Il Premio Internazionale a Castelfidardo: cresce ovunque l’interesse per la fisarmonica jazz

Oramai da molto tempo vado sostenendo la tesi per cui anche nel campo del jazz la fisarmonica debba godere di uno status assolutamente paritario rispetto a qualsiasi altro strumento. E finalmente, dopo tanti anni, sembra che i fatti mi stiano dando ragione.

Per tanto, troppo tempo, fisarmonica e strumenti affini sono stati tenuti lontani dai palcoscenici che contano, confinati per tradizione nel ghet­to della musica popolare e/o d’in­trattenimento. Questo perché da un canto venivano considerati “poco nobili” dalla musica «seria» mentre, d’altro canto, la musica giovanile, leg­gera e non, li vedeva come oggetti da antiquariato, da conservare con rispetto ma da utilizzare con molta parsimonia. Di qui l’uso di tali strumenti quasi esclusivamente come elementi coloristici, come una sorta di spezia per dare un po’ di sapore alla minestra musicale.  Ma alla fine, nella mutata situazione generale, hanno risalito la corrente, e oggi la fisarmonica può apparire persi­no inflazionata, presente com’è in nu­merosi contesti, dalle più reclamizzate kermesse canore al rock etnico, dal jazz a certa avanguardia «colta». E per rendersi conto di quanto sto dicendo basta dare un’occhiata, ad esempio, alle varie formazioni di casa ECM dove spesso si nota la presenza di una fisarmonica.

Indubbiamente, allo sviluppo della situazione hanno contribuito alcuni grandi artisti come Astor Piazzolla per il bandoneon e Richard Galliano per la fisarmonica vera e propria. E la terra di Francia sembra essere ancora una volta all’avanguardia per quanto concerne questo strumento dato che per comune ammissione il più grande fisarmonicista jazz di oggi è quel Vincent Peirani acclamato da critici e pubblico di tutto il mondo.

Ma senza scomodare i cugini d’Oltralpe, per un’ulteriore conferma dell’importanza acquisita dalla fisarmonica anche nel mondo del jazz sarebbe bastato recarsi, dal 18 al 22 settembre, a Castelfidardo, conosciuta in tutto il mondo per la sua produzione di tali strumenti: è in questa cittadina delle Marche, in provincia di Ancona, che nel 1864 ad opera di Paolo Soprani viene riprodotto uno strumento che anticipa in qualche modo la moderna fisarmonica; da quel momento, Castelfidardo diviene la “patria della fisarmonica” riconosciuta come tale in Italia… e non solo.

In questa cittadina si svolge ogni anno uno dei più importanti appuntamenti per i fisarmonicisti di tutto il mondo: il PIF (Premio Internazionale della Fisarmonica) giunto alla sua 44° edizione, coronata da un successo senza precedenti: 248 iscritti, 63 giurati provenienti da 34 Paesi, tra cui la Nuova Zelanda e per la prima volta il Sud Africa.

Nel 2017, per volontà di Renzo Ruggieri, fisarmonicista che non ha bisogno di ulteriori presentazioni e che attualmente riveste la carica di direttore artistico del PIF,  è stata reintrodotta la categoria Jazz a dirigere la cui giuria è stato chiamato il sottoscritto unitamente a Francesco Bearzatti celebrato sassofonista, Chico Chagas illustre fisarmonicista e compositore brasiliano, i fisarmonicisti Roberto Fuccelli e Riccardo Taddei, italiani, Raynald Ouellet dal Quebec e Roman Gomez argentino. Ai nastri di partenza cinque concorrenti, quattro dei quali supportati da una eccellente sezione ritmica messa a disposizione dagli organizzatori e composta da Mauro De Federicis (chitarra), Emanuele Di Teodoro (basso) e Luca Cingolani (batteria).

Incolori le prestazioni del cinese Zhong Kai e di Ondřej Zámečník della Repubblica ceca. Alla finale sono stati quindi ammessi il duo Aleksejs Maslakovs proveniente dalla Germania, l’italiano Antonino De Luca e il belga Loris Douyez. A prevalere è stato, seppur di poco, il duo (fisarmonica e basso elettrico) Aleksejs Maslakovs, in virtù soprattutto di un miglior timing, mentre De Luca si è fatto ammirare per come ha arrangiato il brano tradizionale siciliano “Vitti ‘na crozza”.

Ma lo spazio concesso al jazz non si è fermato qui ché ci sono stati altri due appuntamenti di assoluto rilievo. La sera del 20 al teatro Astra, ad ingresso libero, straordinario concerto della Jazz Colours Orchestra diretta dal maestro Massimo Morganti . La Big band si è mossa con grande compattezza sciorinando un’eccellente intesa nel solco delle più genuine tradizioni jazzistiche. La performance è stata impreziosita dalla partecipazione di tre solisti di assoluto spessore: Massimo Tagliata, assurto alla popolarità grazie alla straordinaria versatilità che gli ha consentito di frequentare sempre con pertinenza i territori più svariati, dal jazz al tango fino al  pop (particolarmente riuscite le performance con Biagio Antonacci); Chigo Chagas, originario della foresta amazzonica per la prima volta a Castelfidardo, che ha portato sul palco le cadenze dei ritmi brasiliani e le emozioni maturate collaborando con artisti quali Milton Nascimento, Caetano Veloso e Gilberto Gil; e poi il veterano Gianni Coscia ovvero 88 anni e non sentirli. E, al riguardo, consentitemi un ricordo personale: conosco Coscia da oltre trent’anni e tutte le volte che l’ho incontrato ho sempre trovato un artista, ma soprattutto un uomo di squisita gentilezza, sempre contraddistinto da una sottile ironia che incarna i valori migliori che la musica, e il jazz in particolare, possa trasmettere. A Castelfidardo Coscia non si è minimamente smentito: ha suonato con la solita capacità di trasmettere emozioni, senza alcuno sfoggio di tecnica fine a sé stessa, ed è stato davvero commovente notare come i componenti dell’orchestra lo scrutavano ammirati quasi a voler catturare e conservare nella memoria ogni sua nota, ogni suo gesto. E per me è stato davvero un piacere potergli consegnare il premio Orpheus Award alla carriera, che quest’anno l’Accordion Art Festival gli ha tributato.

La sera successiva, sempre al teatro Astra, altro evento: la prima della suite “Il Pinocchio” scritta da Renzo Ruggieri per fisarmonica e orchestra, nell’occasione la sinfonica del Teatro Tosti di Ortona, diretta dal maestro Paolo Angelucci. A causa di precedenti impegni non ho potuto assistere al concerto ma amici degni di fede mi hanno assicurato che è stata una serata splendida, con musica eccellente eseguita in maniera eccellente.

Si è così chiusa una manifestazione che conserva intatti tutti i suoi motivi di interesse per cui aspettiamo con ansia e curiosità l’edizione 2020, nella speranza che venga dato sempre più spazio al jazz.

Gerlando Gatto

Krall, Galliano, Lloyd, Kidjo Quattro artisti di classe per l’estate romana

Diana Krall, Richard Galliano, Charles Lloyd, Angelique Kidjo: questi gli artisti che ho ascoltato nel corso delle ultime due settimane a Roma.

Le motivazioni che mi hanno condotto a questi concerti sono piuttosto diversificate e forse vale la pena spendervi qualche parola.

La Krall non è mai stata in cima alle mie preferenze: l’ho sempre considerata una brava musicista, ma non un fenomeno, anche perché il suo canto non mi prende, non mi commuove. Ma allora, mi si potrebbe chiedere, perché sei andato a sentirla? La risposta è semplice: mi intrigava la formazione portata qui a Roma. Non a caso un amico, che come me ha visto il concerto del 14 luglio alla Cavea dell’Auditorium – e del quale non farò il nome neanche sotto tortura – mi ha detto scherzando ma non troppo, “certo, se mi fossi presentato con quel gruppo anch’io avrei avuto successo”.  In effetti l’artista canadese si è presentata con una formazione davvero stellare comprendente Joe Lovano al sax tenore, Marc Ribot alla chitarra ed una ritmica di sicuro spessore con Robert Hurst al basso e Karriem Riggins alla batteria. Ora, con una front-line composta da uno dei migliori tenorsassofonisti oggi in esercizio e da un chitarrista che viene unanimemente considerato un vero e proprio genio dello strumento, tutto diventa più facile. Ed in effetti a mio avviso i momenti più alti della performance si sono avuti quando la Krall ha dialogato con i suddetti jazzisti e quando sia Lovano sia Ribot si sono prodotti in assolo tanto entusiasmanti quanto lucidi e pertinenti. Intendiamoci: la Krall ci ha messo del suo; ha cantato e suonato con la solita padronanza impreziosita da quella presenza scenica che tutti le riconoscono. In un frangente ha accusato anche una piccola defaillance canora, superata con disinvoltura, e il concerto è stato sempre costellato dagli applausi del pubblico. Anche perché il repertorio era di quelli che non possono non piacere; abbiamo, quindi, ascoltato, tra gli altri, “I Can’t Give You Anything But Love”, “I Got You Under My Skin”, “Just Like A Butterfly That’s Caught In The Rain” (con un toccante assolo di Ribot, forse una delle cose migliori della serata), “The Boulevard Of Broken Dreams (Gigolo And Gigolette)” e “Moonglow”. Alla fine un bis e lunghi applausi per tutti.

