Tra i Måneskin e Sanremo un’evidente linea rossa

Io credo che il nostro Paese stia vivendo, purtroppo oramai da molto tempo, un periodo davvero schizofrenico in cui, tra l’altro, si confondono i sogni con la realtà e le volgarità come manifestazioni politiche che dovrebbero convincere non si sa bene chi.
Ovviamente da queste considerazioni non è esente il mondo musicale su cui soffermerò l’attenzione.
Nei giorni scorsi ho visto i titoli di due dei più grandi giornali italiani – il Corsera e La Stampa – un tempo espressione della borghesia e oggi pervasi da una sorta di furia iconoclasta verso tutto ciò che guarda a destra – occuparsi dei Grammy: ebbene invece di tributare i giusti onori ai vincitori, si faceva esplicito riferimento alla “delusione” Måneskin.

Ora io capisco tutto, capisco il nazionalismo più acceso quando si tratta di qualche competizione anche se canora, ma francamente andare negli USA ed essere quasi certi di ottenere una probante vittoria ai Grammy Awards nella categoria Brand New Artist mi pare sinceramente un tantino, ma solo un tantino, pretenzioso.
Lo dico apertamente in questa sede così non ci sono equivoci: a me la musica dei Måneskin piace poco o nulla, la considero solo una pallida imitazione di ciò che si faceva qualche decennio fa…  per non parlare della squallida scenetta della distruzione degli strumenti sul palco. Insomma a mio avviso siamo dinnanzi ad un caso di enorme sopravalutazione, in ciò confortati da altri illustri pareri se è vero, come è vero, che “The Atlantic” ha stroncato l’ultimo album del gruppo – “Rush!” – definendo le canzoni palesemente «riciclate e mediocri». Ciò, ovviamente, nulla toglie a quanti viceversa amano questa musica, solo che, a cospetto di quanto contemporaneamente accade negli States, darli quasi per sicuri vincitori mi era parso un po’ esagerato. Ma non basta… in quanto anche dopo l’assegnazione dei premi qualcuno ha scritto che tutto sommato l’italico gruppo si è addirittura vista sfuggire la vittoria dalle mani. Che, guarda caso, è andata ad una grande artista, una vocalist che ha vinto come “miglior artista esordiente” e “miglior album vocale jazz” per “Linger Awhile”, trionfando così in tutte le categorie per cui era stata nominata: Samara Joy. E a quanti ancora recriminano per la mancata vittoria dei Måneskin, è caldamente consigliabile l’ascolto di Samara Joy, chissà che cambino opinione.
Chi invece mai cambia è il Festival di Sanremo. Avrà fatto il record di ascolti ma dal punto di vista musicale mi permetto di esprimere un mio personalissimo parere. Un inutile baraccone in cui la buona musica è stata accuratamente evitata, non so se a bella posta o inconsapevolmente. Ad onor del vero, io una mia idea me la sarei fatta: Amadeus non è un grande conoscitore di musica e le sue scelte non sono tanto dettate dalla qualità di ciò che ascolta quanto dalla vendibilità del “prodotto”. Credo che solo così si spieghi il fatto che quest’anno non c’era una sola canzone veramente bella, che ti colpiva immediatamente, con testi intelligenti e radicati nella vita delle persone. Insomma una conduzione troppo personalistica il che accade quando si dà a qualcuno troppo potere. Ma consolatevi: non è che la cosa riguardi solo la musica leggera e il Festival di Sanremo, qualche volta toccherà pure occuparsi di come le strutture pubbliche che a Roma si occupano di jazz sono gestite. Ma questo ci porta fuori tema e quindi torniamo a bomba.
C’è chi si è lamentato perché tra i primi cinque della classifica finale di Sanremo non ci fosse alcuna donna. Spero che adesso non si arrivi ad ipotizzare che anche in questo caso è assolutamente indispensabile una presenza femminile. La realtà è che Giorgia ha ancora una volta sbagliato canzone, che Elodie ha presentato un pezzo mediocre… insomma le nostre tanto acclamate opinion leader canterine hanno clamorosamente toppato. Qualcuno, degno di fede, qualche anno fa aveva scritto che si trattava di “Un inutile spettacolo canoro perfetto per la TV o meglio un demenziale varietà televisivo”.

Ed in effetti anche sotto l’aspetto del varietà non è che le cose siano andate tanto meglio: non si capisce bene perché a difendere la Costituzione sia stato scritturato quel Benigni che non molti anni fa si era impegnato perché la “Costituzione più bella del mondo” fosse cambiata; così come non si capisce bene perché Fedez può fare e dire tutte le minchiate che vuole mentre a Zelensky ciò non è concesso… per finire con il razzismo alla Egonu.
Credo ce ne sia abbastanza per chiedere a chi di dovere di cambiare strada… anche se francamente non ci crediamo tanto!

