Vicenza Jazz 2019: Chucho Valdés – Jazz Batà

Tutte le foto sono di DANIELA CREVENA

VICENZA JAZZ FESTIVAL 2019
Vicenza, Teatro Comunale, ore 21

Chucho Valdés – Jazz Batà

Chucho Valdés, pianoforte
Dreiser Durruthy, batà
Ramon Vazquez, contrabbasso e basso elettrico
Yaroldy Abreu, percussioni

Un pubblico affettuoso e anche emozionato saluta l’entrata sul palco di Chucho Valdés con un applauso quasi liberatorio dopo quasi un’ora di attesa, dovuta ad un ritardo aereo, che ha costretto i musicisti a svolgere il sound check in fretta e furia mentre la gente già arrivava in teatro: teatro praticamente sold out.
Chucho Valdés, imponente, si siede al pianoforte. I suoi musicisti prendono posto davanti ai propri strumenti, e il concerto finalmente comincia, con una intro di pianoforte carica di blues, accordi per niente cubani, suoni impastati e amplificati dai pedali, e anche qualche fraseggio con reminiscenze classiche. Chucho si presenta, con il suo pianoforte.

Quando si inseriscono il contrabbasso le batà e le congas la portata armonica complessiva diventa più indefinita, sognante, complice anche lo stesso pianoforte: Chucho si abbraccia ai suoi musicisti e diventa parte egualitaria del quartetto, per una buona manciata di minuti.
Poi ad un tratto accade ciò che accadrà ripetutamente durante tutto il concerto: emerge da quell’episodio corale (che potrà essere onirico, o atonale, o carico di accordi e battiti potenti, ma comunque corale) un riff, una cellula melodico ritmica, un piccolo ostinato, che diventa una sorta di richiamo potente “all’ordine” del leader ai suoi musicisti, e su cui in un secondo momento si impernia l’improvvisazione del pianoforte, e anche degli altri strumenti, o l’esecuzione di un brano ben definito.

Il riff parte generalmente dal pianoforte stesso, risuona da solo per un po’ e poi viene ereditato magari dal contrabbasso: a quel punto Valdés comincia a improvvisare e dare fondo al suo ricchissimo arsenale di possibilità ritmico – melodiche, che vanno dal Jazz, alla musica cubana, alla musica classica, assemblate in maniera sempre diversa e bisogna dire spesso inaspettata: stilemi noti, ma in sequenze sempre nuove.
Il primo riff proviene dalla registro grave della tastiera e va avanti ostinatamente: solo per pochi istanti Valdés vi aggiunge una seconda voce a distanza di una terza maggiore. Per il resto sono quattro potenti note all’unisono che improvvisamente si disgregano in un piccolo, delicato, malinconico brano cantabile, struggente, melodicamente molto cubano, in tonalità minore, del quale batà e congas creano il suggestivo substrato ritmico.

Una cascata cromatica di note cristalline chiude il pezzo, dando spazio ad un lungo e intenso assolo del contrabbasso di Vazquez.

L’ultima nota del contrabbasso viene ripresa dal pianoforte che costruisce un episodio meno definito dal punto di vista tonale, fatto di  fraseggi frammentati, colmati nei loro silenzi dai suoni delle conchiglie e delle percussioni di Abreu.
Ed ecco ancora una volta il riff, ritmico, al cui richiamo, costruito in modo da apparire per i musicisti irresistibile, si accodano subito il contrabbasso (che lo replica esattamente), le batà e congas. Chucho Valdés a quel punto, sulla base da lui creata, improvvisa liberamente.
Il concerto prosegue così: piccoli dialoghi tra contrabbasso, pianoforte e percussioni, riff di richiamo, improvvisazione. Con ambiti sonori sempre diversi: brani dolci e lenti o molto intensi e ritmici, o virtuosistici, anche, ché il pianismo di Chucho Valdés ha questa caratteristica dell’essere cangiante, della capacità cioè di andare dal minimalismo di due piccole note ripetute all’infinito, magari variandone al massimo le dinamiche, alla ridondanza degli accordi percussivi che saltano velocissimamente da un punto all’altro della tastiera al massimo volume, usando anche i suoi potenti strisciando, eseguiti a due mani, e che strappano gli applausi del pubblico, come è normale che avvenga. O ci si trova davanti a un blues, che improvvisamente si tramuta in canto religioso, con Durruthy, Vazquez e Abreu che eseguono brani della tradizione Yoruba, alla quale le batà, come strumenti a percussione, sono legate.

Non mancano citazioni di ogni tipo (Poinciana, Spain, la Marcia Turca di Mozart, persino), che si intensificano fino alla conclusione, emergendo tra gli strisciando, i riff sempre più accattivanti, e le progressioni di accordi sempre più inequivocabilmente cubane. Conclusione applauditissima, con i musicisti che danzano (compreso lo stesso Valdés) e che incitano il pubblico con canti e battiti di mani.