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Il 16 luglio eccomi alla Casa del Jazz per ascoltare Richard Galliano nell’ambito de “I concerti nel parco”. Per lunga pezza ho considerato Galliano un artista assolutamente straordinario, forse l’unico capace di ricreare le atmosfere care a Piazzolla. Negli ultimi tempi non mi aveva però convinto data l’ansia di suonare sempre troppo durante i concerti. Ricordo una serata di qualche anno fa in cui Galliano si esibì in duo con Gonzalo Rubalcaba: ebbene, in quella occasione il pianista cubano si trovò in evidente difficoltà dinnanzi ad uno straripante Galliano. Anche in questo caso, quindi, sono andato a risentirlo perché mi interessava il contesto, vale a dire la presenza del flautista Massimo Mercelli e dei “Solisti Aquilani Quintet” con Daniele Orlando e Federici Cardilli violini, Gianluca Saggini viola, Giulio Ferretti violoncello e Alessandro Schillaci contrabbasso.

E le mie attese non sono andate deluse in quanto Galliano ha suonato con misura, adeguandosi al gruppo e soprattutto al repertorio scelto che comprendeva musica classica, jazz e qualche tango. Insomma una serata assolutamente eccezionale: in effetti l’intesa tra Galliano, il flautista e il quintetto d’archi è apparsa assolutamente perfetta dando vita ad un’ora e mezza di musica sempre eseguita su altissimi livelli tecnici e interpretativi, in grado, perciò, di soddisfare anche l’ascoltatore più esigente, al di là di qualsivoglia barriera stilistica.

Il concerto si è aperto con “Contrafactus per flauto e archi” del musicista siciliano Giovanni Sollima, eseguito da Massimo Mercelli e i solisti aquilani. Il titolo – come ha spiegato lo stesso Mercelli – si riferisce alla prassi medioevale della contraffazione e il brano è basato su un frammento della venticinquesima variazione delle Goldberg di Bach, una delle più difficili. Il brano ha dato quindi la misura di quello che sarebbe stato l’intero concerto, vale a dire una sorta di incontro tra classico e contemporaneo, nell’intrecciarsi di note, di situazioni che svariavano dall’Argentina di Piazzola alle Venezia del ‘600 di Antonio Vivaldi, alla Germania barocca di Bach.

Dopo il brano di Sollima, è comparso Galliano accolto da un fragoroso applauso. Il fisarmonicista ci ha deliziato con le interpretazioni di “Milonga del Ángel per violino e archi”, di Astor Piazzolla, cui ha fatto seguito una nuova composizione, “Jade concerto per flauto e archi”. Evidentemente dedicata a Mercelli, la suite si compone di tre parti, la prima – illustra Galliano – è un valzer new musette, tinto di jazz e di swing, la seconda una pavana che esplora il suono soave del flauto basso, la terza un movimento perpetuo alla maniera dello chorinho che mette in luce tutti i possibili dialoghi tra il flauto e gli archi”.

Dopo la versione per fisarmonica di un concerto di Bach, ecco “Opale concerto per fisarmonica e archi” dello stesso Galliano; avviandosi alla conclusione, Galliano esegue, tra l’altro, “Primavera Porteña per fisarmonica e archi” di Vivaldi nell’arrangiamento del fisarmonicista, per chiudere con il celebre “Oblivion” di Piazzolla.

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Il 19 luglio ancora alla Casa del Jazz per ascoltare un mio idolo di sempre. Era il 1968 quando, in occasione della mia laurea, un amico già esperto di jazz, mi regalò “Forest Flower: Charles Lloyd a Monterey”, un album dal vivo registrato al Monterey Jazz Festival nel 1966 dal Charles Lloyd Quartet con Keith Jarrett, Cecil McBee e Jack DeJohnette. E fu innamoramento al primo ascolto, innamoramento che dura tutt’oggi. In effetti “Forest Flower” resta uno dei miei dischi preferiti, sicuramente quello più ascoltato e quindi più rovinato.

Tra i tanti meriti di questo straordinario artista mi piace ricordare il fatto che nelle sue formazioni si sono messi in luce alcuni dei più grandi pianisti che il jazz abbia mai vantato, quali Keith Jarrett nel biennio 1966-1968 e Michel Petrucciani all’inizio degli anni ’80.

A Roma si è presentato con una nuova formazione “ Kindred spirits” che unisce i talenti chitarristici di Julian Lage e Marvin Sewell e la sua fedele ritmica composta da Reuben Rogers batteria e percussioni  ed Eric Harland contrabbasso. Il gruppo è certamente ben affiatato, con una forte impronta quasi funky, ma non del tutto originale. In altre parole mi sembra che il modern mainstream si vada sempre più caratterizzando per una sorta di connubio tra jazz e rock in cui, non a caso, la chitarra assume un ruolo di assoluto primo piano. Così è in questo nuovo gruppo in cui Julian Lage e Marvin Sewell sono sempre in bella evidenza; comunque, il perno resta lui, Charles Lloyd, che, ad onta dell’età (81 anni), si fa ammirare per la straordinaria energia creativa e per l’indefessa volontà di cercare nuove vie espressive sia al flauto sia al sax tenore che ancora oggi lo caratterizzano. Non a caso egli stesso si definisce “un cercatore di sound. Quanto più mi immergo nell’oceano del sound – ama ripetere – tanto più sento l’esigenza di andare sempre più in profondità”. Certo, il tempo non è passato invano, i segni dell’età si sentono, si avvertono nel suono non più corposo come prima, si avvertono nel fraseggio fluido ma non come un tempo, egualmente quel passare con disinvoltura dalle tonalità più alte a quelle più basse è sempre lì ma si nota qualche indecisione prima assolutamente impensabile. Ma il fascino resta sempre quello di un tempo, straordinario, immarcescibile!

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Il 24 luglio eccomi ancora alla Cavea dell’Auditorium per Angelique Kidjo che avevo ascoltato il 25 novembre scorso sempre all’Auditorium in chiusura dell’edizione 2018 di RomaEuropa Festival.

Purtroppo la serata non è andata nel verso giusto… almeno per me. In effetti gli organizzatori hanno deciso di far aprire la serata al trio della vocalist Eva Pevarello che nulla ha aggiunto alla mia voglia di sentire buona musica… anzi mi ha costretto a lasciare il concerto prima della fine in quanto la Kidjo ha cominciato a cantare una mezz’ora dopo rispetto a quanto avevo previsto e muovendomi io con i mezzi, correvo il rischio di perdere l’ultima metro. Per non parlare della poca gentilezza – per usare un eufemismo – di un addetto alla sicurezza che si è rifiutato di fornirmi le sue generalità dopo che io avevo fornito le mie. Peccato ché episodi del genere non fanno bene ad una struttura per altri versi condotta bene.

