Ignasi Terraza: l’unica cosa che conta è suonare

Altro colpo grosso del nostro collaboratore Daniele Mele. Questa volta sul divano del suo immaginifico salotto rosso è seduto un artista spagnolo di assoluto livello, Ignasi Terraza. Nato a Barcellona il 14 luglio del 1962, cieco dall’età di dieci anni, ha cominciato a frequentare il mondo musicale sin da piccolo dedicandosi prima alla musica classica, poi al jazz. In veste di jazzista si è distinto sia come accompagnatore di alcune vocalist di classe sia come leader di trii e quartetti sia come elemento imprescindibile della Barcelona Jazz Orchestra.
Oltre ad essere un eccellente musicista, Ignasi è considerato un didatta tra i migliori del suo Paese insegnando oramai dal 2003 presso la Escola Superior de Música de Catalunya.
Molti i riconoscimenti prestigiosi tra cui il “best new group” award assegnatogli nel 1991 al Festival Internacional de Jazz de Guetxo come cooleader del Mitchell-Terraza Quartet guidato dal 1990 al 1993, assieme al chitarrista statunitense David Mitchell,
Da segnalare, infine, la vittoria di Terraza del 2009 alla Jacksonville Jazz Piano Competition.
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-Per te, Ignasi, il punto di partenza è stato la musica classica. Quanto la ritieni importante per la formazione di un musicista? E poi, come sei passato al Jazz?
“Ho iniziato come se fosse un gioco, imparando “Happy Birthday” e muovendo i primi passi sul pianoforte di mia nonna. I miei parenti mi hanno iscritto al Conservatorio, dove ho fatto il mio percorso di 8 anni in pianoforte classico, ma parallelamente ascoltavo anche musica Pop, e dopo alcuni anni mi sono avvicinato al Jazz. La musica classica mi ha dato la tecnica che si richiede per suonare a certi livelli, ma non direi che se prima non studi musica classica poi non puoi suonare Jazz, e ho esempi di tanti musicisti. Quello è stato il mio percorso, ma non è “obbligatorio”. Io direi che è importante capire cosa fai, cercare di capire a fondo la musica e non solo imparare a suonare meccanicamente”.

 -Tuttavia non sei l’unico pianista che dice che la musica classica è importante, quasi tutti sono d’accordo che è importante conoscerla.
“Sì, è vero”.

-Quindi ti piaceva anche la musica Pop. Internazionale? Tradizionale?
“Beh ero attratto dal Rock sinfonico: Genesis, Emerson Lake e Palmer… quelli erano i miei ascolti. Avevo 14 anni”.

-Essendo più giovane allora, credo fosse il giusto tipo di musica da ascoltare a quell’età.
“A quindici-sedici anni ero già orientato verso il Jazz”.

-E’ iniziato come un gioco, ma a che età hai pensato “potrebbe diventare il mio lavoro”?
“Bella domanda. Non so, mio padre ha sempre detto: “Ok puoi fare musica, ma cercati un lavoro serio” (ridono) Ho così preso una laurea in Computer Engineering, e ho lavorato come ingegnere per 5 anni. Dividevo il tempo tra le due cose, ma sentivo che volevo dedicare più tempo alla musica, volevo provare a vedere cosa sarebbe successo se avessi dedicato tutto il giorno alla musica. Da là non sono più tornato indietro. Tornando alla domanda: quando ho deciso esattamente? E’ successo negli anni, suonavo, partecipavo alle serate. Tete Montoliu, uno dei più grandi pianisti europei, era anche lui cieco e di Barcellona. Lui mi trasmetteva l’idea che quello potesse essere un lavoro serio, che ci si può provare almeno”.

-Ti ha detto questo?
“No no, lui non mi ha mai detto niente del genere”.

– Era, come si diceva, la prova vivente che si potesse fare.
“Esatto!”.

– E l’essere cieco ti ha mai creato ostacoli? Magari nel suonare con altri o davanti ad un pubblico?
“La grande limitazione è che non puoi leggere gli spartiti. E, professionalmente parlando, questo è un problema… si deve trascrivere tramite Braille prima, poi devi memorizzarlo, e tutto ciò crea un lasso di tempo molto lungo prima che tu possa suonare. Nel Jazz, anche se c’è la musica scritta, si lavora soprattutto ad orecchio. Forse è questo che mi ha fatto sentire più a mio agio con il Jazz”.

– Parliamo della tua attività come insegnante alla ESMUC, Escola Superior de Música de Catalunya. Quando hai iniziato? Com’è strutturata la lezione-tipo con Ignasi Terraza?
“Ho iniziato a dare lezioni ai tempi delle prime serate come musicista, pochi studenti privati ogni anno. Quando l’ESMUC aprì nel 2000 io ho presentato la domanda e da allora sto insegnando lì. Certe volte mi fa strano pensare che un autodidatta del Jazz possa insegnare in un Conservatorio. Durante le lezioni ascolto i ragazzi, prima di tutto, così posso capire il loro livello. Riescono a leggere molto bene e suonare passaggi tecnici molto complicati, studiano contemporaneamente classica e Jazz… ma non riescono ad improvvisare una nota. Allora io provo a dar loro questo approccio all’improvvisazione”.

– Qual è il concetto più importante che vuoi imparino da te?
“Dipende dallo studente. Al pianista classico insegno come approcciare la musica senza leggere, e come improvvisare in qualsiasi linguaggio… non solo Jazz. Quando sono già orientati verso l’improvvisazione voglio approfondire il linguaggio. E poi li incoraggio a controllare il ritmo, che è la chiave per esprimere l’improvvisazione. A volte c’è troppa attenzione sulle note, ma spesso non è importante quale nota suoni, se è suonata con un certo ritmo. E la storia del Jazz ci insegna che è importante il suono, una delle chiavi di lettura della personalità del musicista”.

– Credo che tu riesca a comunicare il tuo suono personale, negli album tuoi che ho sentito. Si sente che ami e rispetti la tradizione del Jazz, la storia e quel tipo di dialettica, ma sento anche il “suono di Ignasi Terraza”.
“Il suono personale si raggiunge dopo anni. Credo Armstrong abbia detto che sia come un “cocktail”: ognuno di noi è un bicchiere da cocktail in cui mettiamo un po’ di questo e un po’ di quell’altro. Quando sei innamorato della musica di Hank Jones, di Oscar Peterson, di Kenny Barron, senti i loro album tutto il tempo e cerchi di imitarli. Non necessariamente le note, ma il modo in cui suonano.  Così impari seguendo la direzione che Kenny Barron, per esempio, ha già segnato. Con alcuni musicisti capita di capire di chi si tratta ascoltando una sola nota. “Ecco è lui, quel tipo”. Con altri non riesco ad avere questa sensazion”e.

-Volevo chiederti del tuo album Unusual Trio, ma stamattina ho scoperto del nuovo lavoro che uscirà a breve con la cantante Pebla Niebla. Ci vuoi parlare un po’ di entrambi?
“Nell’ultimo anno son passato da lavori con cantante a lavori con altri strumentisti. Nei miei album c’è questa alternanza, il pianoforte come protagonista oppure come strumento accompagnatore sullo sfondo. Unusual Trio è un progetto che ho avuto in mente per anni, ma non ho mai trovato il momento e i musicisti per farlo. Poi durante la pandemia ho incontrato Adrian Cunningham, sassofonista, clarinettista e flautista. Ci siamo incontrati e sentiti subito a nostro agio l’uno con l’altro. Suona molto Jazz tradizionale ma anche contemporaneo, ha tutto il background classico ed è un musicista molto completo. La formazione si ispira al Benny Goodman Trio con Teddy Wilson, ma anche a Jelly Roll Morton con i suoi “bassless trio”, e a Nat King Cole senza basso. Pensavo “mi piace, ma vorrei suonare anche hard-bop o bossa nova brasiliana, mischiando le cose che di solito faccio nei miei concerti”. Perciò è stato difficile trovare un clarinettista che potesse fare tutto, e quando ho incontrato Cunningham ho pensato “ok, lui fa per me” perché è molto versatile. E’ stato sfidante, suonare il trio senza basso significa che devi essere molto sul tempo, devi essere lì presente”.

-Il batterista è Esteve Pi. Suonate molto assieme.

