Il Jazz Italiano in Epoca Covid di Gerlando Gatto: la recensione di Fabio Ciminiera Jazz Convention

Ancora una recensione per il nuovo libro del nostro direttore Gerlando Gatto “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” (clicca sul titolo per acquistarlo online).
A scriverne è il giornalista e critico musicale Fabio Ciminiera, sul suo portale Jazz Convention.
Un sentito grazie per le belle parole:
“Un instant book a cuore aperto per un momento storico stralunato, in generale, e molto sofferto da parte delle persone che vivono e lavorano di musica nel mondo. Gerlando Gatto ha pubblicato una serie di interviste su A Proposito di Jazz durante i mesi più feroci della pandemia, quelli caratterizzati dal lockdown della scorsa primavera. Una vera e propria fotografia istantanea di una scena alle prese con problemi nuovi, problemi che si vanno ad aggiungere a quelli atavici della scena jazz analizzati tante volte. Allo stesso tempo, ribaltando l’ordine dei fattori, le tante interviste ai jazzisti offrono una prospettiva particolare di una questione che tocca – e in modo profondo – tutto il pianeta e le diverse categorie di persone.”

MT / Redazione

Rita Marcotulli al Teatro Pasolini per il Festival del Coraggio: la strada dell’illuminazione passa per le corde di un pianoforte

Il Festival del Coraggio, che si svolge da tre anni in quel di Cervignano del Friuli (UD), a cura di Bottega Errante, da un’idea dell’Assessorato alla Cultura, è un unicum a livello nazionale perché riesce a declinare il concetto di coraggio calandolo in ciascuna delle arti ed elaborandone i linguaggi e le esperienze fino ad arrivare alla sua essenza.
In questa “coraggiosa” edizione, tenutasi dal 9 all’11 ottobre, in piena ripresa della pandemia, sono stati ospiti, tra gli altri, Marina Senesi, Pierpaolo Mittica, Franco Pugliese, Corrado Augias, Alessandra Ballerini con Paola e Claudio Regeni, Domenico Barrilà, Rita Marcotulli, Kepler-452.
L’evento di cui vi racconterò in queste righe è quello conclusivo del Festival, realizzato con la collaborazione di Euritmica, e la protagonista è una cara amica di A Proposito di Jazz: la pianista Rita Marcotulli.

Rita Marcotulli – ph Alice BL Durigatto

La serata, dopo una serie di saluti rituali, è iniziata con un’intima intervista alla pianista e compositrice romana condotta dall’intellettuale friulano Paolo Patui.
Patui ha introdotto la Marcotulli presentandola come “La Signora del Jazz”, una delle definizioni più calzanti, amata e usata soprattutto dalla stampa specializzata, riconoscendole una grande libertà e cristallinità dell’anima, del cuore e dei pensieri che si riflette anche nella sua musica.
Rita, sulla scia di ricordi legati alla sua infanzia, ha parlato del padre, ingegnere del suono che lavorava alla RCA con le grandi orchestre dell’epoca e su musiche da film di grandi Maestri come Morricone, Trovajoli, Piccioni, Rota e dell’inizio della sua “relazione” con il pianoforte, a soli cinque anni. Nino Rota, spesso ospite della famiglia Marcotulli, amava tenere in braccio la piccola Rita, insegnandole qualche motivetto al piano, uno tra i primi “W La Pappa col Pomodoro”!
Marcotulli ha ricordato l’inizio della sua carriera, verso la fine degli anni ’70, e i lunghi tour con Francesco De Gregori che le fecero comprendere con chiarezza che non era quella la sua strada… che quella musica non era nelle sue corde… suonava, saliva sul pullman, indossava le cuffie e ascoltava Coltrane!
Dentro di noi – ha affermato Rita – c’è sempre la verità” e la sua verità è sempre stata il jazz, con la sua spiritualità e con quel senso di libertà che induce ad un’idea di trascendenza per la vita.