Ciò detto ho trovato la performance della Kidjo piuttosto ripetitiva: in repertorio come l’altra volta il nuovo disco “Remain in Light”, l’album dei Talking Heads registrato dal gruppo insieme a Brian Eno nel 1980 e contaminato dalla poliritmia africana (esplicito il richiamo a Fela Kuti), dal funk e dalla musica elettronica. Introducendo dei testi cantati in lingue del suo paese d’origine (Benin, stato dell’Africa occidentale) e percussioni trascinanti, la vocalist ha realizzato un album più africanizzato rispetto all’originale e più accessibile. E il gradimento del pubblico non è mancato. Nella seconda parte del concerto il pubblico si è accalcato sotto il palco rispondendo così ai ripetuti inviti della Kidjo a cantare, ballare senza comunque dimenticare i molti problemi dell’oggi, dal rispetto dovuto a tutte le donne, all’invito ad apprezzare le diversità (“Se mi guardo allo specchio – ha detto la Kidjo – e vedo sempre un viso uguale al mio, dopo un po’ che noia”)… sino alla denuncia contro la pratica molto diffusa in Africa dei matrimoni combinati tra uomini adulti e bambine di dodici, tredici anni. Non potevano altresì mancare due classici della musica africana come “Mama Africa” e il celeberrimo “Pata Pata” portato al successo da Miriam Makeba. E intonando questi pezzi la vocalist si è immersa nell’abbraccio del pubblico prima scendendo in platea e poi invitando molti giovani a raggiungerla sul palco per chiudere con una sorta di festa collettiva.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Grandi nomi alla ribalta

Nik Bärtsch’ S Ronin – “Awase” – ECM 2603
Una musica iterativa, a tratti quasi ipnotica: questo il tratto caratterizzante questo nuovo album del pianista zurighese che nell’occasione si presenta in quartetto con Kaspar Rast alla batteria, Thomy Jordi al contrabbasso e Sha al clarinetto basso e al sax alto. La musica appare del tutto coerente con le posizioni più volte espresse dallo stesso musicista secondo cui “alcune tra le nostre strategie musicali e drammaturgiche sembrano abbeverarsi di procedure minimali: concentrazione dei materiali, consapevolezza attraverso la ripetizione, combinazione di pattern” procedure che si ritrovano non solo nel mondo del jazz ma anche in altre espressioni musicali come il funky. Comunque, tornando al jazz e a Bärtsch c’è da sottolineare come il pianista ancora una volta sia riuscito a coniugare la fedeltà a quei modelli cui prima si faceva riferimento con una sincera ansia di ricerca che ha sempre caratterizzato la sua arte. In questo nuovo album da evidenziare ancora il significativo apporto di tutti i componenti il quartetto, dal batterista che con il suo drumming costante e preciso è servito da collante per tutto il gruppo, al contrabbassista ‘fornitore’ di un flusso armonico-ritmico tanto elegante quanto funzionale per finire con le ance di Sha che si fa apprezzare non solo come strumentista (specialmente al clarinetto basso) ma anche come compositore (suo “A” uno dei brani più suggestivi dell’intero album). Dal canto suo il leader evidenzia come si possa strutturare un minimalismo di marca europea, distinto da quello statunitense, in cui ripetitività e groove, si conciliano con improvvisazione da un lato e disciplina, dall’altro. Tra i vari pezzi da segnalare il lungo “Modul 58” in cui dopo un’introduzione soft il clima si trasforma man mano fino a trasportare l’ascoltatore in un’atmosfera funky, assai movimentata che si distacca nettamente dal resto dell’album.

Greg Burk – “As a River” – Tonos Records
Musicista di rara sensibilità e uomo di squisito garbo, Greg Burk è uno dei non tantissimi musicisti con cui è gradevole parlare non solo di musica. Ma evidentemente in questa sede ci occupiamo di Greg in quanto jazzista ed in quanto autore di questo gradevolissimo piano solo. Esperienza non nuova per Burk che nel 2016 incise per la Steeplechase Lookout, sempre per piano solo, “Clean Spring”. “As a River”, registrato a Milano nel 2018, rappresenta comunque l’ennesima testimonianza di un talento che più passa il tempo e più si affina. Un talento che riguarda congiuntamente esecutore e compositore in quanto anche questa volta, come spesso nei precedenti album, i brani eseguiti sono da lui stesso composti. I pezzi appaiono ben strutturati, sorretti da un solido impianto formale in cui Burk riesce a sintetizzare i molteplici input che rendono così variegata la sua arte. Ecco quindi il sapiente mescolarsi di scrittura e improvvisazione, ecco una ricca tavolozza timbrica cui far ricorso, ecco un fraseggio sempre elegantemente ritmico, ecco quella varietà di situazioni che costituisce un’altra delle sue caratteristiche peculiari. Così, ad esempio, al clima quasi onirico di “The Slow Hello” si contrappone il fraseggio più libero, improvvisato di “Into The Rapids”, fino a giungere all’evocativo “Sequoia Song” scritto a seguito di una visita al Sequoia National Park. Dal punto di vista più strettamente pianistico, il linguaggio di Greg è allo stesso tempo forte e fluido, sempre caratterizzato da una evidente cantabilità che mai lo porta a forzare sul lato meramente spettacolare (si ascolti con attenzione “Sun Salutation” in cui Greg fornisce un’evidente dimostrazione di cosa significhi per un pianista l’indipendenza delle mani o ancora “Serena al telefono” caratterizzato da un ritmo latineggiante ben introdotto da un fraseggio con la sinistra).

Javier Girotto – “Tango nuevo revisited – act 9878-2
Chi segue “A proposito di jazz” sa bene quanto il sottoscritto ami Piazzolla e la sua musica. Di qui l’interesse con cui ascolta ogni nuovo album che includa brani del compositore argentino e la difficoltà di trovare un interprete che, in qualche modo, possa rielaborare e far rivivere adeguatamente la sua musica. Con questo album ci troviamo dinnanzi ad un’operazione assolutamente nuova e assai ben riuscita: la riproposizione di un album oramai considerato storico, vale a dire quel “Tango Nuevo” (conosciuto anche come “Summit” o “Reunion Cumbre”), registrato nel 1974 da Astor Piazzolla con il sassofonista Gerry Mulligan. Accanto a questi due grandi c’era un organico piuttosto ampio composto da Angel Pocho Gatti (pianoforte, Fender Rhodes, organo Hammond), Filippo Daccò e Bruno De Filippi (chitarre), Pino Presti (basso), un giovane Tullio De Piscopo (batteria e percussioni), Alberto Baldan Bembo e Gianni Zilioli (marimbe), Umberto Benedetti Michelangeli (violino), Renato Riccio (viola) e Ennio Miori (violoncello). Fu un successo internazionalmente straordinario e questo nuovo album si riallaccia prepotentemente a quelle registrazioni del ’74: in effetti – come spiega lo stesso Girotto – Siegfried “Siggi” Loch, fondatore e produttore di ACT, particolarmente affezionato al lavoro di Piazzolla e Mulligan avendone curato la produzione e la distribuzione su scala mondiale, ha proposto al sassofonista argentino ma oramai italiano d’adozione, di registrare nuovamente il disco che consolidò l’incontro tra l’ultimo innovatore del tango e uno dei migliori sax-baritonisti dell’intera storia del jazz. Girotto ha accettato, scelto l’organico (Gianni Iorio bandoneon e Alessandro Gwis (piano, tastiere)…ed ecco questo nuovo straordinario album. L’organico come si nota, è notevolmente ridotto rispetto alla versione originale ma è stato fortemente voluto da Girotto per “dare più apertura all’improvvisazione e spazio ad ogni solista”. In programma “Close Your Eyes And Listen”, “Twenty Years Ago”, “Summit”, “Reminiscence”, e “Years Of Solitude” già presenti in “Summit” cui si aggiungono “Escualo”, “Deus Xango” e “Fracanapa” sempre composti da Piazzolla nonché “Aire de Buenos Aires” e “Etude for Franca” di Gerry Mulligan. Dieci brani che se da un canto ci riportano, vivissima, l’immagine di un compositore straordinario come Piazzolla, dall’altro ci confermano la statura artistica di un personaggio come Javier Girotto che non ha paura di misurarsi con dei veri e propri mostri sacri della musica globalmente intesa.

