercoledì 10 novembre 2021) e si completa giovedì 11 novembre con “Yardbird Suite for Pianos”, concerto dedicato a Charlie Parker che vedrà protagonista il duo pianistico formato da Dado Moroni e Danny Grissett.

I concerti si terranno al Teatro Massimo di Pescara, con inizio alle ore 21. Il prezzo del biglietto di ingresso ai singoli concerti è di 25 euro.

Jazz ‘n Fall 2021 celebra il centenario della nascita di Charlie Parker, avvenuta nel 1920, con il sottotitolo della nuova edizione (“The Charlie Parker Centennial”, appunto) e traccia una sorta di filo rosso che, da una parte, rende omaggio al grande sassofonista e, dall’altra, vuole sottolineare ed evidenziare le numerose eredità delle sue innovazioni nella musica di oggi.

Charlie Parker è stato uno dei giganti della storia del jazz, un musicista capace, come pochi, di indirizzarne l’evoluzione. Ripercorrere la sua figura e la sua musica significa, in pratica, confrontarsi con le possibilità più radicate nel linguaggio del jazz e con le altrettanto possibili nuove direzioni da far prendere alla musica. Una visione lucida animata da inventiva, virtuosismo, carisma: Charlie Parker rappresenta una pietra angolare del percorso del jazz, un termine di paragone imprescindibile per ogni interprete.

John Scofield e Dave Holland sono le stelle dell’edizione 2021 di Jazz ‘n Fall con il loro nuovo incontro musicale, questa volta in duo: i due musicisti si esibiranno a Pescara, mercoledì 10 novembre 2021. Nelle loro rispettive carriere, il chitarrista statunitense e il contrabbassista britannico hanno cercato la sintesi tra evoluzioni personali e richiami alle tradizioni. Hanno dato vita a progetti seminali – tra i tantissimi, ad esempio, Gateway con Jack deJohnette e John Abercrombie oppure il quintetto di inizio millennio per quanto riguarda Holland; il quartetto con Joe Lovano, l’incontro con Martin Medeski & Wood e Uberjam per quanto riguarda Scofield – e vantano collaborazioni di spessore assoluto, da Miles Davis a Pat Metheny, passando per Kenny Barron, Anthony Braxton, Charles Mingus, Brad Mehldau, giusto per fare qualche nome. Soprattutto – nonostante due carriere lunghe, solide, variegate – resta immutata per entrambi l’intenzione di spingersi avanti in maniera creativa e di trovare nel dialogo e nell’interplay la strada per continuare a fare evolvere il jazz e a metterlo in relazione con altri mondi musicali. Il concerto straordinario tenuto qualche anno fa da Dave Holland – insieme a Zakir Hussain e Chris Potter – sul palco di Jazz ‘n Fall è una testimonianza del tutto evidente e fresca di questo atteggiamento.

Il giorno precedente, martedì 9 novembre 2021, la rassegna sarà aperta dai Saxes Machine di Bruno Biriaco. Cinque sassofoni più ritmica: questa la formula concepita da Bruno Biriaco alla fine degli anni settanta – subito dopo, quindi, l’esperienza vissuta dal batterista con il Perigeo – e che oggi rappresenta il terreno per l’incontro tra jazzisti italiani appartenenti a generazioni diverse. Il batterista porta, di conseguenza, sul palco una sintesi naturale tra diverse maniere di intendere il jazz e la musica di improvvisazione. L’organico dei Saxes Machine si pone a metà strada tra il piccolo combo e la big band e annovera i sassofoni di Gianni Oddi, Filiberto Palermini, Alessandro Tomei, Massimo Filosi e Marco Guidolotti, insieme alla ritmica formata da Ettore Carucci al pianoforte, Massimo Moriconi al basso e dallo stesso Biriaco alla batteria. Sin dagli anni settanta, Bruno Biriaco ha collaborato con i musicisti statunitensi e con i più rappresentativi alfieri del jazz italiano come, tra gli altri, Gianni Basso, Nunzio Rotondo, Frank Rosolino, Chet Baker, Johnny Griffin, Slide Hampton e George Coleman. Insieme a Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli e Tony Sidney, è stato protagonista del Perigeo, una esperienza tra le più importanti del jazz e, in generale, della musica italiana: formazione con cui ha registrato sei dischi e si è imposto all’attenzione del pubblico internazionale. Oltre alle esperienze jazzistiche, Bruno Biriaco collabora sin dagli anni Ottanta con la RAI, per la quale ha curato le musiche di scena e le colonne sonore di tantissimi programmi.