“Suono con Esteve dal 2008, mi sembra. O forse anche prima”.

– E cosa ci dici dell’altro album, En La Orilla Del Mundo? Non conoscevo Pepa Niebla, è davvero incredibile. Ho visto anche un video in cui canta con Andrea (Motis).
“Sì, quello è il video del nostro primo incontro. Stavamo suonando in un festival, lei ha cantato nella prima parte e noi nella seconda. E poi l’abbiamo invitata a cantare un paio di canzoni con noi. Quando abbiamo finito abbiamo detto “dobbiamo assolutamente fare qualcosa assieme”, e abbiamo iniziato a collaborare”.

-L’ho anche sentita fare scat, molto brava.
“Sì è anche una brava scatter. Ha un buona voce con un buon timbro e capacità espressiva. All’inizio lei mi disse che aveva solo registrato musica Jazz in Inglese, e mi ha detto che voleva fare qualcosa in spagnolo. Ecco perché alcune melodie dell’album sono in spagnolo”.

– Non vedo l’ora di ascoltarvi. Penso che ci stiamo avvicinando alla fine dell’intervista… c’è qualcosa che vuoi aggiungere? Magari un suggerimento per i giovani musicisti?
“Mmm… Beh, possiamo parlare molto del Jazz, ma alla fine l’unica cosa da fare è ascoltare. E’ tutto nelle registrazioni. Non perché sia sbagliato parlarne, ma alla fine l’unica cosa che conta è suonare. Potete leggere quest’intervista, ma dopo andate a sentire qualcosa”.

– E’ uno splendido messaggio per i lettori. Grazie per il tuo tempo Ignasi.
“Grazie a te”.

Daniele Mele

Kenny Barron: a colloquio con l’enciclopedia del jazz

È con vero piacere che “A proposito di jazz” accoglie tra i suoi collaboratori un giovane musicista appena laureato con 110 e lode al Conservatorio di Latina. Il suo nome: Daniele Mele. Daniele, classe ’97, inizia a studiare pianoforte all’età di 13 anni. Dopo una doverosa formazione classica con il M. Ilaria Liberati intraprende gli studi Jazz presso il Conservatorio “O. Respighi” di Latina sotto la guida del M. Andrea Beneventano, dove, come si diceva si diploma con lode. Approfondisce gli studi con Andrea Rea, Roberto Bottalico, Ignasi Terraza, Kevin Harris, e si forma seguendo masterclass di Jazz e di musica classica in tutta Italia (Berklee, Siena Jazz, Arcevia Jazz, etc.).
L’inizio di questa collaborazione con il nostro blog è di quelli che lasciano il segno: si tratta, infatti, di una approfondita intervista con Kenny Barron, pianista e compositore tra i più importanti ancora sulla scena.
Nato a Filadelfia, il 9 giugno 1943, Kenny si esibisce da quando aveva quindici anni e in tutto questo arco di tempo ha saputo sviluppare uno stile personale che lo colloca tra i grandi della tastiera di tutti i tempi: ancora oggi le sue registrazioni con Stan Getz nulla hanno perso dell’originario fascino così come quelle del gruppo Sphere di cui  nel 1980 fu uno dei fondatori, con Charlie Rouse (sax), Buster Williams (basso) e Ben Riley (batteria).
E, alla grandezza dell’artista, si è sempre accompagnata una statura umana di straordinaria dolcezza: chi scrive queste note ha avuto l’opportunità di intervistarlo oramai parecchi anni fa e ne conserva un ricordo bellissimo dovuto proprio alla gentilezza e alla disponibilità dell’uomo. Gentilezza e disponibilità che dimostra appieno in questa intervista che pubblichiamo qui di seguito. (G.G.)

Ore 9:00 (New York) il giorno 25/04/2021.
-Sono molto emozionato in questo momento e la ringrazio per avermi concesso quest’intervista.
“Oh, è un piacere”.

Prima parlavo con mio padre, gli stavo dicendo che credo ci sia una grande differenza tra musica jazz e musica pop: se voglio parlare con un “nome importante” del Jazz posso avere qualche possibilità di farlo, mentre credo che se volessi parlare con un idolo del pop avrei maggiori difficoltà.
“Sì, lo penso anch’io”. (ride)

-Sì… il jazz è più popolare del pop!

“È vero”.

Mi fa piacere sapere che sta bene. Vorrei chiederle della vaccinazione, perché so che si è vaccinato: è andato tutto bene?
“Oh sì, ho avuto due dosi di Moderna. Due dosi, quindi… ora sono a posto”.

-Benissimo. Questo è un periodo assurdo!
“Sì, lo è”.

-Se non le spiace, parleremo di alcuni punti che mi interessano particolarmente. So che ha suonato in Italia ad Umbria Jazz con numerosi musicisti, e mi piacerebbe sapere quale fu la sua prima volta qui e perché.

“La prima volta in Italia fu… wow… nel 1963? ’63 o ’64, ero con Dizzy Gillespie. Sì, eravamo a Milano”.

-Era una tappa del tour che faceste in giro per il mondo?
“Sì, suonammo in Piazza Duomo e la cattedrale è incredibilmente bella. Quella fu la prima volta”.

-Le piace l’Italia?
“La amo. La gente, il popolo… non si può mangiare male in Italia. È veramente difficile!”.

È vero. E invece cosa mi dice del suo rapporto con la musica italiana? Per esempio, io sono di Napoli, nel Sud Italia. Sono cresciuto ascoltando “O sole mio” e “Tu sì ‘na cosa grande”. Conosce queste canzoni?
“Oh sì, le ho sentite tante volte. Non ho mai saputo i nomi dei compositori, ma le ho sentite tante volte”.

-Ok! Ha qualche aneddoto particolare dell’Italia, o ci sono musicisti di sua conoscenza qui?
“Ah… beh, ovviamente una delle mie persone preferite è Dado (Moroni, NdT). Abbiamo suonato insieme in duo, e numerose volte abbiamo fatto dei tour suonando la musica di Monk, eravamo quattro pianisti. A dire il vero abbiamo un progetto insieme per il prossimo anno, penso a Budapest… ho suonato con lui tante volte, e gli voglio bene. La prima volta che ho incontrato Dado è stata ad un seminario in una città vicino Genova, Nervi.

-Stava partecipando ad un seminario su di lei?
“No no, in realtà era il mio interprete!”.

-Ah, bello! (si ride)
“Siamo diventati presto amici, e lì l’ho sentito suonare per la prima volta. In realtà c’era una jam session ogni sera lì al club. Andai per sentirlo suonare e ne rimasi affascinato, è un musicista incredibile… anche con contrabbasso e batteria!

-Oh… non lo sapevo!
”Oh sì, lo assumerei! Per suonare il contrabbasso, e lo assumerei anche per suonare la batteria”.

-Interessante…
“E ho fatto una registrazione con Stefano, Stefano Di Battista, alcuni anni fa. E il contrabbassista, di cui non ricordo il nome ora…”

-Forse Rosciglione? Giorgio o Dario Rosciglione?
“Oh, no. Li conosco, padre e figlio. Era un musicista più giovane. Comunque tutti bravi musicisti”.

-Bene. Adesso mi piacerebbe parlare con lei dei tre album che amo. Il primo è “Canta Brasil”. Lo adoro! Sa, ballo salsa e bachata con la mia fidanzata…
“Ah-ah, wow!”.

Sì, ballavo prima del Covid ovviamente, ora è tutto chiuso. Ma mi piace, perciò quando ascolto questo tipo di ritmi inizio a ballare e a muovermi. Mi è davvero piaciuto quell’album, e sbaglio se affermo che è iniziato tutto con L’uomo, Dizzy Gillespie?
“Oh, più o meno; in realtà non suonavamo così tanti pezzi brasiliani… ma quell’esperienza è stata d’introduzione alla musica brasiliana: suonavamo “Desafinado”, “Samba De Uma Nota So”. Tuttavia, ciò che davvero mi avvicinò alla musica brasiliana fu ascoltare “Brasil ‘65”, sai… nel 1965! Stavo ascoltando la radio a San Francisco, quando passarono proprio quell’album e ne rimasi folgorato. C’erano chitarre eccezionali, poi Wanda De Sah, e il pianista, era il leader, Sergio Mendes… fu il gruppo che mi portò alla musica brasiliana. Da quel momento in poi ho lavorato con Stan Getz, che suonava molto questo tipo di musica, e poi ho fatto ricerche e ascoltato musica Brasiliana più datata, quella della scuola del Samba. Poi ho conosciuto Nilson Matta, Duduka da Fonseca e Romero Lubambo, e iniziammo a suonare e suonare insieme. Mi insegnarono molti ritmi differenti, e da dove provenivano… questi ritmi vengono dal Nord del Brasile, questi altri dal Sud. Iniziai a lavorare con loro. E così fondammo la band, Canta Brasil”.