Larry Grenadier – “The Gleaners” – ECM 2560
La discografia jazzistica per solo contrabbasso non è certo ricchissima: sono passati cinquant’anni da quando Barre Phillips incise da solo “Journal violone” subito acclamato da pubblico e critica. Da allora non sono stati moltissimi i bassisti che si sono cimentati in questa non facile impresa: tra di loro ricordiamo Barry Guy, Stanley Clarke, Dave Holland, Eberhard Weber, Miroslav Vitous… Adesso è la volta di Larry Grenadier, strumentista sontuoso che si è fatto le ossa suonando con alcuni mostri sacri del jazz quali, tanto per fare qualche nome, Herbie Mann, Paul Motian, Charles Lloyd ma soprattutto Brad Mehldau con il quale ha collaborato per molti anni. Nessuna sorpresa, quindi, che il patron della ECM, Manfred Eicher, gli abbia proposto questa sfida, vinta brillantemente. L’album è infatti profondo, stimolante e porta in primo piano la straordinaria tecnica di Larry nonché la sua sensibilità interpretativa. Il titolo s’ispira al film The Gleaners di Agnès Varda, in cui la regista racconta i suoi incontri ovunque in Francia con spigolatori e spigolatrici, recuperanti e robivecchi. Tra i pezzi composti dallo stesso Grenadier una dedica al suo primo eroe Oscar Pettiford, cui si accompagnano riproposizioni di temi firmati da George Gershwin, John Coltrane, Paul Motian, Rebecca Martin e Wolfgang Muthspiel. E in ognuna di queste parti Larry adotta uno stile differente, creando anche mirabili compilation con brani di compositori assai differenti come “Compassion” di John Coltrane e “The Owl of Cranston” di Paul Motian “. Egualmente mirabile il linguaggio vagamente folk adoperato nell’interpretazione di “Woebegone”. Insomma un album pregevole sotto ogni punto di vista che risponde pienamente a quell’esigenza, esplicitata dallo stesso Grenadier, di operare “uno scavo sugli elementi fondamentali di chi sono io come bassista. La mia era una ricerca verso un centro di suono e timbro, fili di armonia e ritmo che formano il punto cruciale di un’identità musicale. ”

Vijay Iyer e Craig Taborn – “The Transitory Poems” – ECM 2644
E’ il 12 marzo del 2018 quando Vijay Iyer e Craig Taborn salgono sul palco della Franz Liszt Academy di Budapest per dar vita ad un concerto che la ECM registra e che ci viene proposto in questo eccellente album. I due pianisti sono personaggi noti nella comunità del jazz, così come nota è la loro intesa cementata da lunghi anni di collaborazioni: era, infatti, il 2002 quando i due iniziarono a collaborare nella Note Factory di Roscoe Mitchell, partecipando ambedue agli album di Roscoe Mitchell «Song For My Sister» (PI, 2002) e «Far Side» (ECM, 2010). Questa nuova realizzazione in duo non presenta, quindi, particolari sorprese restituendoci due artisti nel pieno della maturità e perfettamente consapevoli delle proprie possibilità. Di qui una musica senza confini stilistici che si rivolge al futuro senza tuttavia dimenticare il passato. Ecco quindi tre significativi omaggi ad altrettanti giganti del jazz: “Clear Monolith” dedicato a Muhal Richard Abrams, “Luminous Brew” per Cecil Taylor e la riproposizione di “Meshwork/Libation – When Kabuya Dances” composta da Geri Allen, mentre “Sensorium” è un omaggio a Jack Whitten, pittore e scultore americano scomparso nel 2018, che nel 2016, è stato insignito della National Medal of Arts. Queste citazioni non sono fine a sé stesse ma illustrano la mentalità di due grandi musicisti che non si chiudono in una torre eburnea ma vanno incontro ad un universo culturale onnicomprensivo. Ovviamente la musica non è fatta per palati semplici: qui non c’è alcunché di consolatorio né ascrivibile alla categoria del facile ascolto. E l’unico momento in cui i due si lasciano andare ad un qualche risvolto melodico è nel finale dell’album, ovvero nell’interpretazione di “When Kabuya Dances”, della Allen Occorre, quindi, una fattiva partecipazione da parte dell’ascoltatore che sia in grado di percepire l’onestà intellettuale dei due pianisti che non si lasciano andare a virtuosismi di sorta preferendo addentrarsi, pur tra indubbie difficoltà, nei meandri dei rispettivi animi.

Landgren, Wollny, Danielsson, Haffner – “4WD”- ACT 9875 2
Album godibile questo “4 Wheel Drive” che vede assieme per la prima volta quattro fra le maggiori personalità del jazz europeo, vale a dire Nils Landgren (trombone e voce), Michael Wollny (piano), Lars Dannielsson (basso e cello) e Wolfgang Haffner (batteria). Questi quattro jazzisti si erano incrociati molte volte in passato, ma prima di adesso mai avevano avuto la possibilità di registrare tutti assieme. E il fatto di aver titolato l’album “4 Wheel Drive” (“Quattro ruote motrici”) è tutt’altro che casuale: in buona sostanza i quattro hanno voluto sottolineare come il gruppo non abbia un vero leader ma tutti i musicisti sono sullo stesso piano ed hanno la stessa responsabilità nella strutturazione e nell’esecuzione dei brani. Quindi, a seconda dei vari pezzi, ognuno di loro riveste ora il ruolo di solista ora quello di accompagnatore…ed essendo tutti dei maestri nei rispettivi strumenti è facile avere un’idea della qualità offerta. Qualità rafforzata dalla felice scelta del repertorio: quattro original firmati da ciascuno dei musicisti e poi una serie di cover tratte dalla produzione di alcuni giganti della musica: Paul McCartney, Billy Joel, Phil Collins e Sting. Insomma un album di chiara impostazione moderna anche se non riconducibile completamente al jazz. In effetti i quattro interpretano le cover alla luce della loro sensibilità evidenziando come gioielli della musica pop possano validamente entrare a far parte del repertorio di jazzisti di vaglia. Si ascolti con quanta sincera partecipazione Nils Landgren interpreti vocalmente “Another Day in Paradise” di Phil Collins, “Shadows in the Rain” di Sting, “Maybe I’m Amazed” di Paul McCartney mentre dal punto di vista strumentale lo si apprezza nella intro e nella parte finale di “If You Love Somebody Set Them Free”; Michael Wollny è superlativo soprattutto in “Just The Way You Are” di Billy Joel mentre Lars Danielsson fa cantare il suo cello in “That’s All”. Quanto a Wolfgang Haffner non ‘cè un solo brano in cui il suo apporto non sia determinante.

Dominic Miller – “Absinthe” – ECM
Sarà la mia natura un po’ malinconica, sarà la mia passione per il tango o comunque per le atmosfere legate a questa musica, fatto sta che ho trovato questo album del chitarrista argentino Dominic Miller semplicemente straordinario. Ben coadiuvato da Santiago Arias al bandoneon, Manu Katché alla batteria, Nicolas Fiszman al basso e Mike Lindup alle tastiere, Miller distilla le sue preziose note rifuggendo da qualsivoglia pretesa virtuosistica accompagnando l’ascoltatore nella scoperta di un universo sonoro che man mano si dipana con sempre maggior chiarezza sotto i nostri sensi. Universo disegnato con mano sicura dallo stesso Miller autore di tutti e dieci i brani in programma, in cui la bellezza della linea melodica la fa da padrona assoluta. In apertura facevo riferimento al tango: in effetti qui le atmosfere tanghere sono ricreate magnificamente dal bandoneon di Arias che non disdegna, comunque, di ricordarci che buona musica si può fare anche ricorrendo a linee, a stilemi propri del pop più significativo. E così nell’album tutti hanno un proprio spazio: splendidi Manu Katché alla batteria e Nicolas Fiszman al basso in “Christiania”, mentre Lindup si fa ammirare in “Mixed Blessing” (al sintetizzatore), in “Étude” (al piano) e nel brano di chiusura, “Saint Vincent”, di cui sottolinea ed evidenzia il toccante lirismo. Dal canto suo il leader si mette in evidenza, come strumentista, soprattutto nel già citato “Étude” caratterizzato da un crescendo di ritmo e volume e da un ostinato arpeggio di chitarra che dona al brano un andamento circolare tutt’altro che banale.