L’ IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Chi vi scrive ama la musica cubana, il pianismo cubano in tutte le sue forme, anche quelle più stereotipate, e ama Chucho Valdés. Questo va detto da subito, per sgombrare il campo da pretese di scientificità o di verità obiettive calate dall’alto: d’altronde questo spazio è dichiaratamente lo spazio di un giudizio personale che può dunque agevolmente essere saltato a piè pari.

Qui a Vicenza ho ascoltato un concerto coinvolgente, dalla sonorità elegante ed equilibrata anche nei momenti di virtuosismo più spinto: complice anche la mancanza della batteria, sostituita dalle batà, ma soprattutto dalla capacità dei musicisti di bilanciarsi e di rimanere all’interno di dinamiche e timbriche mai esagerate.
Valdés sa come fare l’occhiolino al pubblico, e lo fa, certamente, ma ci tiene a far emergere la sua musicalità, la sua espressività da subito, prima di accontentare le aspettative della platea: non a caso il concerto era iniziato in modo molto “jazzistico” (semplificando, che non me ne vogliano i puristi) e via via fino alla fine procedendo sempre di più verso una esplicita, accattivante ed ammiccante sonorità cubana.
Negli episodi più lenti non sono mancati momenti di intenso lirismo. Fondamentale durante tutto il concerto l’aspetto prettamente melodico di batà e congas, e la funzione irrinunciabile del contrabbasso che si è rivelato prezioso punto di riferimento, una vera tagliente, trainante corda metallica sonora.
L’impianto armonico spesso è apparso complesso, tanto da rendere melodie magari molto semplici tutt’altro che scontate.
Una performance divertente, più variegata nella prima parte che nella seconda, e più multiforme e articolato di quanto non ci potesse aspettare. E anche un bello spettacolo da vedere, come si può vedere dagli scatti di Daniela Crevena.

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL 39′ Edizione – seconda parte


Tutte le foto sono di Carlo Mogavero

Un sabato densissimo di avvenimenti non solo musicali, che comincia con le performance in piazza delle Scuole di Danza Baobab, Arabesque e Accademia di Danza e spettacolo.
E oltre alle già citate mostre di pittura e fotografia a Santa Marta e al Caffé del Teatro (rispettivamente Sguardi Africani di Odina Grosso e i sette artisti di Arte in Fuga), eravamo alla presentazione del libro di Davide Ielmini Il suono ruvido dell’innocenza: Musica, gesti e immagini di Enten Eller. Un interessante e a tratti illuminante dibattito sulla musica di un gruppo, Enten Eller, che continua a fare un Jazz autentico: improvvisazione pura, sperimentazione, rimescolamento di linguaggi. Ciò che il Jazz è davvero, e ciò che porta alla constatazione, benefica, che il Jazz, se non cartolina fatta di stilemi replicati, e replicanti, non morirà mai. Massimo Barbiero racconta, la sala è piena, il pubblico, tra cui chi vi scrive è non solo attento, ma partecipativo.
La cultura bisogna proporla. La musica è cultura ed è cultura non solo ascoltarla, ma anche parlarne, e leggerla.

Il giovane pianista Emanuele Sartoris, dopo la presentazione del libro su Enten Eller, dà una sua personale lettura della musica Enten Eller, da solo, alle tastiere.

Sala Santa Marta, ore 19:00

Music of Enten Eller

Emanuele Sartoris, keyboard

La musica di Enten Eller è libertà compositiva, tematica, è improvvisazione. Dunque è materiale sonoro molto connotato, denso eppure malleabile per diventare altra musica suonata in maniera completamente diversa da come era in origine.
Emanuele Sartoris sceglie di ricomporre i brani in una sonata tripartita: Adagio – Allegro – Adagio.