L’omaggio al genio di Charlie Parker si manifesta in modo esplicito nel programma di Jazz ‘n Fall con il concerto di Dado Moroni e Danny Grissett, in programma giovedì 11 novembre 2021. Il titolo scelto per il loro duo, “Yardbird Suite for Pianos”, spiega in maniera chiara ed esplicita l’idea alla base del loro incontro. Un dialogo senza confini, l’improvvisazione legata in maniera solida e fertile alle tradizioni del jazz, i temi composti o resi celebri da Charlie Parker come filo narrativo. Due pianisti di grande esperienza, legati da una lunga amicizia e da una visione musicale per molti versi simile, due maniere di utilizzare il pianoforte e i linguaggi del jazz per raccontare emozioni e per trasmettere l’energia dello swing. Danny Grissett è uno statunitense che ha scelto di vivere in Europa, Dado Moroni è un europeo che ha vissuto per lungo tempo negli Stati Uniti… un incrocio che chiarisce meglio di tanti altri aspetti la voglia e l’intenzione di entrambi i protagonisti del duo di intrecciare l’omaggio al grande sassofonista con un continuo scambio di idee musicali e con la voglia di esplorare ogni singola sfaccettatura del suono del pianoforte.

Il cartellone musicale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” presenta inoltre un altro appuntamento con il jazz: venerdì 18 febbraio 2022, sul palcoscenico del Teatro Massimo sarà di scena il trio guidato dal chitarrista belga Philip Catherine e formato anche dal chitarrista Paulo Morello e dal bassista Sven Faller.

Roberto Gatto presenta la masterclass online “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming” nell’ambito di Celano Jazz Convention

Sabato 8 maggio 2021, dalle ore 16 alle 19, Celano Jazz Convention presenta “Stili ed Evoluzioni del Jazz Drumming”, una masterclass online condotta da Roberto Gatto: nel corso dell’incontro, il grande batterista romano ripercorrerà la storia della batteria e, in generale, delle soluzioni ritmiche che hanno caratterizzato il jazz, fino ad arrivare alle esperienze dei più importanti batteristi di oggi.

La masterclass si svolgerà sulla piattaforma Zoom: la partecipazione costa 20€ e per iscriversi occorre prenotarsi con una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com con oggetto, obbligatorio, ”Prenotazione Seminario” e utilizzando un indirizzo mail valido, al quale poi sarà inviato il link di partecipazione al seminario.

Roberto Gatto è sicuramente il più rinomato batterista Italiano all’estero e vanta importanti partnerships con artisti del mondo del jazz e non solo. Nato a Roma il 6 ottobre 1958, il suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli) e da allora ha suonato in tutta Europa e nel mondo con i suoi gruppi e a fianco di artisti internazionali. Oltre ad una ricerca timbrica raffinata e a una tecnica esecutiva perfetta, i gruppi a suo nome sono caratterizzati dal calore tipico della cultura Mediterranea: questo rende senza dubbio Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel mondo.

Nella sua carriera musicale, Roberto Gatto ha collaborato come sideman con i più importanti interpreti della storia e dell’attualità del jazz internazionale: da Chet Baker a Freddie Hubbard e Lester Bowie, da Gato Barbieri a Kenny Wheeler e Randy Brecker e poi con Enrico Rava, Ivan Lins, Vince Mendoza, Kurt Rosenwinkel, Joey Calderazzo, Bob Berg, Steve Lacy, Johnny Griffin, George Coleman, Dave Liebman, Phil Woods, James Moody, Steve Grossman, Lee Konitz, Barney Wilen, Ronnie Cuber, Sal Nastico, Michael Brecker, Jed Levy, George Garzone, Tony Scott, Paul Jeffrey, Bill Smith, Joe Lovano, Curtis Fuller, Kay Winding, Albert Mangeldorff, Cedar Walton, Tommy Flanagan, Kenny Kirkland, Stefano Bollani, Mal Waldron, Ben Sidran, Enrico Pieranunzi, Dave Kikosky, Franco D’Andrea, John Scofield, John Abercrombie, Billy Cobham, Bobby Hutcherson, Didier Lockwood, Richard Galliano, Christian Escoude, Joe Zawinul, Bireli Lagrene, Palle Danielsonn, Scott Colley, Eddie Gomez, Giovanni Tommaso, Paolo Damiani, Emmanuel Bex, Pat Metheny, Adam Rogers, Rita Marcotulli, Niels Henning Pedersen, Mark Turner, Lew Tabackin, Chris Potter, Mike Moreno, Dado Moroni.