                                    Gerlando Gatto

PER NON DIMENTICARE

Affrontare un nuovo anno è un po’ come prepararsi ad un’impresa impegnativa. In effetti occorrono diverse condizioni perché il futuro sia visto con un minimo di ottimismo. Innanzitutto, è indispensabile porsi degli obiettivi il più chiari possibile; in secondo luogo è sempre opportuno raffrontare tali obiettivi ai mezzi disponibili; terzo – ma non meno importante – avere un quadro chiaro della situazione appena trascorsa per individuarne eventuali lati deboli su cui agire. Insomma, a mio avviso, la conoscenza piena, compiuta, consapevole del passato è condizione indispensabile per affrontare il futuro.
Se fossi un imprenditore direi che la situazione è ancora molto ma molto pesante perché dopo la pandemia siamo dentro un contesto internazionale pesantissimo anche se i più recenti dati sull’economia italiana non sono malvagi.
Per fortuna non sono un imprenditore ma un giornalista professionista che dopo essersi occupato per trent’anni di economia, adesso segue la sua più grande passione: il jazz.
Ritornando al discorso di cui in apertura, qual è attualmente la situazione del comparto jazzistico nel nostro Paese? Indubbiamente pesante anche se ho la vaga impressione che si tenda a dimenticare quanto accaduto nel recente passato.
Ecco è proprio da questa esigenza, dall’esigenza che non si dimentichi quanto accaduto che ho deciso di scrivere il mio terzo libro che alcuni di voi già conoscono: “Il Jazz italiano in epoca Covid” (clicca sul link per acquistare la tua copia su Amazon)

Siccome siamo un Paese di ‘scordarelli’ non vorrei che passasse facilmente nel dimenticatoio quello che per molti musicisti, specialmente i più giovani, è stato un periodo che definire terrificante è quasi un eufemismo. Musicisti per mesi senza lavoro, senza concerti, senza serate, con pochissime occasioni di registrare, hanno dovuto faticare parecchio per uscirne fuori… È ammesso poi che ciò sia accaduto. Ecco, il mio intento era e resta quello di offrire una testimonianza di questo periodo drammatico, una testimonianza non mia ma di quanti molto più di me hanno dovuto subire questa situazione.
E devo constatare che l’obiettivo è stato raggiunto se molti dell’ambiente jazzistico, hanno espresso apprezzamento per il lavoro svolto.
Così, ad esempio, secondo Claudio Angeleri “È un libro da avere e leggere perché documenta un periodo difficile per tutti ma in particolare per i musicisti. E non dimenticare. Le testimonianze sono del marzo 2020. Sembra passato un secolo. Bravo per aver avuto questa idea e averla realizzata”.
Per Riccardo Scivales “Un libro importante per far capire a chi non lo sa cosa significa vivere di musica e le mille difficoltà e ostacoli posti ogni giorno a questa professione che non serve solo a far “divertire” la gente. Da avere assolutamente e grazie” a chi l’ha concepito e realizzato.
Dal canto suo Neri Pollastri scrive: “Un lavoro particolare, questo di Gerlando Gatto, nel quale si parla poco o niente di musica, più uno studio sociologico che un libro sul jazz; e tuttavia un lavoro non solo molto interessante, ma anche a suo modo necessario, per comprendere come davvero abbia vissuto la fase più acuta della pandemia (si spera, visto che oggi siamo di fronte a una forte recrudescenza) una delle categorie più colpite dalle sue conseguenze non sanitarie, ma esistenziali ed economiche, qual è quella dei musicisti jazz”.

Gerlando Gatto

Buone Feste da A Proposito di Jazz!

Cari amici e amiche, nell’augurarvi di trascorrere le festività natalizie in serenità, magari ascoltando del buon jazz, vi ringraziamo per seguirci sempre con tanto affetto… ricambiatissimo, naturalmente!

Cogliamo questa occasione per comunicarvi che dopo un periodo di manutenzione e aggiornamento, ora il sito è di nuovo fruibile in tutte le sue funzionalità. Potete quindi aggiungere, se vi va, i vostri like, cliccando sull’iconcina di FB e condividere gli articoli su tutti i social. Grazie per la pazienza!

Auguri! da Gerlando Gatto, Marina Tuni e da tutta la redazione e gli autori di A Proposito di Jazz!