Egli stesso improvvisa, ma tramuta Enten Eller in musica prettamente pianistica. Dinamiche marcate, da silenzi impercettibili a volumi importanti, ricerca armonica, visione drammatica del suono: nulla di minimalista, un suono travolgente che si tramuta improvvisamente in qualcosa di più introspettivo, ma sempre in una chiave teatrale e certamente avviluppante. Una scelta timbrica imponente, un ampio uso dei pedali, delle ottave parallele, di arpeggi velocissimi e trasposizioni ardite trasformano brani come Mostar, Teseo, Indaco, in musica “altra”. Quando la musica nasce libera, come la musica di Brunod, Mandarini, Mayer e Barbiero, questa  può davvero tramutarsi in maniera totale.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Sartoris possiede una notevole cultura musicale. Ha una padronanza pressoché totale dello strumento. Nella sua musica si sente l’eco dei grandi compositori che sono entrati a far parte della sua musicalità: Debussy, Beethoven, Bach. Ma anche i grandi pianisti Jazz come Monk, tanto per dirne uno. Il suo suonare è un’originale mix tra il linguaggio cosiddetto colto e quello jazzistico: nelle due sere al Caffé del Teatro lo abbiamo sentito fare un Jazz convincente ed energico con i Night Dreamers Quartet, insieme a Simone Garino al sax, Antonio Stizzoli alla batteria e Dario Scopesi al basso.
La sua rivisitazione della musica di Enten Eller è coinvolgente, potente e curata.
Poi c’è ciò che ho percepito a prescindere dalla musica che ho ascoltato: energia interiore, impellenza espressiva, tormento, persino.
Dunque ho una cosa da suggerire a Emanuele Sartoris:  tutto ciò che sa e che ha studiato e ascoltato può ora  dimenticarlo, tanto farà sempre parte di lui. Perché c’è tutto un non ancora espresso che traspare sempre di più dalla sua musica ed è lì lì per tracimare.
Nel senso che oramai questo pianista ha la maturità di osare suoni ancora mai suonati e che ancora non ha la motivazione di liberare, o che forse ancora non pensa possibili: Emanuele Sartoris può ora ascoltare se stesso e creare la propria, irripetibile musica. E’ un lusso che non tutti possono permettersi.

 

 

Teatro Giacosa, ore 21:15

Wolfgang Schmidtke Orchestra
Monk’s Mood

Ryan Carniaux: tromba
John-Dennis Renken: tromba
Rainer Winterschladen: tromba
Nikolaus Neuser: tromba
Gerhard Gschlössl: trombone
Thobias Wember: trombone
Mike Rafalczyk: trombone
Peter Cazzanelli: trombone basso
Nicola Fazzini: sax contralto e soprano
Gerd Dudek: sax tenore e soprano
Helga Plankensteiner: sax baritono
Michael Lösch: pianoforte
Igor Spallati: contrabbasso
Bernd Oezsevim: batteria
Wolfgang Schmidtke: sax soprano, clarinetto basso, arrangiamento e direzione

La musica di Thelonius Monk in mano ad un’orchestra composta da solisti. Quattro tromboni, quattro trombe, quattro sax, pianoforte contrabbasso e batteria e la particolarità di un ensemble costituito da solisti, che lavorano ognuno con il proprio particolarissimo timbro, che improvvisano ognuno con il proprio particolarissimo stile. Ogni musicista partecipa con il proprio personale suono da solista provvede alle parti scritte, ai background, agli obbligati, senza tentare di uniformarsi al gruppo.


Il repertorio di Monk viene eseguito liberamente, le sezioni si fronteggiano in formazioni sempre diverse e si ascolta un Jazz multiforme che si avvicina allo swing ma che improvvisamente vira su episodi atonali e quasi free, per poi arrivare ad unisoni inaspettati. I sax possono diventare le chiavi ritmiche insistendo con un’unica nota nei tempi deboli. Si può formare un inusuale trio tra tromba pianoforte e batteria perché improvvisamente il contrabbasso tace, o un duo tra tromba, o trombe,  e contrabbasso perché è improvvisamente il pianoforte a tacere.


Grande spazio agli assoli e pubblico felice.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Una sonorità inusuale, continue sorprese, una musica leggendaria, quella di Monk, con arrangiamenti divertenti e tutt’altro che ossequiosi. Un concerto divertente ed energico, non il solito omaggio deferente ad un genio che replicare sarebbe impossibile.

 

 

Teatro Giacosa, ore 2230

Bosso / Guidi

Not a What

Fabrizio Bosso: trumpet
Aaron Burnett: tenor sax
Giovanni Guidi: piano
Dezron Douglas: bass
Joey Dyson: drums

“Iazz is not a what, it is a how”: è una celebre frase di Bill Evans, che Fabrizio Bosso e Giovanni Guidi prendono come ispirazione e nome del loro nuovo gruppo, in procinto di diventare album. A Ivrea un quasi numero zero dunque, in attesa di disco e tour europeo.
Musicisti oramai da anni divenuti eccellenze a livello internazionale, Bosso e Guidi con Burnett, Douglas e Dyson, hanno portato al Giacosa tutto il proprio repertorio espressivo e virtuosistico.

Il concerto prende il via con una lunga intro, composta da un unisono solenne, mosso da suggestivi arpeggi al pianoforte, fino a quando il sax di Burnett non si libra in un assolo, sostenuto armonicamente da una alternanza  ciclica di due accordi a distanza di una quarta.
Durante tutto il concerto si ascolta un’alternanza tra obbligati perfetti, con unisoni tra tromba e sax anche a velocità supersonica, e momenti di improvvisazione libera, in cui il pianoforte di Giovanni Guidi definisce l’atmosfera dei brani: torrenziale, armonico, a volte impetuoso a volte indefinito e fiabesco.