Come leader ha registrato molti album: Notes, Fare, Luna, Jungle Three, Improvvisi, Sing Sing Sing, Roberto Gatto plays Rugantino, Deep, Traps, Gatto-Stefano Bollani Gershwin and more, A Tribute to Miles Davis Quintet, Omaggio al Progressive, The Music Next Door, Roberto Gatto Lysergic Band, Remebering Shelly, fino ai più recenti Sixth Sense e Now.

Nel corso degli anni ha composto musica per il cinema, in particolare insieme a Maurizio Giammarco la colonna sonora di “Nudo di donna” per la regia di Nino Manfredi, e, in collaborazione con Battista Lena, le colonne sonore di “Mignon e Partita”, che ha ottenuto cinque David di Donatello, “Verso Sera” e “Il grande cocomero”, tutti diretti da Francesca Archibugi.

Nel 1983, è stato eletto il primo batterista Italiano dal sondaggio della rivista mensile Fare Musica. Nel 1983 e nel 1987 con il gruppo Lingomania ha vinto il referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz nella categoria miglior gruppo. Nel 1988, 1989, 1990 è stato al primo posto della categoria batteristi dei “vostri preferiti” di Guitar Club. Nel 2007, 2009 e 2010 è stato votato come il miglior batterista dal referendum Top Jazz della rivista Musica Jazz.

Nel 1993, ha realizzato due video didattici “Batteria vol. 1 e 2”. È stato il direttore artistico di Jazz in progress presso il Teatro dell’Angelo a Roma. Per oltre dodici anni ha insegnato batteria e musica d’insieme presso i seminari di Siena Jazz. Ha frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e il Conservatorio de L’Aquila.

Nel 1997, il direttore Laurent Cugny della francese Orchestre National de Jazz lo chiama per un tour in Francia ed alcune date in Italia. Ultimamente si dedica all’attività solistica e suona spesso con la formazione del trombettista Enrico Rava.

Roberto Gatto è titolare della cattedra di batteria jazz al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.

Il percorso didattico online di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, prosegue nelle prossime settimane con i seminari condotti da alcuni tra i musicisti più importanti del panorama jazzistico italiano. Dopo gli appuntamenti dedicati alla voce (condotto da Ada Montellanico, sabato 24 aprile) e alla batteria (questo con Roberto Gatto, in programma sabato 8 maggio), i prossimi incontri sarano tenuti dal pianista Claudio Filippini (sabato 15 maggio), dal chitarrista Umberto Fiorentino (sabato 22 maggio) e dal sassofonista Tino Tracanna (sabato 29 maggio).

Riflettori su Mafalda Minnozzi e Francesco Di Giulio e i loro nuovi progetti

In attesa di pubblicare la solitamente corposa rubrica su “I nostri CD”, cosa che avverrà nei primi di settembre, vorrei sottoporre alla vostra attenzione due artisti che ritengo particolarmente interessanti: una, Mafalda Minnozzi, continua a proporre in giro per il mondo la musica italiana… e non solo, l’altro, Francesco Di Giulio, è un giovane artista abruzzese che meriterebbe ben altra considerazione.