Sokratis Sinopoulos – “Metamodal” – ECM 2631
Sokratis Sinopoulos, lyra; Yann Keerim, pianoforte; Dimitris Tsekouras, contrabbasso; Dimitris Emmanouil, batteria: questi i componenti del quartetto che nel luglio del 2018 ha inciso questo album, “Metamodal”, apparso quattro anni dopo “Eight Winds”. Ma il tempo non sembra essere trascorso invano nel senso che il quartetto ha abbandonato certi toni forse un po’ troppo patinati, per avvicinarsi maggiormente ad una world music in cui le diverse influenze dei musicisti si amalgamano in un linguaggio oscillante tra musica cameristica di impostazione classicheggiante e improvvisazione jazzistica. Il tutto impreziosito da una ricerca sul suono che rimane forse la caratteristica principale dell’artista greco, sempre straordinario con la sua lyra. E per quanti non lo conoscono è forse opportuno spendere qualche parola su Sinopoulos. Dopo aver studiato chitarra classica e musica bizantina alla Tsiamoulis school – una scuola della capitale dove fa anche parte del coro dell’istituto- nel 1988 si avvicina alla lira bizantina, strumento ad arco, risalente alla Bisanzio del decimo secolo dopo Cristo. Studia altresì il liuto con Ross Daly e nello stesso periodo dà vita al suo primo gruppo musicale, i Labyrinthos,. Nel 1999 riceve il Melina Mercouri National Award, fra i più importanti premi ellenici in campo musicale, nella categoria miglior giovane artista. Nel 2010 fonda il Sokratis Sinopoulos Quartet, con cui debutta nel 2015 con il già citato album ‘Eight Winds’ mischiando tradizione e sperimentazione. Indirizzo cui non si sottrae in questo “Metamodal”: in tal senso assolutamente riuscito il connubio con il pianoforte di Yann Keerim, connubio che si lascia apprezzare in ogni brano (si ascolti solo a mò di esempio con quale e quanta delicatezza il pianista introduca la lyra di Sokratis in “Metamodal II – Illusions”). E a proposito del repertorio, occorre sottolineare come a conferma delle notevoli capacità di scrittura del leader, i nove brani del CD sono tutti composti dal leader eccezion fatta per la chiusura “Mnemosyne” riservata ad una improvvisazione collettiva. Ci siamo già soffermati su Sinopoulos e Keerim, ma il quartetto non avrebbe la valenza che ha se al contrabbasso e alla batteria non ci fossero altri due strumentisti di classe eccelsa che forniscono al tutto un delizioso tappeto ritmico-armonico.

David Torn, Tim Berne, Ches Smith – “Sun of Goldfinger” – ECM 2613

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Album sotto molti aspetti straniante questo che vede protagonisti David Torn alla chitarra elettrica, Tim Berne al sax alto e Ches Smith alla batteria cui si aggiungono nel secondo brano Craig Taborn al piano ed effetti elettronici, il quartetto d’archi Scorchio e altri due chitarristi, Mike Baggetta e Ryan Ferreira. Il fatto che il trio Torn-Berne-Smith sia giunto a questa realizzazione discografica è la logica conseguenza di una lunga collaborazione che a partire dal 2010 li ha visti protagonisti in numerosi concerti. Per non parlare del fatto che da un canto Torn e Berne vantano una fruttuosa collaborazione di vecchia data (si ricordi «Prezens», del 2007) mentre Ches Smith collabora con Berne già dal 2012 quando fu inciso «Snakeoil». Tutto ciò per inquadrare il contesto anche storico in cui l’album si inserisce e che comunque la dice lunga sul tipo di musica che si ascolta. Mattatore del primo pezzo, “Eye Meddle” è l’inesauribile Tim Berne che fornisce un’impronta precisa all’esecuzione del brano all’insegna di quel “caos organizzato” al cui interno è praticamente impossibile (ammesso che poi sia così importante) distinguere tra parti scritte e libera improvvisazione. Il linguaggio di Berne è more solito magmatico, trascinante, senza un attimo di pausa, mirabilmente sostenuto dalla batteria di Ches, mentre Torn scarica sull’ascoltatore altre vagonate di masse sonore. Il secondo brano, “Spartan, Before It Hit”, si differenzia notevolmente innanzitutto per l’allargamento dell’organico che vede impegnati anche i già citati Craig Taborn al piano ed effetti elettronici, il quartetto d’archi Scorchio e altri due chitarristi, Mike Baggetta e Ryan Ferreira. Questo ha un effetto immediato sulla musica cha appare più aperta, più strutturata in cui il quartetto d’archi ha un ruolo importante nell’evocare atmosfere più cameristiche e, perché no, godibili. Dal canto suo Craig Taborn interviene con un pianismo misurato ma del tutto pertinente e quindi capace di ricondurre a sé anche le sortite solistiche di un Berne altrimenti inarrestabile. Nella terza parte dell’album, si ritorna alle temperie del primo brano ossia a quella sorta di magma ribollente, di caos in qualche modo ordinato al cui interno rifulgono le capacità improvvisative dei singoli.

Huw Warren, Mark Lockheart – “New Day” – Cam Jazz 79442
Anche questo album fa parte delle registrazioni effettuate da Stefano Amerio per la CAM JAZZ nelle cantine del Friuli-Venezia Giulia; in particolare questa volta siamo nella cantina Livio Felluga di Brazzano di Cormòns. Protagonisti il pianista Huw Warren e il sassofonista Mark Lockheart impegnati su un repertorio di otto brani di cui cinque scritti da Warren, due da John Taylor e uno dal sassofonista. Dopo quello di Vijay Iyer e Craig Taborn ecco quindi un altro album in duo. Ora, quando ci troviamo dinnanzi ad un duo ci assale sempre il dubbio che i due artisti siano in grado di superare brillantemente una prova difficile. L’impresa appare ancora più ardua quando il mini-organico è costituito soltanto da pianoforte e sassofono. Bene, ma come si dice spesso si fanno i conti senza l’oste, ovvero senza tenere nella giusta considerazione i due musicisti che, nel caso in oggetto, sono due autentici fuoriclasse. Huw Warren l’abbiamo imparato a conoscere grazie anche alle collaborazioni con Maria Pia De Vito; il pianista e compositore gallese costituisce una delle più interessanti realtà del panorama jazzistico europeo grazie alla sua straordinaria versatilità che gli consente di affrontare con disinvoltura diversi generi musicali. Mark Lockheart è un sassofonista del jazz britannico che si è fatto le ossa come membro della grande band di Loose Tubes negli anni ’80, dopo di ché ha proseguito una brillante carriera solistica. In questo album i due offrono il meglio del loro repertorio: grande empatia, linguaggi che si compenetrano alla perfezione, capacità di articolare il discorso musicale senza far rimpiangere la mancanza di batteria e contrabbasso ché il pianoforte esalta le doti armoniche di Warren mentre il sostegno ritmico è costantemente assicurato da ambedue i musicisti in un gioco ora di chiamata e risposta ora di reciproche puntualizzazioni che mai denunciano sbandamenti o rifugi nella banalità espressiva.

L’Estate alla Casa del Jazz, ricca di splendida musica

Una splendida giornata di caldo e di sole ha fatto da cornice alla conferenza stampa di presentazione di “Summertime 2019“, la rassegna estiva della Casa del Jazz di Roma, che si aprirà il 24 giugno per concludersi il 1° agosto con oltre 30 concerti. Approfittando del clima finalmente favorevole, l’incontro si è tenuto all’esterno della palazzina di viale di Porta Ardeatina; al tavolo delle autorità Aurelio Regina, presidente di Fondazione Musica per Roma, Josè R. Dosal, amministratore delegato di Fondazione Musica per Roma, Teresa Azzaro, direttore artistico de “I concerti nel parco” e Luca Bergamo, vicesindaco e assessore alla Crescita culturale di Roma; in prima fila, tra il pubblico,  tre artisti di assoluto rilievo come Enrico Pieranunzi, Sergio Cammariere e Javier Girotto.

È toccato al vicesindaco rompere il ghiaccio; Bergamo ha illustrato gli ottimi risultati ottenuti dal suo assessorato nel Comune di Roma: nei primi tre mesi dell’anno, sono stati organizzati dalle istituzioni culturali partecipate dal Comune di Roma, esclusi i musei, duemilanovecento eventi con circa cinquecentomila presenze. Ora senza voler minimamente contestare tali numeri, chi avesse ascoltato le parole di Bergamo non abitando a Roma, avrebbe potuto credere che la Capitale stia vivendo un momento di particolare fulgore. Purtroppo non è così, ché gli eventi cui Bergamo accennava si sono svolti all’interno di un contesto cittadino non proprio ottimale, per usare un eufemismo. Nessun accenno, quindi, ai molti guai che continuano ad affliggere Roma e che solo molto, molto parzialmente possono essere leniti da quei successi cui il vice sindaco ha fatto riferimento.

Ma veniamo alla musica. Aurelio Regina ha sottolineato il valore sociale e civico che ha la Casa del Jazz, luogo tolto alla malavita organizzata e restituito alla città per cui “fare musica qui ha un valore doppio rispetto ad altri luoghi”. Fare musica che, anche quest’anno, si svolge sotto l’egida di Musica per Roma, dopo che lo scorso anno la manifestazione si era chiusa con un bilancio gratificante di oltre ventimila presenze. E tutto lascia supporre che anche quest’anno si potranno raggiungere risultati altrettanto positivi, vista la qualità del programma che comprende jazz, blues, soul, tango, swing, funky, acid jazz e musiche del Mediterraneo.