Rita Marcotulli e Paolo Patui – ph Alice BL Durigatto

Alla classica domanda sui pregiudizi che ruotano ancora – inspiegabilmente, oltre che anacronisticamente, a mio parere – sulle musiciste (e sulle jazziste in modo particolare), Rita riporta le parole che le disse il grande sassofonista statunitense Dewey Redman (con il quale, dal 1992, suonò per 15 anni): “Dovresti essere molto più famosa ma hai tre cose che non vanno: sei bianca, italiana. E donna!”
La Marcotulli è indiscutibilmente una bandiera per le donne che suonano il jazz, per anni relegate quasi esclusivamente nell’alveo della vocalità; la sua carriera è un esempio straordinario della capacità di affrancarsi dagli stereotipi di genere. In Italia, è stata la prima donna in assoluto a vincere il David di Donatello come miglior musicista, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, le ha conferito l’onoreficenza di “Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana”; è membro della Royal Swedish Academy of Music, accanto a figure di grande rilievo nel mondo della musica come Pat Metheny, Keith Jarret, Björk, Gustavo Dudamel, Riccardo Muti, Jan Garbarek. Oltre ai tanti riconoscimenti ricevuti, Rita Marcotulli vanta importanti collaborazioni, realizzate negli anni, con Chet Baker, Palle Danielsson, Billy Cobham, Peter Erskine, Steve Grossman, Joe Henderson, Joe Lovano, Pat Metheny, Sal Nistico, Michel Portal, Enrico Rava, Dewey Redman, Aldo Romano, Kenny Wheeler, Noa, Norma Winstone, Pino Daniele, Francesco De Gregori… ma anche con Bobby Solo, come ha fatto notare uno stupito Paolo Patui! La pianista, riaffermando il concetto che non esistono barriere tra i generi musicali, ha ricordato la tournée in Argentina al seguito di Bobby Solo, in un periodo non certo facile, ovvero agli inizi della dittatura militare, la “guerra sucia” del Generale Videla. I musicisti, scortati passo a passo da appartenenti alle forze militari del Paese, furono loro malgrado testimoni dei metodi biechi e violenti verso le persone che non erano considerate affini alle politiche governative, ondate di violenza che produssero decine di migliaia di morti e che i loro accompagnatori raccontavano con malcelato compiacimento.
Dopo un lungo e piacevole divagare tra le pieghe della parola coraggio, della musica come terapia per chi la fa e per chi l’ascolta, della sua natura “hic et nunc, ubique et semper” (qui e ora, ovunque e sempre), di come la vita non sia mai certezza, mentre l’essere umano tende ad essere proiettato nel passato o nel futuro, allorché l’unico spazio dove essere felice sia il presente, per quanto doloroso ciò possa essere: un ossimoro che ben raffigura il tempo che ci è concesso. Per Rita, l’asserto: “suona sempre come se fosse il tuo ultimo giorno” è quasi un mantra…