Ma procediamo con ordine. Anticipato esclusivamente dalla pubblicazione di due singoli estratti dall’album – “A felicidade” (24 giugno) e “Once I Loved”D (9 luglio) – e da 8 concerti “première” realizzati a novembre con il quintetto americano, di cui 6 in Italia e 2 al Birdland di NYC (sold-out), il 20 luglio scorso è stato lanciato l’ultimo album di Mafalda Minnozzi, “Sensorial- Portraits in Bossa & Jazz”, distribuito su tutte le piattaforme digitali. Contemporaneamente è stata data la possibilità non solo di ascoltare i brani sulle piattaforme ma anche di vederli sul canale YouTube di Mafalda (disponibili 13 video realizzati durante la registrazione in studio a NY, uno per ogni brano) e di approfondirli con il podcast, per entrare nello spirito dell’artista. Al momento l’approfondimento con i podcast riguarda solo tre brani ma è intenzione dell’artista dedicare ad ogni pezzo la stessa attenzione. Insomma un’azione promozionale a tutto campo che ben si attaglia ad un album che presenta numerosi punti di forza.
Innanzitutto la ‘ricchezza’ dell’organico. A conferma della statura di artista internazionale, per quest’ultima impresa la Minnozzi è riuscita a raccogliere accanto a sé una pletora di musicisti di assoluto rilievo: al contrabbasso si alternano Harvie Swartz (classe 1948) a ben ragione considerato il bassista dei chitarristi avendo inciso tra gli altri con  John Scofield, Mick Goodrick, John Abercrombie, Gene Bertoncini, Mike Stern, Jim Hall, Leni Stern, e Essiet Okon Essiet già con Benny Golson, Johnny Griffin,  Cedar Walton; alla batteria Victor Jones, personaggio di assoluto rilievo nel panorama jazzistico internazionale come dimostrano gli oltre cento dischi cui ha partecipato sia come leader sia come sideman; alle percussioni Rogerio Boccato che può vantare collaborazioni con Maria Schneider, John Patitucci, Danilo Perez; al  pianoforte Art Hirahara già leader in trio e in quartetto con Linda Oh e Donny McCaslin; Will Calhoun  vincitore di decine di premi tra cui il ‘Buddy Rich Jazz Masters Award for outstanding performance by a drummer’ all’Udu nigeriano e shaker nel brano n. 7 (“Samba da Benção”) …e naturalmente quel Paul Ricci, alle chitarre sulle cui eccelse qualità mi sono già soffermato diverse volte su questi stessi spazi.
Secondo punto di forza, la bellezza del repertorio. In cartellone ben sette composizioni di Antonio Carlos Jobim tra cui le notissime “A Felicidade” che apre l’album, “Dindi”, “Desafinado” e “Triste”, mentre gli altri sei pezzi completano un magnifico affresco dei maggiori compositori brasiliani chiamando in causa Baden Powell (“Samba da Benção”), Chico Buarque (“Morro Dois Irmãos”), Toninho Horta (“Mocidade”), Filó Machado (“Jogral”), Alcyvando Luz e Carlos Coqueijo (“É Preciso Perdoar”).
In terzo luogo, ma non certo in ordine d’importanza, l’eccellente livello delle esecuzioni che come sottolinea lo stesso titolo dell’album non si limita ad una mera riproposizione della bossa-nova ma introduce ben individuabili elementi jazzistici nelle celebri melodie brasiliane (si ascolti a mo’ di esempio con quanta pertinenza le note del coltraniano “Lonnie’s Lament” vengano utilizzate per introdurre “É Preciso Perdoar”).

Il risultato è affascinante. La Minnozzi si conferma interprete sensibile, sorretta da una tecnica vocale di rilievo che le consente di ascendere senza difficoltà alcuna alle  note più alte, brava anche nello scat (la si ascolti in “Mocidade”) e cosa non proprio comune perfettamente in grado di esprimersi sia in perfetto portoghese sia in perfetto inglese; la sua voce, a tratti lievemente nasale, si staglia stentorea sul meraviglioso tappeto armonico-ritmico disegnato dai compagni di viaggio, sulla scorta di pregevoli arrangiamenti cui non è di certo estranea la mano di Paul Ricci. E di rilievo il modo in cui riesce a colloquiare con i compagni di viaggio: certo l’intesa con Paul Ricci è cementata da anni di fruttuosa collaborazione ma con gli altri no. Eppure l’intesa è perfetta: si ascolti come riesce a interloquire con le improvvisazioni di Hirahara in “Vivo Sonhando” (Jobim).
E le perle offerte dalla vocalist si succedono senza soluzione di continuità fino al conclusivo “Dindi” di Jobim impreziosito da un ispirato arrangiamento, di sapore blues.
Insomma un album di assoluto spessore, forse il migliore nella già prestigiosa carriera della Minnozzi.