-Mi scusi ma vorrei sapere qualcosa di più su Gillespie. Com’era al di fuori del mondo musicale? Ho iniziato a studiare il jazz un po’ di tempo fa, e lui è uno di quei grandi nomi che si devono necessariamente studiare, e da cui si deve prendere il più possibile.
“Fuori dal mondo musicale? Era un grande, davvero una persona cortese, anche molto divertente… fuori dal mondo musicale”.

-Non lo era durante la musica?
“Oh sì, era egualmente divertente! Ma molte persone pensavano che fosse solo apparenza, invece lui era così anche fuori dal palco. Era divertente, molto cortese e molto rispettoso”.

– Quindi il vostro tour mondiale si è tenuto tra il ’62 e il ’66. Che cosa mi dice rispetto alle tappe? Mi ha parlato di Milano, nel ’63.
“Sì, in Italia. Ma abbiamo suonato anche in altri posti: Copenaghen, in Svezia, Varsavia in Polonia, che al tempo era ancora comunista”.

-E fuori dall’Europa?
“Non abbiamo suonato fuori dall’Europa. Abbiamo fatto solo un tour europeo, e quella fu la prima volta che andai in Europa. Fu un inizio fantastico per me!”.

-Sì, posso immaginarlo! (si ride) Parliamo del secondo album, si intitola “Two as One”, l’album con Buster Williams.
“Oh Buster!”.

-E questo lavoro è di particolare importanza per gli italiani, perché è stato registrato a Perugia al Teatro Morlacchi.
“Sì”.

– Ricordo “All of You” e “Someday My Prince Will Come”, e l’ostinato di Buster… 40 secondi forse sul fa, e poi tutto il sound che si apre quando suona il Re basso e con tutte quelle frequenze che arricchiscono la musica. Meraviglioso!
“Certo”(ride)

-E Buster Williams? Com’è?
“Io amo suonare con Buster Williams. In effetti ho appena visto un video su di lui… non so se avete Amazon Prime in Italia”.

-Ce l’abbiamo.
“Si intitola “Bass To Infinity”. È tutto sulla sua vita, ci sono alcune interviste con Herbie Hancock, Lenny White… tutti suonavano insieme a Buster. Dura un’ora, è molto interessante. Sai lui è buddista, perciò parla della sua pratica e di molte altre cose. Ci conosciamo dal 1958, quando eravamo entrambi adolescenti a Philadelphia. Lo conosco da molto tempo, abbiamo lavorato molto insieme… è uno dei miei contrabbassisti preferiti in tutto il mondo”.

-Ho letto che ha suonato con… c’è qualcuno con cui non ha suonato? Ha suonato davvero con tutti!
“Sì, tutti. Le cantanti lo amano, ha lavorato con Nancy Wilson per molto tempo, e anche Sarah Vaughan. Questo video racconta anche delle prime volte in cui uscì per esibirsi, appena terminata la scuola superiore, con Gene Ammons e Sonny Stitt, e di quando ha dovuto avere il permesso da sua madre… dagli un’occhiata!”.

-Senz’altro. Sa… l’inizio della mia tesi di laurea contiene una frase su Philadelphia, e sul fatto che tutti i grandi musicisti sono di lì. È una specie di magia. (ridono)
“Non tutti, ma molti sono di lì! Io penso che una delle ragioni, prima di tutto, è che è molto vicina a New York, a solo due ore di guida. Perciò Philadelphia era una delle tappe principali per i musicisti che provenivano da New York, e io ricordo di aver visto Kenny Dorham e molte altre persone che semplicemente scendevano per andare a fare un concerto a Philly. E si può arrivare a Philadelphia per una sera, e poi tornare indietro quando il concerto è finito. Ai tempi aveva due Club principali che presentavano musicisti di fama mondiale, uno si chiamava Pep’s e l’altro Showboat. Vedevo ‘Trane, Yusef Lateef e Miles suonare lì, e molti altri. Philly era un luogo dove si lavorava, e penso sia per questa ragione che c’erano molti giovani musicisti, incluso me, che poi migliorarono con tutta quella musica attorno.

-Capisco.
“Philly aveva anche molti posti di lavoro per questi giovani musicisti, ci sono molti club in cui ho lavorato. Ed era una gran cosa, avere posti in cui suonare. Questo mi ha aiutato nella crescita, c’erano altri giovani musicisti con cui ho socializzato che sono ancora in giro! C’erano Sonny Fortune, beh lui è venuto a mancare ora, siamo cresciuti insieme… e Buster come sai. Philly era proprio un gran posto”.

-Il prossimo musicista di cui vorrei parlare è anche lui di Philly, e ora mi riferisco al terzo album, che è anche il mio preferito: sto parlando di “People Time”.
“Oh, Stan!”.

-Sì, questo album è la ragione per cui ho iniziato a studiare la sua musica e il suo modo di suonare il pianoforte. È vero che lui la considerava l’altra metà della mela, in senso musicale?
“Ehm, non lo so… così diceva! (ride) Beh, credo che per dirlo lo pensasse davvero. Musicalmente eravamo… empatici? Avevamo un approccio alla musica simile, la melodia era importante”.

-Sì! Sa Kenny, ho sempre l’impressione che quando Stan smette di suonare lei continui a suonare il sassofono ma usando il piano, e viceversa.
“Ah!” (ride)

– È incredibile! Davvero, mi sembra che siate come connessi.
“Sì, lo credo anch’io. Entrambi amavamo la liricità, e questo è importante. Stan poteva suonare una ballad e farti piangere, con il suo sound e le sue idee e la sua creatività. Quello fu un concerto interessante, specialmente in duo, lui era… beh, sono sicuro che conosci la storia”.

-La conosco.
“Era malato al tempo, quando registrammo in duo. Aveva una sorta di tumore del sangue, perciò sentiva molto dolore. Dovevamo registrare per tre sere, ma andammo avanti soltanto per due, lui non riuscì a finire l’ultima sera. Avemmo solo un altro concerto insieme dopo quell’episodio, a Parigi, e non riusciva a suonare molto. Lui suonava la melodia e io feci la maggior parte dei soli al pianoforte, e quella fu l’ultima volta che lo vidi”.

-Mi dispiace molto.
“Era marzo e io lo chiamai un mese più tardi, per sapere come stesse. Mi disse che stava bene e che avrebbe suonato per il prossimo tour, e poi a giugno… è venuto a mancare. Abbiamo perso una bella persona.

-Sì. Secondo me  Stan Getz e Paul Desmond sono due grandi sassofonisti che rimarranno nella storia del jazz
“Davvero?”.

-Sì, mi piacciono davvero tanto. Sicuramente c’è anche Charlie Parker, e tutti quei sassofonisti formidabili che sono fuori da ogni sorta di classificazione. Ma mi piacciono molto Paul e Stan per il modo che hanno di suonare.
“Quindi tu ami… il loro sound?”.

-Sì.
“Lo apprezzo. Paul aveva un sound molto morbido e snello, tenero. E una delle prime registrazioni che ho ascoltato era di Dave Brubeck e Paul Desmond, era ‘Jazz Goes To College’”.

-Sì, me la ricordo. Forse anni ’60?
“In realtà tardi anni ’50, perché ancora vivevo a Philly. Questo era uno dei miei pezzi preferiti”.