Rita Marcotulli – ph Alice BL Durigatto

Poi, dopo averci fatto “sentire” come la potenza della musica sia in grado di evocare emozioni, laddove la chiave maggiore rende l’idea di precisione e quindi un senso di apertura e di gioia, mentre l’accordo minore suggerisce tristezza, talvolta inquietudine e turbamento, Rita Marcotulli inizia il suo recital, rigorosamente senza spartito (lei non ama molto leggere la musica ed anche per questo predilige il temperamento indipendente del jazz…).
Le prime note che risuonano nel teatro sono quelle di un’improvvisazione: un brano che inizia con un’infusione di dolce malinconia per poi virare in un rincorrersi di note veloci e incalzanti, a momenti rabbiose, in un saliscendi continuo.
Una bella riscrittura in 5/4, eterea e sognante, del commento musicale al film muto “Nanà“, uno dei capolavori del regista Jean Renoir (tratto da una delle opere più lucide e aspre di Émile Zola), è un omaggio di Rita ad una delle sue passioni: le colonne sonore.
In “Somewhere over the Rainbow” le mani della pianista sprigionano intere galassie di stelle che danzano sulle note, sviluppando un suono sfumato e morbido e figurazioni eleganti, colte e raffinate.
In “Koiné” la Marcotulli riunisce cromie, linguaggi e suoni come nella lingua comune di epoca ellenistica a cui il titolo si rifà, un antico dialetto che è la forma prodromica del greco moderno unificato. La cordiera del pianoforte Steinway & Sons diventa un terreno dove sperimentare, dove cercare nuove sonorità, che lei puntualmente trova suonando direttamente sulle corde o inserendovi oggetti vari. Il risultato è eccezionale, a momenti sembra di ascoltare un sitar, altri un’arpa birmana, per qualche istante ho persino ritrovato la suggestione poetica di una boîte à musique, un carillon della mia infanzia…
“Nel volo di un istante, sentì come una cosa cadere nel suo cuore…” è una frase del bellissimo libro “Miguilim”, un romanzo di formazione dello scrittore brasiliano João Guimarães Rosa (la prefazione è di Antonio Tabucchi). Anche l’impeccabile esecuzione del brano, che porta lo stesso titolo del libro, è stata il volo di un istante franato con levità  nei cuori dei presenti (teatro pieno ma nel rispetto delle distanze…). Un volo ritmato, coinvolgente, un invito irresistibile a muovere la testa e le gambe, con infinite sfumature ritmiche e melodiche, una prova che raggiunge picchi altissimi di virtuosismo, che tuttavia non viene mai ostentato. Rita lo suona dagli inizi della sua carriera, quando si esibiva con il percussionista Ivanir do Nascimento a.k.a. Mandrake Som, purtroppo scomparso da tempo.
C’è un aneddoto che il mio direttore Gerlando Gatto ama spesso raccontare: Mandrake, che era nel novero dei suoi amici più cari, gli disse: “tieni d’occhio questa ragazza che è davvero formidabile e di cui sentiremo tanto parlare”. Così è stato e Rita, sorvegliata speciale del critico musicale ed ora anche sua amica, è presente in due dei tre libri da lui scritti: “L’altra metà del jazz” e il più recente, “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” (in quest’ultimo con un’intervista raccolta dalla scrivente).

Rita Marcotulli – ph Alice BL Durigatto

Ci si avvia alla fine della performance con un tributo a Pierpaolo Pasolini, del quale il teatro cervignanese porta il nome. Il brano è “Cosa sono le nuvole”, scritto dallo stesso Pasolini assieme a Domenico Modugno e contenuto nel film “Capriccio all’italiana” dove l’intellettuale di origine friulana firma questo episodio, un viaggio ipertestuale che ricorre ad una mise en abyme, come nel quadro “La Meninas” di Diego Velasquez.
Totò, Ninetto Davoli, Laura Betti, Franco Franchi, Ciccio Ingrassia, Modugno, sono delle marionette in una messinscena parodistica dell’Otello shakespeariano, che dietro le quinte vivono una vita propria e che quando vengono scaricate nell’immondezzaio, nel momento della loro morte e finalmente senza fili, scoprono l’inarrivabile bellezza delle nuvole. Struggenti le parole di Totò/Iago che, accanto a Otello/Davoli, scopre per la prima (e unica) volta il cielo e le nuvole, pronunciando queste famose ultime parole: “Ah! Straziante meravigliosa bellezza del creato!”.
La Marcotulli ce ne regala una versione che ci fa perdere in meravigliosi e quieti viluppi melodici e armonici, che fa emergere stratificazioni della memoria credute ormai perdute, tra intrecci coraggiosi delle arti: la pittura, la musica, il cinema e la letteratura.
Anche il bis è spiazzante… una versione jazzy di “Lady Madonna” dei Beatles: “Lady Madonna children at your feet. Listen to the music playing in your head”.
Ed eccoci qui, Lady Marcotulli, tutti ai tuoi piedi ad ascoltare la musica visionaria che dipingi nella tua mente e che evoca fiabeschi e immaginifici paesaggi sonori.
Probabilmente, saresti d’ispirazione anche per Kandinsky, che trasferì sulla tela le emozioni provate durante il concerto per pianoforte e quartetto d’archi a Monaco di Baviera, di Arnold Schönberg… era il 1911, il secolo delle avanguardie…

Marina Tuni

A Proposito di Jazz ringrazia il Festival del Coraggio e Alice BL Durigatto per la gentile concessione delle immagini.

Podcast di Riverberi Radio1Rai FVG – Piero Pieri intervista Gerlando Gatto per presentare il suo nuovo libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

Il nostro direttore  è stato intervistato da Piero Pieri (giornalista e critico musicale) nel corso del programma radiofonico Riverberi Radio 1 Rai FVG, andato in onda giovedì 8 ottobre 2020, dove è stato presentato il suo nuovo libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” .