Può capitare che tromba e pianoforte si incontrino in uno di quegli obbligati, può accadere che sugli affreschi sonori di Guidi Bosso ricami linee melodico ritmiche variegate, nette, acrobatiche persino.
Può accadere che il contrabbasso di Douglas si sciolga in un assolo puramente Jazzistico o proceda con un tradizionale walkin’ bass, come invece capita che lo si ascolti impastato armonicamente con il pianoforte, contribuendo, con un andamento timbrico grave e vibrante, al suo evocativo rumoreggiare.

Oppure si possono ascoltare melodie adrenaliniche suonate da sax e tromba a distanza di una trasgressiva quarta parallela che si disgiungono inaspettatamente per seguire ognuno la sua strada di improvvisazione, sottolineati da una batteria dal groove e dal timing notevolissimi.


Il bis è una bella My funny Valentine, della quale personalmente ringrazio questo quintetto: oramai è uno standard ritenuto A TORTO troppo eseguito, e  quasi nessun musicista lo esegue più. Dunque, paradossalmente, è oramai raro ascoltarla suonata da musicisti di livello.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Un concerto energico, cucito addosso alle personalità spiccatissime di Fabrizio Bosso e Giovanni Guidi, a tratti muscolare, a tratti strutturato, sempre definito da un notevole dialogo creativo tra i cinque musicisti, che trovano ognuno il proprio spazio espressivo, e anche quello per momenti di puro virtuosismo strumentale, di cui nessuno dei cinque difetta. Questo mix di espressività e virtuosismo ha reso entusiastico il finale di Open Papyrus Jazz Festival.

OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL IVREA

Tutte le foto sono di Carlo Mogavero

Il tema del Festival Open Papyrus 39 edizione quest’anno è stato ispirato al direttore artistico Massimo Barbiero dalle Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar.
“Giudicando la propria vita di uomo e l’opera politica, Adriano non ignora che Roma finirà un giorno per tramontare e tuttavia il suo senso dell’umano, eredità che gli proviene dai Greci, lo sprona a pensare e servire fino alla fine”.
Questo si legge nel depliant del festival, in cui Barbiero spiega che l’Adriano delle Memorie è paragonabile a quell’Adriano Olivetti che ha lasciato a Ivrea un’eredità culturale che è doveroso mantenere viva, invece che abbandonarsi ad un nostalgico declino. E non si può certo dire che l’Open Papyrus non stia mantenendo vivo l’humus culturale del territorio. Il festival non è solo musica. C’è un’interesse per le eccellenze del territorio (vedi i vini, vedi i formaggi, ad esempio, che sono protagonisti degli aperitivi a Santa Marta, tra una presentazione e un concerto). C’è, da sempre, un interesse per la diffusione di libri che trattano di musica: in questa 39sima edizione sono stati presentati “I giorni della Musica e delle Rose“, Ed. Stampa Alternativa, di Franco Bergoglio, e “Il suono ruvido dell’innocenza” di Davide Ielmini, ed. Gallerie del Libro.  C’è, da sempre, la valorizzazione di realtà locali come le importanti scuole di danza di Ivrea: in questa edizione non sono mancate performance in piazza e flashmob, oltre che la bella interazione sul palco del Giacosa con Odwalla, di cui si parla di seguito. In scena le tre scuole Baobab, Arabesque e Accademia di Danza e Spettacolo. Da molte edizioni sono state organizzate mostre di pittura e mostre fotografiche: quest’anno da ammirare c’era a Santa Marta la mostra di gigantografie/ritratti di Odina Grosso, Sguardi Africani, mentre a via Palestro, al Caffé del Teatro, sette artisti (Tony Muroni, Susanna Clarino, Alfredo Samperi, Lanfranco Costanza, Umberto Pettene, Ennio Marzano, Daniela Borda) hanno esposto le loro opere per la mostra Arte in Fuga.

Barbiero dunque come sempre imposta un Festival Multiculturale, e resiste alle mille difficoltà che inevitabilmente incontra chi ancora ha il coraggio e la forza di occuparsi di cultura. Difficoltà economiche, resistenze di vario tipo, nonché le conseguenze di indifferenza e anche sottovalutazione di un lavoro oramai quasi quarantennale. Eppure ogni anno il Festival va in scena. E come ogni anno A proposito di Jazz è presente per documentarlo.

Il pomeriggio a Santa Marta non è possibile documentarlo poiché siamo arrivati in tempo per lo spettacolo serale al Teatro Giacosa.

Oltre alla presentazione del libro di Franco Bergoglio, citato più su, e la degustazione, ha preso posto sul palco il Quartetto E-Volution, con il progetto 7Dreams: the Voice of an Albatros. Un quartetto composto da Luis Zöschg: guitar, efx, Christoph Zöschg: drums, percussions, Norbert Dalsass: bass, efx e special guest:
Martin Ohrwalder: trumpet, efx.  Il viaggio di un albatro alla ricerca di cibo in veste di sogno, diviso in 7 movimenti.