– Solo un’ultima cosa su Stan Getz… in quale occasione iniziò a collaborare con lui, a quanti anni? Ha mai rimpianto di non averlo conosciuto prima?
“Rimpiango sempre di non aver conosciuto prima le persone, ma sono lieto quando le conosco! Ricevetti una chiamata per lavorare con lui, per sostituire Chick Corea. Allora aveva una band con Stanley Clarke, Tony Williams e Chick. Mi chiamò e mi chiese di prendere il suo posto, questa fu la prima volta che lavorai con Stan. Era incredibile, suonavamo tutta la musica di Chick Corea. Penso si chiamasse “Captain Marvel Band” o qualcosa del genere. Era un piccolo tour, suonammo per poche serate soprattutto in Sud Carolina e a Baltimora. Quando partimmo Stan mi disse: “Sei davvero un musicista con esperienza”, e per me quello era un grande complimento. Per un po’ non l’ho più sentito, e poi pochi mesi dopo mi chiamò per un posto alla Stanford University”.

-Ho capito.
“Artist-in-residence. Mi chiamò per chiedermi di andare lì e suonare in alcuni concerti con lui. Da quel momento iniziammo ad andare in Europa durante l’estate perché io insegnavo alla Rutgers University e lui a Stanford, perciò non potevamo provare molto durante l’anno accademico. Ma in estate andammo a tutti i grandi festival d’Europa. Aveva una buona band, con Victor Lewis e Rufus Reid. Facemmo un paio di registrazioni a Montmartre con il quartetto, e un paio in duo. Sempre grande musica, grande scrittura. Registrammo un pezzo elettronico dal titolo “Apasionado”, in California. Mi piaceva, per me era qualcosa di diverso! C’erano gli archi e tutti i tipi di strumenti elettronici. Una grande esperienza che non avevo mai fatto prima”.

-Ok. Dato che lo ha accennato, mi piacerebbe parlare dell’insegnamento. Lei era un insegnante di pianoforte alla Rutgers University, e poi alla Julliard, la vecchia Manhattan School.
“Esatto”.

-Insegna ancora? O ha lasciato?
“No, mi sono congedato”.

-Perché, se posso chiedere?
“Beh, sto invecchiando! (ride) A un certo punto senti che hai bisogno di imparare qualcosa, ed io avevo bisogno di imparare altro. Avevo bisogno di ascoltare altre persone suonare, in un certo senso di “istruirmi”. Gli studenti erano bravi, intendo bravi davvero… che cosa avevo da dare loro? A Manhattan c’erano Gerald Clayton, Aaron Parks, era uno dei miei studenti, e molti altri… alla Julliard avevo Jonathan Batiste, alla Rutgers Terence Blanchard, Harry Allen. E tutti loro suonavano benissimo il pianoforte!”.

-Com’era un sua lezione tipo? Cosa faceva durante l’ora?
“Sostanzialmente suonavamo insieme. Ho sempre avuto due pianoforti nella mia aula. Suonavamo insieme perché questo mi permetteva di capire cosa effettivamente sapessero o non sapessero suonare. Insomma, erano al punto in cui io non avevo bisogno di dire loro “questo è un accordo di Do”, non avevano bisogno di questo da me: sapevano già come come suonare. Eravamo interessati a sottigliezze e rifiniture, e idee su tocco, frasi, cose del genere”.

-Quindi le sue lezioni erano come delle performance dal vivo, ma guidate?
“Sì, una cosa di questo tipo! Suonavamo e poi ci fermavamo, e dicevo “Ok, qui stiamo suonando una ballad, non dovete suonare così rigidamente, non c’è bisogno di suonare così tante note in questa ballad… lasciate spazio, anche il silenzio è parte della musica”, cose così. E penso che la prendessero molto seriamente”.

-Quindi… ha dei suggerimenti per diventare un buon insegnante? C’è un ingrediente speciale?
“No, non penso. Certo dipende, le persone hanno diversi modi di insegnare. Il mio modo di insegnare era quello di ascoltare i musicisti e sentire costa potevano fare, e sfidarli. Prendevamo una canzone e la suonavamo per 30 minuti, e poi facevamo un botta e risposta, per fare esercizio. E poi provavamo a sfidarci l’un l’altro, ed è un bene quando gli studenti provano a sfidare anche te. (si ride) Ho imparato molto anch’io”.

-Ok.
“Non è tipo “sono il tuo insegnante e tu fai quello che dico”, a quel livello non è così. È più uno scambio di idee. Imparo da loro, loro imparano da me”.

-Certo, grazie mille. Parliamo adesso di composizione. Lei ha composto molto: adoro “Until Then e Sunshower”, in particolare. Quanto pensa sia importante scrivere pezzi originali, che abbiano la propria firma?
“Penso sia importante, e che si debba scrivere il più possibile. Quello che cerco nella scrittura, quello che cerco di raggiungere nella composizione è… la semplicità. Non scrivo cose in 11/8, 9… non scrivo cose in tempi strani. Non sento la musica in quel modo! Alcuni musicisti lo fanno comodamente e mi piace ascoltarli, ma il mio approccio è più che altro fatto di melodie semplici, armonie che forse qualche volta sono ingannevoli… o forse non qualche volta! Per me funziona la semplicità”.

-Sì. Stavo pensando… lei reputa questo un passaggio fondamentale? Un passaggio che un musicista deve fare per sentirsi completo? O pensa che si possa saltare?
“Intendi saltare la scrittura?”.

-Sì.
“Beh, non tutti i musicisti sono compositori, alcuni di loro non scrivono. Ma, come dice qualcuno, l’improvvisazione è composizione, solo che non è scritta”.

-Infatti.
“Un musicista Jazz compone tutto il tempo… quando inizia a scrivere, quella è una composizione! (si ride) Ma molti musicisti semplicemente non sono per la scrittura, e li capisco. Io penso che sia un altro aspetto di te che dovresti esplorare”.

-Ok. Guardi, una volta ho frequentato una masterclass di Billy Childs. Secondo me è un grande compositore.

“Sì, lo è.”

-E ha detto qualcosa che io ritengo incredibile. Ha detto: “Il segreto del comporre è creare qualcosa di sorprendente, e allo stesso tempo inevitabile”.
“Sì, ok”.

-Mi suona come qualcosa del tipo: “Devi creare musica che ha dei legami con il passato, in modo che ascoltandola tu sappia dove sta andando, ma che abbia anche qualcosa di sorprendente che ne cambia la direzione”, no?
“Sì, sì, sì”.

-È d’accordo?
“Sono d’accordo. E ho ascoltato abbastanza musica di Billy Childs, è un compositore brillante”.

-Lei ricorda un buon consiglio che qualcuno le ha dato recentemente o nel passato, o un evento particolare che ha cambiato il suo modo di comporre e suonare?
“Ehm… sì! Qualcuno una volta mi diede un’idea che io poi ho provato ad applicare: prova a suonare il tuo solo nello spazio di una quinta perfetta. Tutte le tue parti di improvvisazione. Ovviamente non puoi farlo chorus dopo chorus dopo chorus, ma fai una prova. Quanto puoi suonare solo in quel piccolo spazio di una quinta perfetta?”.

-Non ho capito bene, Mr. Barron…
“Sul pianoforte, una quinta perfetta, da Do a Sol. E stai suonando una canzone, qualunque essa sia, prova a suonare tutto all’interno di quella quinta perfetta, cromaticamente”.

-Ok!
“E vedi come va. È qualcosa che puoi provare… potresti restare sorpreso. Perché qualsiasi nota tu metta insieme funzionerà contro qualsiasi accordo suonerai. Deve essere risolto, ma funziona. Questo è un consiglio che qualcuno mi diede e che ho provato. È qualcosa da ricordare”.

-Ok, ora… l’ultima parte. Oltre la musica, sono curioso rispetto alla giornata tipica di Kenny Barron. Ci sono delle cose particolari che ama fare nel tempo libero, se non suona?
“Mi piace leggere molto. Mi piace leggere romanzi”.

-Che tipo di romanzi?
“Mi piace James Patterson, romanzi gialli e cose di questo tipo”.

-Sì! Le piace Zafon? Carlos Ruiz Zafon?
“Oh, non lo conosco”.

-No? È bravo! E Dan Brown?… quello de “Il Codice Da Vinci”.

-“Oh sì sì l’ho letto! (ridono di gran gusto) L’ho letto. In realtà ho anche visto il film”.

-Sì… mi scusi, l’ho interrotta.
“No, non fa niente. Stavo dicendo che durante il Covid non c’è molto altro da fare, perché altrimenti andrei da qualche parte, ascolto musica o cose di questo tipo. Perciò questo è ciò che faccio, leggo e provo anche a cucinare!”.