Con il consueto acume e con grande competenza, Piero Pieri ha toccato alcuni aspetti peculiari e rilevanti delle 41 interviste presentate nel libro e proposto l’ascolto di alcuni brani suggeriti dai musicisti intervistati durante il periodo di lockdown.

Clicca QUI per ascoltare il podcast della trasmissione.

Buon ascolto!

 

Michele Bordoni: fotografo AFIJ del mese di settembre – la gallery e l’intervista

Michele Bordoni

Dopo la pausa agostana, riprende la nostra serie di interviste, con pubblicazione delle relative gallery, ai fotografi dell’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ.
Il mese di Settembre ci porta in Lombardia, nella splendida Valtellina, in questo periodo in cui il foliage, con le sue intense e calde sfumature autunnali, si tinge di verde cinabro, ocra, marrone tennè, vermiglio, regalandoci uno scenario naturale di rara bellezza, nelle sue incantevoli foreste che sembrano uscite da una fiaba.
Qui, in un paesello di neppure cinquemila abitanti che domina la valle dell’Adda, vive il giovane fotografo Michele Bordoni, appassionato di jazz e di sport ma anche innamorato della sua terra. Ognuna di queste passioni entra prepotentemente nei suoi scatti, che catturano bellezza e restituiscono emozioni…
Michele, affascinato dalla fotografia sin da piccolo, grazie alle diapositive di montagna del padre, si avvicina all’arte fotografica solo nel 2009, anno in cui acquista la sua prima reflex.
Oltre alla musica, allo sport e al territorio, affronta nel tempo anche temi diversi quali la lotta alla violenza sulle donne e la valorizzazione del patrimonio culturale e dell’artigianato tipico, sfociati in mostre apprezzate.
Si avvicina al locale festival Ambria Jazz collaborando anche come fotografo, quindi inizia a seguire altri festival e luoghi concentrando le proprie energie nello sviluppo di progetti nell’ambito della musica jazz.
Espone in diverse località prevalentemente valtellinesi, più recentemente anche presso il Jazz Club Ferrara, che frequenta ora abitualmente.
Partecipa nel 2015 a Il jazz italiano per L’Aquila e alle due successive edizioni dedicate ad Amatrice e alle terre del sisma, contribuendo con le proprie immagini alla realizzazione delle omonime pubblicazioni. (Marina Tuni)

– Leggo sulle tue note biografiche che devi a tuo padre e alle sue diapositive di montagna l’inizio del tuo percorso di fotografo, a ventiquattro anni, nel 2009. Quali sentimenti, emozioni, slanci, propositi hanno suscitato in te, giovane uomo, quelle immagini?
«La cosa è forse un po’ strana perché vedere le diapositive su questo grande telo era sempre molto piacevole, ritrovarsi a guardarle e ascoltare quello che rappresentavano suscitava in me grande interesse, soprattutto per quello che trasmettevano.
Poi, non so per quale motivo, ma non avevo mai concretizzato questo interesse prendendo in mano lo strumento in prima persona, forse perché anche mio papà, in quel momento, non scattava più, ma questo non si potrà mai sapere…
Un altro elemento curioso è che nel mio paese si svolgeva molti anni fa un bel festival Jazz, che seguivo talvolta da spettatore, e vedere il fotografo che si muoveva tra pubblico e sotto palco mi ha sempre incuriosito molto. Quindi, oltre ai musicisti, seguivo lui con lo sguardo.
Dopo qualche anno tutto questo è divenuto una realtà con i primi concerti Rock di band locali e poi con il Jazz e la storia continua…».

– Nell’epoca della tecnologia usa e getta e della digital transformation, dove tutto è elaborato, artefatto, ricostruito, filtrato… fa quasi impressione, sicuramente stupisce, sapere che la tua principale preoccupazione non è quella di implementare continuamente la tua attrezzatura e che la tua forma di comunicazione visiva è improntata a trasmettere emozioni dirette e genuine, poco o per nulla edulcorate dai potenti strumenti della post-produzione. Ci spieghi questo tuo modo di proporti?