Come al solito ci soffermiamo sugli appuntamenti a nostro avviso più interessanti. In quest’ambito si inserisce l’apertura del 24 giugno con il Quinteto Astor Piazzolla, formazione di virtuosi sotto la direzione di Laura Escalada Piazzolla creata per proteggere e diffondere l’enorme lascito del musicista argentino.

L’8 luglio toccherà agli Incognito che riproporranno il loro inconfondibile mix di groove, soul e funk. Tanto atteso, poi, il ritorno del chitarrista Bill Frisell, che si esibirà in trio con Thomas Morgan e Rudy Royston il 10 luglio. Il 15 luglio ecco la Band guidata da Steve Gadd uno dei più influenti batteristi dell’intera storia della musica contemporanea; il 17 sarà la volta di un duo d’eccezione composto dal pianista belga Eric Legnini e da uno dei più talentuosi interpreti della New Jazz Generation italiana Raffaele Casarano. Il 19 luglio, a nostro avviso l’appuntamento più importante dell’intera rassegna: arriva Charles Lloyd, uno dei più grandi sassofonisti viventi, una vera leggenda, noto tra l’altro per alcune incisioni storiche (“Forest Flower” tanto per citarne una) e per aver lanciato le carriere di molteplici pianisti, tra cui Keith Jarrett e Michel Petrucciani. Il 21 luglio sarà la volta del trio composto da Peter Erskine, Eddie Gomez e Dado Moroni.

Il 30 luglio, grande festa per i 25 anni di uno dei gruppi più noti per aver reinterpretato il tango argentino in chiave jazz: Javier Girotto & Aires Tango “25 anos”. Come al solito “robusta” e di assoluta qualità la presenza del jazz italiano.

Il 26 giugno prima serata con la Roma Sinfonietta che eseguirà Trouble in Tahiti, opera nata nel 2018 in occasione del centenario della nascita di Leonard Bernstein, mentre la seconda serata – in programma il 4 luglio – sarà dedicata al genio compositivo di George Gershwin.  Il 29 giugno sarà il turno del poliedrico vocalist Gegè Telesforo mentre il 6 luglio ritorna la NTIO New Talent Jazz Orchestra, formata da giovani talenti del jazz italiano diretta da Mario Corvini che, per l’occasione, interpreterà le composizioni e la musica di Enrico Pieranunzi, egli stesso sul palco come ‘special guest’ (progetto che diverrà presto un disco per Parco della Musica Records).

Il 25 luglio troviamo la tromba di Paolo Fresu unita al bandoneon di Daniele di Bonaventura che incontreranno il violoncellista carioca Jacques Morelenbaum per gettare un ponte tra Mediterraneo e Brasile.  Il 26 luglio Sergio Cammariere presenterà al pubblico romano il suo ultimo disco “La fine di tutti i guai” pubblicato dalla Parco Musica Records; il 29 luglio Antonello Salis e Simone Zachini, virtuosi della fisarmonica e improvvisatori totali, si incontreranno per sperimentare una musica senza confini. Il 31 luglio l’eccezionale duo Fabrizio Bosso (alla tromba) e Julian Mazzarielo (al pianoforte) presenterà il nuovo disco ‘Tandem Live’.

Ma “Summertime 2019 – L’estate a Casa del Jazz” non finisce qui e prosegue anche con la 29esima edizione de “I concerti nel parco” – per la quarta volta nella location in via di Porta Ardeatina – con la direzione artistica di Teresa Azzaro. Vera e propria anima della manifestazione, la Azzaro è persona sicuramente capace, competente… peccato che non possieda il dono della sintesi. Il suo intervento, davvero lungo… molto lungo, ha reso impossibile seguirla con attenzione sino alla fine. Comunque, scorrendo il ricco programma, ci sono alcuni appuntamenti di rilievo anche per gli appassionati di jazz.

In particolare, l’11 luglio sarà di scena Sarah Jane Morris, una delle vocalist più carismatiche e interessanti dell’intero panorama musicale al di là di qualsivoglia etichetta mentre il 16 luglio il fisarmonicista di statura mondiale, Richard Galliano, e il flautista Massimo Mercelli si incontreranno con i Solisti Aquilani.

Il 27 luglio il duo Omar Sosa (pianoforte) e Yilian Canizares (violino e voce) si esibiranno con il percussionista Gustavo Ovalles nelle vesti di special guest. Infine, il 1° agosto, il graditissimo ricorso dell’Orchestra di Piazza Vittorio con la direzione artistica e musicale di Mario Tronco.

Gerlando Gatto

 

La Banda dei Carabinieri a Roma con Paolo Fresu e Caroline Campbell: le affascinanti contaminazioni sinestetiche della musica

L’arte e le emozioni rappresentano un connubio inscindibile e potrebbe sembrare quasi un’ovvietà dire che, tra tutte le arti, la musica è forse quella che più riesce ad indurre ciò che Aristotele definiva gli “accadimenti dell’anima”.
Di qualunque genere le emozioni siano, nella paletta di colori della musica non ne manca nessuna!

Certo, la musica mette in moto la Mnemosine (figura della mitologia greca, madre delle Muse e personificazione della memoria) che è in noi ed accende i nostri ricordi, evocatori primari di emozioni, ma non sempre.
Accade, a volte, che ciò avvenga per una sorta di misteriosa, quanto affascinante contaminazione sinestetica, che si compone sullo spartito della nostra psiche.

Lunedì 27 maggio 2019, nello splendido e neo-rinascimentale Teatro dell’Opera di Roma, in occasione del concerto che la Banda Musicale dell’Arma dei Carabinieri, diretta con la consueta, energica verve dal M° Massimo Martinelli, le emozioni sono giunte da più fronti. Quando parlo di contaminazioni sinestetiche, infatti, non mi riferisco soltanto a quelle di genere, avendo il repertorio spaziato dalla classica, al jazz, dalle marce militari alle colonne sonore da film, dal pop (si, avete letto bene!) alla musica tradizionale sarda, grazie anche ai contributi di due musicisti di vaglia quali la violinista americana Caroline Campbell e il “nostro” – ma di levatura altrettanto internazionale – trombettista Paolo Fresu; ciò di cui desidero rendervi partecipi è il mio percepire le emozioni della serata attraverso impulsi sensoriali inusuali, propri della sinestesia, come vedere il suono, sentire i suoi colori, assaporare l’emozione estetica delle forme…

Kandinsky, nel 1911, presenziò a Monaco ad un concerto di Arnold Schönberg, tra i padri della musica del Novecento. Il “Quartetto per archi op.10” e i “Klavierstücke op.11” divennero, il giorno dopo, un quadro: “Impressione III” o “Konzert”. Kandinsky aveva visto la musica, trasformandola in colore.

La ricchezza dei colori sinfonici di Rossini apre, dunque, la serata, presentata con eleganza dalla giornalista e conduttrice Rai Barbara Capponi, con l’esecuzione della Sinfonia dell’Otello, opera che il compositore amava più di ogni altra. Un bel duello a colpi di virtuosismo, dei legni soprattutto, che hanno sfoderato un gran carattere timbrico e ritmico; la musica rossiniana è un turbinio di rosso, il colore della passione, il cui eccesso sfocia ineluttabilmente nella gelosia, e che si fonde con quello dei pennacchi e delle strisce delle uniformi degli strumentisti e dei tanti carabinieri presenti in sala.

Purtroppo ancora oggi, quando si parla di “banda”, il pensiero corre immediatamente ad una musica che sta a metà strada tra le melodie popolari e le marcette militari. Ma la verità è molto più complessa, più articolata… e non sempre facile da decifrare. Per non parlare di quanto le bande siano state determinanti per la nascita e lo sviluppo del jazz!
Identica importanza rivestono le bande militari, che nel nostro Paese godono di un grande prestigio per aver mantenuto, nel tempo, un eccelso livello artistico. In particolare la Banda dell’Arma dei Carabinieri si è fatta apprezzare in tutto il mondo con svariate esibizioni e tournée, la prima nel 1916 a Parigi.
Attualmente è composta da 102 elementi, secondo i dettami della riforma varata nel 1901 dal maestro Alessandro Vessella, il quale prevedeva tre differenti organici a seconda che si trattasse di piccola banda (35 esecutori), media banda (54 esecutori) e grande banda (per l’appunto 102 esecutori). A dirigerla, dal 2000, è il Maestro Massimo Martinelli al quale va dato atto di saper imbastire un programma variegato ed interessante e di invitare, di volta in volta, degli ospiti di assoluto livello internazionale.