-Cosa cucina?
“Schnitzel… bistecca! Cose del genere”.

-Le piace la pizza?
“La amo. E a Napoli ho mangiato la migliore pizza della mia vita.”

-Wow! Si ricorda il posto?
“No, ma era così fina… con l’aglio…non ricordo perché mi ci hanno portato. Quella fu la migliore pizza che io abbia mai mangiato. E amo anche mangiare! (si ride) Che è un male!

-No. Non è un male! Sa, quest’anno mi ha fatto realizzare appieno che ci sono anche altre cose oltre alla musica. E se si usano queste cose per nutrire il proprio “appetito musicale”, ci si sentirà più rilassati nel suonare e meglio in generale.
“Lo penso anch’io. Bisogna essere una persona a tutto tondo, il che significa fare tutto nella vita, non solo musica. Ci sono persone ossessionate dalla musica, è tutto ciò che fanno: 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ascoltano e praticano musica, scrivono musica 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vorrei essere una di queste persone, ma non lo sono. Ci sono altre cose che catturano la mia attenzione, come la politica o quanto accade nel mondo. Ora c’è il processo di Minneapolis (per la morte di George Floyd, NdT) che mi interessa”.

-Sì, anche a me.
“Succedono anche altre cose. Possono ispirare la tua musica, in un certo qual modo”.

-Sono d’accordo. Quali sono i suoi piani per il futuro? Ci sono nuovi album in cantiere, nuovi progetti?
“Non al momento. C’è un sassofonista, Greg Abate. Ha fatto delle registrazioni di… circa 15 miei pezzi, con il trio. Suona il sassofono contralto, e ha sovrainciso il sassofono e scritto una sorta di sezione di sax in alcuni dei pezzi. È abbastanza interessante! Ma penso che l’unica cosa che vorrei fare prossimamente è un solo, e poi forse un duo, con batteria o percussioni o… un violoncello! Sì qualcosa del genere. Ed è economico da produrre perché non devo pagare me stesso. (ride)”.

Kenny Barron, Udine, Teatro Palamostre, 10.04.2018 Note Nuove

-Verrà in Italia?
“Ci sono dei piani, non so se verranno cancellati o no a questo punto. Penso che a Perugia o Pescara ci potrò essere”.

-Lo spero!
“Lo spero anch’io! E ci sono altre cose… ce n’è una in una città chiamata… Merano? Non Milano, Merano”.

-Sì, nel nord Italia.
“Sì, non sono sicuro che accadrà. Ma penso che per luglio o agosto le cose miglioreranno almeno un po’, lo spero”.

-Sì, ed io sarò lì ad aspettarla! Vaccinato ovviamente, spero di poterla conoscere e abbracciarla nella vita reale.
“Ok! Grazie molte”.

Le sono molto grato, grazie mille.
“È stato un piacere!”.

Ci vediamo presto allora.
“Ok, ciao!”.

-Grazie, arrivederci!

Daniele Mele

Jazz ‘n Fall torna a Pescara con la nuova edizione in programma a novembre

Con la nuova stagione musicale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” torna, a novembre, la nuova edizione di Jazz ‘n Fall: un programma di grande livello che si aprirà martedì 9 novembre 2021 con Bruno Biriaco & Saxes Machine, prosegue con il duo formato da John Scofield e Dave Holland (mercoledì 10 novembre 2021) e si completa giovedì 11 novembre con “Yardbird Suite for Pianos”, concerto dedicato a Charlie Parker che vedrà protagonista il duo pianistico formato da Dado Moroni e Danny Grissett.

I concerti si terranno al Teatro Massimo di Pescara, con inizio alle ore 21. Il prezzo del biglietto di ingresso ai singoli concerti è di 25 euro.

Jazz ‘n Fall 2021 celebra il centenario della nascita di Charlie Parker, avvenuta nel 1920, con il sottotitolo della nuova edizione (“The Charlie Parker Centennial”, appunto) e traccia una sorta di filo rosso che, da una parte, rende omaggio al grande sassofonista e, dall’altra, vuole sottolineare ed evidenziare le numerose eredità delle sue innovazioni nella musica di oggi.

Charlie Parker è stato uno dei giganti della storia del jazz, un musicista capace, come pochi, di indirizzarne l’evoluzione. Ripercorrere la sua figura e la sua musica significa, in pratica, confrontarsi con le possibilità più radicate nel linguaggio del jazz e con le altrettanto possibili nuove direzioni da far prendere alla musica. Una visione lucida animata da inventiva, virtuosismo, carisma: Charlie Parker rappresenta una pietra angolare del percorso del jazz, un termine di paragone imprescindibile per ogni interprete.

John Scofield e Dave Holland sono le stelle dell’edizione 2021 di Jazz ‘n Fall con il loro nuovo incontro musicale, questa volta in duo: i due musicisti si esibiranno a Pescara, mercoledì 10 novembre 2021. Nelle loro rispettive carriere, il chitarrista statunitense e il contrabbassista britannico hanno cercato la sintesi tra evoluzioni personali e richiami alle tradizioni. Hanno dato vita a progetti seminali – tra i tantissimi, ad esempio, Gateway con Jack deJohnette e John Abercrombie oppure il quintetto di inizio millennio per quanto riguarda Holland; il quartetto con Joe Lovano, l’incontro con Martin Medeski & Wood e Uberjam per quanto riguarda Scofield – e vantano collaborazioni di spessore assoluto, da Miles Davis a Pat Metheny, passando per Kenny Barron, Anthony Braxton, Charles Mingus, Brad Mehldau, giusto per fare qualche nome. Soprattutto – nonostante due carriere lunghe, solide, variegate – resta immutata per entrambi l’intenzione di spingersi avanti in maniera creativa e di trovare nel dialogo e nell’interplay la strada per continuare a fare evolvere il jazz e a metterlo in relazione con altri mondi musicali. Il concerto straordinario tenuto qualche anno fa da Dave Holland – insieme a Zakir Hussain e Chris Potter – sul palco di Jazz ‘n Fall è una testimonianza del tutto evidente e fresca di questo atteggiamento.

Il giorno precedente, martedì 9 novembre 2021, la rassegna sarà aperta dai Saxes Machine di Bruno Biriaco. Cinque sassofoni più ritmica: questa la formula concepita da Bruno Biriaco alla fine degli anni settanta – subito dopo, quindi, l’esperienza vissuta dal batterista con il Perigeo – e che oggi rappresenta il terreno per l’incontro tra jazzisti italiani appartenenti a generazioni diverse. Il batterista porta, di conseguenza, sul palco una sintesi naturale tra diverse maniere di intendere il jazz e la musica di improvvisazione. L’organico dei Saxes Machine si pone a metà strada tra il piccolo combo e la big band e annovera i sassofoni di Gianni Oddi, Filiberto Palermini, Alessandro Tomei, Massimo Filosi e Marco Guidolotti, insieme alla ritmica formata da Ettore Carucci al pianoforte, Massimo Moriconi al basso e dallo stesso Biriaco alla batteria. Sin dagli anni settanta, Bruno Biriaco ha collaborato con i musicisti statunitensi e con i più rappresentativi alfieri del jazz italiano come, tra gli altri, Gianni Basso, Nunzio Rotondo, Frank Rosolino, Chet Baker, Johnny Griffin, Slide Hampton e George Coleman. Insieme a Giovanni Tommaso, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli e Tony Sidney, è stato protagonista del Perigeo, una esperienza tra le più importanti del jazz e, in generale, della musica italiana: formazione con cui ha registrato sei dischi e si è imposto all’attenzione del pubblico internazionale. Oltre alle esperienze jazzistiche, Bruno Biriaco collabora sin dagli anni Ottanta con la RAI, per la quale ha curato le musiche di scena e le colonne sonore di tantissimi programmi.