«L’idea di partenza è quella di riuscire a raccontare in maniera più realistica possibile gli avvenimenti, come avveniva per i fotoreporter di un tempo, quando questa professione è nata, da qui si sviluppa il lavoro.
Negli ultimi anni sicuramente ho anche investito nella dotazione tecnica, è fondamentale riuscire a tenersi aggiornati con le nuove tecnologie; tuttavia, cerco sempre di mantenere l’equilibrio tra realtà e “immaginazione”.
Negli ultimi anni trovo sempre più fotografi con grandi competenze informatiche e questo ha portato nuovi e positivi sviluppi ma a volte si spinge troppo su questo aspetto e poco su quello che è la fedeltà delle immagini e sulla capacità di un fotografo di raccontare un evento; per quella che è la mia esperienza, non è sufficiente fare dei buoni scatti ma la grande sfida e quella di riuscire a concatenarli per raccontare una storia».

– Sei un grande appassionato di jazz ma anche di sport, con le tue foto sviluppi tematiche sociali, come la lotta alla violenza di genere e, soprattutto, guardando le tue foto e le mostre che hai tenuto, appare evidente l’amore che provi per l’ambiente e la terra, la tua Valtellina in primis, e per il suo patrimonio culturale, paesaggistico e artigianale… è così? Cosa ti lega alla tua terra?

«Amo molto la mia terra ed è stato naturale una volta avuta la mia prima vera macchina fotografica raccontare i luoghi della mia vita e molto spesso sono proprio a un passo da casa, come è stato per un mulino su cui avevo “lavorato” quando ero studente e che ho voluto in seguito raccontare con la macchina fotografica; un altro esempio è la latteria dove fino a qualche anno prima la mia famiglia conferiva il latte.
Negli ultimi anni l’impegno con la musica Jazz non mi ha lasciato molto tempo per questi racconti ma vivendo la mia terra per altre mie passioni le idee sono molte e, anche se con meno frequenza, sviluppo con l’obiettivo di approfondire in futuro.
Cerco di unire le mie varie esperienze per creare un racconto personale del Jazz per come lo vivo».

– Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
«Condivido il pensiero, la fotografia come ogni forma espressiva è soggettiva per molteplici motivi. A partire dagli strumenti che utilizziamo, ma soprattutto da dove arriviamo, il percorso che compiamo ci porta a leggere le situazioni in modi molto diversi.
Quello che fotografiamo è frutto della nostra visione delle cose, con gli occhi vediamo e con il cuore la trasformiamo in qualcosa di tangibile.
Tutto questo è un processo in continua evoluzione, via via che il tempo passa anche le nostre immagini evolvono con noi».

– Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
È una costante del mio lavoro, anche per questo cerco a ogni concerto diverse prospettive per raccontare la musica e i musicisti in maniera globale, per far sì che quello che uscirà attraverso le immagini sia il più reale possibile e che racconti quello che è realmente successo, sia dal punto di vista dello spettatore in prima fila sia da quello che siede  nell’ultima.
Lo spettatore in prima fila, ad esempio, coglie di più le varie espressione sul volto dei protagonisti mentre quello in ultima potrebbe catturare meglio di la “danza” delle braccia del batterista che colpisce i piatti.
Anche per questo non amo raccontare un evento con una singola o con poche immagini, che magari mettono in luce solo il leader della formazione, il mio racconto vuole essere il più rispettoso possibile verso tutti i musicisti, che sul palco hanno la stessa dignità e importanza».

– La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Durante gli scatti la mente è condizionata inevitabilmente da molti elementi. Sicuramente uno dei più importanti è il flusso della musica che crea delle onde che noi seguiamo.
Quando si riesce a stabilire un legame umano, che viene poi alimentato dal suono, l’energia che si crea tra il palco e noi che stiamo dietro un mirino è incredibile.
Un altro elemento molto importante è il luogo che ospita il concerto. Noi in Italia siamo molto fortunati, forse i più fortunati, sempre più luoghi magnifici ospitano concerti, l’architettura la storia di quei luoghi condiziona in maniera positiva gli scatti e noi che seguiamo il Jazz siamo sicuramente privilegiati da questo punto di vista».

– Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sicuramente ci sono degli scatti ai cui sono più legato di altri e questo, come già detto, dipende dall’aspetto emozionale.
Sono molti i musicisti con i quali si crea un atmosfera particolare, se devo sceglierne uno cito Hamid Drake, uno dei musicisti che a livello umano, musicale e fotografico mi ha dato fino ad oggi più. Il suo suono è il riflesso dell’amore per la musica… è la vita che mette in ogni sua esibizione. Per questo, forse, l’immagine a cui sono più legato è la sua, l’unica che ho scelto in bianco e nero per questa presentazione.
È arrivata in un momento molto importante sia della mia vita a livello personale sia nella mia attività fotografica ed è stata una spinta incredibile per il prosieguo del mio lavoro».

Antonio Baiano: fotografo AFIJ del mese di luglio – la gallery e l’intervista

Nel prosieguo della felice collaborazione di A Proposito di Jazz con l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ, s’inserisce l’iniziativa “Il fotografo AFIJ del mese”. Luglio mi ha riservato un’inaspettata sorpresa, l’intervista ad Antonio Baiano. Devo dire che le sue risposte e le sue immagini mi hanno trascinata in un viaggio dell’anima che ha messo in moto anche la mia sete di conoscenza, accendendo i sensori della mia curiosità; un viaggio che mi ha portato a scoprire il suo modo intimo di fotografare il jazz e la sua capacità di cogliere l’istante perfetto, come nella foto che ha scattato a Carla Bley e Paul Swallow… delicata, tenera… emozionante. Attraverso le sue foto sulla Santeria, una religione che fonde le pratiche animiste dell’Africa occidentale e il cattolicesimo, mi si è svelato un aspetto inconsueto e affascinante di Cuba. Al netto della passione per il jazz e per i viaggi, ho scoperto di avere in comune con lui anche quella per i Van der Graaf Generator e per i King Crimson!  (Marina Tuni)

Nato a Napoli nel 1962, Antonio Baiano, vive a Torino dal 1990 ed ha iniziato la sua attività fotografica nel 1997 fotografando concerti jazz.
Nel suo percorso formativo ha frequentato i seminari di David H. Harvey, Kent Kobersteen, Tomasz Tomaszewski, Ernesto Bazan e Alexandra Boulat.
Oltre alle immagini di spettacolo, predilige i reportage, che considera il mezzo perfetto per approfondire l’esplorazione e la conoscenza di tematiche sociali e diversità culturali.
Nel 2001 parte il suo progetto “Roots” sulle religioni afro-caraibiche; negli anni ha portato avanti un lungo progetto sui riti della Santeria Cubana e sul Candomblé, in Brasile.
Le immagini di questi reportage sono state esposte a Cuba, in Francia e in Italia e sono conservate nel museo “Casa de Africa” ​​de L’Avana e nel Museo Etnografico “Pigorini” di Roma. Suoi scatti sono pubblicati su varie riviste e giornali come Musica Jazz, Repubblica, Volunteers for Development, Collections Edge ed è anche autore di diverse copertine di CD.
Collabora regolarmente con la webmagazine All About Jazz ed è membro dell’American Society of Media Photographers (www.asmp.org) dal 2002.

Ci racconti qualcosa di te? Cos’è che ti ha fatto capire che la fotografia, di jazz soprattutto, sarebbe stata una parte determinante della tua vita?
“Sono vissuto in una famiglia amante della musica: ho un fratello ed una sorella musicisti classici che, fin da piccoli, hanno riempito la casa e la mia vita di musica. Fra i dischi di Beethoven e Stravinsky c’erano alcuni “V Disc” e una copia di “Giant Steps” di mio padre, ed io ho cominciato con essi ad ascoltare il jazz. Mio padre mi fece avvicinare alla fotografia dandomi la sua Nikon F con la quale ho fatto i miei primi scatti. Il connubio tra fotografia e musica è stato quindi inconsciamente sempre naturale. Mi sono avvicinato alla fotografia di Jazz dopo aver lasciato lo studio della chitarra, forse è stato un atto compensativo per questa rinuncia perché, quando fotografo i concerti, mi sembra di partecipare attivamente ad essi. A volte mi sembra quasi di scattare al ritmo del brano che stanno suonando!”