Tornando alla serata romana, lo stretto rapporto tra immagini e suoni ritorna con il medley dedicato al genio del M° Nino Rota, del quale ricorre il quarantennale della scomparsa, il cui talento ha dato vita a capolavori sempervirens e ad un vero e proprio genere, non catalogabile banalmente come “musica da film”. Nella mente, grazie al magico potere evocativo e di suggestione della musica, si affacciano a forti tinte le gelsomine, i clown, le angeliche, le saraghine, le gradische, le cabirie e tante altre figure create dai grandi Maestri del cinema italiano e mondiale.

La prima ospite internazionale, la violinista americana Caroline Campbell, irrompe sulla scena di rosso vestita e con la sua fisicità scultorea. Dotata, oltre che di straordinaria tecnica e squisita sensibilità, anche di una completa padronanza scenica, la Campbell si è fatta conoscere soprattutto come primo violino del Sonus Quartet, un quartetto d’archi costituito a Los Angeles nel 2003. Se non l’avete mai ascoltata, come primo approccio vi consiglio un inizio soft ma molto intenso: “Oblivion”, stupendo brano di Astor Piazzolla, in duetto con il trombettista Chris Botti. Nell’esiguo spazio del proscenio, concessole dalla mastodontica presenza dell’orchestra che riempie tutto il palcoscenico, la Campbell propone “America” di Leonard Bernstein, da “West Side Story”. L’intro è affidata al suo violino, e sono subito fuochi d’artificio multicolori!
Coinvolgenti, come sempre, i ritmi frammentati, d’ispirazione stravinskijana e intrigante l’hand clapping di parte dei musicisti.

Quanto a Paolo Fresu, credo che per i lettori di “A proposito di Jazz”, come si diceva una volta, “basta la parola!”. Eppure, nella mia particolare lettura pluri-sensoriale della serata, mi sento di dire che Paolo è riuscito a trasportarci, con la sensibilità che gli è propria, in un emozionante sorvolo sulla sua Sardegna, terra dai sorprendenti contrasti cromatici che vanno dalle gradazioni di azzurro del cielo e del mare a quelle del verde della macchia mediterranea, con gli ocra delle rocce a fare da sfondo. Bastava chiudere gli occhi e attraverso la musica si sentiva anche il profumo degli oleandri.

In “Sardinia Incanto”, arrangiata dal M. Martinelli, le anime dell’orchestra – più classica – e quella di Paolo – più jazz – si sono amalgamate in una sequenza di brani della tradizione popolare: “Deus ti salvet Maria” (più celebre come Ave Maria sarda), “Ballo sardo” e la toccante “A Diosa” (No Potho Reposare). Fresu termina l’esecuzione con il suo flicorno che emette una nota prolungata, una corona… un suono meccanico e ipnotico al contempo. Poesia jazz per cuori curiosi (calza alla perfezione il titolo del recente libro di Paolo!)

Dalla Sardegna alle cascate dell’Iguazù ci si arriva in un attimo, in una piovosa serata romana!
Per “Gabriel’s Oboe” di Morricone, la main track del film “Mission”, ritorna sul palco la bionda violinista statunitense, che duetta con Francesco Loppi, 1° oboe della Banda dei Carabinieri. Performance impeccabile, come lo stile della Campbell, la sua intonazione e l’abilità negli incroci di corde con il suo strumento.

E’ di nuovo la volta di Fresu con un suo classico: “Fellini”, arrangiato per banda (e non so quanto sia stato facile)… eseguito in versione ballad, dolce, onirica. Il brano ha come sottotitolo “Elogio alla lentezza” e ascoltandolo comprendiamo che abbiamo bisogno anche del silenzio per apprezzare di più la musica, e di lentezza per riappropriarci del nostro tempo. Suggerimenti poetici.
Il sogno non finisce qui. Nel teatro spunta la luna, l’astro più celebrato dai poeti, la musa, per definizione, degli innamorati. Con “Moonlights”, una compilation dedicata al simbolo del romanticismo ma anche ai 50 anni dal primo sbarco dell’uomo sulla luna, con la Banda, il suo 1° Trombone tenore, Massimo Panico, il 2° Sax Baritono, Alessio Porcello, la Campbell e Fresu  ascoltiamo in successione: “Moonlight Serenade” di Glenn Miller, “Blue Moon” di Rodgers e Hart, “Tintarella di Luna”, portata al successo nel 1959 da Mina, l’incantevole “Moon River” di Mercer e Mancini, dal film “Colazione da Tiffany” e, dulcis in  fundo, la magnificamente ricca di significato e di metafore “La settima luna” di Lucio Dalla. Il teatro non è più un luogo ma un altrove opalino… sospeso tra la luna e il tempo.

Il tempo è ora quello della Csárdás, celeberrimo brano di Vittorio Monti, che inizia con un mood struggente e prosegue in un crescendo rapsodico di grande tensione emotiva, dove la talentuosa Campbell avrebbe potuto farci saltare sulle poltrone per il suo virtuosismo; invece l’ha “solo” suonata bene, con grande pulizia ma senza quelle ardite digressioni che fanno la differenza e che lei, peraltro, sarebbe stata in grado di eseguire. Colore associato? Kandinsky l’avrebbe inserita nella sua opera sperimentale “Der Gelbe Klang”, il suono giallo!
Prima della chiusura con “La Fedelissima”, ovvero la marcia d’ordinanza dell’Arma dei Carabinieri, scritta nel 1929 dal maestro Luigi Cirenei, cui è seguito il sempre emozionante inno di Mameli, intonato da tutto il pubblico in piedi a celebrare l’omaggio alla Repubblica… ma anche alla bella musica offertaci dal maestro Martinelli e dalla sua Banda, è salito sul palco il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, il Gen. di C.A. Giovanni Nistri.

Il massimo vertice dell’Istituzione, con il suo solito forbito e brillante eloquio, ha ringraziato le varie Autorità militari e civili presenti, un vero e proprio parterre de roi, congratulandosi con i musicisti e, soprattutto, richiamando alla memoria i valori dei Carabinieri ed il loro ruolo, citando momenti tristi, come il sacrificio dei tanti uomini caduti nell’espletamento delle proprie funzioni, e quelli felici. Tra questi, il salvataggio dei 51 studenti della scuola media di Crema, tenuti in ostaggio su uno scuolabus dirottato e incendiato e le parole del Presidente Mattarella, che nel suo discorso di fine anno ha ricordato l’anziana signora che la notte di Capodanno ha chiamato i carabinieri, presenza capillare e amica, per lenire la sua solitudine.

Come bis, una musica che è entrata nel cuore di tutti, il tema di “Nuovo Cinema Paradiso” di Ennio Morricone. Il bianco, che racchiude in se l’intera gamma delle frequenze cromatiche, è il colore perfetto, il colore della fiducia e dei sentimenti nobili.

Se siete arrivati fino a qui, leggendo il racconto di una giornalista “sinesteta” in balia di flussi sensoriali mutevoli, sperando non vogliate bollare questa esperienza come una sorta di antropoformismo musicale, sappiate che i confini della sinestesia si fanno sempre più ampi e che le emozioni più profonde e viscerali e gli accadimenti dell’anima più intensi vengono percepiti attraverso l’ascolto; tanto da farne materia di studi scientifici che hanno permesso di sviluppare tecnologie che consentono ai non vedenti di “guardare” un’opera d’arte associando i suoni ai colori, per rendere visibile l’invisibile.

Marina Tuni

A Proposito di Jazz ringrazia il Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Generale di Corpo d’Armata Giovanni Nistri, il Maestro Direttore della Banda, Colonnello Massimo Martinelli, l’Ufficio Cerimoniale e l’Ufficio Stampa per la collaborazione.

Photo courtesy: Fototeca Ufficio Cerimoniale Arma dei Carabinieri

 

 

A Grado Jazz by Udin&Jazz Gonzalo Rubalcaba e Snarky Puppy

L’estate si avvicina e i vari festival del jazz che ogni anno affollano lo stivale scaldano i motori e presentano i rispettivi programmi.