Si ringrazia Chris Drukker per la photogallery di Mafalda Minnozi

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Trombonista abruzzese, classe 1983, Francesco Di Giulio è sulle scene jazzistiche oramai da parecchi anni.
Dopo la maturità scientifica conseguita nel 2002, si dedica interamente alla musica, al jazz. Così nel 2007 ottiene una borsa di studio presso i seminari estivi di Siena Jazz e successivamente partecipa ad un International Jazz Master a Siena. Nel 2009 ottiene il Diploma Accademico di primo livello in Jazz, Musiche improvvisate e Musiche del nostro tempo (Triennio Superiore Sperimentale di I livello) presso il Conservatorio di Musica “G. B. Martini” di Bologna. L’anno successivo vince una borsa di studio presso la New Bulgarian University in cui ha l’occasione di studiare, tra gli altri, con Glenn Ferris. L’attività professionale vera e propria inizia già nei primissimi anni 2000 e negli ultimi dieci anni si è notevolmente intensificata con la partecipazione, tra l’altro, a numerosi gruppi e orchestre sia come I trombone, sia come side-man, sia come compositore.
Per conoscerlo meglio ecco tre album, registrati in periodi diversi.
Cuneman – “Tension and Relief” UR Records è il secondo capitolo del progetto musicale Cuneman che in questa occasione cambia radicalmente pelle: non più il quartetto composto da sax, tromba, contrabbasso e batteria del primo disco del 2018 ma una formazione allargata a sei, con l’aggiunta del trombone suonato proprio da Francesco Di Giulio e del susafono nelle sapienti mani di Mauro Ottolini. Il risultato è eccellente in quanto il gruppo conserva le sue caratteristiche migliori, vale a dire una sapiente ricerca sulle armonie senza scivolare nel banale, con una giusta considerazione del passato ma con più di un occhio rivolto al free jazz. In quest’ambito particolarmente positivo l’inserimento di Di Giulio che riesce a ben dialogare con i compagni di viaggio (si ascolti il suo assolo in “Schifano”). Il gruppo sarà impegnato il prossimo 18 agosto alla Civitella di Chieti.

Completamente diverso il secondo album, “Mo’ Better Band” – “Li vuoi quei kiwi?”
La Mo’ Better Band nasce nel 2003 da un’idea di Fabrizio Leonetti, fondatore e sassofonista del gruppo: l’obiettivo era fondere la versatilità e l’organico tipici della classica banda italiana, con l’energia di un repertorio principalmente funky con “ammiccamenti” al jazz. Il tutto portato per le strade, in mezzo alla gente, per farla ascoltare anche a chi non è un appassionato di jazz.  Il nome della band proviene da ‘Mo’ Better Blues’, il brano eseguito, nell’omonimo film di Spike Lee del 1990, dal Brandford Marsalis Quartet. Di Giulio entra nella band nel 2007 nella duplice veste di strumentista e compositore ed in questo album firma il brano d’apertura (“Jam”) e quello di chiusura (“Soul In Da Hole”) a conferma di un apporto tutt’altro che marginale, come evidenziato anche dal convincente assolo nella title track.
Determinante è invece il ruolo di Di Giulio nel terzo album, “Re-Birth of The Cool” il cui contenuto musicale è già chiaramente espresso nel titolo. Si tratta, infatti, della rilettura dello storico album di Miles Davis pubblicato nel 1957 dalla Capitol Records che raccoglie le registrazioni effettuate tra il 1949 e il 1950 dal “nonetto”, capitanato da Miles Davis con gli arrangiamenti di Gil Evans. Come sottolineato dall’amico e collega Fabio Ciminiera “sulla scorta delle trascrizioni del trombonista Francesco Di Giulio e della sua conduzione e, va da sé, sulla scia delle registrazioni originali è stato costituito un nonetto fedele all’originale, con l’incontro tra musicisti jazz e classici e con alcuni dei solisti emergenti della scena abruzzese-marchigiana”. Confrontarsi con un’impresa del genere non era certo impresa facile e il trombonista-leader in questa occasione ne è uscito più che bene; sotto la sua conduzione il gruppo ha evidenziato un buon affiatamento generale e i musicisti hanno avuto modo di esplicitare appieno le proprie potenzialità data la scelta, effettuata allo stesso Di Giulio, di dare maggiore spazio agli assolo mantenendo inalterate per il resto le strutture architettate all’epoca. Ulteriore elemento che rende particolarmente riuscito l’album, il fatto che è stato registrato dal vivo il 21 giugno del 2012 durante un concerto alla Villa Comunale di Roseto degli Abruzzi.