L’omaggio al genio di Charlie Parker si manifesta in modo esplicito nel programma di Jazz ‘n Fall con il concerto di Dado Moroni e Danny Grissett, in programma giovedì 11 novembre 2021. Il titolo scelto per il loro duo, “Yardbird Suite for Pianos”, spiega in maniera chiara ed esplicita l’idea alla base del loro incontro. Un dialogo senza confini, l’improvvisazione legata in maniera solida e fertile alle tradizioni del jazz, i temi composti o resi celebri da Charlie Parker come filo narrativo. Due pianisti di grande esperienza, legati da una lunga amicizia e da una visione musicale per molti versi simile, due maniere di utilizzare il pianoforte e i linguaggi del jazz per raccontare emozioni e per trasmettere l’energia dello swing. Danny Grissett è uno statunitense che ha scelto di vivere in Europa, Dado Moroni è un europeo che ha vissuto per lungo tempo negli Stati Uniti… un incrocio che chiarisce meglio di tanti altri aspetti la voglia e l’intenzione di entrambi i protagonisti del duo di intrecciare l’omaggio al grande sassofonista con un continuo scambio di idee musicali e con la voglia di esplorare ogni singola sfaccettatura del suono del pianoforte.

Il cartellone musicale della Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” presenta inoltre un altro appuntamento con il jazz: venerdì 18 febbraio 2022, sul palcoscenico del Teatro Massimo sarà di scena il trio guidato dal chitarrista belga Philip Catherine e formato anche dal chitarrista Paulo Morello e dal bassista Sven Faller.

Claudio Filippini presenta la masterclass online “Il pianoforte come un’orchestra” nell’ambito di Celano Jazz Convention

Sabato 15 maggio 2021, dalle ore 16 alle 19, Celano Jazz Convention presenta “Il pianoforte come un’orchestra”, una masterclass online condotta da Claudio Filippini.

La masterclass si svolgerà sulla piattaforma Zoom: la partecipazione costa 20€ e per iscriversi occorre prenotarsi con una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com con oggetto, obbligatorio, ”Prenotazione Seminario” e utilizzando un indirizzo mail valido, al quale poi sarà inviato il link di partecipazione al seminario.

Attraverso collaborazioni importanti, una discografia ricca e sfaccettata, una visione musicale capace di unire rispetto per la tradizione del jazz e dimensione acustica ed orchestrale del pianoforte con le sonorità elettriche e con l’attenzione ad altri linguaggi musicali, Claudio Filippini ha sviluppato, nel corso degli anni, un percorso musicale personale, ormai maturo e sempre capace di sorprendere l’ascoltatore con connessioni trasversali e con un’estrema capacità di sintesi.

Nato nel 1982, Claudio Filippini coltiva la passione per la musica sin da bambino quando all’età di 7 anni intraprende lo studio del pianoforte. A soli 11 anni si iscrive al corso di pianoforte jazz dell’Accademia Musicale Pescarese dove ha l’occasione di studiare prima con Angelo Canelli e in seguito con Marco Di Battista, terminando il suo corso quinquennale di studi diplomandosi con il massimo dei voti e la lode.

Dal 1997 segue corsi di perfezionamento sotto la guida di Kenny Barron, George Cables, Jimmy Owens, Cameron Brown, Steve LaSpina, Garrison Fewell, Giulio Capiozzo, Bobby Durham, Pete Bernstein, Keter Betts, Shown Monteiro, Enrico Pieranunzi, Stefano Battaglia, Franco D’Andrea, Otmaro Ruiz e Stefano Bollani. Nel 2004 consegue brillantemente il diploma di pianoforte presso il conservatorio “G.B. Pergolesi” di Fermo.

Sono numerosissimi i premi e le borse di studio vinte da Filippini, a partire dal primo premio assoluto al concorso Kamerton di Pescara per due anni consecutivi. Vince, poi, il terzo premio al “Baronissi Jazz” nel 2001, aggiudicandosi il primo posto l’anno successivo. È vincitore di diverse borse di studio al “Pescara Jazz”, a Siena e a Roma.

Sia con i progetti a suo nome che con prestigiose collaborazioni, ha suonato nei festival e nei club più importanti del panorama italiano ed internazionale. Ha condiviso il palco ed ha registrato con musicisti come, tra gli altri, Luca Bulgarelli, Marcello Di Leonardo, Max Ionata, Fabrizio Bosso, Palle Danielsson, Olavi Louhivuori, Maria Pia De Vito, Fulvio Sigurtà, Giovanni Guidi, Mirko Signorile, Stefano Di Battista, Roberto Gatto, Ares Tavolazzi, Rosario Giuliani, Aldo Romano e Mario Biondi.

Il percorso didattico online di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, prosegue nelle prossime settimane con i seminari condotti da alcuni tra i musicisti più importanti del panorama jazzistico italiano. Dopo gli appuntamenti dedicati alla voce (condotto da Ada Montellanico, sabato 24 aprile), alla batteria (tenuto da Roberto Gatto, sabato 8 maggio) e al pianoforte (questo con Claudio Filippini, in programma sabato 15 maggio), i prossimi incontri saranno tenuti dal chitarrista Umberto Fiorentino (sabato 22 maggio) e dal sassofonista Tino Tracanna (sabato 29 maggio).

I nostri CD. Curiosando tra le etichette (parte 6)

UR Records

Ecco una nuova etichetta discografica in ambito jazz e musica d’autore. UR, “tu sei” – spiegano i responsabili dell’etichetta – “è il manifesto della volontà di mettere la musica e l’artista al centro della produzione, di porre la qualità del lavoro prima di tutto. Tu sei la musica, il pensiero, l’energia, il valore. In tal senso, “tu sei” non è più riferito solamente all’artista, ma a tutti, perché l’ascolto è la forma più autentica di partecipazione e di collaborazione”.

A.B. Normal – “Out Of A Suite”
“Out Of A Suite” è il primo disco da leader di Andrea Baronchelli, trombonista e tubista classe 1989, in possesso di una solida preparazione di base sia in campo classico (diploma al Donizetti di Bergamo) sia in Jazz (diploma al Verdi di Milano). Accanto a lui Michele Bonifati chitarra, Danilo Gallo basso elettrico e Alessandro Rossi batteria, cui si aggiunge Stefano Castagna all’elettronica nel brano “Cortex”. L’album si compone di due parti. La prima, intitolata “A Suite” consta di cinque brani tutti composti dal leader. La seconda parte, “Out”, presenta due brani, “Starting with a Cherry”, di Michele Bonifati, e “Syriarin” ancora di Baronchelli, ispirato da una delle stragi compiute in Siria. Il gruppo si qualifica, a nostro avviso, soprattutto per una attenta ricerca timbrica: ottimamente sostenuto da una poderosa sezione ritmica sempre in primo piano (li si ascolti ad esempio in “Outro”), chitarra e fiato si muovono con grande libertà andando ad esplorare terreni tutt’altro che usuali. Ecco quindi un sapiente ricorso all’elettronica e a sonorità spesso di matrice rock, la ricerca di una timbrica particolare, il mutare completamente di atmosfere senza che ciò incida sull’omogeneità della proposta musicale. Esemplare, al riguardo, “Cortex” che dopo un’intro quasi in punta di piedi si risolve in un tema coinvolgente mentre “The Crown” è una malinconica ballad caratterizzata da un fitto dialogo fra trombone e chitarra.

Archipelagos – “In Your Thoughts”
10 brani. Che appaiono nei pensieri quali sagome fluttuanti di isolette, scogli, faraglioni, disposti a forma di J come jazz, generando visioni di mare calmo e mosso, vento e tempesta, albe e tramonti, scorci e landscapes. Questo è quanto suggerisce l’album “In Your Thoughts”, a cura del 4et Archipelagos, per i tipi musicali della UR Records. C’è un consiglio riportato all’interno della cover “tutto ciò che può fare l’ascoltatore è lasciarsi trascinare in questa traversata senza porsi troppe domande su quello che potrebbe incontrare in prossimità della prossima isola”. Seguire la marea di suoni, ok, ma pensando in alcuni brani – l’iniziale ‘Intro’ o la finale ‘Outro’ (The Big Vedra In The Sky) – ad un’erranza su di una dorsale di natura vulcanica che preme con intermittenti esplosioni di energia della batteria “condotta” da Marco Soldà ed in altri che la musica eroda cavità di conchigle sedimenti il fondo del mare depositandole, tanto è insinuante il gesto pianistico di Francesco Pollon (ad esempio in ‘Mr. mcFallen Waltz’) mentre il contrabbasso di Simone Di Benedetto veleggia sicuro nell’assecondare la mano sinistra nel ritmico “remare” del piano (‘Sabba’) e il sax di Manuel Caliumi detta la rotta armonico/melodica da seguire: a partire dalla sua ‘Nemesi’ per continuare con i tracciati indicati dai compagni di peregrinaggio (‘Sara’, ‘A Smile’, ‘From A Magic Pillow Dream’ …) . Nessun uomo è un’isola, ha scritto Thomas Merton. Ma insieme possono formare un Arcipelago. (Amedeo Furfaro)