Chi segue “A proposito di jazz” sa bene come oramai non amiamo particolarmente questo tipo di manifestazioni il più delle volte inutili passarelle di grandi nomi che tra l’altro si ha modo di ascoltare anche durante il resto dell’anno. Ci sono tuttavia eventi che sfuggono a questa regola e che quindi siamo ben lieti seguire e di segnalarvi, manifestazioni che si caratterizzano anche per la volontà di valorizzare i talenti locali dando loro il giusto spazio.

E’ in questa categoria che va inserita “Udin&Jazz” che quest’anno ha cambiato nome e location: ecco quindi il “Festival Internazionale GradoJazz by Udin&Jazz”, organizzato da Euritmica con il sostegno della Regione Friuli Venezia Giulia e del Comune di Grado, in collaborazione con i comuni di Cervignano del Friuli, Marano Lagunare, Palmanova e Tricesimo. Giunta alla sua 29° edizione, la rassegna si è oramai imposta all’attenzione generale per aver offerto al suo pubblico il meglio della scena jazz contemporanea, tra avanguardia e tradizione, ospitando grandi artisti internazionali e italiani, con un’attenzione particolare, come si accennava, ai musicisti del Friuli Venezia Giulia.

Il Festival si svolge a cavallo tra i mesi di giugno e luglio in diverse località della regione per approdare a Grado, che da quest’anno ospita il clou della storica manifestazione.

Nella settimana gradese, sono in programma concerti, workshop, mostre, libri, incontri, proiezioni, visual art, il tutto impreziosito da una piacevole ospitalità nello scenario magnifico della laguna di Grado, l’isola del sole, un lembo di terra sospeso tra mare e vento, tra storia e futuro.

Dopo un prologo già dal 25 giugno con concerti a Tricesimo, Cervignano del Friuli, Savogna d’Isonzo e un weekend a Marano Lagunare, il Festival entra nel vivo il 6 luglio, a Palmanova (Ud), città stellata patrimonio mondiale dell’Unesco, dove i mitici King Crimson, progressive rock band britannica di livello mondiale, si esibiranno nella  Piazza Grande nella prima delle quattro date italiane del Tour che celebra il 50°anniversario di attività per il gruppo di Robert Fripp e compagni; la serata finale  a Grado (Go), dove l’11 luglio gli Snarky Puppy, una delle più belle realtà della nuova scena musicale internazionale, saliranno sul palco del Jazz Village al Parco delle Rose, nella prima delle cinque date in Italia, per presentare il nuovo album “Immigrance”, uscito il 15 marzo.

Ma, procedendo con ordine, diamo un’occhiata più da vicino al ricco cartellone.

Il 25 giugno, la Piazza Garibaldi di Tricesimo vedrà esibirsi le vocalist e la band del NuVoices Project; il 26 sarà Cervignano del Friuli ad accogliere i Pipe Dream, una band internazionale con quattro delle personalità più interessanti nella nuova scena creativa italiana e con il violoncellista americano Hank Roberts; il 27, l’incantevole Castello di Rubbia a Savogna d’Isonzo ospiterà un “piano solo” di Claudio Cojaniz; nel weekend del 28, 29 e 30 giugno ritorna a Marano Lagunare la rassegna Borghi Swing by Udin&Jazz – seconda edizione – con un programma costruito ad hoc per valorizzare da un canto le migliori espressioni del panorama jazzistico del FVG, dall’altro i luoghi, l’ambiente, la storia, i riti, la cultura e l’enogastronomia del territorio in cui tale musica si è sviluppata.

Dal 3 luglio il festival si trasferisce a Grado, con una mostra di sassofoni d’epoca curata da Mauro Fain e proiezioni di filmati di concerti jazz storici; il 6 luglio, in occasione del “Sabo Grando”, la fanfara jazz Bandakadabra allieterà con la sua musica le vie del centro; il 7 luglio, GradoJazz entra nel vivo con la formula dei due concerti su due diversi palcoscenici (alle 20 e alle 21.30), nel Jazz Village del Parco delle Rose, dove lo spettatore, oltre alle emozioni della musica, potrà vivere anche una “street food experience” con degustazioni di prodotti dell’enogastronomia del FVG. Le cinque serate saranno precedute alle ore 18.00 da incontri con artisti, giornalisti, scrittori che animeranno i Jazz Forum nella struttura del Velarium, accanto all’ingresso principale della spiaggia.

Le notti gradesi si allungheranno al Jazz Club, dal 7 all’11 luglio, sulla spiaggia principale, verso mezzanotte, night music dal vivo, sorseggiando un drink sotto la luna a due passi dal mare…

La prima serata gradese del festival, il 7 luglio (ore 20), ci porterà ad immergerci nelle suggestive atmosfere argentine con il Quinteto Porteño, un tributo alla musica del grande Astor Piazzolla; alle 21.30, l’attesissima performance di uno tra i musicisti più noti d’Italia: il trombettista Paolo Fresu, con il suo nuovo progetto discografico “Tempo di Chet”, in trio con Dino Rubino (uno dei pochissimi musicisti che suona altrettanto bene tromba e pianoforte), e Marco Bardoscia (uno dei più interessanti contrabbassisti del jazz europeo). Questo dialogo a tre voci, raffinato, di grande impatto emotivo e intellettuale, è iniziato per l’avventura teatrale del progetto “Tempo di Chet – La versione di Chet Baker” e tutte le musiche sono composte da Fresu.

L’8 luglio, nel primo dei due concerti in programma, un’eccezionale performance: quella del trio del pianista Amaro Freitas, uno dei nuovi talenti del jazz contemporaneo brasiliano. A seguire, alle 21.30, una grande festa musicale con la North East Ska* Jazz Orchestra, formazione di 20 elementi cresciuta in regione, forte di un sound travolgente rodato sui palchi di mezza Europa, che qui presenta il suo nuovo lavoro discografico.

Il 9 luglio, a più di dieci anni dal disco “Licca-Lecca”, premiato dal pubblico con oltre 10.000 copie vendute, i Licaones ripropongono a Grado (ore 20) il loro progetto musicale con ai fiati, il sassofonista Francesco Bearzatti e il trombonista Mauro Ottolini, all’organo Oscar Marchioni e alla batteria Paolo Mappa.

Alle 21.30, sale sul palco del Parco delle Rose una delle stelle del jazz mondiale: il pianista Gonzalo Rubalcaba, in trio con Armando Gola al basso e Ludwig Afonso alla batteria. Definito dal New York Times “un pianista dalle capacità quasi sovrannaturali”, Rubalcaba è il più celebre musicista cubano della sua generazione, un virtuoso dalla tecnica strabiliante, la cui abilità improvvisativa ha contribuito a spianare la strada al movimento del jazz latino-americano e oggi ai vertici del pianismo jazz mondiale. Ed è proprio questo, a nostro avviso, l’evento clou del Festival. Personalmente conosciamo Gonzalo da molti, molti anni, avendolo incontrato ad un Festival della Martinica quando ancora era un giovane talentuoso pianista ma poco- se non per nulla – conosciuto in Europa. Da allora Gonzalo ha di molto modificato il suo stile pianistico che se prima era perfettamente riconoscibile come ‘cubano’ adesso non è in alcun modo etichettabile essendo espressione di un talento purissimo che mal sopporta qualsivoglia schematizzazione

Il 10 luglio, serata dedicata al blues! S’inizia con la Jimi Barbiani Band, nuovo progetto di uno dei migliori chitarristi blues rock slide d’Europa. Si prosegue, alle 21.30, con il grande bluesman californiano Robben Ford, il musicista che fondò i mitici Yellowjackets! La sua è una musica difficile da definire; suona e canta il blues con grande classe ma il suo percorso artistico prevede importanti incursioni nel jazz, nella fusion e nel funky. Non a caso vanta collaborazioni discografiche eccellenti con artisti di assoluto livello quali, tanto per fare qualche nome, Miles Davis, i Kiss, Burt Bacharach, Muddy Waters, George Harrison, Joni Mitchell. Cinque volte candidato ai Grammy, è stato definito dalla rivista Musician “uno dei più grandi chitarristi del XX secolo”.

La serata finale del festival, giovedì 11 luglio, sarà aperta da Maistah Aphrica, progetto che porta i suoni dell’Africa rivisitati dai migliori protagonisti del panorama jazz made in FVG. Il concerto-evento degli Snarky Puppy, collettivo con base a New York e con circa 25 membri in rotazione, fondato dal bassista Michael League, chiuderà l’edizione 2019 di GradoJazz by Udin&Jazz.

Gerlando Gatto