Teatro Giacosa, ore 2130

Elliott Sharp e Maurizio Brunod
Special project for Ivrea

Elliott Sharp, guitar
Maurizio Brunod, guitar

Un incontro quasi fortuito a Ny, un pomeriggio passato insieme a parlare di musica e la promessa di rivedersi per suonare insieme: “quel suonare insieme è stasera” dice Maurizio Brunod presentando Elliott Sharp.
Dalle due chitarre si materializzano note che si incrociano e sembrano piccole gocce di qualcosa di più denso dell’acqua, fino a quando Sharp non dà il via al tema, che emerge su quelle gocce sonore e non su accordi armonici.


Fino a quando Brunod non comincia l’interazione vera e propria. Si procede con varianti timbriche, effetti, dialoghi, tra due chitarre che hanno un suono diverso tra loro e dunque si mischiano rimanendo perfettamente distinte, Brunod con il suo suono quasi perfettamente liscio e non privo di eco, Sharp più vibrato e terreno. La loop station aumenta le possibilità di combinazione. Ogni tanto si affaccia del blues, e poi si torna al “non suonato prima di ora”.
In alcuni momenti le due chitarre atterrano su unisoni inaspettati che durano un po’, fino a quando uno dei due musicisti improvvisa lasciando l’altro a quelle note scritte e viceversa.

Sonorità avveniristiche, improvvisazione pura, temi melodici che si stagliano improvvisi su impasti armonici densi di effetti. E poi vibrazioni, urli, glissando, e suoni che sembrano quasi uncini che si agganciano su un ricco e suggestivo tramestio di fondo, scuro eppure molto percettibile nei particolari.
Appaiono reminiscenze di tango, piccoli cenni di country, addirittura, ma sono attimi. Per il resto è tutto un procedere cercando, e trovando, suoni e dialoghi del tutto improvvisati e nuovi.

L’ IMPATTO CON CHI VI SCRIVE

Un concerto particolare, suggestivo, quasi del tutto improvvisato.  Due musicisti che comunicano tra loro con un linguaggio inusuale, che diventa anche il modo di comunicare con il pubblico, fatto di atmosfere cangianti, di contrasti improvvisi e di improvvisi lineari unisoni, e che nonostante in comune abbiano anche lo strumento riescono a tramutare in ricchezza di colori sonori la loro differenza, intrecciando fraseggi, timbri in contrasto, dinamiche, temi melodici, sfondi gravi e pastosi o cristallini e leggeri. Al termine, il silenzio improvviso ha riportato chi era presente in sala sulla terra.

Teatro Giacosa, ore 22:15
Odwalla e Baba Sissoko
Concerto del trentennale

Massimo Barbiero: marimba, vibes, percussions
Matteo Cigna: vibes, percussions
Stefano Bertoli: drums
Alex Quagliotti: drums, percussions
Andrea Stracuzzi: percussions
Doudù Kwateh: percussions
Daouda Diabate: djembè kora e dance
Cheikh Fall: djembè kora
Gaia Mattiuzzi: vocal
Baba Sissoko: vocals e tamà
Giulia Ceolin, Gloria Santella, Barbara Menietti: dance

Per fortuna ad Open Papyrus Jazz Festival trovo quasi sempre Odwalla.
Perché è molto difficile poter assistere a questo spettacolo altrove o in altra occasione. E’ un concerto emozionante, mai uguale, dalle sonorità potenti. E’ visivamente una festa, la danza enfatizza la musica e viceversa.
Ho già scritto molto di questo gruppo composto quasi esclusivamente di strumenti a percussione. Della bellezza degli scambi tra la marimba di Massimo Barbiero e il vibrafono di Matteo Cigna, dei rumori infiniti e magici di Doudù Kwateh, del suono avvolgente delle kora di Daouda Diabate e Cheik Fall , della voce versatile e coinvolgente di Gaia Mattiuzzi e di quella evocativa e potente di Baba Sissoko. Della travolgente interazione tra le due batterie di Stefano Bertoli e Alex Quagliotti e le percussioni di Andrea Stracuzzi.
Le danzatrici, Giulia Ceolin, Gloria Santella, Barbara Menietti, hanno tramutato i suoni in movimento emozionando e incantando il pubblico.
E’ una meraviglia di colori, di varietà di battiti e di note.
E’ un fondamentale esempio di civiltà, di meravigliosa convivenza tra culture diverse, tra arti diverse, tra Uomini Donne Africa Europa India Italia. E’ la terra come potrebbe e dovrebbe essere. E’ la prova che tutto è possibile.

La voce, la vitalità di Baba Sissoko spazzano via ogni barriera.

Parlano le foto di Carlo Mogavero, a colori, perché non vi perdiate nulla se non il suono: ma la musica si ascolta anche guardando



 

PEREZ, PATITUCCI, CARRINGTON all’ Auditorium Parco della Musica

Tutte le foto sono di Adriano Bellucci

Roma, 18 marzo 2019

Auditorium Parco della Musica, sala Petrassi

Children of the light

Danilo Perez, piano
John Patitucci, contrabbasso
Terry Line Carrington, batteria

Children of the light nasce come omaggio a Wayne Shorter, musicista del quale Patitucci e Perez sono la meravigliosa sezione ritmica: è corretto però parlare di ispirazione, più che di omaggio o tributo. Non siamo davanti, infatti, ad una riproposizione esatta della sua opera, ma piuttosto assistiamo ad una nuova composizione talvolta fiabesca, talvolta ironica, talvolta onirica (che di ironica forse non a caso, è l’anagramma). Sonorità dunque non scontate in un trio che ha mostrato sul palco una coesione notevolissima.

Il concerto lo apre Patitucci con una intro di contrabbasso, pianissimo: solo in un secondo momento il pianoforte di Perez comincia a dialogare con quelle note sussurrate, componendo frasi spezzate, che entrano in scena ma subito si ritraggono. Il contrabbasso accarezza un veloce e leggerissimo ostinato. La batteria della Carrington si aggiunge delicatamente, e i piatti sfiorati dai mallets producono suoni morbidi, tondi, affascinanti.
Tutto è sospeso, accennato. Il pianoforte azzarda qualche accordo, ci sono echi pentatonici: Patitucci passa all’arco. Contrabbasso e pianoforte si cercano in un gioco di domande e risposte, c’è un intensificarsi del suono, che poi di nuovo subisce una rarefazione, fatta di echi reciproci, di spunti che circolano da uno strumento all’altro.
Il tutto è uno straniante, raffinato, diventa un mescolamento di musica scritta fin nei minimi particolari ma anche di subitanee digressioni libere. L’ambito armonico è complesso e indefinito, chi guida il gioco sembra essere Perez, che in alcuni momenti fluidifica le note in altri le comprime. Le dinamiche sono curate ed efficaci, espressive, e talvolta sorprendenti.

Appare una progressione di accordi ascendenti per quarte, sulla quale Danilo Perez improvvisa: si va avanti così per molto, anche quando lo spessore sonoro si assottiglia, il tempo da 4/4 si tramuta in 3/4, fino al tornare all’arco sul contrabbasso e ai mallets sui piatti.

L’atmosfera cambia e diventa giocosa con Sunburn and Mosquito: in una piccola, divertita boutade Patitucci simula il ronzio di un insetto. Appena il suono cambia, Perez risponde con il suo pianoforte. Improvvisamente i volumi crescono, gli strumenti dialogano tra loro come fossero personaggi di una storia, ognuno con una sua caratteristica. Il pianoforte propone, il contrabbasso risponde, la batteria crea il groove giusto: a volte si atterra in episodi omoritmici, poi si ritorna al rimpallo di frasi, poi a stop improvvisi, poi si ricomincia, in un gioco continuo intenso ma divertente. Il pianoforte conduce sempre di più il gioco, propone temi, andamenti, dinamiche.
Quando i tre procedono insieme, moltissime sono le note, e i battiti, ma il volume è sottile: un flusso costante, veloce e leggero in cui si improvvisa contemporaneamente per creare un unico suono composto da tre strumenti. La ricerca timbrica è continua, anche da parte della batteria.
Sia nelle parti scritte che nell’improvvisazione c’è una grande cura dei particolari, e il concerto è un continuo susseguirsi di suggestioni sempre diverse. Dalla rarefazione più eterea alla densità armonica più vischiosa, dagli ostinati di contrabbasso più martellanti alle mutazioni quasi melodiche della batteria, dai temi melodici più dolci agli accordi gravi e martellanti del pianoforte, dai cromatismi all’andamento diatonico agli stop improvvisi, la musica è costruita (ma anche improvvisata) in modo da essere quasi sempre evocativa e suggestiva. Spesso gli accordi al primo impatto sembrano essere quelli che il tuo orecchio si aspetta, ma dopo pochi secondi emerge un sottofondo armonico che a ben ascoltare non era quello che ti sembrava all’inizio: è un rebus cui ancora adesso sto cercando di dare una soluzione. E ancora, melodie presentate e subito trasposte o presentate e subito nascoste dentro accordi possenti, talvolta andamento dei brani circolari altre volte invece il trio procede in avanti senza guardarsi indietro.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Ho assistito a un concerto divertente, intenso, a tratti stralunato, concepito ed eseguito da grandi musicisti in vena di giocare, raccontare, stupire e dialogare tra loro. Un sapiente equilibrio tra rigore e audacia, tra partiture scritte nei minimi particolari e improvvisazione libera.
Danilo Perez, John Patitucci e Terry Lyne Carrington hanno saputo creare una musica deliziosamente immateriale usando sia la fantasia che tutto il loro prezioso pregresso di grandi musicisti: mattoncini di mille forme e colori assemblati in modo inusuale per una costruzione di suoni davvero fascinosa, ironica la cui cifra, in tutta l’ora e più di spettacolo, è stata la naturalezza che può esistere solo tra artisti legati da anni di amicizia, di esperienza e di musica suonata, come Perez e Patitucci, con il prezioso contributo creativo di una batterista pazzesca.