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Via Veneto Jazz / Jando Music

La Via Veneto Jazz nasce nel 1993, quasi per caso, dall’incontro fortuito del produttore Biagio Pagano con alcuni musicisti e alcuni fonici uniti dall’esigenza comune di voler valorizzare il lavoro e la musica di molti musicisti e compositori per lo più sconosciuti fuori dell’ambiente degli addetti ai lavori. Man mano la Via Veneto conquista la stima di pubblico e critica specializzata sì da imporsi come une delle più qualificate Etichette di Musica Jazz Italiana. Purtroppo il 28 settembre 2004 l’amico Biagio Pagano lascia questa vita, cosicché la guida dell’etichetta passa al fratello Matteo Pagano che già lavorava con lui e che si è adoperato nel migliore dei modi per raggiungere gli obiettivi cui prima si faceva riferimento. Nel 2011 si verifica un evento a dir poco imprevisto ed inusuale nel mondo discografico in genere, l’inizio di una collaborazione tra la VVJ ed una etichetta nascente, la Jando Music di Giandomenico Ciaramella, personaggio eclettico e veramente appassionato, che porta nella partnership un entusiasmo e possibilità nuove, trovando in cambio una realtà che offre una storia, un prestigio e un know-how già immediatamente disponibili per conservare un riconosciuto ad alto livello, anche all’estero. Questa collaborazione ancora dura, e permette alle due etichette di costituire una delle realtà discografiche indipendenti più interessanti del Paese, conosciuta e presente anche nei mercati esteri.

Doctor 3 – “Canto libero”
Probabilmente non c’è un solo appassionato di musica al quale, in Italia, l’espressione “canto libero” non richiami alla mente il celebre pezzo di Mogol-Battisti. Ed in realtà questo CD è un nuovo, appassionato omaggio ad uno dei più grandi esponenti del cantautorato nazionale. A firmarlo un gruppo i cui fan vanno ben al di là della purtroppo ancora ristretta cerchia del jazz, i “Doctor 3” ovvero Danilo Rea al pianoforte, Enzo Pietropaoli al contrabbasso e Fabrizio Sferra alla batteria. Per i tanti, tantissimi che ben conoscono il trio probabilmente non ci sarebbe da aggiungere altro se non il fatto che anche questo album si iscrive di diritto nella loro migliore produzione. Viceversa per quei quattro o cinque che ancora non avessero mai ascoltato i “Doctor 3” sarà forse interessante sapere che si tratta di un gruppo tra i più celebrati del nostro panorama jazzistico degli ultimi 20 anni. Un gruppo che forte della solidissima preparazione dei suoi componenti, può permettersi il lusso di affrontare qualsivoglia partitura e di piegarla alle proprie esigenze espressive senza perdere alcunché dello spirito originario. E ovviamente la stessa cosa si ripete con questo repertorio, in cui, eccezion fatta per tre composizioni del Trio significativamente intitolate “Doctor 01”, “Doctor 02” e “Doctor 03”, ritroviamo tutti i brani più celebrati di Lucio, da “Pensieri e parole” a “Il mio canto libero”, da “Emozioni” a “29 settembre” da “Mi ritorni in mente” a “Fiori rosa fiori di pesco”…fino a chiudere con un pezzo meno noto ma di una struggente bellezza “Umanamente uomo: il sogno”.

Rosario Bonaccorso – “A New Home”
“Da quando vivo in questa “Nuova Casa”, le sensazioni che ho avuto la fortuna di poter esprimere attraverso la musica di questo nuovo cd, rappresentano un omaggio alla vita, questo grande regalo che ci viene offerto di vivere”: sono le parole con cui Rosario Bonaccorso, bassista sessantenne, chiarisce il senso di questa nuova produzione discografica realizzata in quintetto con Fulvio Sigurtà tromba e flicorno, Enrico Zanisi pianoforte, Alessandro Paternesi batteria e Stefano Di Battista sax soprano e sax alto, compagno di mille avventure. In effetti Bonaccorso e Di Battista vantano una intesa più che ventennale avendo suonato assieme fin dal 1997 in collaborazione con artisti del calibro di Lucio Dalla, Michael Brecker, Joe Lovano, Ivan Lins e avendo inciso alcuni CD per la Blue Note con altre star del jazz come Vince Mendoza, Kenny Barron, Elvin Jones, Jacky Terrasson e Herlin Riley. Varcata la soglia dei 60, Bonaccorso, rispondendo alla sua indole di uomo gentile e riflessivo, si trova a riconsiderare gli anni trascorsi e a guardare al futuro con una nuova consapevolezza. Certo, queste sono sensazioni assai difficili da esplicitare in uno o più brani ma gli undici pezzi, contenuti nel CD tutti a firma del leader, contengono questa forte carica suggestiva sì da immaginare una sorta di filo rosso, una non banale narrazione che accompagna l’ascoltatore dalla prima all’ultima nota. Il tutto porto con grande naturalezza, calore e sensibilità doti che, come si sottolineava, appartengono non solo al Bonaccorso musicista ma anche al Bonaccorso uomo.

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We Insist! Records

WE INSIST! Records nasce a giugno del 2018 da un’idea di Maria Borghi, Nino Locatelli, Gianmaria Aprile e Pietro Bologna, con la volontà di dare spazio a progetti musicali fortemente improntati alla sperimentazione, alla ricerca e all’improvvisazione. Un progetto che si richiama al titolo dello storico album del 1960 di Max Roach: We Insist! Max Roach’s Freedom Now Suite. Il messaggio dell’etichetta è quello di insistere in tempi di crisi, di andare controcorrente, puntando sempre sulla qualità e sulla musica. Di qui la volontà di promuovere un gruppo di musicisti che pur trattando generi differenti possiedono una visione comune del fare musica; musica fatta con dedizione e pazienza, a cui dedicare tempo, scavando, ricercando. La linea editoriale della WE INSIST! non è indirizzata ad un preciso genere musicale, non è pro o contro questa o quella musica, l’ambizione è di unificare ciò che all’apparenza può sembrare diverso. Inoltre l’incontro con le altre arti è per We Insist linfa vitale, stimolando a ideare e realizzare progetti di ampio respiro, all’interno dei quali creare nuovi sodalizi. Si procede, quindi, per piccoli passi, con l’obiettivo di crescere mantenendo uno spirito di continua ricerca.

Pipeline 8 – “Prayer”
Giancarlo Nino Locatelli – “Situations”
I protagonisti di questi album, offerti in duplice versione – cd o lp – sono il clarinettista Giancarlo Nino Locatelli nella veste di esecutore e Steve Lacy in quella di autore.In effetti la quasi totalità del repertorio contenuto nei due album è dovuto alla penna del grande sassofonista scomparso nel 2004. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra “Prayer” e “Situations”: nel primo Locatelli suona inserito nel gruppo dei “Pipeline 8” completato da Gabriele Mitelli al flicorno contralto e alle percussioni, Sebastiano Tramontana al trombone, Alberto Braida al piano, Gianmaria Aprile alla chitarra, Luca Tilli al violoncello, Andrea Grossi al contrabbasso e Cristiano Calcagnile a batteria e percussioni, mentre in “Situations” Locatelli suona in splendida solitudine. Ad onor del vero è proprio questo secondo album che ci ha particolarmente colpiti: Locatelli evidenzia non solo una grande padronanza tecnica ma soprattutto una profonda conoscenza della musica di Steve Lacy. Qui non siamo di fronte ad una semplice interpretazione quanto ad un vero e proprio riappropriarsi della musica di Lacy facendola, in qualche modo, parte del proprio io, del proprio modo di sentire la musica. Operazione tutt’altro che semplice data la complessità dell’universo sonoro del musicista statunitense. Così non è certo un caso che nel brano “Absence” di Tom Raworth si ascoltino sullo sfondo le campane delle mucche ed i grilli, pratica non estranea alle concezioni di Lacy, che in alcuni suoi solo ha inserito in sottofondo rumori ‘altri’ come una radio che gracchiava. L’LP è corredato da tre belle foto di Steve Lacy opera di Roberto Masotti.
Ciò detto nulla toglie alla valenza dell’altro album “Prayer”, registrato dal vivo nell’ambito di Pisa Jazz nel novembre 2016. Le nove tracce evidenziano come i “Pipeline 8” siano attualmente una delle formazioni più innovative e interessanti del pur variegato panorama nazionale. Il gruppo si muove su coordinate non convenzionali, alla ricerca costante di una lettura della musica di Lacy che sia allo stesso tempo fedele all’originale ma dotata di vita propria. Di qui l’alternarsi di atmosfere notturne ad improvvisi slanci melodici, il tutto impreziosito dalla bravura dei singoli tra cui in particolare evidenza si pongono Andrea Grossi al contrabbasso e Cristiano Calcagnile alla batteria e percussioni. Anche in questo caso la musica di Lacy viene esaminata, esplorata fin nei più reconditi meandri avendo come riferimento tutto l’arco della produzione di Lacy, comprese quindi le collaborazioni con Thelonius Monk o Charles Mingus, fino agli Area di Demetrio Stratos con cui lavorò negli anni settanta.