Gerlando Gatto

Jazz ‘n Fall 2019. A Pescara, la musica di Dave Holland, Chris Potter, Zakir Hussain, Kenny Barron, Linda May Han Oh e Daniele Cordisco

La Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” presenta, a novembre, la nuova edizione di Jazz ‘n Fall: un programma di grande livello che si aprirà martedì 5 novembre con il Cross Currents Trio, formato da Dave Holland, Chris Potter e Zakir Hussain, proseguirà mercoledì 6 novembre con il Linda May Han Oh Quintet e si concluderà lunedì 11 novembre con il concerto in piano solo di Kenny Barron e il Daniele Cordisco Organ Trio.

I concerti si terranno al Teatro Massimo di Pescara, con inizio alle ore 21. Il prezzo del biglietto di ingresso ai singoli concerti è di 20 euro.

Anche nell’edizione 2019, Jazz ‘n Fall rinnova il senso dato a questa nuova stagione della rassegna, un ponte, cioè, tra quanto prodotto da musicisti esperti, stimati e diventati grazie alle incisioni e alle esperienze dei veri e propri capiscuola, e i talenti delle nuove generazioni. Una staffetta tra generazioni e stili espressivi, tra intenzioni, riferimenti e provenienze geografiche. Raccogliere – e sviluppare secondo coordinate diverse – l’idea di una musica capace di sfuggire alle definizioni più stringenti per ritrovare le radici comuni nella condivisione e nell’improvvisazione: un approccio creativo e libero da troppi schemi precostituiti per dialogare con il mondo e raccontarne l’attualità.

“New Bottle, Old Wine” è il motto scelto dal Direttore Artistico Lucio Fumo alla ripartenza di Jazz ‘n Fall: è un modo per sottolineare proprio questo significato intimo. Ed è il senso del percorso che prende le mosse dal Cross Currents Trio – progetto che unisce tre personalità importanti come Dave Holland, Zakir Hussain e Chris Potter – e arriva al nuovo lavoro della contrabbassista Linda May Han Oh, passando attraverso esperienze più vicine alle tradizioni del jazz come il piano solo di un Maestro di questo formato quale è Kenny Barron e il fluido organ trio di Daniele Cordisco.

Dave Holland è un caposcuola indiscusso del jazz degli ultimi decenni. Se, giovanissimo, fu tra i protagonisti della svolta elettrica di Miles Davis, ha sempre cercato nuove strade e soluzioni espressive: il trio Gateway, con Jack DeJohnette e John Abercrombie, e il suo splendido quintetto di inizio secolo sono solo due tra le tante testimonianze di un percorso sempre attento nel combinare suggestioni diverse, sotto l’aspetto timbrico, melodico e armonico. Questo nuovo progetto collettivo coinvolge musicisti di spessore assoluto come Chris Potter ai sassofoni e Zakir Hussain alle tabla: Good Hope è il titolo del disco che hanno appena pubblicato e che stabilisce, ancora una volta, come la musica – e, in particolare, il jazz – sia un veicolo naturale di integrazione, costruita con rispetto e maestria da tre artisti versatili ma dalla forte personalità espressiva.

Kenny Barron è tra i pianisti jazz più importanti del panorama attuale. Un vero e proprio maestro nel condurre lo strumento attraverso la sua storia e la sua letteratura in percorsi che tengano conto delle tradizioni senza rimanerne prigionieri. La sua musica sgorga dal pianoforte rispettosa della lezione dei grandi del passato e, allo stesso tempo, fresca e creativa. Il piano solo diventa una maniera ulteriore per affrontare l’essenza più intima di questo discorso: le mani sapienti di Kenny Barron è il modo più diretto per innescare un processo naturale e sempre capace di raccontare come il jazz sia una musica in grado rinnovarsi prendendo le mosse dalle sue radici e dalle sua stessa storia.