Elina Duni, Rob Luft ed Enzo Zirilli al Folk Club di Torino


Tutte le foto sono di CARLO MOGAVERO

Torino, Folk Club, 13 dicembre 2018, ore 2130

Rassegna RADIO LONDRA
ELINA DUNI, ROB LUFT, ENZO ZIRILLI

Elina Duni, vocals
Rob Luft, chitarra elettrica
Enzo Zirilli, batteria e percussioni

Radio Londra è la rassegna organizzata al FolkClub di Paolo Lucà da Enzo Zirilli, che dalla Gran Bretagna “esporta” temporaneamente artisti inglesi ospitandoli sul palco dello storico club torinese. Siamo al decimo anno di successi, e in questo freddo dicembre torinese salgo a Torino per assistere ad un evento che prevede la performance di una cantante da me molto apprezzata, Elina Duni.
Albanese di nascita e a 11 anni trasferitasi con la famiglia in Svizzera, Elina ha una formazione classica, ma un forte legame con la musica del suo paese.
Rob Luft è un chitarrista ventiquattrenne talentuosissimo che suona oramai da lungo tempo (sic!) con Enzo Zirilli, che è un nostro batterista quotatissimo volato a Londra un bel po’ di anni fa, dove ha trovato il successo che meritava e che si è dunque ancora più amplificato qui in Italia. 
Molti dei brani ascoltati provengono dal nuovo cd di Elina Duni, PARTIR, registrato per ECM
Qui mi fermo con le informazioni biografiche perché chi mi legge sa che non sono solita fornire informazioni sui musicisti – che si trovano agevolmente in internet – ma vado subito al cuore, e il cuore di tutto è la musica che ho ascoltato.

E’ suggestivo l’incipit del concerto, con Zirilli e i suoi effetti di mare, e vento, e Luft, che con la sua chitarra elettrica e i suoi pedali asseconda l’ evocare quasi nostalgico di luoghi lontani. La voce di Elina Duni irrompe, intensa, nel primo brano: siamo nel Nord dell’Albania e questo è un canto tradizionale, una ninna nanna che parte quasi in sordina, ma che via via si fa più intensa nelle dinamiche, nei timbri, nel pathos.

Dal Nord dell’ Albania Elina ci porta nel Kosovo, con il canto d’ amore rivolto alla luna da una donna al suo uomo perduto: tutto prende vita da un iniziale ostinato di chitarra, che indugia su intervalli di seconda eccedente e su sistemi scalari lontani, eppure così vicini. La batteria e il cajon riempiono l’aria esaltando senza coprire nemmeno una nota della voce. La chitarra ricostruisce un’atmosfera di festa popolare, albanese, o balcanica, italiana, o mediterranea, o mediorientale. Si ritrova molto di altre culture, molto della nostra.


I tre musicisti fluttuano tra parti più libere ed obbligati intensi, come l’unisono tra la voce di Elina Duni e la chitarra di Rob Luft, che sono momenti di virtuosismo imperniati sugli stilemi della musica tradizionale (che, ricordiamolo, non è mai scevra dal virtuosismo). La voce di Elina Duni è intensa, duttile, fortemente evocativa.
Ed è una voce versatile, tanto che alla chanson di Serge Gainsbourg, Coleur Cafè, si tramuta, e la nostalgia intensa diventa leggerezza, brio, ritmo. Ci troviamo in un altro mondo sonoro, il groove creato da Zirilli con la sua batteria è un latin ricco di sfumature, in cui il volume fortissimo è perseguito con le spazzole, il cajon è un altro rullante e gli spunti scambiati con la chitarra di Luft sono quasi infiniti.
Il repertorio non è univoco.

La scelta dei brani spazia tra la musica albanese, kosovara e quella della tradizione del Meridione d’Italia. Sono terre confinanti, e i canti d’amore e di desiderio provengono anche dal Canzoniere Grecanico Salentino, come Bella ci dormi sui cuscini:  la voce di Elina Duni è potente per intensità, non per volume. La chitarra di Rob Luft, incredibilmente, riesce a sostenere l’atmosfera di un mondo di suoni apparentemente a lui lontano, persino nell’assolo dolce, quasi amorevole, che precede la conclusione del canto. E quello di Elina Duni è struggente, e quanto mai dà a chiave della vicinanza tra le due terre di  Puglia e Albania.