-Ho letto – e devo dirti che mi ha colpita molto – del tuo progetto dedicato alla Santeria Cubana, con gli scatti che hai realizzato a Cuba in un periodo molto lungo. So che per i cubani la Santeria rappresenta non solo un culto, che peraltro si mescola al cattolicesimo, ma una vera e propria filosofia di vita basata sulla ricerca della felicità e sul fatto che la realizzazione di una persona non può avvenire se ciò arreca infelicità all’altro. Determinante è stato per te l’incontro con Yadira, che hai conosciuto nel 1999 quand’era ancora una bambina e che continui a seguire anche ora che è diventata donna e madre. La sua storia è legata a doppio filo alla Santeria, alla quale fu iniziata dai genitori in tenera età. Credo che un’esperienza così intensa possa aver influito profondamente nella tua vita personale e forse anche nel tuo modo d’intendere la fotografia. È così?

“Sicuramente l’incontro con Yadira è stato un elemento determinante della mia vita; siamo profondamente legati e ormai dei momenti della mia vita passata e futura sono legati a lei ed alla sua famiglia. Ma non penso che abbia cambiato il mio modo di intendere la fotografia, perché almeno per me è sempre dipeso dall’etica con cui l’affronto e dai motivi per cui fotografo. Quando affronto un progetto fotografico, avendo il raccontare come elemento di base, il mio principio è prima di tutto quello di essere sincero nei confronti sia del soggetto fotografato sia di chi poi guarda le mie foto e “legge” la mia storia. Così è stato per Yadira e così per altri lavori, come quello sulla Santeria o sul Kurdistan. Poichè la fotografia non descrive la realtà, ma in qualche modo la interpreta o comunque lascia gli spazi all’interpretazione, ritengo sia necessario che il proprio approccio sia quanto più possibile onesto e sincero, perlomeno in un campo come quello del reportage”.

-Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
“Sono totalmente d’accordo con te! Come ho detto sopra, la fotografia interpreta e lascia interpretare. È il fotografo che decide cosa e come inquadrare, e con che parametri, come la focale o l’esposizione. È il fotografo che decide cosa lasciare all’interpretazione, cosa svelare, cosa nascondere, se ingannare o meno lo spettatore. D’altronde, artisti in altri campi ci hanno insegnato che anche gli oggetti reali possono non essere quello che sembrano. Come potrebbe quindi la fotografia essere oggettiva?”

-Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?

“Sicuramente. Anche io faccio una scelta molto ponderata (di cui magari poi mi pento dopo la pubblicazione) delle foto che ho scattato, cercando di restituire al meglio ciò che ho ascoltato e fotografato. A mio avviso però qui entra in gioco maggiormente (rispetto al reportage) il voler raccontare sé stessi in quella foto o meglio mostrare come si vede  quel musicista e la sua personalità. Rimane sempre presente quel filo legato alla soggettività della fotografia”.

-La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
“Penso che in qualche modo la musica che viene suonata mi condizioni, ma in modo limitato. Alla fin fine sono un fotografo, quindi cerco forme, ombre e luci. Sono molto più condizionato da questi elementi e da come e cosa il musicista fa in scena e di come interagisce con gli eventuali partner”.

Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Alcune delle mie immagini preferite sono fra quelle che ho scelto per questo articolo, come quella di Carla Bley e Steve Swallow. È un momento così sincero di tenerezza fra i due che penso descriva molto di questi due musicisti e sono sempre stato felice di aver colto quell’attimo. Un’altra foto che mi piace molto è quella di Ralph Towner mentre accorda la chitarra. Ralph è un musicista determinante nella mia vita perché fu ascoltando lui che decisi di studiare chitarra classica. Accordare lo strumento, se vogliamo, è un gesto banale ma fondamentale che il chitarrista ripete spesso durante un concerto. Quella foto coglie l’estrema attenzione con cui il musicista lo compie. Poi la foto di David Jackson (la numero nove, ndr). Non potevo credere di conoscere uno dei musicisti di uno dei miei gruppi preferiti, i Van der Graaf Generator. È una persona estremamente cordiale e disponibile, ricca di umanità; ebbi una bella discussione con lui, che sfociò in quello scatto. Penso che descriva molto della sua personalità. Poi sicuramente (ed ovviamente) tanti degli scatti fatti a Yadira o della Santeria sono parte integrante di me!”