La figura artistica di Linda May Han Oh racconta molto bene il percorso jazzistico delle nuove generazioni. Una sintesi tra riferimenti provenienti da contesti diversi e continuamente rimessi in gioco. È quanto emerge dai suoi lavori più recenti – Walk against the wind del 2017 e Aventurine, pubblicato quest’anno – e lo rivela la sua presenza al fianco di musicisti del livello di Pat Metheny e Dave Douglas, tanto per citarne un paio. La musica della contrabbassista è solida e senza compromessi, raccoglie il testimone dalle vicende più recenti del jazz per offrire una sintesi personale e un contributo personale alla scena musicale odierna. Una musica densa, animata da melodie frastagliate e strutture composite ma sempre controllate e ben dirette. Un ambiente sonoro tutto sommato acustico senza rinunciare alle manipolazioni sonore. Una sintesi articolata per confrontarsi con il mondo sempre più sfaccettato di oggi.

Organ trio venato di blues, suonato con trasporto e condotto con grande rispetto per la tradizione: questa la ricetta di Daniele Cordisco, chitarrista dal percorso solido e già maturo, capace di far notare le sue qualità sin da giovanissimo con collaborazioni di sicuro livello e la vittoria nel Premio Internazionale Massimo Urbani. La musica del trio si muove tra standard, brani del songbook statunitense e temi originali con accento scanzonato e ironico, una dose equilibrata di virtuosismo e groove, un tocco romantico e il suono sempre seducente dell’organ trio. Con il chitarrista, suonano anche Pat Bianchi, grande inteprete statunitense dell’organo Hammond, e il batterista Giovanni Campanella.

Double Cut al TrentinoInJazz 2019

Venerdì 28 giugno
ore 21.30
Cortile di Palazzo Libera
Villa Lagarina (TN)

TINO TRACANNA DOUBLE CUT

Ingresso 10 Euro

Secondo appuntamento per il Lagarina Jazz, una delle sezioni “storiche” del TrentinoInJazz, venerdì 28 giugno a Villa Lagarina: uno dei concerti più attesi dell’intero programma della rassegna, quello dei Double Cut di Tino Tracanna, venerdì 28 giugno. E’ un graditissimo ritorno al TrentinoInJazz, dopo la loro partecipazione nel 2017, per Tino Tracanna (sax tenore e soprano, melodica), Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano), Giulio Corini (contrabbasso) e Filippo Sala (batteria).

Double Cut, doppio taglio, si riferisce alla presenza nel quartetto di due sax tenori, che all’occorrenza diventano soprani. Un raddoppio delle prospettive, dei punti di vista, che nella musica di Tino Tracanna acquista un particolare senso di moltiplicazione, di intreccio in cui il contrasto e l’empatia ricevono uguale attenzione. Ma il doppio taglio può anche essere riferito alla presenza, all’incontro di due generazioni, che la regia di Tracanna mette in grado di esprimersi in modo multiforme e sfaccettato. Le parole dello stesso leader sono illuminanti: “Due segni non delimitano uno spazio ma ne moltiplicano il senso, generando infiniti rimandi e collegamenti. Così è la musica oggi, carica di un immenso passato con la necessità immediata di coniugarne la complessità o riscoprirne la perduta semplicità”.

Il quartetto ha due cd all’attivo: Mappe, pubblicato da Parco della Musica Records, è uno dei lavori più importanti del 2018. La rilevanza di Tracanna nella scena italiana è evidente: lo troviamo già giovanissimo nei gruppi di Franco D’Andrea e da più di trent’anni è componente dello storico quintetto di Paolo Fresu. I suoi lavori personali si collocano tra le cose più significative del jazz contemporaneo in Italia. Massimiliano Milesi è stato allievo di Tracanna e ne ha declinato con nuova linfa il rigore, la capacità di sviluppare un discorso musicale coerente. Giulio Corini è tra i più apprezzati esponenti della nuova scena nazionale ed ha collaborato tra l’altro con Enrico Rava, John Abercrombie, Ralph Alessi. Filippo Sala ha suonato con diversi solisti internazionali, tra cui Ralph Alessi, Sabir Mateen e Giovanni Falzone.

Prossimo appuntamento: sabato 29 giugno Stefano Colpi Atrio a Ala (TN).