Ma ci sono anche canti di coscienza civile, come quello scritto più di cento anni fa e che narra di pastorelle che vogliono liberarsi dal maschilismo che le relega a non godere di elementari diritti civili e culturali: una intro in vocalese viene poi supportata da percussioni al minimo e da un ostinato della chitarra, per poi aumentare di volume, di spessore, di intensità fino a divenire sanguigna e potente.
E ancora il canto kosovaro dalla complessità ritmica pazzesca e che viene snocciolata da Zirilli e Luft con una disinvoltura e una fluidità da nativi, un flusso morbido e travolgente che al termine ti lascia quasi disorientato.



Tra introduzioni dolci di chitarra, una voce struggente, la batteria che diventa soffio di spazzole e sole mani, ecco le canzoni dell’esilio, tra le quali la bellissima Amara Terra Mia, che ti verrebbe di cantare con Elina ma non osi, tanto centrato è, con i suoni, il tema letterario della nostalgia: espressività efficace ottenuta con il timbro vocale, con l’intenzione, con le dinamiche, ma anche con l’ andamento della chitarra, che mantiene il legame con il tema iniziale principale, quasi come fosse un ricordo. Come? Trasponendone piccole cellule melodiche durante tutto lo svolgersi del brano.

Il bis ci porta ad uno standard amatissimo, I’m a fool to want you: dolce, distante, a volume basso, intenso. Zirilli anche qui entra in punta di piedi per poi avvolgere il brano. Luft decora con pedale ed effetti. Il pubblico applaude un concerto intenso e inusuale,  e io con il pubblico: ma questo riguarda il breve capitolo che segue.

L’IMPATTO SU CHI VI SCRIVE

Stavolta qualcosa è trapelato anche dalle righe precedenti, che dovrebbero essere deputate alla descrizione il più possibile asettica di ciò che è accaduto sul palco.
Ma scindere ciò che ho ascoltato da ciò che ho provato emotivamente non è facile. Un concerto questo particolarmente intenso, ed emozionante già nei presupposti. Una cantante albanese, anche se svizzera di adozione, un chitarrista inglese, un batterista italiano. La loro musica è un miracolo di espressività “a prescindere” dalle origini culturali dei tre componenti del trio: in un periodo sociale e politico davvero tragico, in cui le differenze diventano invece che attrazione irresistibile, fonte di paure e di aggressività, chi ha assistito alla performance di Elina Duni, Rob Luft ed Enzo Zirilli ha toccato con mano ciò che accomuna non solo tre artisti ma gli esseri umani.
La poetica della nostalgia, della lontananza, del viaggio per emigrare dalla propria terra, dell’amore, raccontati in un’ora di musica emozionante, sono arrivate potenti non solo in quanto emozioni in sé, risvegliate in noi da tre musicisti che hanno saputo toccarci con i loro suoni e la loro sensibilità, ma anche in quanto categorie che questi tre artisti ci hanno mostrato come comuni alla vita di ogni essere umano, al di là di cultura e provenienza.
I canti albanesi e kosovari di Elina Duni, quella scala minore armonica di riferimento, con quegli intervalli di seconda aumentata sono così simili e vicini alla musica del Canzoniere Grecanico Salentino, o anche ad Amara Terra Mia, di Domenico Modugno: questo ci parla di culture vicine. Ma durante questo concerto si è andati al di là di questo: la chitarra di Robert Luft ha suonato non limitandosi a replicare un tipo di musica dalla provenienza connotata (musica balcanica, albanese, jazz, latin), ma ha cantato insieme ad Elina Duni forti sentimenti umani. La batteria di Enzo Zirilli ha soffiato dolcemente e ha tuonato impetuosa un qualcosa che appartiene a tutti noi.

Non mi piace mai parlare di contaminazioni, quando parlo di musica. Amo ascoltare nei suoni reminiscenze di culture a me vicine o lontane, ma la musica, quella vera, ha un che di universale, che mi colpisce intensamente  quando incontro artisti che come in questo caso, hanno una così potente carica espressiva. Gli applausi del pubblico del Folk Club erano emozionati e colmi di gratitudine. Forse solo l’arte, se fatta da artisti veri, potrà salvarci dalla miseria umana da cui siamo nostro malgrado circondati, svelandoci ciò che ci accomuna (compreso il dover partire per poter vivere) e anche ciò che ci differenzia, le nostre usanze, i nostri costumi: che dovrebbe essere ciò che di più attraente e magnetico esista sulla terra. 

Qui di seguito altri scatti del grande Carlo Mogavero