Marina Tuni

 

Giuseppe Arcamone: fotografo AFIJ del mese di giugno – la gallery e l’intervista

Dopo l’articolo (qui il link) in cui presentavo la collaborazione di A Proposito di Jazz con  l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ, nata nel 2019, intervistando anche il suo Presidente Pino Ninfa, e la creazione di una nuova sezione del nostro portale dove stiamo raccogliendo gli scatti dei fotografi aderenti, inauguriamo oggi con piacere l’iniziativa “Il fotografo AFIJ del mese”.

Giuseppe Arcamone

Con cadenza mensile, presenteremo dunque le opere dei fotografi che fanno parte dell’Associazione, partendo da Giuseppe Arcamone, che ho intervistato per voi.
Nato nel 1969, si interessa alla fotografia da quando era adolescente. Una laurea in Architettura, alla Federico II di Napoli, un forte interesse per il movimento del Popolo della Tammorra e per il Jazz, ha coniugato la sua passione per la fotografia con il suo percorso professionale nel mondo della scuola. Nel 2006, il trasferimento a Mantova, le cui atmosfere – diametralmente opposte alla città di Napoli – ispirano scatti vagamente malinconici e di rara intensità. Qui, sperimenta anche il ritratto sportivo, immortalando – da freelance – le gesta delle squadre di rugby e di basket.

Ci racconti qualcosa di te? Tu sei laureato in Architettura, cos’è che ti ha fatto capire che la fotografia sarebbe stata una parte determinante della tua vita?
“La pratica fotografica mi accompagna dalla giovane età. Gli studi di architettura hanno molto influito, mi hanno orientato nel rivedere e nello strutturare la mia personale visione fotografica poiché in essi è implicito il rapporto con la comunicazione visiva. Pur non avendone fatta una professione, la fotografia con il tempo è divenuta una maniera per comunicare il mio mondo interiore”.

Fotografi il jazz ma anche lo sport, la natura… Ho notato che sei attratto soprattutto dai dettagli, da piccoli ma profondamente significativi particolari. Usi molto il bianco e nero e le tue foto spesso comunicano sensazioni di movimento e di velocità. Nel Jazz il ritmo e l’improvvisazione sono fondamentali: “l’improvvisazione sviluppa un’estetica dell’imprevisto”, scrive Jacques Siron, musicista e artista multidisciplinare. Quest’ultimo è un concetto che si può applicare ai tuoi scatti?
“Il dettaglio è un qualcosa che si percepisce puntando a fondo lo sguardo su tutto ciò che ci circonda. Massimo Urbani, alto-sassofonista jazz, sosteneva che “l’avanguardia è nei sentimenti “. Ogni essere umano è dotato di sentimenti, i sentimenti sono dentro ognuno di noi. Cerco di farli emergere guardandomi intorno, reinterpretando tutto ciò che mi circonda, a cominciare dal dettaglio”.

Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo, dicevamo, che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
“Ebbene si, bisogna pensare a questo. Nel momento in cui si sceglie di manifestare le proprie idee, l’intento deve essere quello di far vibrare le corde dell’animo dell’osservatore,  suscitare emozioni  ed evocazioni uniche”.

-La musica è una fenomenale attivatrice di emozioni.. anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
“Siccome mi definisco un ascoltatore di musica onnivoro, non mi pongo il problema. Talvolta mi capita, azzardando, di fotografare anche musicisti che non ho mai visto né ascoltato in precedenza. Potrei documentarmi prima di incrociarli ma, volutamente, non lo faccio al fine di alimentare un certo fascino dell’imprevisto. Molto probabilmente è un rischio ma mi  concedo di correrlo. Le condizioni ambientali, il flusso sonoro, l’interplay che si instaura con i musicisti e le mie condizioni del momento determinano il risultato finale”.

-Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Credo di poter essere orgoglioso di aver potuto fotografare un umilissimo Ornette Coleman. L’ho incontrato nel retropalco e lui, vedendomi munito di fotocamera, si è fermato, si è messo in posa dandomi anche il tempo di organizzarmi, facendosi beffe del suo manager, intento ad impedire a chiunque di fotografare. Un gran signore!”.

Marina Tuni