Andrea Grossi Blend 3 – “Lubok”
Nato a Monza nel 1992, il contrabbassista Andrea Grossi guida ‘Blend 3’ un trio completato da Manuel Caliumi al sax alto e Michele Bonifati alla chitarra elettrica. L’album nasce dalle sensazioni ricavate dal leader dall’osservazione dei ‘lubok’ ovvero un tipo di stampa popolare russa diffusa nell’Ottocento, caratterizzata da una colorazione a mano con accesi colori che sovrapposta alle scene creavano una sorta di sovra-struttura astratta. Ciò per indicare come Grossi intenda riferirsi, con la sua musica, al tutte le tradizioni musicali del ‘900 alla ricerca di uno stile comunque personale. Ed in effetti i tre dimostrano di volersi addentrare su un terreno impervio avendo scelto di suonare senza batteria: quindi da un lato la mancanza di un più preciso e puntuale sostegno ritmico, dall’altro, però, la possibilità di svariare senza limite alcuno, agendo a fondo sulle dinamiche ed esplorando le sonorità del trio in un equilibrio ricercato e trovato tra pagina scritta e improvvisazione. Non a caso nelle note che accompagnano l’album viene esplicitamente detto che “Blend3 non sa quanti brani suonerà o quanto improvviserà, conosce soltanto il suo bisogno primario: prendere nuovamente vita ricercando un costante senso di unicità “. Obiettivo raggiunto? In questo album sì ma attendiamo il trio ad altre prove, ancora più impegnative. Ultima notazione tutt’altro che secondaria: molto curato e raffinato il confezionamento degli LP.

Jazz ‘n Fall 2019. A Pescara, la musica di Dave Holland, Chris Potter, Zakir Hussain, Kenny Barron, Linda May Han Oh e Daniele Cordisco

La Società del Teatro e della Musica “Luigi Barbara” presenta, a novembre, la nuova edizione di Jazz ‘n Fall: un programma di grande livello che si aprirà martedì 5 novembre con il Cross Currents Trio, formato da Dave Holland, Chris Potter e Zakir Hussain, proseguirà mercoledì 6 novembre con il Linda May Han Oh Quintet e si concluderà lunedì 11 novembre con il concerto in piano solo di Kenny Barron e il Daniele Cordisco Organ Trio.

I concerti si terranno al Teatro Massimo di Pescara, con inizio alle ore 21. Il prezzo del biglietto di ingresso ai singoli concerti è di 20 euro.

Anche nell’edizione 2019, Jazz ‘n Fall rinnova il senso dato a questa nuova stagione della rassegna, un ponte, cioè, tra quanto prodotto da musicisti esperti, stimati e diventati grazie alle incisioni e alle esperienze dei veri e propri capiscuola, e i talenti delle nuove generazioni. Una staffetta tra generazioni e stili espressivi, tra intenzioni, riferimenti e provenienze geografiche. Raccogliere – e sviluppare secondo coordinate diverse – l’idea di una musica capace di sfuggire alle definizioni più stringenti per ritrovare le radici comuni nella condivisione e nell’improvvisazione: un approccio creativo e libero da troppi schemi precostituiti per dialogare con il mondo e raccontarne l’attualità.

“New Bottle, Old Wine” è il motto scelto dal Direttore Artistico Lucio Fumo alla ripartenza di Jazz ‘n Fall: è un modo per sottolineare proprio questo significato intimo. Ed è il senso del percorso che prende le mosse dal Cross Currents Trio – progetto che unisce tre personalità importanti come Dave Holland, Zakir Hussain e Chris Potter – e arriva al nuovo lavoro della contrabbassista Linda May Han Oh, passando attraverso esperienze più vicine alle tradizioni del jazz come il piano solo di un Maestro di questo formato quale è Kenny Barron e il fluido organ trio di Daniele Cordisco.

Dave Holland è un caposcuola indiscusso del jazz degli ultimi decenni. Se, giovanissimo, fu tra i protagonisti della svolta elettrica di Miles Davis, ha sempre cercato nuove strade e soluzioni espressive: il trio Gateway, con Jack DeJohnette e John Abercrombie, e il suo splendido quintetto di inizio secolo sono solo due tra le tante testimonianze di un percorso sempre attento nel combinare suggestioni diverse, sotto l’aspetto timbrico, melodico e armonico. Questo nuovo progetto collettivo coinvolge musicisti di spessore assoluto come Chris Potter ai sassofoni e Zakir Hussain alle tabla: Good Hope è il titolo del disco che hanno appena pubblicato e che stabilisce, ancora una volta, come la musica – e, in particolare, il jazz – sia un veicolo naturale di integrazione, costruita con rispetto e maestria da tre artisti versatili ma dalla forte personalità espressiva.

Kenny Barron è tra i pianisti jazz più importanti del panorama attuale. Un vero e proprio maestro nel condurre lo strumento attraverso la sua storia e la sua letteratura in percorsi che tengano conto delle tradizioni senza rimanerne prigionieri. La sua musica sgorga dal pianoforte rispettosa della lezione dei grandi del passato e, allo stesso tempo, fresca e creativa. Il piano solo diventa una maniera ulteriore per affrontare l’essenza più intima di questo discorso: le mani sapienti di Kenny Barron è il modo più diretto per innescare un processo naturale e sempre capace di raccontare come il jazz sia una musica in grado rinnovarsi prendendo le mosse dalle sue radici e dalle sua stessa storia.

La figura artistica di Linda May Han Oh racconta molto bene il percorso jazzistico delle nuove generazioni. Una sintesi tra riferimenti provenienti da contesti diversi e continuamente rimessi in gioco. È quanto emerge dai suoi lavori più recenti – Walk against the wind del 2017 e Aventurine, pubblicato quest’anno – e lo rivela la sua presenza al fianco di musicisti del livello di Pat Metheny e Dave Douglas, tanto per citarne un paio. La musica della contrabbassista è solida e senza compromessi, raccoglie il testimone dalle vicende più recenti del jazz per offrire una sintesi personale e un contributo personale alla scena musicale odierna. Una musica densa, animata da melodie frastagliate e strutture composite ma sempre controllate e ben dirette. Un ambiente sonoro tutto sommato acustico senza rinunciare alle manipolazioni sonore. Una sintesi articolata per confrontarsi con il mondo sempre più sfaccettato di oggi.

Organ trio venato di blues, suonato con trasporto e condotto con grande rispetto per la tradizione: questa la ricetta di Daniele Cordisco, chitarrista dal percorso solido e già maturo, capace di far notare le sue qualità sin da giovanissimo con collaborazioni di sicuro livello e la vittoria nel Premio Internazionale Massimo Urbani. La musica del trio si muove tra standard, brani del songbook statunitense e temi originali con accento scanzonato e ironico, una dose equilibrata di virtuosismo e groove, un tocco romantico e il suono sempre seducente dell’organ trio. Con il chitarrista, suonano anche Pat Bianchi, grande inteprete statunitense dell’organo Hammond, e il batterista Giovanni Campanella.