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

IL GRANDE EQUIVOCO DEL POP ITALIANO

Un giorno Thelonius Monk arriva tutto trafelato a casa della baronessa Pannonica. I suoi occhi spiritati spaventano tutti. Cosa ti è successo? Chiede Nica preoccupata dal suo stato di agitazione. I miei figli, risponde lui, hanno portato a casa un disco dei Beatles. Capisci che follia? Io non riesco a trovarlo. Mi devi aiutare, lo hanno certamente nascosto, e anche bene. Nica annuì tranquillizzandolo. In effetti i suoi figli avevano realmente acquistato un disco dei Beatles e chiesto a lei di poterlo nascondere a casa sua perché altrimenti, se lo avesse trovato il padre, sarebbe stata la fine. Questo simpatico episodio, raccontato da Francis Paudras nel suo libro “La danza degli infedeli”, può sembrare una esagerazione, ma non lo è. A noi questo episodio fa sorridere perché si tratta dei Beatles – e forse Monk sapeva già che con loro, il Mondo non sarebbe stato più la stessa cosa -. Ma immaginatelo oggi, e ai Beatles sostituite i Maneskin. Anzi sostituite i quattro ragazzi di Liverpool con uno qualsiasi dei nomi costruiti a tavolino in un talent show. Non si sorriderebbe più o almeno, non più di tanto. E non solo perché siamo quelli cresciuti con la musica degli anni Sessanta e Settanta e con tutto quel jazz che è arrivato alle nostre orecchie da epoche glaciali come gli anni Quaranta e Cinquanta e ancora peggio, ascoltando gente come Bach, Mozart, Debussy, Beethoven, Chopin e Schumann. No, non è soltanto una quesitone di formazione o di gusti personali, è molto peggio: è il tentativo di conformare un mercato attraverso un prodotto che incontra una maggiore quantità di utenti, che con l’arte della musica niente ha a che fare e spazza via tutti quelli che invece non aderiscono a questa impostazione. Gente che pure ha studiato nei conservatori e provato, notte e giorno, in quelle famose umide cantine, con buona pace dei condomini.

Certo, anche negli anni Ottanta eravamo soliti sbeffeggiare la musica che dominava nelle classifiche. E forse quelli furono proprio gli anni in cui l’arte, soprattutto la musica, iniziò a essere trattata come brand. Musica figlia dell’edonismo, lo stesso denunciato anche dai Pink Floyd in “Money”: New car, caviar, four star daydream, Think I’ll buy me a Stootball team. Eppure in quelle classifiche c’era anche il seme di una musica altra che nel tempo è diventata alta. Gruppi musicali che hanno segnato un passo avanti nella storia del rock, della canzone d’autore. E anche se fuori dalle classifiche pop, i media riservavano sempre una significativa quota di interesse verso chi era “figli di un Dio minore”. E chi la passava al vaglio, non era gente così, ma critici musicali che in Italia e nel Mondo hanno scritto e raccontato la letteratura musicale del Novecento.

Ora non è che non siamo progressisti o incapaci di leggere il nuovo che avanza. Anzi. Però non ci va l’idea di essere dominati da un algoritmo che bombarda i nostri gusti. Non ci va di ascoltare voci perfezionate con l’auto-tune. Non se ne può più di rap, trap che non sono l’hip hop che stregò anche Miles Davis. E in tutta questa roba, non ci sembra nemmeno di ravvedere nemmeno i prodromi di qualcosa che cambierà la storia della musica. Anche per questo ci stupisce – ma nemmeno poi tanto – tutto il clamore e i premi e le partecipazioni di prestigio che hanno ottenuto, ad esempio, i Maneskin. La loro scrittura, il loro riusare gli strumenti musicali (si è osannato anche questo), come se usare chitarre, basso e batteria oggi fosse una bestemmia, non mi sembrano poi tanto distanti – per restare sul recente e in Italia – di gente come: Afterhours, Bluvertigo, Subsonica, Marlene Kuntz, 24 Grana, C.S.I., Verdena, Almamegretta, e chi più ne ha più ne metta, che pure avrebbero meritato premi e palcoscenici importanti. Ecco, ora qualcuno potrebbe dirci: voi siete tra quelli che ai miei tempi la musica era migliore. No! Ci piacerebbe solo che l’educazione alla musica passasse nelle mani di gente che la musica l’ha studiata – anche da un punto di vista storico sociale – e non in quelle di influencer bravi a trasformare tutto in prodotto di consumo. Gente che a una sequenza di accordi preferisce il look. Lo diciamo solo per proteggere il futuro. Altrimenti, ci ritroveremo come in un film di Bellavista e non capiremo, se sotto le macerie, avremo tra le mani un capolavoro e cesso scassato.

Carlo Pecoraro

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro