Udin&Jazz 2023: all’insegna del Jazz d’autore

Dopo aver assistito alle ultime giornate di Udine Jazz 2023 mi sono vieppiù radicato nel convincimento che il Festival friulano, che vede da 33 anni alla direzione artistica Giancarlo Velliscig, sia oggi uno dei pochi ad aver veramente diritto di cittadinanza nell’universo festivaliero che oramai da anni accompagna l’estate degli italiani dalle Alpi alla Sicilia.
I perché sono molteplici: innanzitutto il giusto peso dato ai musicisti italiani e friulani in particolare; in secondo luogo, il tentativo, spesso riuscito, di allargare i confini del discorso oltre i limiti strettamente musicali per approdare a tematiche di carattere sociale che interessano anche chi di musica poco si occupa. E’ stato questo, ad esempio, il caso della mattinata dedicata al problema del rapporto tra jazz e donna approdato rapidamente alla più larga tematica del rapporto tra donna e mondo del lavoro.
Ciò, ovviamente, senza alcunché togliere alla qualità della musica che si è mantenuta su livelli più che buoni con punte di assoluta eccellenza. Tra queste punte va annoverato senza dubbio alcuno il concerto del quintetto ‘Eternal Love’ di Roberto Ottaviano al sax soprano con Marco Colonna ai clarinetti, Alexander Hawkins al pianoforte, Giovanni Majer al contrabbasso e Zeno De Rossi alla batteria. L’occasione mi è particolarmente gradita per ribadire un concetto che porto avanti oramai da tanti anni: Ottaviano è uno dei più grandi musicisti che il panorama jazzistico internazionale possa oggi vantare e che quindi non ha raccolto tutto ciò che effettivamente merita.

Quest’ultimo lavoro, presentato anche a Udine, lo conferma appieno: Ottaviano, prendendo spunto dalla spaventosa realtà che ci circonda, caratterizzata da intolleranza, flussi migratori che non si fermano, guerre assurde si rivolge alla musica e alla sua capacità di accomunare anziché dividere, per innalzare un sentito omaggio alla spiritualità africana e lo fa rileggendo con autentica passione le musiche di Don Cherry, Charlie Haden, John Coltrane e Dewey Redman. Ma attenzione, nelle interpretazioni di Ottaviano, nulla c’è di calligrafico: il musicista pugliese è in grado di rileggere queste storiche partiture facendole proprie e quindi rivitalizzandole alla luce di un’esperienza di molti, molti anni, in ciò perfettamente coadiuvato da un gruppo che funziona magnificamente, in cui ogni segmento sonoro si incastra alla perfezione nel puzzle magnificamente ideato dal leader.

Le positive sensazioni lasciatemi dal concerto di Ottaviano sono state ribadite, ma con alcuni distinguo, poche ore più tardi dal concerto di Matteo Mancuso in trio con Stefano India al basso elettrico e Giuseppe Bruno alla batteria. Siciliano, classe 1996, figlio d’arte, Matteo è considerato l’enfant prodige della chitarra jazz italiana ed in effetti presenta una tecnica davvero straordinaria. Ma ovviamente ciò non basta per fare di un buon musicista, un vero artista: ci vuole ben altro. Ed in effetti l’inizio del concerto non mi aveva convinto dato l’impianto sonoro più vicino ai concerti pop-rock che non a quelli jazz. Poi il giovane chitarrista ha rotto gli indugi ed ha presentato una bellissima versione di ‘Black Market’ che ha spinto gli astanti a tributargli una vera e propria ovazione.

Ora, come si diceva, Mancuso è sostanzialmente agli inizi ma le premesse sono più che buone: adesso dovrà dimostrare non solo di avere una digitazione velocissima, ma soprattutto di far muovere quelle dite secondo idee ben precise (come in “Black Market”) e di essere capace di scrivere e arrangiare in maniera acconcia. Insomma, lo aspettiamo con curiosità a prove più impegnative.

Il giorno dopo di scena un altro artista siciliano ma oramai udinese d’azione: il pianista Dario Carnovale con Lorenzo Conte al contrabbasso, Sasha Mashin alla batteria e Flavio Boltro alla tromba. L’incontro tra uno dei migliori trombettisti italiani ed un pianista eclettico, talentuoso, prorompente come Carnovale prometteva scintille… e così è stato. Alternando pezzi originali a brani ben conosciuti il gruppo ha entusiasmato il numeroso pubblico presente.

Definire il loro stile non è impresa facile, ammesso poi che sia così importante. Comunque, per dare solo un’idea anche a chi non ha visto il concerto, si potrebbe dire che la loro musica si inserisce nell’alveo di un moderno main stream ora ricco di lirismo ora carico di coinvolgente energia. Ovviamente merito della bella riuscita del concerto è sicuramente dei due leader…ma anche della sezione ritmica con un Conte cha ha fatto capire a tutti perché ha suonato accanto a mostri sacri quali Art Farmer, Bob Sheppard e Enrico Rava mentre il batterista russo Sasha Mashin si è confermato uno dei musicisti più interessanti a livello europeo.

In serata tutti al Castello per la serata brasiliana accolta, more solito, con favore dal numeroso pubblico e preceduta in mattinata da una dotta conversazione sulla musica brasiliana guidata da Max De Tomassi, conduttore di Radio1RAi e vero esperto della materia. Due gli appuntamenti in programma. Dapprima si presenta sul palco per l’atteso solo-piano Amaro Freitas indossando un improbabile completino da spiaggia che avrebbe fatto invidia ai miei amici di Capalbio. Comunque, abbigliamento a parte, Freitas ha confermato le attese di quanti vedono in lui il nuovo esponente dell’odierno jazz brasiliano. Dotato di un’energia prorompente, che comunque riesce a dosare grazie ad un approfondito studio sullo strumento, Freitas si lascia andare ad una serie di improvvisazioni, molto giocate sul lato percussivo, che catturano l’attenzione dell’ascoltatore, preso per mano e condotto alla scoperta della storia e della filosofia della gente brasiliana attraverso la musica. In effetti obiettivo del nuovo lavoro del pianista – “Sankofa” – presentato a Udine è proprio quello – per esplicita ammissione dello stesso Freitas – di “capire i miei antenati, il mio posto, la mia storia come uomo di colore”.

C’è riuscito? Onestamente non posso dirlo in questa sede ma se avremo occasione di intervistarlo glielo chiederò; quel che è certo è che Freitas continua ad evolversi stilisticamente parlando e a rendere il suo discorso sempre più convincente e coinvolgente. A quest’ultimo proposito bella la conclusione del concerto con un brano dolce dedicato alla mamma che è stato supportato dal coro di tutto il pubblico.

Completamente diverso il discorso sul secondo concerto che vedeva sul palco una vera e propria icona non solo della musica brasiliana ma della musica in generale: Eliane Elias pianoforte e voce con accanto il compagno di vita nonché personaggio di assoluto rilievo nel mondo del jazz, Marc Johnson al contrabbasso, Leandro Pellegrino alla chitarra e Rafael Barata alla batteria. Per introdurre la Elias a quei pochi che ancora non la conoscessero, basti dire che nel 2022 ha vinto il Grammy come Miglior Album Latin Jazz con “Mirror Mirror” straordinario album di duetti con Chick Corea e Chucho Valdes. A Udine la Elias ha sciorinato solo una piccolissima parte del suo vastissimo repertorio facendo intendere come l’appellativo di “The Bossa Queen” sia ancora oggi più che meritato.

La classe esecutiva rimane cristallina mentre il vocale denuncia qualche piccola crepa che non inficia la bontà della performance impreziosita anche dall’altissimo livello degli altri componenti il quartetto. Tra questi assolutamente strabiliante il batterista Rafael Barata con la Elias da oltre dieci anni ma anche con Dianne Reeves e Jaques Morelenbaum. Barata è davvero fenomenale per come riesce a tenere in mano le redini del flusso ritmico che rimane costante per tutta la durata del concerto senza un attimo di stanca, senza che mai si avverta una qualche sensazione di vuoto o di scansione men che perfetta. Risultato: alla fine del concerto pubblico in piedi e meritatissima ovazione.

Il 16 al Giangio Garden Parco Brun esibizione del “Green Tea in Fusion” al secolo Franco Fabris Fender Rhodes e synth, Gianni Iardino sax alto e soprano, flauto, synth, Maurizio Fabris percussioni e vocale e Pietro Liut basso elettrico. Il quartetto, costituito nel 2022, ha già al suo attivo ben due CD e a quanto ci risulta è già in lavorazione il terzo. Il gruppo sta assumendo sempre più visibilità e consensi grazie ad una proposta musicale di livello caratterizzata da una raffinata ricerca melodica e da un impianto ritmico tutt’altro che banale.

Questi elementi assumono ancora maggior forza ove si tenga conto che il repertorio è composto unicamente da pezzi originali che ben arrangiati danno la possibilità ai singoli (tutti musicisti esperti eccezion fatta per il giovane ma bravissimo bassista) di evidenziare le proprie potenzialità. Con specifico riferimento al concerto di Udine, la musica è entrata in connessione con la performance di action painting dell’artista Massimiliano Gosparini che ha prodotto una bella tela donata al gruppo alla fine del concerto.

In serata, in piazza della Libertà, quella che io considero la più bella sorpresa del Festival: organizzata da Cinemazero, la proiezione del film muto “The Freshman – Viva lo sport” diretto da Sam Taylor e Fred Newmeyer, con Harold Lloyd e la colonna sonora eseguita dal vivo dalla Zerorchestra. Per quanto mi riguarda è stato sinceramente emozionante vedere scorrere sullo schermo le immagini di un bel film magnificamente commentate da una splendida orchestra tutta costituita da musicisti del Triveneto, tra cui Mirko Cisilino tromba e trombone, Francesco Bearzatti sax tenore, Luca Colussi batteria, Juri Dal Dan piano, Luca Grizzo percussioni.

La Zerorchestra nasce su iniziativa di Cinamezero, in occasione del centenario della nascita del cinema, come laboratorio per la scrittura di nuove partiture musicali per quelle pellicole che rappresentano il repertorio del cinema muto spesso ignorate dal grande pubblico. Io non so se il risultato è sempre pari a questo di Udine, non so se sia meglio l’orchestra nascosta agli occhi del pubblico o viceversa…quel che so è che a Udine la serata è stata davvero unica, magnifica, merito, a mio avviso, soprattutto dell’orchestra che ha saputo cogliere come meglio non si potrebbe gli stati d’animo dei personaggi. Di qui interventi solistici sempre acconci, misurati, pertinenti mentre i pieni orchestrali suggellano alcuni dei passaggi più significativi del film.

Il 17 luglio si apre, a Casa Cavazzini Museo di Arte Moderna, con un duo di improvvisazione totale costituito da Massimo De Mattia al flauto e Giorgio Pacorig al pianoforte. Devo confessare che la musica totalmente improvvisata non è di certo in cima ai miei gusti ma, ciononostante, Massimo De Mattia rientra tra i miei musicisti preferiti. Il perché non è facilissimo da spiegare: la sua musica mi soddisfa, ogni volta che la ascolto sento come se il flusso della vita moderna con le sue insidie, le sue mille sfaccettature, i suoi dolori, le sue gioie fossero racchiuse nelle note emesse dal suo flauto il cui discorso rimane sempre intellegibile a chi sappia ascoltare.

Ricordo qualche anno fa, sempre a Udine, che, mentre De Mattia stava suonando all’aperto, cominciarono a sentirsi distintamente il suono di campane e il cinguettio di uccelli. Bene, il flautista fu talmente bravo da inserire questi elementi nella sua musica ottenendo degli effetti semplicemente straordinari a dimostrare che la musica può essere fatta di moltissimi elementi. A Udine, in quest’ultimo concerto, ha dimostrato ancora una volta tutte le sue potenzialità duettando egregiamente con Pacorig, altro esponente di rilievo dell’area improvvisativa. Non a caso flauto e pianoforte si sono integrati alla perfezione con un gioco di rimandi, suggestioni, tensioni e distensioni che denotano quanto profonda sia la conoscenza della musica da parte di questi due artisti.

In serata altro evento clou del Festival: il concerto della sassofonista Lakecia Benjamin. Devo dire immediatamente che l’artista ha entusiasmato i numerosi spettatori grazie ad una performance caratterizzata da straordinaria energia, da un sound alle volte “sporco” a richiamare i più grandi esponenti del soul, e da un repertorio che ha toccato da molto vicino i grandi nomi del jazz. Ecco, quindi, l’immortale “A Love Supreme” riproposto con sincera partecipazione anche se, ovviamente, nessuna interpretazione può raggiungere il pathos, la drammatizzazione, l’aspirazione verso il divino così ben rappresentata da Coltrane. A Udine l’alto sassofonista ha presentato il suo ultimo lavoro – “Phoenix” – che racchiude una doppia metafora: da un lato racconta le cadute e le risalite di New York città in cui è cresciuta, dall’altro si riferisce ad una sua esperienza personale vissuta nel 2021 quando sfuggì miracolosamente alla morte dopo un grave incidente stradale.

A proposito del concerto, qualche commentatore ha posto l’accento sulla mise dell’artista lodandone l’indubbia eleganza. Apriti cielo! Sui social si è scatenata una dura polemica e qualche musicista (o forse pseudo tale) si è spinta fino ad ipotizzare che la scelta di presentarsi sul palco ben vestiti sia vetero borghese se non addirittura “fascio” (questa la parola usata). E poi ci meravigliamo perché tanti giovani che nulla capiscono di musica, che non sanno intonare neppure due note di seguito riescono ad avere un vasto pubblico: basta vestirsi da straccioni, parlare un italiano approssimato e il gioco è fatto.

Martedì 18 luglio ultima giornata funestata da una breve tempesta di vento sufficiente, comunque, a mandare per aria tutte le sedie già approntate nello spiazzale del Castello per il concerto finale di Pat Metheny. Fortunatamente il tempo è volto al meglio e quindi il concerto si è potuto svolgere regolarmente seppure iniziato con un’oretta di ritardo. E personalmente ho ritrovato il Metheny che negli ultimi anni avevo smesso di seguire data l’involuzione stilistica che a mio avviso aveva caratterizzato le ultime produzioni del chitarrista.

A Udine Pat è tornato sui suoi passi e perfettamente coadiuvato da giovani musicisti, quali Chris Fishman al pianoforte e Joe Dyson alla batteria a costituire il “Side-Eye Trio”, ha riproposto alcuni dei suoi pezzi storici quali “Bright Size Life”, “Better Days Ahead” e “Timeline” lasciando perdere complicati meccanismi e riproponendo quel sound nutrito da tanta tecnica, tanto studio ma anche tanta sincerità d’ispirazione, che l’aveva contraddistinto negli anni scorsi. Entusiasta la reazione del pubblico che ha calorosamente applaudito ogni brano e che dopo l’ultimo bis ha regalato all’artista una più che meritata standing ovation.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD: uno sguardo all’estero

Dopo le numerose escursioni di Amedeo Furfaro intorno al jazz italiano, questa volta soffermiamo la nostra attenzione sulle novità che arrivano dall’estero.

Arild Andersen Group – “Affirmation” – ECM
Arild Andersen, contrabbassista norvegese, è uno di quei rari musicisti che non sbaglia un colpo. Ogni suo album è frutto di lunga meditazione quindi di sicura riuscita…almeno dal punto di vista artistico, ché come sappiamo il gradimento del pubblico è altra cosa. Ad accompagnarlo in questa nuova impresa musicisti quasi tutti molto più giovani: il pianista quarantasettenne Helge Lien, l’altro quarantasettenne Hakon Mjaset Johansen alla batteria e il trentaseienne Marius Neset al sax. Il repertorio è suddiviso in due parti, ciascuna delle quali comprende alcuni momenti numerati – quattro per la Part I e tre per la Part II; a chiudere l’unica composizione “scritta” dallo stesso Andersen, “Short Story”. A questo punto avrete già capito che l’album si basa su una lunga improvvisazione di gruppo che, però, nulla ha a che vedere con le infocate sedute del free storico. Qui l’atmosfera è completamente diversa, intimista, meditativa con i quattro musicisti che dimostrano di conoscersi assai bene, districandosi come meglio non potrebbero nelle pieghe di una tessitura tanto lieve quanto complessa, in cui le pause, il silenzio hanno un loro perché. L’ultimo brano, “Short Story”, si basa su una melodia splendidamente scritta dal leader e altrettanto splendidamente eseguita dai quattro, con sassofonista e pianista in primissimo piano.

Onur Aymergen Quintet – “Lunar” – Losen
E’ con vero piacere che vi presentiamo questo gruppo proveniente dalla Turchia e composto da Onur Aymergen leader alla chitarra, Can Çankaya piano, Tolga Bilgin tromba, Apostolos Sideris contrabbasso, Turgut Alp Bekoğlu batteria. Anche se ancora poco noto nel nostro Paese, Onur Aymergen può già vantare una solida preparazione: ha cominciato a studiare chitarra classica con Özhan Gölebatmaz approfondendo anche il flamenco classico con Suat Demirkıran, fino a quando ha deciso di convogliare i suoi interessi verso il rock, il funk e il jazz. In questo suo album d’esordio, Onur dimostra di avere le carte in regola per un futuro luminoso: intendiamoci, nulla di trascendentale, ma un musicista che conosce assai bene lo strumento, il linguaggio che adopera, il patrimonio musicale del suo Paese che ogni tanto fa capolino dalle linee esposte dal gruppo. E non a caso si è citato il gruppo in quanto, nei suoi sapidi arrangiamenti, il leader ha lasciato ad ogni compagno d’avventura lo spazio per porsi in evidenza. E quanto sin qui detto appare evidente sin dal primo brano in programma, “Yeditepe”, scritto, così come gli altri sette pezzi in repertorio, dal leader che evidenzia, in tal modo, una notevolissima capacità di scrittura.

Jakob Bro, Joe Lovano –“Once Around The Room” – A Tribute to Paul Motian” – ECM

Il chitarrista Jakob Bro e il tenorsassofonista Joe Lovano sono i cofirmatari di questo album esplicitamente dedicato a Paul Motian, già loro compagno in tante avventure. Ad assecondare i due, i contrabbassisti Larry Grenadier e Thomas Morgan, Anders Christensen al basso elettrico e i due batteristi Joey Baron e Jorge Rossi. Un organico anomalo, quindi, per una musica che di anomalo nulla propone data la maestria dei singoli e quindi dell’intera formazione. Lovano e Motian hanno collaborato per una decina d’anni e personalmente ricordiamo di averli ascoltati, tra l’altro, a Stavanger in Norvegia nei primissimi anni ’80. E ciò potrebbe spiegare assai bene il perché di questo album. Quanto poi all’immediata ricerca del drumming di Motian nella musica dell’album, si tratta di operazione, come al solito, assai difficile anche perché soprattutto Lovano non ha alcuna intenzione di scrivere una pagina calligrafica. Anzi! Ed è lo stesso sassofonista a spiegare cosa per lui significhi questo album: “Con Motian suonavamo degli standard ma cercavamo in ogni modo di farli nostri. Ecco noi suonavamo con fiducia con attitudine, con un approccio che potesse rendere al massimo le nostre intenzioni. Ecco è proprio questo stesso feeling che ho tenuto durante la registrazione dell’album”. Diverso l’atteggiamento di Jakob Bro che ha scritto due brani di sapore quasi opposto in cui si avverte chiaramente una profonda malinconia, una tristezza di fondo per la scomparsa di Motian. Qui il gruppo abbandona lo spirito improvvisativo che ha caratterizzato i primi tre pezzi, per immergersi nella scrittura di Bro che trova sia in “Song To An Old Friend” sia in “Pause” una dolce melodia. Chitarra e sassofono dialogano soavemente ben sostenuti da bassi e batterie. Nel brano conclusivo particolarmente apprezzabile il lavoro del chitarrista che disegna con delicatezza una splendida e toccante linea melodica. Ad intervallare i due brani, l’unica composizione di Paul Motian, “Drum Music”, caratterizzata da una lunga intro disegnata dai due batteristi che lasciano il posto a sax e chitarra, quest’ultima con una sonorità assi vicina a quella del sax per effetto dell’elettronica.

Eik Trio – “Eik Trio” – Losen
Sempre prodotto dalla norvegese “Losen” ecco questo nuovo trio composto dal pianista Ole Fredrik Norbye, dalla vocalist Elisabeth Karsten e dal contrabbassista John Børge Askeland, cui si aggiungono alcuni dei migliori jazzisti norvegesi ed europei quali il sassofonista Bendik Hofseth al sax tenore in tre brani, il trombettista Nils Petter Molvaer nel celeberrimo “I Love Paris” e il fisarmonicista Heine Bugge in “For Once in My Life”, mentre quasi tutti gli arrangiamenti sono curati da Fredrik Norbye. Dai titoli citati avrete forse già capito che tutto l’album è incentrato sulla riproposizione di standard, dieci pezzi che davvero hanno fatto la storia della musica che ci piace, interpretati senza alcuna voglia di sperimentalismo ma con il massimo del rispetto che meritano. Ferma restando la capacità della cantante di rendere al massimo ogni linea melodica, ogni più piccolo risvolto di queste immortali melodie, tra i brani siamo rimasti particolarmente colpito dal già citato “I Love Paris” per il fraseggio del pianista Ole Fredrik Norbye e il maiuscolo apporto di Nils Petter Molvaer

Mette Henriette – “Drifting” – ECM
Trio di grande spessore quello che si ascolta in “Drifting”: a guidarlo è la sassofonista Mette Henriette coadiuvata da Johan Lindvall al pianoforte e Judith Hamann al violoncello. In repertorio quindici brani tutti scritti dalla sassofonista (l’ultimo in collaborazione con Lindvall). Dopo l’album d’esordio, registrato sempre per ECM nel 2013 ma pubblicato due anni dopo, la sassofonista norvegese torna sempre in compagnia del pianista ma con l’aggiunta della validissima violoncellista Judith Hamman. L’atmosfera è quanto mai rarefatta con i tre che letteralmente distillano ogni singola nota che acquista così un peso specifico. I brani si susseguono legati da un filo ben preciso che si snoda attraverso le sapienti mani dei tre musicisti. Così se l’impianto melodico è spesso affidato alla leader, il pianoforte si incarica di sottolinearne le parti salienti con il violoncello impegnato in una non facile operazione di ricucitura. Il tutto a disegnare un quadro difficilmente classificabile: certo non si tratta di jazz nell’accezione più usata del termine, né di musica classica tout court…piuttosto di una sorta di esplorazione sonora che induce anche l’ascoltare a guardarsi dentro, a lasciarsi andare alle sensazioni che la musica gli propone. Senza preoccuparsi di capire dove la pagina scritta lascia il posto all’improvvisazione. E se anche chi ci legge seguirà questa metodologia, siamo sicuri che l’album risulterà di notevole interesse.

Anders Jormin, Lena Willemark – “Pasado en claro” – ECM
Album molto impegnativo questo “Pasado en claro” in cui il contrabbassista svedese Anders Jormin, in collaborazione con la vocalist, violinista e violista Lena Willemark guida un quartetto completato da Karin Nakagawa al koto e Jon Fält alla batteria, già con il leader nel trio di Bobo Stenson. La complessità di cui in apertura è determinata dal fatto che il leader ha voluto trarre ispirazione da una serie di poeti tra i più diversi della letteratura mondiale: ecco quindi testi da antiche fonti cinesi e giapponesi, accanto a poeti scandinavi contemporanei, senza per questo trascurare lo scrittore messicano Octavio Paz (dalla cui opera è tratto il titolo dell’album) e il “nostro” Francesco Petrarca. Insomma un panorama di riferimento da far apparire impossibile una qualsivoglia unità dell’album E invece il quartetto ci riesce grazie soprattutto all’interpretazione della vocalist. Su un tappeto costituito da una valida struttura sonora ben scritta e altrettanto ben arrangiata, ricca di nuances, Lena Willemark si produce in una prova di grande maturità alternando l’uso della voce all’altro strumento a sua disposizione (il violino); esemplare al riguardo “Tho Woman of the Long Ice” musica e testo della stessa Willemark . Insomma è come se nella voce di Lena si ritrovasse allo stesso tempo, il passato, il presente e il futuro di una musica il cui flusso mai si interrompe.

Edi Köhldorfer – “The Riddance” – Ats Records
Personaggio sicuramente interessante questo chitarrista austriaco Edi Köhldorfer il quale, dopo aver studiato chitarra classica, ha intrapreso la strada del musicista professionista suonando nei contesti più vari, dalle orchestre classiche al folk, dal funk al pop…fino al jazz collaborando con alcuni artisti di fama mondiale come Biréli  Lagrène, Dee Dee Bridgewater, Stephane Grappelli. Di qui una personalità compiuta non solo a livello musicale, esplicitata appieno in questo album che risponde ad una grande esigenza di fondo: evidenziare quanto può accadere quando musicisti di provenienza diversa si riuniscono per un comune progetto, e soprattutto liberarsi dalla schiavitù di una pandemia che ha costretto all’immobilismo moltissimi artisti. Per raggiungere questo obbiettivo, Edi ha contattato 26 musicisti di 4 continenti e nessuno si è tirato indietro dando vita ad una produzione assai particolare. Ascoltando l’album, in effetti, non si può non rilevare la gioia, la forza, l’entusiasmo il dinamismo che promana da questi brani cosicché è davvero arduo sceglierne qualcuno in particolare. Tuttavia dobbiamo ammettere che ci hanno particolarmente colpiio “Goodbye Armando” un sentito omaggio a Chick Corea con un fantastico assolo del pianista Ui Datler richiamante “La Fiesta” e  “Midwest” impreziosito da un lungo e centrato assolo del bassista colombiano Juan Garcia-Herreros meglio noto come “The Snow Owl”, che suona un basso elettrico personalizzato a sei corde; all’età di  37 anni, Juan ha ottenuto una nomination, per il Latin Grammy Award nella categoria Best Latin Jazz Album, per il suo terzo CD intitolato “Normas”.

Benjamin Lackner – “Last decade” – ECM
Probabilmente il pianista tedesco Benjamin Lackner non è molto noto al pubblico italiano anche se può già vantare un’invidiabile carriera che lo porta ad esordire oggi in casa ECM. Lackner è tornato da poco a Berlino, dopo un lungo periodo trascorso negli Stati Uniti dove ha avuto modo di studiare con “maestri” quali Charlie Haden e Brad Mehldau. Per questo album il pianista è affiancato da tre grandi artisti: il trombettista Mathias Eick, il batterista Manu Katché e il contrabbassista Jérôme Regard, già con Lackner dal 2006. Il risultato c’è ed è a tutto tondo. In effetti appare chiaro sin dalla primissime note come l’intendimento principale del trio sia quello di proporre una musica caratterizzata dalla ricerca della linea melodica. Una linea che risulti dolce, fors’anche accattivante, ma non per questo banale o scontata. Di qui un repertorio di nove brani (tutti composti dal leader ad eccezione di “Emile” scritta da Jérôme Regard) in cui la musica scorre in perenne equilibrio fra i quattro, con nessuna voglia particolare del leader di mettersi in luce ché anzi molto spesso ascoltiamo in primo piano la bella voce della tromba di Eick sempre sorretta da una sezione ritmica assolutamente funzionale all’intento del leader. Tra i brani particolarmente suggestivo e sofisticato è “Hang Up on That Ghost” tutto giocato su un fitto dialogo tra pianoforte, batteria e contrabbasso mentre Mathias alterna la sua voce a quella della tromba con effetti di estrema delicatezza.

Ieremy Lirola – “Mock the Borders” –
Dopo “Uptown Desire” il contrabbassista francese si ripresenta al pubblico con questo “Mock the Borders” in cui è possibile ascoltare anche il piano di Maxime Sanchez, il sax di Denis Guivarc’h e la batteria di Nicolas Larmignat, questi ultimi due già presenti nel citato lavoro “Uptown Desire”.
Il titolo è quanto mai esplicativo: “Ridicolizza il confine” appare come una sorta di manifesto programmatico che dovrebbe informare il senso dell’album. Ma è davvero così? Francamente non ci sembra che l’artista abbia voluto andare oltre la lezione di Coleman; piuttosto la sua idea, conclamata in musica, è quella di una libertà che prescinda dalle etichette, dalle mode, per dare pieno diritto di cittadinanza ad ogni forma espressiva. Insomma per Lirola la musica tonale può coesistere con escursioni nel mondo del free. Di qui un album dai colori cangianti, dalle atmosfere variegate in cui si avverte l’urgenza di nulla trascurare delle passate esperienze: guadare avanti non significa necessariamente trascurare ciò che c’è stato e che continua ad esserci. Insomma una visione oserei dire filosofica e non solo musicale che informa questo interessante lavoro. Tra i vari brani eccellente l’apertura con “Mock the lines” impreziosito dal lavoro del sassofonista. Ma nello svolgimento dell’album il leader lascia ampio spazio ai compagni d’avventura che hanno così modo di esprimere appieno le proprie potenzialità.
                                                                 
Stephan Micus – “Thunder” – ECM
Nessuna sorpresa per questo ennesimo ottimo album di Stephan Micus, un vero ricercatore di note che abbiamo imparato ad ammirare oramai nel corso di lunghi anni. Questa volta il suo interesse si focalizza, come da lui stesso sottolineato, sulla musica dei monasteri tibetani, meta di molte visite da parte del musicista. Stephan rimane particolarmente colpito dal particolare strumento che si usa in queste cerimonie, il dung-chen, una sorta di tromba lunga circa quattro metri, cui affianca il ki kun ki, uno strumento a fiato – ci spiega lo stesso Micus – molto semplice, costruito con un unico stelo ligneo che cresce in alcune foreste siberiane del lontano Oriente e il nahkan, una specie di flauto di provenienza giapponese. Mescolate questi straordinari elementi e la ricetta è pronta: una musica ancora una volta affascinante, dai suoni allo stesso tempo primordiali e di attualità che ci trasportano in un mondo virtuale apparentemente alla nostra portata ma che mai riusciamo ad abbracciare davvero. E credo sia questo il segreto di Micus: sintetizzare gli universi musicali più disparati per ricondurli ad una unità senza spazio, senza tempo ove solo il suo credo ha diritto di cittadinanza. Per tornare al contenuto dell’album è comunque lo stesso Micus a fornirci una chiave di lettura ove afferma che l’album è dedicato alla grande famiglia delle divinità dei tuoni cui hanno creduto intere popolazioni con la speranza che il loro distruttivo potere possa in qualche modo essere placato dalla musica.

Arvo Pärt – “Tintinnabuli” – Billant Corners
Con il termine “Tintinnabuli” ci si intende riferire allo stile compositivo creato dal compositore estone Arvo Pärt, introdotto nella sua “Für Alina” (1976) e riutilizzato in “Spiegel im Spiegel” (1978).  Caratteristiche che ritroviamo appieno in questo splendido album che vede come protagonisti Jeroen van Veen al piano, Joachim Eijlander al violoncello e in un brano la moglie di Jeroen, Sandra van Veen, anch’essa pianista. L’album è una sorta di summa delle caratteristiche che hanno sempre connotato la musica di Arvo Pärt, vale a dire la quiete estatica e il saper racchiudere lo spirito dei tempi grazie anche alle   esperienze mistiche con la musica dei canti religiosi. Risultato: composizioni senza tempo che appaiono in egual misura antiche e contemporanee, religiose e profane, non immuni da una marcata influenza da parte del movimento minimalista. L’album si apre con “Fratres” cui fa immediatamente seguito uno dei brani più importanti di Arvo, quel “Für Alina” cui si è già fatto cenno. “Ukuaru Valss” ci fa conoscere un lato più “leggero” della personalità di Pärt mentre il conclusivo lungo “Partomania” è preceduto da “Spiegel im Spiegel” anch’esso citato in precedenza quale pietra miliare nel percorso compositivo dell’artista estone: ascoltandolo ancora oggi, dopo tanto tempo, impressiona il modo in cui le note sono letteralmente distillate una dopo l’altra a conferma di una maestria compositiva difficilmente eguagliabile.

Sebastian Rochford, Kit Downes – “A Short Diary” – ECM

Ecco un album non facile da recensire in quanto gli usuali strumenti che si adoperano per illustrare una produzione discografica, in questo caso non sono sufficienti. In ballo ci sono, infatti, motivazioni che vanno ben al di là del fatto musicale e che coinvolgono direttamente i sentimenti più profondi di Rochford, non a caso compositore di tutti i brani in programma. In effetti l’album è una appassionata e sentita dedica che il cinquantenne batterista scozzese rivolge al padre, Gerard Rochford, grande poeta morto nel 2019.  Alla luce di questa realtà, la musica assume una valenza tutta particolare. E’ facile immaginare come l’autore, nello scrivere, si sia lasciato andare ai ricordi della sua infanzia, degli anni trascorsi con il padre e di ciò che questo ha voluto dire per la sua crescita. Di qui l’originalità di un discorso che ha una sua compiutezza dall’inizio alla fine, ben sorretto dal partner di Rochford, ovvero Kit Downes che in precedenti occasioni aveva evidenziato tutto il suo talento. Talento che qui si manifesta nell’aver saputo mirabilmente arrangiare il tutto costruendo un coinvolgente percorso melodico-armonico in cui non esageriamo affermando che sotto alcuni aspetti ascoltare questo album è come sfogliare un album le cui pagine sono costituite dai ricordi dolcemente custodite da Sebastian. Quanto ai brani particolarmente significativo “Our Time Is Still”: un pezzo essenziale, scarnificato fino al limite massimo, tutto giocato sulla sottrazione ma con una carica di tristezza, di emozionalità, di sentimento davvero toccante.

Rubber Soul Quartet – “Something” – Losen

E’ ancora possibile eseguire in chiave jazzistica un repertorio ‘beatlesiano’ senza scadere nel già sentito, nello scontato? Certo che sì, ma si tratta sicuramente di un’impresa estremamente complessa dato che i brani dei Beatles oramai da molti anni sono entrati nel repertorio di grandi jazzisti. A provarci, adesso, sono quattro musicisti norvegesi, Bård Helgerud chitarra e vocale, Håvard Fossum sax, flauto, clarinetto, Andreas Dreier contrabbasso e e vocale, Torstein Ellingsen batteria e percussioni. In cartellone, come già accenato, undici composizioni dei Beatles per un viaggio all’indietro che si preannuncia tanto entusiasmante quanto colmo di insidie. Il quartetto cerca di evitare gli scogli proponendo una chiave di lettura originale: combinare le melodie ben note con arrangiamenti che si rifanno espressamente alla lezione dei grandi jazzisti made in USA, il tutto condito da una forte carica di swing e una buona dose di improvvisazione. Obiettivo raggiunto? Francamente non del tutto in quanto, indipendentemente dall’arrangiamento, la carica melodica dei brani è troppo forte cosicché resta lì, a farla da padrona e quindi a spedire in secondo piano esecuzione e arrangiamento, a meno che non si tratti davvero di grandi musicisti quali, tanto per fare due soli nomi, Brad Mehldau e Sarah Vaughan

Salon Odjilà – “TangoRomaBalkanJazz” – ATS Records

Un’elegante mistura di oriente e occidente, di jazz e folk, di euforia e malinconia definisce il clima di questo album interpretato da un quartetto di assoluto livello: Wolfgang e Werner Weissengruber sono multistrumentisti che oramai da anni si dedicano con passione al jazz, Manuela Kloibmüller è fisarmonicista che frequenta con assiduità sia i terreni classici sia quelli jazz nonché vocalist di riconosciuto spessore, Matthias Eglseer  è batterista fantasioso e preciso (lo si ascolti, ad esempio, in “Cetvorno Sopsko Horo”). In repertorio tre classici di Piazzolla, un originale di Wolfgang Weissengruber e sei ‘traditional’. Ciò premesso la musica rispetta perfettamente le premesse contenute nel titolo vale a dire un tango ma con quel forte imprinting che caratterizza la musica balcanica. Ciò grazie ad arrangiamenti particolarmente indovinati che riescono a valorizzare appieno l’originalità del gruppo anche quando si avventura su pezzi non sempre consigliabili. E’ il caso dei tre brani di Piazzolla e in particolare di “Libertango” il brano forse più celebre del compositore argentino: introdotto dal contrabbasso, il brano prende man mano spessore con la Kloibmüller che si produce in un vibrante assolo ben sostenuta da tutto il gruppo per una interpretazione convincente.

Solis String Quartet & Sarah Jane Morris – “All You Need Is Love” – Irma
E dopo il cd del Rubber Soul Quartet ecco un altro album interamente dedicato ai Beatles. Ad interpretare le melodie di John Lennon e Paul McCartney è però questa volta una delle voci, a nostro avviso, più belle e convincenti dell’intero panorama vocale internazionale. Oramai sulla cresta dell’onda da molti anni, la Morris mai delude; chi scrive l’ha sentita in concerto svariate volte e ha sempre trovato un’artista straordinariamente generosa, capace di interpretare ogni brano alla sua maniera andando a visitare anche le più intime pieghe delle melodie senza trascurarne la valenza ritmica. E la stessa cosa accade anche questa volta: la vocalist affronta ogni tema con gande rispetto ma allo stesso tempo con la sicurezza che le deriva da tanti anni di carriera. Di qui interpretazioni che senza alcunché togliere all’originale fascino, rivestono i brani di una veste originale. Il che, non sarebbe stato possibile, se la vocalist non fosse stata adeguatamente supportata da uno straordinario Solis String Quartet, al secolo Vincenzo Di Donna e Luigi De Maio, violini, Gerardo Morrone viola e Antonio Di Francia cello e chitarra, con quest’ultimo impegnato in una preziosa opera di ri-arrangiamento che non ha fatto sentire la mancanza di quella sezione ritmica, viceversa tanto importante nella produzione originale. Tra i brani particolarmente riuscita la versione di “The Fool on The Hill” che resta una delle più belle composizioni dei Beatles.

Gerlando Gatto

I NOSTRI CD. Un disco (jazz) per dopo l’estate…

Segnadisco per sette, come le note, album di altrettante label (elencate qui in ordine alfabetico). Li segnaliamo in un panorama jazzistico più che qualificato, estraneo al can can estivo perché relativo a musica che non si esaurirà col deporre ombrelloni e sdraio e alle prime cadute delle foglie dagli alberi. Ecco allora una possibile Top Seven, una Jazz Parade che sottoponiamo al vaglio del lettore.

Trio Kàla – “Indaco Hanami” – Abeat Records

Fra le novità 2021 della Abeat spicca “Indaco Hanami” del Trio Kàla, album inciso presso Artesuono destinato a lasciare il segno nel corrente anno discografico. Per caratura dei musicisti, la pianista Rita Marcotulli, il contrabbassista Ares Tavolazzi e il batterista Alfredo Golino, anzitutto. Perchè dagli studi di registrazione di Stefano Amerio è ancora una volta uscito un prodotto di fattura impeccabile, in cui mixaggio e masterizzazione sono fasi finali determinanti del processo produttivo che porta al cd. Ma soprattutto la musica, in parte originale – come i due brani introduttivi della Marcotulli (“Indaco”, “Bobo’s Code”) oltre a “ Dialogues” scritto a sei mani dal trio ed a “Cose da dire” – che si congiunge ad un quinterno di cover imbellettate con sopraffino gusto jazzistico. Oltre a “Quando” e “ Napule è” di Pino Daniele, alla beatlesiana “Lady Madonna” vi figura, di Randy Newman, “I Think It’s Going To Rain” anche questa arrangiata con sapienza in confezione per standard trio. Anche nella conclusiva “Romeo and Juliet” di Nino Rota il sensuale groove della tastiera ci riporta in mente il dubbio che il sesso del pianoforte sia femmina tanto l’immedesimazione della Marcotulli col suo suono appare organica, di una strana solarità attenuata dall’indaco.
Il trio, questo trio nella fattispecie, ne rafforza la “visibilità” per chi, nell’ascolto, immaginasse di trovarsi al di qua della “quarta parete”, col pensiero astratto da quelle note e da quelle linee improv- visative.

Luigi Bonafede – “Lokas” – Caligola Records.

Certo jazz fa pensare all’alta moda, per eleganza, stile, alchimia nel creare senza demolire la lezione dei grandi maestri. E quando il brand è griffato Luigi Bonafede, musicista ben piazzato nel ranking dei pianisti jazz, allora c’è da aspettarsi l’uscita di album come “Lokas”, su etichetta Caligola Records, ospite la vocalist di origine caraibica Dawn Mitchell, un cd dedicato alla cantante Anna Lokas, a sei anni dalla sua scomparsa. Il jazzista piemontese, che si esibisce in una formazione più che testata, una sorta di “think tank” musicale di esperti strumentisti con Gaspare Pasini al sax alto e soprano, Marco Vaggi al contrabbasso e Ferdinando Faraò alla batteria, dà vita ad un mood di ampio respiro e di freschezza rigenerante, gravitante in più J Zones, fra swing e be/hard bop, attraverso vari format, dalla ballad (“She”, “Wake Up”) allo spiritual (“Silently”), dall’elettronico (“Curse of Pan”) al latin (“Running of my Way”), dal modaleggiante (“Lokas”, “Flash”) al climax vocalese (“Looking Around”) in genere con prati e praterie per gli steps improvvisativi lasciati scoperti dal pianoforte. Come avviene in “Balance”, in apertura, allorchè sotto la voce bluesy della Mitchell, compare, inconfondibile, il Logo Bonafede.

Javier Girotto, Vince Abbracciante – “Santuario” – Dodicilune

Capita che il jazz sia un pensiero triste che si suona… quando incontra il tango. Capita che il tango riscopra inedite possibilità di sviluppo lirico e melodico… quando due strumenti come un sax soprano o baritono o un quena flute si sovrappongono alle armonie rese da una fisarmonica ed inseguono la partitura di un choro.  Capita tutto ciò quando ad imbracciarli quegli strumenti sono due jazzisti latini completi e creativi come Javier Girotto e Vince Abbracciante, ambedue in diverso modo legati al DNA piazzolliano. “Santuario” è l’album Dodicilune che racchiude al meglio, artisticamente parlando, questa esperienza che ancora una volta unisce Puglia e Argentina su un filo sonoro che corre e scorre da una parte all’altra dell’Oceano Atlantico in direzione sud, con Tavoliere e Ande rispettivi capolinea. Tra le cose più belle del disco il pedale introduttivo di “Santuario degli animali”, il barocco girovagant e “tono su tono” di” “Fugorona”, l’atmosfera pastorale di “Ninar”, la metrica “spezzata” da contrattempi in “Trama della Natura”, il pathos intimo di “En Mi”, la melodia andante di “2 de Abril”, l’articolato fraseggio tanguero in “Fuga a Sud”, il “Pango” più tango del compact, la avviluppante tessitura accordale di “Aramboty”. E, a chiusura sipario, “Soprano” e “L’ultima chance”, degno suggello del lavoro del duo prodotto dalla label leccese.

Andrea Rea Trio – “El Viajero” – Filibusta

L’album “El Viajero” (Filibusta) “registra” un Andrea Rea Trio in gran spolvero. Intanto il pianista campano vi esplicita una notevole verve sia interpretativa che esecutiva nonché attrezzi compositivi di prim’ordine nei tre brani a sua firma, “Dillo”, “Tales of Freedom” e “El Viajero”. Lo caratterizzano una robusta forza negli “ostinati” mentre il tocco sui tasti ne rivela uno spanish heart che spiega anche l’adozione di un termine ispanico come titolo del disco.L’anima latina sta anche alla base della scelta di un brano di Hamilton De Hollanda in tracklist esattamente “Capricho de Espanha” nonché “Milonga Gris” di C. Aguirre ed è condivisa dai musicisti del combo, il contrabbassista Daniele Sorrentino e il batterista Lorenzo Tucci (nel cd Losen “Impasse” del 2018 il drummer era Marcello De Leonardo). Ma il “viaggiatore” Rea nel proprio personale errare si sposta anche su territori differenti, ed eccolo alle prese con “The Man Who Sold The World” di David Bowie e “Till There Was You” di M. Wilson districarsi con il solito estro, la consueta abilità e l’immancabile inventiva fra paesaggi sonori pop e jazz ad origliare i suoni del mondo da riprodurre sul pianoforte. Non sarà un caso se il brano forse più intenso fra gli otto totali ci pare “En la Orilla del Mundo” di M. Rochas, reso celebre da Charlie Haden e Gonzalo Rubalcaba, che è poi quello in cui il gruppo si trasforma in 4et arricchito dall’inclusione qualificata di Giacomo Tantillo alla tromba.

Livio Minafra, Eugenia Cherkazova – “Round Trip Apulia Balkans” – Incipit/Egea.

Si era appena intravisto Livio Minafra in veste di autore di manuali didattici (120 finestre sull’improvvisazione. Teoria e pratica dell’Improvvisazione libera e idiomatica, Timoteo, 2020) che lo si ritrova di lì a poco nei consueti panni di musicista, nell’album “Round Trip Apulia Balkans”, in duo con la fisarmonicista greco-ucraina Eugenia Cherkazova, su marchio Incipit, distribuito da Egea. Le otto registrazioni sono state effettuate in tre festival pugliesi, Wanda Landowska 2018, Euterpe Festival 2018 e Talos 2019, kermesse appena tenutasi a metà luglio di quest’anno nella cornice di Ruvo di Puglia. L’ affacciata sui Balcani – confessa il pianista nelle liner notes – risale ai 13 anni, al primo ascolto del “tempo 7/8. Era l’Along Came Jazz Festival di Tivoli e l’Italian Instabile Orchestra eseguiva uno speciale arrangiamento di “Ergen Deda” del bulgaro Petar Liondev”. Quel suono fu una folgorazione! Da allora l’Adriatico, propaggine del Mediterraneo, è stato visto e vissuto dal Nostro come una semplice piattaforma d’acqua, non una barriera, che connetteva due sponde marine e due catene montuose, appunto i Balcani con l’Antiappennino apulo-garganico. La musica, l’improvvisazione, anche in questo compact, risente dello spostamento del bari/centro dal cuore afroeuroamericano in direzione indoeuropea, con tutto quanto ciò comporta. Anzitutto nel repertorio che comprende tarantelle di Rossini e Kircher oltre ad una ruvese, una “Danza Tartara” ideata dal pianista come del resto altre composizioni (“Lacrime Stelle”, “Zefiro Torna”, “Boomerang”) unitamente a un “Mix Tartar” a firma congiunta con N. Marziale e C. De Leo. E poi nell’interpretazione mutuante e mutante, senza cesure né diaframmi al fluire dei suoni anche nei momenti di ralenty melodico e ritmico. La fisa è a dir poco esemplare nell’assecondare e nel sostituirsi ad un pianoforte a volte metamorfizzato in cymbalon rumeno. Il progetto, inserito nel circuito concertistico di Puglia Sounds, si inquadra in una visione non centrica ma circolare della storia della musica.

EMAB Connection – “Unsaid” – Nusica.org

Unsaid degli Emab Connection, il titolo non inganni, è album di fitto dialogo strumentale, di jazz il cui “dire” è composto di segni, interplay comunicante, interfacciarsi frontale e laterale, feeling inten- so nel duettare e dettare cadenze, modulare timbri, levigare suoni. Il 4et, nato sull’asse adriatica Emilia-Abruzzo dei componenti e cioè Manuel Caliumi all’alto sax, Giulio Gentile al piano e Fender Rhodes, David Paulis al contrabbasso e Luca Di Battista alla batteria, conia una musica ricca di espressioni, frasi, costrutti liberi ed originali anche quando, come in “So- liloquy”, il “non detto” potrebbe sembrare lasciar spazio alla meditazione personale sulla collettiva, cioè a quella che scava e scova verità nascoste nella propria identità creativa. Ed il gruppo anche nelle altre sei tracce originali del compact si dimostra coeso nel perseguire l’obiettivo di una musica che ricuce eloquentemente impressioni ed atmosfere nell’omaggiare tutto ciò che è tacito.

Costanza Alegiani – “Folkways” – Parco della Musica

Le strade del folk sono in/finite?
E chi, nello specifico, si ritrova ancora a calcare le orme di maestri come Woody Guthrie o Bob Dylan? E poi, stante l’attualità di poeti ancora oggi pop(ular) come Lee Masters o la Dickinson, che spazio (r)esiste per chi si cimenti in lyrics a loro ispirate? Una risposta, non caduta nel vento, la suggerisce la vocalist Costanza Alegiani con l’album “Folkways”, prodotto da Parco della Musica Records, label della Fondazione Musica per Roma, distribuito da Egea Music. La cantante ci offre una misticanza sonora di traditional, composizioni originali e cover dei mitici folksinger soprariportati, denotando doti di originalità e sensibilità vocale già evidenziate nei due precedenti dischi a propria firma, “Fair is Foul and Foul is Fair” del 2014 e “Grace in Town” del 2018 con il batterista Fabrizio Sferra. Stavolta il suo progetto punta a comprovare come uno dei possibili percorsi per il folk born in U.S.A., forse il più energizzante, sia proprio il jazz. Ed in tale ottica si muovono gli altri musicisti che partecipano al lavoro, il sassofonista Marcello Allulli all’opera anche con apparati elettronici come il contrabbassista Riccardo Gola. Il tutto viene integrato dagli apporti degli ospiti, il chitarrista Francesco Diodati in tre tracce e il menzionato Sferra in quattro delle nove tracce complessive.
Ne vien fuori un florilegio multicolore di note in cui la voce affiora e riaffiora lasciando spesso fiato al fiato, il sax, aprendo sovente varchi al “battito” alla ritmica, per poi riprendere scena e microfono da cui far trapelare echi della Mitchell e della Baez nel lasciar sfilare una ideale galleria di personaggi letterari reali e immaginari.
Per la cronaca l’album, presentato in giugno alla Casa del Jazz di Roma, era stato anticipato dalla pubblicazione dei due singoli “It Ain’t My Babe” e “When I Was A Young Girl”.

Esce l’album dedicato a Frida Kahlo dell’Euro Latin Winner Israel Varela

Il 10° disco di un artista incredibile che dal cuore del Messico mette in musica le lettere di Frida Kahlo al marito Diego Rivera, insieme ad un cast stellare di caratura mondiale tra cui Shai Maestro, Rita Marcotulli, Ben Wendel, Nguyen Le, Michel Benita, Julian Heredia, Humberto Flores, Luis Villalobos, Rudyck Vidal, Serena Brancale.
Musica ai massimi livelli tecnici, espressivi ed emozionali.
Una vera esperienza per l’ascoltatore.

Esce mercoledì 14 luglio il nuovo album del grande compositore, batterista, vocalist e producer messicano Israel Varela, vincitore dell’Euro Latin Award. Artista incredibile che unisce più anime musicali, è tra i più importanti esponenti internazionali di flamenco jazz. Grazie alla sua originalità e al suo stile ha stretto collaborazioni e suonato con grandi della musica mondiale come Pat Metheny, Charlie Haden, Mike Stern, Pino Daniele, Joaquin Cortez, Andrea Bocelli, Diego Amador.

“Frida en Silencio”, pubblicato dall’etichetta Forward Music Italy, è il suo 10° lavoro discografico, che Varela ha dedicato alla rivoluzionaria pittrice messicana Frida Kahlo: la sua Arte, attraverso le sue parole nelle lettere scritte all’amato marito Diego Rivera, rivive nel disco attraverso 12 brani e un cast davvero stellare con 20 musicisti di caratura mondiale.

Batteria, percussioni, pianoforte, sax, contrabbasso, archi ed oggetti simbolici usati percussivamente – come la macchina da scrivere – uniti al suono della danza “percussiva” della eccezionale Karen Rubio Lugo innovatrice e sperimentatrice del flamenco moderno – e una all-star band per un album che spinge la Musica ai suoi massimi livelli in termini tecnici, espressivi, emozionali.

Recitate da Karen Rubio Lugo e intonate dalla splendida voce di Israel Varela, le parole di Frida sono il leit motiv del disco, che è stato concepito proprio in Messico, durante la visita alla celebre Casa Azul della pittrice. La vita della grande artista è dunque raccontata dalla musicalità e dalla personalità fuori dal comune del virtuoso batterista.

Le comuni radici messicane (Varela è originario di Tijuana, Lugo di Guadalajara), espresse anche nel loro esplosivo progetto in duo “Made In Mexico”, danno a questo disco una profondità in piú: amore, passione, nostalgia e presagi fanno parte dell’arte di Frida Kahlo come di quella di Israel Varela, che per questo disco ha voluto con sé grandi artisti internazionali, insieme a meravigliosi talenti del panorama jazz italiano. Due stelle del pianismo mondiale, Shai Maestro e Rita Marcotulli, legati a Varela da tante collaborazioni live e discografiche (Marcotulli con Varela ha stretto un sodalizio in duo con il disco “Yin and Yang” realizzato con la Cam Jazz), l’incredibile sassofonista statunitense Ben Wendel, il celebre chitarrista francese/vienamita Nguyên Lê, al grande contrabbassista francese Michel Benita, il bassista spagnolo Julian Heredia, i tre artisti messicani Humberto Flores, Luis Villalobos, Rudyck Vidal, la cantante Serena Brancale che per questo disco firma il brano “Silencio”, il pianista Claudio Filippini, i contrabbassisti Jacopo Ferrazza e Giuseppe Romagnoli, la vocalist Paola Repele e il giovanissimo Josei Varela.

Un ensemble di immenso livello artistico che sarà protagonista di un lungo tour, a partire da luglio – con le prime date italiane – fino al 2022 con la tournée internazionale tra Stati Uniti, Asia e Europa.

La vita di Frida Kahlo, nata nel 1907 a Coyoacán in Messico è stata caratterizzata da passioni, sventura. Ribelle, insofferente delle costrizioni e nemica del nazismo, fu obbligata dalla sua colonna vertebrale bifida e da un incidente d’autobus, a subire innumerevoli operazioni chirurgiche. Ogni volta costretta per mesi a letto, dipingeva semiseduta, concentrandosi sul tema dell’autoritratto, sempre più crudele e primitivo, nonostante la bellezza del suo viso e delle trecce, costantemente attorniate da fiori. Oltre al grande amore Diego Rivera, Frida ebbe relazioni con l’artista André Beton e con Lev Trotsky. Morì a causa delle sue condizioni fisiche nel 1954, a soli 47 anni, mentre preparava una mostra a Città del Messico.

Registrato nei bellissimi Forward Studio di Grottaferrata con ulteriori incisioni realizzate a New York, Los Angeles, Parigi, Granada, Monterrey, Minnesota, Mexico D.F., il disco “Frida en silencio” si distingue per il suo lirismo e sonorità ariose quanto passionali, per lo stile personale che rispecchia il pensiero artistico di Israel Varela, per le tematiche profonde e universali. Una esperienza per chi lo ascolta, a partire dalle radici della cultura messicana, passando per il jazz contemporaneo e il flamenco.

Il 25 giugno è uscito il primo singolo “Espejo de la Noche”, con un videoclip realizzato dal vivo con la danza di Karen Lugo e un quartetto d’archi, mentre il brano “Colores de Tayen” è protagonista del  video musicale girato dal regista Alberto Nacci, con Israel Varela e Karen Lugo, che ha vinto in molti Festival internazionali (New York, California, India, Osaka) il Primo Premio come miglior video musicale.

Israel Varela, che ha visto le sue musiche arrangiate ed eseguite dalla OSEM-Orchestra Sinfonica dello Stato del Messico, traccia con questo decimo album una summa delle grandi esperienze di tutta la sua carriera, e apre le porte ad ulteriore nuova sperimentazione. Da decenni impegnato in tour mondiali che hanno toccato oltre 30 Paesi, sui palchi dei più grandi teatri e festival jazz, Israel Varela ha creato un suo stile strumentale e compositivo che coniuga in maniera assolutamente perfetta jazz, latin e flamenco. La sua voce, ha il potere di incantare e rendere ancora più mistico e profondo il senso della sua musica, arricchisce la sua ricerca di poesia, suono, ritmo ed emozione. La sua unicità si è unita sul palco, durante i tour mondiali che hanno toccato i più grandi teatri e Festival del mondo, con quella di tanti grandi artisti come Pat Metheny, Charlie Haden, Mike Stern, YO-YO-MA, George Benson, Joaquin Cortes, Andrea Bocelli, Alex Acuna, Victor Bailey, Abe Laboriel, Pino Daniele, Diego Amador, Rita Marcotulli, Karen Lugo, Jorge Pardo, Markus Stockhausen, Kamal Musallam, Richard Bona, Chano Dominguez, Michel Benita, Andy Sheppard, Maria Pia de Vito, Javier Colina.

La tracklist: 1.Veo Horizontes  2. Espejo de la noche  3.Autorretrato  4.Flores  5.Ausecia de ti  6.Colores de Tayen  7.Huye  8.Silencio  9.Lo que el agua  10.Elvenadito  11.Azul  12.Las dos Fridas

CONTATTI
www.israelvarela.com
Management: www.newageproductions.it
Ufficio Stampa: Fiorenza Gherardi De Candei – tel. 328.1743236  info@fiorenzagherardi.com

I nostri CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Pierluigi Balducci – “L’equilibrista” – Dodicilune
Una prima notazione tutt’altro che secondaria: “questo lavoro – afferma lo stesso Balducci – vede la luce ad otto anni dal mio precedente disco, “Blue from Heaven”, e a tre anni da “Evansiana”, pubblicato nel 2017. Lo dedico a John Taylor, che in questi due dischi è presente: punto di riferimento sia per me che per tanti altri musicisti europei, John mi ha onorato della sua presenza nel mio quartetto fino alla sua scomparsa, nel 2014”. Ebbene, nell’intento di omaggiare cotanto artista, il bassista/compositore pugliese Pierluigi Balducci, ben coadiuvato da Robert Bonisolo (sax tenore), Fabrizio Savino (chitarra) e Dario Congedo (batteria) ha realizzato questo eccellente album con sette brani originali tutti composti dal leader. Inquadrato l’album nelle sue linee generali, occorre aggiungere che il titolo rispecchia appieno la musica che si ascolta. Un equilibrio tra forma e contenuto, un bilanciamento apprezzabile tra parti scritte e improvvisate, un giusto alternarsi di atmosfere tra energico groove e avvolgente melodia, il tutto condito da una ricerca sul sound che ha dato frutti copiosi. In particolare si fa apprezzare il dialogo a più voci che vede impegnati alle volte Balducci e sezione ritmica, altre volte Balducci e Bonisolo; ciò senza trascurare il peso degli assolo che si ascoltano nei vari brani: particolarmente apprezzabile, ad esempio, il chitarrista nella title-track con il suo incedere elegantemente descrittivo mentre il sax di Bonisolo s’impone alla generale attenzione già a partire dalle primissime note del brano d’apertura “Blackarera” caratterizzato da un coinvolgente andamento ritmico.
Dal canto suo il leader, oltre a fornire un irrinunciabile supporto armonico per tutta la durata dell’album (si ascolti a mò di esempio “Kosmos and Chaos”) si produce anche in notevoli assolo come nel caso di “Monet” probabilmente il pezzo migliore dell’album. Fra gli altri brani più significativi “Fino a prova contraria”, una lunga ballad esposta con sapienza narrativa da Robert Bonisolo e con i notevoli assolo della chitarra di Savino e del basso elettrico del leader.

Luiz Bonfà – “Plays & Sings Bossa Nova + The Gentle Rain” – Aquarela do Brasil
Siamo nei primissimi anni ’60, per la precisione nel 1962, quando viene registrato un lp dal sassofonista Stan Getz con il chitarrista Charlie Byrd: è l’inizio del fenomeno ‘jazz samba’ (più tardi inteso come ‘bossa nova’) che tanto successo ebbe nel mondo del jazz. Tra i sacerdoti di questa nuova musica figura certamente il chitarrista e vocalist Luiz Bonfà (Rio de Janeiro, 17 ottobre 1922 – Rio de Janeiro, 12 gennaio 2001) che nello stesso 1962 fu tra i protagonisti dello storico spettacolo di bossa nova che si tenne alla Carnegie Hall. A testimonianza delle sue frequentazioni con il mondo del jazz restano le incisioni con Stan Getz, Quincy Jones, Frank Sinatra, Eumir Deodato. Moltissime le composizioni di Bonfà – oltre un centinaio – molte celebri, tra cui ricordiamo innanzitutto “Manhã de Carnaval” e “Samba de Orfeu” entrambi tratti dalla colonna sonora del film “Orfeo Negro”. In questo album si ascoltano due lp risalenti agli anni ’60. Nel primo, registrato a New York nel 1962, troviamo Bonfà a capo di un sestetto e una sezione d’archi arrangiata da Lalo Schifrin; il secondo – “The Gentle Rain” – è la colonna sonora dell’omonimo film in cui il chitarrista suona con un’orchestra arrangiata e diretta dall’amico Eumir Deodato, realizzata a Rio De Janiero nel 1966. Naturalmente in repertorio figurano altre perle targate Bonfà come il già citato “Manhã de Carnaval” e ancora “Samba de Duas Notas”, “Silencio do amor”, “Perdido de amor” registrato a Rio de Janeiro nel 1959 e porto come “bonus track”. Fornire un quadro esauriente dell’arte di Bonfà è opera davvero ardua dato l’enorme numero di registrazioni effettuate dall’artista tuttavia dall’ascolto di questo album si può ricavare un ritratto soddisfacente di quel che Bonfà ha rappresentato nel mondo della musica.

Jakob Bro – “Uma Elmo” – ECM 2702
E’ un trio di caratura internazionale quello che il chitarrista danese Jakob Bro, al suo quinto disco da leader per la ECM, presenta in questa occasione: al suo fianco sono, infatti, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Ad onta del fatto che i tre mai avevano inciso prima, la formazione si dimostra assolutamente compatta, ben guidata dal leader e perfettamente in grado di svolgere la musica che Bro aveva immaginato. Nove brani tutti composti dal chitarrista caratterizzati da un’atmosfera profonda, intimista, fortemente evocativa, ricca di echi, di riverberi, con chitarra e tromba che dialogano continuamente e la batteria di Rossy a punteggiare e sostenere il tutto, pur concedendo davvero poco all’impianto ritmico. Nell’ambito del repertorio figurano tre espliciti omaggi, in cui, però, Bro continua ad evidenziare la sua poetica mantenendosi ad una certa distanza dagli artisti evocati. Non a caso l’album si apre con “Reconstructing a Dream” in ricordo di quel periodo (2007) in cui collaborava con la Paul Motian’s Electric Bebop Band. “To Stanko” è un tributo al trombettista polacco Tomasz Stanko con il quale Bro aveva collaborato per ben cinque anni incidendo, tra l’altro, nel 2009 l’album ECM “Dark Eyes” unitamente a Alexi Tuomarila piano, Anders Christensen chitarra basso e Olavi Louhivuori batteria; la linea melodica è dolcemente suggestiva ben lontana, quindi, dal clima arroventato proprio dell’artista polacco. L’altro jazzista omaggiato è Lee Konitz per il quale Bro ha scritto ed eseguito “Music For Black Pigeons”; nei confronti del sassofonista Bro dichiara una sorta di sincera devozione sorta negli anni in cui hanno suonato assieme durante le tournée effettuate in Islanda, Groenlandia, Norvegia, Danimarca. Il brano più interessante? Difficile da enucleare anche se mi ha particolarmente colpito “Housework” sia per il sound affatto particolare della tromba, sia perché è piuttosto complicato enucleare le parti improvvisate dall’intelligente scrittura.

James Booker – “The Ivory Emperor” – Soul Jam 806188
Album da non perdere per gli appassionati di un certo tipo di jazz, molto vicino al blues. In effetti vi sono contenuti tutti i singoli che James Booker realizzò come leader all’inizio della sua carriera, tra il 1954 e il 1962, quando incideva per diverse etichette tra cui Imperial, Chess, Ace e Peacock. Il cd contiene inoltre brani di altri artisti in cui James Booker appare come sideman. E’ il caso, ad esempio, di “You’re On My Mind” e “The Nex Time” in cui suona accanto a Junior Parker (voce) e Arnett Cobb (sax tenore), e delle due tracce conclusive in cui collabora con il bluesman Earl King. Ma chi era James Booker domanda che probabilmente si staranno facendo i nostri più giovani lettori. Ebbene James Booker, (New Orleans, 17 dicembre 1939 – 8 novembre 1983), conosciuto come il Principe del piano di New Orleans, è stato uno dei musicisti più amati di Crescent City. Era un pianista eccellente, organista di livello (lo si ascolti ad esempio in “Cross My Heart”), vocalist e compositore che si era creato uno stile del tutto personale fondendo R&B, gospel, blues, boogie-woogie, jazz tradizionale e moderno attraverso un suono originale. Ma le sue conoscenze musicali andavano ben al di là rivolgendosi anche alla musica classica europea, così rivisitò in chiave blues il “Valzer del minuto” di Chopin e inserì una composizione dello stesso autore polacco in un brano boogie-woogie. Data l’importanza della sua musica nell’ambito della scena jazz-blues di New Orleans, la sua produzione fa parte dal 2008 degli archivi della Biblioteca del Congresso.

Sam Cooke – “Wonderful World – The Hits” – Hoo Doo
Questo è un album chiaramente divisivo: in effetti se amate il soul jazz e più in generale la soul music allora l’ascolto sarà più che gradevole; esattamente il contrario se vi sentite lontani da questo particolare genere. Il protagonista è un vocalist di assoluto rilievo, Sam Cooke, che può essere considerato uno dei padri fondatori della soul music essendo stato tra i primi a coniugare le tematiche gospel con input provenienti dalla vita reale. Nato a Clarksdale il 22 gennaio 1931 e scomparso a Los Angeles l’11 dicembre 1964, Sam sulla spinta del padre – il Reverendo Charles Cook della Chiesa Battista – si era già affermato da giovanissimo come leader del famoso gruppo gospel “teenage” “The Highway QC” che abbandonerà all’età di 19 anni per dedicarsi ad una musica “profana”. Nel corso della sua non lunga carriera, Sam collezionò una serie incredibile di successi, grazie ad un incredibile senso del ritmo e a straordinarie capacità vocali che gli consentivano di passare con disinvoltura da Gershwin (lo si ascolti in “Summertime” a classici del pop quale “Youn Send Me”, anch’esso presente in questa raccolta. E il pregio principale di questo CD consiste proprio nel fatto che nell’ambito delle 30 tracce, registrate tra il 1956 e il 1962, possiamo ascoltare tutti i più grandi successi del vocalist, da “Wonderful World” che apre la compilation a “Bring It On Home to Me”, da “Chain Gang” a “Twistin’ the Night Away” da “A Change Is Gonna Come” fino al conclusivo “Having a Party” per circa 78 minuti di musica. In queste numerose performances Sam Cooke è accompagnato anche da alcuni eccellenti jazzisti quali il pianista Hank Jones, Mike Pacheco (conga), Red Callender (basso).

Chick Corea – “Plays” – Concord 2 CD
E’ di poche settimane fa la dipartita di Chick Corea un artista che ha segnato la storia del jazz negli ultimi cinquant’anni. Ecco, quindi, questo pregevole doppio album della Concord che lumeggia uno dei tanti lati della complessa personalità artistica di Corea: quella del piano solo. Piano solo declinato attraverso una varietà di situazioni che testimonia, meglio di mille parole, da un lato l’incredibile conoscenza del repertorio pianistico, dall’altro la capacità di ben interpretarlo. Eccolo quindi alle prese con Mozart, con Gershwin, con Scarlatti, con Bill Evans, con Scriabin, con Antonio Carlos Jobim, con Monk, per chiudere con una serie di brani tratti da quell’inesauribile scrigno costituito dalle sue composizioni. In particolare il primo CD è dedicato a prezzi celebri che tutti conoscono mentre nel secondo è possibile ascoltare tutti brani di Corea eccezion fatta per “Pastime Paradise” di Stevie Wonder. I brani sono tratti da una serie di concerti svolti in vari Paesi europei e statunitensi e ovunque, dinnanzi ad un pubblico che lo acclama, Chick non si risparmia e affronta con disinvoltura i non facili confronti con gli autori su citati. Ma non basta ché Corea si lascia andare anche ad improvvisazioni che testimoniano la valenza di un artista che mai ha fatto ricorso al banale, al facile ascolto, ai cliché spesso di moda. Insomma ancora una volta Corea si concede senza limiti al suo pubblico, senza particolari modalità, fedele al suo motto più volte espresso secondo cui “a me piace – afferma il pianista – che il pubblico ai miei concerti si senta come se stessimo nel mio salotto a discutere del più e del meno”.
Così il suo pianismo conserva intatta la sua originalità e soprattutto quel tocco che lo ha reso celebre. Come ho molte volte sottolineato, quello che trasforma un buon musicista in un grande artista è la riconoscibilità e in un pianista detta riconoscibilità si sostanzia nella originalità del tocco, nel caso di Corea un tocco sublime e straordinariamente controllato.

Daniele Germani – “A Congregation of Folks” – Gleam Records 7004
Album d’esordio per questo alto-sassofonista originario di Frosinone ma di stanza a Brooklyn, NY, ben coadiuvato dal pianista originario dell’Oregon Justin Salisbury, dal bassista Giuseppe Cucchiara e dal batterista sudcoreano Jongkuk Kim. In programma tredici composizioni tutte scritte dal sassofonista che si è fatto le ossa suonando al Wally’s Jazz Cafe, il leggendario jazz club di Boston; in questa città Germani si è trasferito nel 2013 avendo ottenuto una borsa di studio per frequentare il Berklee College of Music. Mentre era lì, è stato ammesso al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Danilo Perez, dove ha studiato sotto la guida di Terri Lyne Carrington, Joe Lovano e del suo mentore, George Garzone. Avendo alle spalle tanti anni di studio e con maestri talmente prestigiosi, Germani si presenta al pubblico italiano come musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi e in grado di guidare un ensemble ben equilibrato e affiatato grazie al fatto che i quattro si sono conosciuti al Berklee. Di qui una perfetta spaziatura tra gli strumentisti e il giusto tempo dato ad ognuno per esprimere le proprie potenzialità. Così ad esempio in “One Moment To Monet” è il piano di Salisbury a mettersi in particolare evidenza mentre in “Hal Believe It” è l’intera sezione ritmica ad evidenziare la sua bravura nel sostenere magnificamente il solismo del leader. Il quale dà un’impronta all’intero album già nelle primissime note del brano d’apertura quando su un tappeto disegnato dal basso introduce e sviluppa il tema, portandolo dolcemente a conclusione Comunque ad avviso di chi scrive il brano meglio riuscito è “Eres luz”, una suggestiva melodia disegnata anche dal contrabbasso di Cucchiara e che vede l’intero quartetto esprimersi al meglio.

Andrea Goretti – A Light in The Darkness – Dodicilune 503
Undici composizioni originali che il pianista-compositore Andrea Goretti affronta in solitudine. Di qui una duplice fatica: da compositore e da esecutore. E la valutazione non può che essere positiva. Le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da introspezione e sincera meditazione, mentre le esecuzioni risultano perfettamente aderenti alle idee dell’artista. Quindi nessuno sfoggio virtuosistico ma un uso intelligente delle dinamiche, una accurata ricerca armonica nell’ambito di un pianismo tecnicamente ineccepibile. Il tutto supportato da una profonda conoscenza della letteratura sia classica sia jazzistica, con specifico riferimento alle tendenze più attuali. Non a caso in repertorio figura anche un brano, “T.T.T. X – Twelve Tone Tune X” costruito con una linea melodica di dodici suoni, ad omaggiare il celebre “Twelve Tone Tune” di Bill Evans. Altra dote di Andrea Goretti la capacità di saper bilanciare scrittura e improvvisazione, pratica quest’ultima, che pur evidenziandosi in tutto l’album si palesa particolarmente in “Neptune’s Blues” e “I giganti”. L’album si chiude con tre pezzi registrati dal vivo durante un concerto a Roma nel novembre del 2018: “Impro I”, “Lamento”, ispirato al blues e “Il Grinch 2”, dedicato, non senza un tocco d’ironia, al periodo natalizio, in particolare a quel personaggio – Grinch per l’appunto – inventato nel 1957 dal Dr. Seuss, che odia il Natale, non ne sopporta l’atmosfera allegra, i canti, i regali e le luci. L’album è impreziosito da una poesia di Umberto Petrin, “Question”, ispirata dalla musica di Goretti.

Pietro Lazazzara – “My Art of Gypsy Jazz” – Stradivarius
Chiarezza esemplare nel titolo dell’album: siano nel campo di un certo ben preciso tipo di jazz che il chitarrista e compositore Pietro Lazazzara frequenta con disinvoltura. Ma sarebbe un errore confinare l’album nell’ambito del “Gipsy Jazz”: in effetti, restando questo la fonte principale da cui trae ispirazione, il percorso di Pietro è più complesso e completo. Eccolo quindi studente di chitarra classico, appassionato conoscitore del flamenco, laureato in musica jazz e infaticabile appassionato ricercatore nell’ambito di uno sconfinato universo musicale. Di qui una musica in cui tutti questi input sono ben amalgamati e condotti ad unità grazie ad una buona verve compositiva e ad una eccellente tecnica esecutiva che si palesa soprattutto nei due brani per chitarra-solo “Passion d’Amour” ed “Echi d’Infanzia”. Nell’album Lazazzara è, in effetti, coadiuvato da Antonio Solazzo al basso e in un brano, “Relax”, da Emanuele Maggiore al flicorno. In cartellone quattordici pezzi scritti dallo stesso chitarrista con l’eccezione di “Douce Ambiance” di Django Reinhardt, “Joseph Joseph” di Kahn, Chaplin, Nellie e “Bistrot Fada” di Stephane Wrembel. Alla fine di un duplice attento ascolto dell’album, si può ben dire che la figura di Lazazzara quale compositore ed esecutore si colloca su livelli più che buoni. Le composizioni appaiono tutte ben scritte, equilibrate, caratterizzate da una sapiente ricerca armonica e si fanno ammirare anche per il notevole bilanciamento tra parti scritte ed improvvisate. L’esecuzione, poi, è raffinata, elegante ad evidenziare un chitarrista sensibile, ispirato, dalla tecnica ineccepibile per quanto misurata e lontana dalla volontà di stupire l’ascoltatore cosicché ogni nota ha il suo preciso perché.

Peggy Lee – The Hits of – All Anglow Again!” – Essential Jazz11443
Peggy Lee (Jamestown, 26 maggio 1920 – Bel Air, 21 gennaio 2002) è stata artista di squisita sensibilità che ha incantato le platee di tutto il mondo. Dotata di una voce non potentissima ma di grande fascino, suggestiva, capace di portare l’ascoltatore in una dimensione “altra”, Peggy ottenne grande popolarità durante l’era dello swing quando lavorò e incise con grandi orchestre dirette, tra gli altri, da Benny Goodman, Nelson Riddle, Billy May. Questo album contiene l’edizione integrale dell’lp “All Aglow Again”; si tratta di una compilation realizzata nel 1960 con in repertorio dodici brani tratti dalle varie registrazioni effettuate sino a quel momento ivi comprese alcune hit come la celebre “Fever” canzone di Eddie Cooley e Otis Blackwell (usando lo pseudonimo di John Davenport) del 1956; incisa per la prima volta da Little Willie John nello stesso anno, diventò di grande successo grazie alla cover di Peggy Lee del 1958 che raggiunse la quinta posizione nel Regno Unito e l’ottava negli Stati Uniti ed in Olanda, vincendo il Grammy Hall of Fame Award 1998. In aggiunta al già citato “All Anglow Again!” il cd in oggetto presenta altri 17 brani scelti tra i maggiori hit della cantante come “Black Coffee”, “Sugar”, “Ain’t We Got Fun” e “La La Lu”. In buona sostanza per chi come il sottoscritto conosce già da qualche decennio l’arte di Peggy Lee nessuna sorpresa ma il piacere di ascoltare alcune delle sue più convincenti interpretazioni; per i più giovani un’occasione da cogliere per fare la conoscenza di una delle migliori cantanti jazz.

Joe Lovano – “Garden of Expression” – ECM 2685
Conosco personalmente Lovano dall’oramai lontano 1982 e l’ho sempre considerato uno straordinario musicista oltre che una bella persona, cosa che mai guasta. Quest’ultimo album ci restituisce un Lovano in forma smagliante, alla testa di quel Trio Tapestry con cui lo avevamo apprezzato nell’omonimo album del 2019, quindi ancora con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Registrato nel novembre del 2019, l’album è dedicato a quanti sono rimasti vittime del Covid 19. Di qui otto brani tutti scritti dallo stesso Lovano che conducono l’ascoltatore in atmosfere rarefatte disegnate dal leader ma ben supportate da pianoforte e batteria che non fanno assolutamente rimpiangere la mancanza del contrabbasso. Si ascolti quindi con quale e quanta delicatezza il pianismo di Marilyn avvolge il sax del leader, quasi a tessere un intricata trama su cui quasi si adagia la voce di Lovano, mentre la batteria di Carmen segue con grande intelligenza e intuito gli intenti del leader. Una musica, quindi, che si sostanzia nell’empatia che i tre evidenziano sin dalle primissime note a conferma di un “idem sentire” tutt’altro che banale. Esemplare al riguardo il suadente “Night Creatures” in cui la Crispell sembra quasi volersi espandere nel comune territorio pronta, però, a cedere il passo all’entrata del sassofono, il tutto porto con estrema delicatezza. Appare quasi come uno standard il successivo “West of the Moon” mentre nella title- track il trio abbandona le melodie disegnate in precedenza per avventurarsi su terreni diversi, quasi vicini ad un certo free, ma che comunque mette in luce un abilissimo e lucido Castaldi il quale non si lascia sfuggire l’occasione per evidenziare il suo, d’altronde ben noto, talento. L’album si chiude con un lungo (oltre 10 minuti) “Zen Like” scandito da campane tibetane che si stacca nettamente da tutto ciò che si è ascoltato sinora.

Shai Maestro – “Human” ECM 2688
Coinvolgente la musica di questo quartetto la cui leadership si potrebbe tranquillamente spartire tra il pianista Shai Maestro e il trombettista statunitense Philip Dizack, coadiuvati da una puntuale sezione ritmica composta dal batterista israeliano Ofri Nehemya e dal contrabbassista peruviano Jorge Roeder. Certo la maestria del pianista israeliano non la scopriamo certo adesso dato che Shai è già al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM, e può vantare anche quattro album di spessore incisi con l’Avishai Cohen Trio. Ma in questo album c’è forse qualcosa di più. Innanzitutto una piena maturità compositiva declinata attraverso un repertorio di undici composizioni tutte sue ad eccezione di “In a Sentimental Mood”. In secondo luogo la piena conferma di uno stile pianistico che nulla aggiunge a ciò che è strettamente necessario ad esprimere la propria individualità, il proprio essere più profondo (si ascolti al riguardo soprattutto “Compassion” e “Hank and Charlie” il commovente omaggio porto a Hank Jones e Charlie Haden, con il contrabbasso di Jorge Roeder in bella evidenza). In terzo luogo la capacità di eseguire al meglio, in modo originale, composizioni non proprie come la su citata pagina ellingtoniana, pezzo tanto affascinante quanto difficile da riprodurre visto l’inevitabile confronto con l’originale. Infine la straordinaria facilità con cui riesce a rapportarsi con i compagni di viaggio; semplicemente perfetta l’intesa con il trombettista assai evidente soprattutto in “Human” e in “They Went to War” mentre la sezione ritmica è sempre lì, presente e discreta, a puntualizzare le linee disegnate da pianoforte e tromba.

Angelo Mastronardi – “Rough Line” – GleamRecords7003
Con questo terzo album da leader, il pianista si ripresenta con la formula preferita del trio assieme al batterista palermitano Melo Miceli e al contrabbassista americano Rogers Anning. In programma 6 composizioni originali scritte dal leader e due standard, “All Things You Are” (J.Kern / O. Hammerstein II) e “Oleo” (S. Rollins). Il terreno è quello di un jazz caratterizzato da una forte carica ritmica e da spiccate individualità che emergono nel corso delle varie esecuzioni; il tutto impreziosito da una accurata ricerca sul suono che si evidenzia ancora più chiaramente quando Mastronardi si produce non solo al pianoforte ma anche al Fender Rhodes. Come si accennava notevole l’apporto solistico di tutti i membri del trio: così ecco il basso di Rogers Anning particolarmente in evidenza in “Everything I Need” mentre la batteria di Melo Miceli si fa apprezzare in “Away From The Scene”. E il leader? A parte la sapienza con cui guida il trio, si ritaglia spazi per convincenti assolo: in particolare nei due brani eseguiti in solitudine, “All The Things You Are” e “7 H-Our”, Mastronardi evidenzia una assoluta padronanza della tastiera che sa utilizzare in maniera completa evidenziando tra l’altro una ottima diteggiatura e una eccellente indipendenza tra le due mani. In particolare il brano di Kern e Hammerstein è porto in maniera originale con l’intento da un canto di preservare la bellezza del tema dall’altro di osare qualcosa di nuovo, alla costante ricerca di quell’equilibrio fra tradizione e sperimentazione che caratterizza tutto l’album ; in “7H-Our” Mastronardi, avendo a che fare con una propria composizione, si muove con sicurezza nel dichiarato intento di sperimentare le possibilità timbriche del Fender.

Lucio Miele – “Kalpa” – Creative Sources Record
Album assolutamente atipico in cui Lucio Miele, percussionista di tradizione classica, dedito alla ricerca e alla sperimentazione, si racconta attraverso sei sue composizioni, affiancato da Simona Fredella alla voce recitata in due brani e da Anacleto Vitolo al mastering. Chi conosce il musicista salernitano troverà in questo album una perfetta continuità con le sue realizzazioni in cui ha sempre cercato di condensare la molteplicità delle sue esperienze. Viceversa per chi questo album rappresenta il primo approccio con la musica di Miele, sicuramente ne resterà sorpreso, nel bene o nel male non spetta certo allo scrivente deciderlo. In ogni caso è opportuno sottolineare che Miele è artista sincero, intellettualmente onesto, che ha sempre seguito la sua strada per quanto ostica fosse la stessa. Certo, fare musica basandosi solo su percussioni ed elettronica non è impresa facile, anche quando si è perfettamente padroni degli strumenti utilizzati (si ascolti ad esempio il convincente uso dell’elettronica in “Mbombo”). Mancano i riferimenti usuali, la linea melodica, l’andamento ritmico è assolutamente frastagliato e imprevedibile, ma quando si approccia una realizzazione di questo tipo i vecchi parametri vanno messi da parte e occorre lasciarsi andare al flusso sonoro. Aprire la mente il cuore, l’anima e lasciare che la musica ci attraversi fin nel profondo alla ricerca di emozioni sopite che forse solo in questo modo saremo in grado di apprezzare. Insomma un album, come si accennava, di non facile ascolto ma che vale la pena fruire ma, ripetiamo, con disponibilità e attenzione…altrimenti è meglio lasciar perdere.

Roberto Ottaviano – “Resonance & Rapsodies” – Dodicilune
Doppio album del sassofonista (soprano) e compositore pugliese Roberto Ottaviano, affiancato in “Resonance” dal quartetto Eternal Love composto da Marco Colonna (clarinetti), Giorgio Pacorig (piano, rodhes), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), ampliato dalla presenza di Alexander Hawkins (piano), Danilo Gallo (contrabbasso e basso acustico) e Hamid Drake (batteria), mentre nel secondo CD, “Rapsodies” solo dal quartetto Eternal Love. Una realizzazione, quindi, particolarmente impegnativa che non a caso ha vinto l’annuale referendum come miglior disco italiano del 2020. Ora, a prescindere dal valore che valutazioni del genere possono avere o non avere, resta il fatto che a mio avviso raramente una produzione discografica è stata così meritevole di tali considerazioni. In effetti Roberto Ottaviano è artista di grandissimo livello, tra i migliori che l’attuale scena jazzistica, non solo italiana, possa annoverare. La sua mente compositiva è sempre lucida, attuale, capace di cogliere i fermenti più significativi che attraversano l’universo musicale senza distinzione di genere mentre le modalità esecutive evidenziano un bagaglio tecnico molto profondo, talmente ben assorbito da non necessitare di alcuna palese esposizione e che, di conseguenza, si sostanzia in uno stile asciutto, senza fronzoli, che nulla lascia all’esibizionismo. L’intento che sta alla base dell’opera è, come afferma lo stesso Ottaviano, “una sorta di omaggio alla ricerca di quella sofferta poetica che fa parte della condizione umana”. Per dare forza e concretezza a questi concetti, Roberto fa ricorso ad una musica declinata attraverso ventitré brani in larga misura da lui stesso scritti in cui non mancano i riferimenti alla musica classica contemporanea. Ma è la pratica collettiva il dato fondamentale di questo doppio CD, una pratica che consente una sorta di doppione del sax di Ottaviano con i clarinetti di Marco Colonna, che risultano essenziali per allargare a dismisura il concetto di suono. Se volessimo sintetizzare in poche parole il significato più profondo di questo “Resonance & Rapsodies” si potrebbe forse dire che nel momento in cui rievoca le esperienze del passato Ottaviano non rinuncia a guardare oltre, non rinuncia ad una ricerca che costituisce una delle cifre fondamentali del suo essere artista.

Dino Piana – “Al gir dal bughi” – PMR, Jando Music
90 anni e non sentirli…o meglio che bel sentire ci procura questo nuovo album del trombonista Dino Piana. Conosco oramai da molti anni la premiata ditta composta da Dino e Franco Piana e ne ho sempre ricavato una bella impressione e non solo dal punto di vista squisitamente musicale, visata la gentilezza, la signorilità con cui i due amano rapportarsi con noi critici e giornalisti. Ma è il versante artistico su cui tocca concentrarsi in questa sede e allora dico, immediatamente, che l’album si colloca su quegli alti livelli cui Dino e Franco Piana ci hanno abituati oramai da decenni. Con in più un elemento di notevole importanza: il CD è stato fortemente voluto da Enrico Rava (storico amico di Dino Piana) e da Franco Piana per festeggiare i 90 anni (a luglio 91) del trombonista piemontese. Di qui la strutturazione di un organico d’eccellenza in cui accanto ai senatori Rava al flicorno e Dino Piana al trombone figurano Franco Piana al flicorno, Julian Oliver Mazzariello al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Di qui la scelta di un repertorio oggi non di moda: nove standard celeberrimi – “Bernie’s Tune”, “Dear Old Stockholm”, “Everythings Happens To Me”, “I’ll Close My Eyes”, “Line For Lions”, “Rhythm A Ning”, “Polka Dotz and Moonbeams”, “When Light Are Low”, “When Will The Blues Leave” – che tutti, più o meno, si richiamano a quell’hard bop da cui in buona sostanza è poi derivato tutto il jazz moderno. Il gruppo si esprime con bella compattezza impreziosito dal fitto dialogo tra i fiati e dagli assolo di Dino che non si risparmia anzi fa sentire ben nitida la voce del suo strumento in ogni brano. Gli standard fluiscono genuinamente ‘freschi’ come se il tempo non fosse trascorso e l’ascolto è sempre gradevole anche se occorre attenzione per catturare le mille sottigliezze dell’esecuzione. Una precisazione: lo strano titolo deriva dal fatto che durante il primissimo incontro tra Rava e Piana, quest’ultimo associò al blues in fa il giro armonico del boogie-woogie per l’appunto “Al gir dal bughi”.

Marcello Rosa – “The World On A Slide” – Alfa Music 236
Straordinario viaggio nel mondo del trombone. A fungere da gran cerimoniere è Marcello Rosa, uno dei personaggi più rilevanti dell’universo jazzistico nazionale. Conosco Marcello personalmente oramai da tanti anni e so perfettamente quanto ami la sua musica e quanta passione metta in ogni cosa che fa. Ovviamente a quest’aurea regola non sfugge “The World On A Slide” una raccolta di ben sedici brani –molti originali, altri scelti tra le più belle melodie del repertorio jazzistico del XX secolo – ma tutti suonati e arrangiati da Rosa nel corso della sua vita. Ebbene per questa sua ultima fatica discografica, Marcello ha voluto coronare un bel sogno: incidere un disco di soli e tanti tromboni. Ha così chiamato accanto a sé alcuni specialisti non solo del jazz ma anche della musica colta. Ed eccoli tutti i nomi dei temerari che hanno partecipato all’impresa: dalla musica colta Andrea Conti I trombone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Luigino Leonardi trombonista presso la Banda musicale dell’Aeronautica Militare, Gianfranco Marchesi trombone basso dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Quartetto italiano di tromboni, formato da Devid Ceste secondo trombone dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, Matteo De Luca I trombone dell’orchestra della Suisse Romande di Ginevra, Diego Di Mario I trombone presso l’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e Vincent Lepape I trombone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Dal mondo del jazz sono arrivati i già ‘collaudati’ Andrea Andreoli, Mario Corvini, Massimo Morganti e Roberto Rossi; accanto a loro i giovanissimi e brillanti Stefano Coccia, Elisabetta Mattei, Federico Proietti e il G.E.F.F. Trombone Quartet, composto da Giovanni Dominicis, Francesco Piersanti, Eugenio Renzetti e Gabriele Sapora. In taluni pezzi c’è pura una sezione ritmica composta da Paolo Tombolesi al pianoforte, Luca Berardi e Roy Panebianco alla chitarra, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni. Il risultato è semplicemente entusiasmante: come si diceva una volta ‘dove peschi peschi bene’ ed in effetti tutte le esecuzioni contengono una carica tale da mai lasciarti indifferente. Qualche titolo? “Autumn Leaves” con Massimo Morganti in veste di solista, la suadente “Southern Ballad” che ad onta delle difficoltà di realizzazione narrate da Rosa è venuta molto bene con Roberto Rossi solista, il sempre toccante “What Are You Doing the Rest of Your Life” affidato al Quartetto Italiano di Tromboni con Gianfranco Marchesi. Da segnalare infine che come bonus track figurano “Miss Magnolia Lee” del giugno 1974 con Enrico Pieranunzi piano, Alessio Urso basso e Gegè Munari batteria e “Il ladro di noccioline” del 1980 con Daniele Cestana piano, Nanni Civitenga chitarra e chitarra basso e Enzo Restuccia batteria.

Bob Salmieri – “…and Mama Was a Belly Dancer” – Cultural Bridge
Il sassofonista tenore romano Bob Salmieri si è già fatto conoscere da quando, nel 2016, costituì l’Erodoto Project, i cui album sono stati recensiti su questi stessi spazi. E’ di pochi mesi fa la costituzione del ‘Bob Salmieri Bastarduna Quintet’ con Giancarlo Romani alla tromba, Vincenzo Lucarelli organo e piano, Maurizio Perrone contrabbasso e Massimiliano de Lucia alla batteria, ospite in tre brani il vibrafonista e pianista polacco Mateusz Nawrot. In piena pandemia il gruppo incide il disco “…and Mama was a belly dancer” per Cultural Bridge, declinato attraverso otto composizioni tutte del leader che anche come strumentista non si risparmia di certo per tutta la durata dell’album. Due le necessarie premesse: nell’intento di Salmieri si tratta di un concept album in quanto rivede e rivive i sogni di un uomo-bambino che costruisce i suoni, i sapori, i colori di un tempo lontano e di un mondo sognato. In secondo luogo il termine Bastarduna con cui si è voluto caratterizzare il gruppo indica una varietà pregiata di fichi d’India a voler indicare la strada ‘mediterranea’ che il gruppo intende perseguire. Ora se, more solito, almeno per me è assai difficile stabilire se la musica coincide con l’impianto concettuale che dovrebbe sostenerla, non c‘è invece dubbio alcuno sul fatto che il jazz proposto si inserisca nel solco di un’ispirazione di impronta chiaramente mediterranea, particolarmente evidente in “Madame oculus” e “Men With The Painted Faces” impreziosito da un bell’assolo di Lucarelli all’organo. Dal punto di vista della linea melodica, particolarmente apprezzabile “The Flying Devils”. Comunque è tutto l’album che si snoda attraverso un filo rosso che vede in primo piano il fitto colloquio tra i due fiati ben sostenuti dalla sezione ritmica con l’ospite polacco in grado di ben inserirsi nel discorso collettivo con assoli di pregevole fattura (lo si ascolti in “The Balinese Dancer (Reprise)”.

Roberto Spadoni – “Mah” – Sword Records
Anche Roberto Spadoni fa parte delle mie oramai lunghe amicizie musicali ed è proprio partendo da questa base che mi sento di affermare la valenza dello stesso quale musicista assai ben preparato e che, tutto sommato, non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita. Adesso, dopo lunghi anni in cui ha suonato la sua fida chitarra, diretto organici di varie dimensioni, composto, insegnato, si cimenta con qualcosa di nuovo: produrre, promuovere e diffondere la sua musica seguendola in tutta la sua lunga filiera, dalla composizione alla registrazione, dal progetto grafico alla stampa e alla diffusione. Di qui la creazione di una label che – con una venatura di ironia – sottolinea Spadoni ha chiamato ‘Sword Records’. “Mah” è per l’appunto la prima realizzazione targata ‘Sword Records’ per cui il leader-chitarrista si esibisce con Fabio Petretti (sax tenore & soprano), Paolo Ghetti (contrabbasso) e Massimo Manzi (batteria). In programma nove composizioni originali tutte scritte dal leader a conferma di quanto su accennato a proposito della poliedricità di Roberto. L’album è sicuramente apprezzabile sia per l’originalità della scrittura così ben equilibrata sia per la bravura dei singoli notevoli nella parti d’insieme così come nei vari assolo. Ecco quindi il contrabbasso di Paolo Ghetti farsi apprezzare in “Remore morali” un brano non nuovo ma sempre affascinante. In “Girotondo” è la batteria di Massimo Manzi in primo piano, impegnata in un fitto dialogo con i compagni di viaggio mentre in “Borgo antico” si apprezza Fabio Petretti impegnato a disegnare una fluida linea melodica. Dal canto suo il leader non fa mancare il suo apporto solistico in ognuno dei brani apparendo, almeno a chi scrive, particolarmente convincente in “Buonanotte”. Ottima anche la chiusura con “Ce la posso fare” un pezzo che, evidenzia ancora Spadoni, egli ha diretto molte volte e che comunque rappresenta una sorta di mantra, un augurio, “una carica di energia positiva”, impreziosito nell’occasione dagli assolo di Petretti e di Spadoni.

Barney Wilen & Alain Jean-Marie – “Montreal Duets” – Elemental 2 CD
Vi piace la “buona” musica senza distinzione di stili, di epoca, di messaggi più o meno espliciti…insomma senza se e senza ma? Se la risposta è affermativa allora dovete ascoltare questo doppio album. Siamo nella Chiesa di Gesù, a Montreal (Canada) il 4 luglio del 1993 in occasione dell’annuale Festival del jazz. In programma per un doppio concerto pianificato alle 20 e alle 22,30 un duo d’eccezione composto da Barney Wilen al sax tenore e dal pianista martinicano Alain Jean-Marie. Già a quell’epoca i due avevano lungamente suonato assieme sin dagli anni ’80 potendo vantare una propria ben solida reputazione. In particolare Barney era considerato uno dei più prestigiosi sassofonisti francesi avendo, tra l’altro, collaborato con Miles Davis per la colonna sonora del film “Ascenseur pour l’Échafaud” nel 1957 mentre Alain a conferma di una carriera prestigiosa aveva ricevuto il “Prix Django Reinhardt” e nel 2000 il “Django d’Or”. Ora se è vero che nel mondo della musica e del jazz in particolare non sempre uno più uno fa due, questa volta si potrebbe ben dire che invece fa tre. Ascoltarli nelle loro evoluzioni è davvero un piacere tale e tanta è la fluidità del loro linguaggio. I due si intendono a meraviglia, si inseguono, si interrompono, si passano la palla senza soluzione di continuità nel rispetto di soluzioni ritmiche che guardano da vicino alla grande tradizione del bop. Non a caso Alain Jean-Marie agli inizi della carriera era stato avvicinato stilisticamente a Bud Powell. Nell’ampio programma enucleare qualche brano è davvero difficile anche se una menzione particolare la merita la splendida ballad di Gordon Jenkins, “Good Bye”, pezzo con cui Barney Wylen chiuse la sua performance a Caen il 14 marzo 1996 in quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Ascoltando “Good Bye” non ci si può non lasciar prendere da una ondata di malinconia nel ricordo di un grande artista che anche nell’esecuzione presente in questo album evidenzia una classe e una musicalità senza pari. E vorrei chiudere citando le parole di Jean-Paul Sartre riportate da Pascal Anquetil nel booklet del disco: “il y a un gros homme qui s’époumone à suivre son trombone dans ses évolutions, il y a un pianiste sans merci, un contrebassiste qui gratte ses cordes sans écouter les autres. Ils s’adressent à la meilleure part de vous-même, à la plus sèche, à la plus libre, à celle qui ne veut ni mélancolie ni ritournelle, mais l’éclat étourdissant d’un instant. Ils vous réclament, ils ne vous bercent pas”.

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Ferenc Snétberger, Keller Quartett – Hallgató – ECM New Series 2653
Com’è nostra consuetudine, consentiteci una tantum qualche digressione al di fuori degli ambiti prettamente jazzistici. Questa volta lo facciamo per segnalarvi questo album targato ECM New Series, dedicato al dolore vissuto da molti nel corso dei secoli senza motivo alcuno, che vede come protagonisti il chitarrista ungherese Ferenc Snetberger, il terzo pubblicato da ECM, e il Keller Quartet, anch’esso costituito da musicisti ungheresi. L’album, registrato in concerto nella Grand Hall della Liszt Academy di Budapest nel dicembre 2018, presenta un programma interamente dedicato alla musica classica. L’apertura e la chiusura sono dedicati a brani dello stesso Snétberger, inframmezzati da composizioni di Dimitri Shostakovich (il Quartetto per archi N. 8 in Do minore dedicato alle vittime della guerra e del fascismo), John Dowland ( “I Saw My Lady Weep” per chitarra e quartetto d’archi, e “Flow, My Tears” per chitarra e violoncello), Samuel Barber (lo struggente “Adagio for strings” interpretato dal solo “Keller Quartet”. Dal canto suo Ferenc Snetberger presenta alcune sue composizioni che non sfigurano al cospetto di contati autori. Così il “Concerto In Memory of My People,” in tre movimenti, composto da Snétberger nel 1994 per chitarra e orchestra, e qui riproposto in un arrangiamento per chitarra e quintetto d’archi, coglie perfettamente nel segno riuscendo a trasmettere l’ispirazione dell’autore che ricorda e dedica questa musica alla memoria dei suoi antenati gitani Roma e Sinti (cui il chitarrista appartiene) perseguitati e uccisi nei secoli. L’album si chiude con due composizioni del chitarrista, “Your Smile” per chitarra solo, unico brano in cui ci si distacca dalla sensazione di tristezza e dolore che domina tutto il CD e “Rhapsody No.1, for Guitar and Orchestra” qui però nella versione per chitarra e quintetto d’archi.
Che altro aggiungere se non che alla bellezza dei brani si aggiunge la valenza di Ferenc Snétberger che si conferma esecutore e compositore di sicuro livello.

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Massimo Barbiero – “Woland – Omaggio a ‘Il maestro e Margherita’” – Autoprodotto
Massimo Barbiero, batterista e percussionista, è senza dubbio uno dei musicisti italiani più coerenti e originali, senza che, a tutt’oggi, abbia ottenuto i riconoscimenti che merita. Anche questo suo ultimo album si inserisce nell’ambito di quelle produzioni di qualità cui l’artista ci ha abituati oramai da molti anni. L’organico è un trio con Eloisa Manera al violino ed al violino elettrico a cinque corde e Emanuele Sartoris al pianoforte. In repertorio dieci brani che sostanziano un omaggio a “Il maestro e Margherita” di Bulgakov, uno dei più importanti lavori del Novecento letterario, e “Woland” è uno dei nomi germanici del Diavolo, ed è anche il nome (in russo Воланд) di uno dei personaggi chiave di questo romanzo. Quindi un concept album in cui la sapienza compositiva di Barbiero trova ancora una volta il modo di esplicarsi appieno, anche se questa volta il carico compositivo è ripartito egualmente fra i tre artisti. Ammesso e non concesso che sia ancora importante definire ciò che si ascolta, incasellarlo in una cornice predeterminata, ebbene con la musica di questo album tutto ciò non è possibile. Non è jazz propriamente detto, non è musica colta nell’accezione del termine ma una sorta di percorso tra culture musicali diverse, alle volte molto diverse. E sta proprio qui la bravura dei musicisti che nulla concedono al facile ascolto riuscendo comunque a conquistare l’attenzione dell’ascoltatore sin dal brano d’apertura, “Abadonna” di Massimo Barbiero, in cui violino e pianoforte quasi si inseguono su un terreno accidentato che taluni hanno voluto accostare ad atmosfere impressioniste. In “Margherita”, sempre di Massimo Barbiero, è soprattutto il violino, ben supportato dal tappeto ritmico disegnato dal leader, a dettare le atmosfere del brano, questa volta più leggibili e narrative, in cui si avvertono echi sia di Vivaldi sia di Paganini. Di livello anche la suite in tre parti, di undici minuti, “Suite dei tre demoni” di Eloisa Manera, sempre in bilico fra scrittura ed improvvisazione, come del resto l’intero disco. La conclusione è affidata ad una composizione di Sartoris, “Pilato, potere temporale”, in cui il pianismo dell’autore si evidenzia in tutta la sua essenzialità, ben lontana da qualsivoglia esibizionismo.

Francesco Bearzatti / Carmine Ioanna – “Favolando” – artesuono 186
Carmine Ioanna, fisarmonicista d’origine irpina, e Francesco Bearzatti, sassofonista e clarinettista cresciuto nella provincia friulana, sono i “responsabili” di questo godibile album. Il titolo riflette la predilezione dei due artisti per raccontare, attraverso la musica, storie, in questo caso specifico ‘favole’. Il sodalizio nasce due anni or sono sulla base della comune volontà di improvvisare divertendosi e questa caratteristica si coglie appieno ascoltando l’album, declinato attraverso composizioni dei due artisti, un brano tratto dalla tradizione dell’Azerbaijan e tre improvvisazioni espressamente dichiarate come tali. Neppure per un attimo si avverte la sensazione che l’uno voglia prevaricare l’altro ma, sottolinea Ioanna, – siamo “due persone che si amano, si completano, non si sovrappongono mai perché vanno nella stessa direzione”. “Soprattutto c’è, secondo me, – ribadisce Bearzatti – una bella mescolanza di ego, nel senso che non c’è nessuno che sovrasta l’altro”. Una musica, quindi, che ci consegna due artisti in grado di improvvisare costantemente, mai perdendo il bandolo della matassa, anzi continuando a sviluppare un discorso sempre coerente e con tale intensità da non far rimpiangere la mancanza degli altri strumenti. Sassofono e fisarmonica, nella mani dei due artisti, riescono a produrre una massa sonora spesso di tipo orchestrale che si inserisce in una atmosfera davvero magica, “da favola” per riportarci al titolo dell’album, in cui si avvertono echi della musica popolare così come del jazz, della musica contemporanea, della world music. Il tutto, sottolinea ancora Bearzatti, per aprire delle piccole brecce, non già per fare musica di massa, e per puntare al grande pubblico.

Black Coffee & Martine Thomas – “Once Upon A Time” – Caligola 2273
Ecco un album raffinato, oserei dire in alcuni momenti sofisticato, in cui si privilegia senza remora alcuna la ricerca della bella melodia. Di qui un repertorio che spazia da alcuni temi cari agli appassionati di jazz (uno per tutti “My Favorite Things”), alla canzone francese, rappresentata da ben quattro titoli (“Et maintenant” di Gilbert Bécaud, “Ne me quitte pas” di Jacques Brel, “L’hymne à l’amour” di Edith Piaf e “La Bohème” di Charles Aznavour), dalla black music (“I Can’t Help It” di Stevie Wonder e Susaye Greene) ad esplicite reminiscenze blues (“Butterfly” di Herbie Hancock)… alle atmosfere vagamente brasiliane di “The Island” di Ivan Lins, Marilyn e Alan Bergman,… con l’aggiunta di due intermezzi strumentali “End of Chapter One e Two”. A cucinare questa gustosa ricetta sono la cantante americana di origini haitiane Martine Thomas che attualmente vive a Zara, coadiuvata dai Black Coffee, il trio croato costituito da Renato Švorinić, bassista e leader, dal pianista Ivan Ivić e dal batterista Jadran Dučić, cui si aggiungono come special guests Daniele di Bonaventura, bandoneon, presente solo in “Et maintenant”, e Massimo Donà, la cui tromba si ascolta in quattro tracce. Vista la varietà dei brani si potrebbe temere una certa disomogeneità dell’album. Invece “Once Upon A Time” mantiene una sua intrinseca coerenza derivante dal come il gruppo approccia la materia: innanzitutto la ferma volontà di rispettare le linee melodiche dei vari pezzi cui si aggiungono i sapidi arrangiamenti di Renato Švorinić e Ivan Ivić. E il discorso appare quanto mai evidente soprattutto nei quattro pezzi francesi interpretati con gusto ed eleganza dalla Thomas e impreziositi da arrangiamenti mai banali. In questo senso particolarmente apprezzabile è anche la versione di “I Can’t Help It” con un centrato assolo di Ivić al piano elettrico.

Felice Clemente – “Solo” – Crocevia di suoni 018
Affrontare la registrazione di un album per sole ance è impresa quanto mai difficile da cui sono usciti indenni solo alcuni grandissimi personaggi quali Sonny Rollins, Steve Lacy, Lee Konitz, Anthony Braxton. In questo album ascoltiamo un artista italiano, Felice Clemente, che usa sax tenore, sax soprano e clarinetto, in una registrazione effettuata nella chiesa settecentesca di Montecalvo Versiggia il 15 e 16 novembre del 2019. La scelta della location non è stata casuale o indifferente: in effetti, come acutamente sottolinea Paolo Fresu nelle note che accompagnano l’album, la dimensione armonica di un solo di sax e clarinetto si esplica nella magia dei rimandi di echi e riverberi, che traggono spunto dalla navata e dalle arcate di una chiesa o di una basilica. Quasi a dimostrare quanto il fitto dialogo tra gli strumenti e il luogo che li accoglie sia frutto di un “antico matrimonio che appartiene alla storia dell’uomo”. Ecco quindi come, grazie anche ad una presa di suono eccellente, sia possibile apprezzare in tutta la loro bellezza queste architravi sonore rette da echi, riverberi che solo in un ambiente come quello di una chiesa (ovviamente con caratteristiche particolari) sarebbe stato possibile ottenere. Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile se non ci fosse stata anche e soprattutto la valentia di Felice Clemente compositore, arrangiatore, esecutore di grande raffinatezza che ha voluto disegnare un percorso non facile attraverso un repertorio che parte da un classico del jazz, “Harlem Nocturne” di Hearle Hagen per concludersi con una libera improvvisazione, passando attraverso tre sue composizioni originali, e brani di Branford Marsalis, Godard, Morricone, Nuzzolese, Di Gregorio, Javier Perz Forte e Bach.

Cordoba Reunion – “Sì” – abeat 214
Ecco un altro gradevole album firmato Cordoba Reunion, ovvero il prestigioso quartetto costituito da musicisti tutti nativi della stessa città, Cordoba, ma residenti in paesi diversi (Francia, Italia e Argentina): Javier Girotto ai sassofoni, Gerardo Di Giusto al piano, Gabriel “Minino” Garay percussioni e batteria e Carlos “El Tero” Buschini basso e guembri. Registrato a Milano nel marzo del 2019, l’album contiene undici tracce di cui nove firmate dagli stessi membri del gruppo e due da Julien Lourau un sassofonista francese classe 1970. Come già nei precedenti album, “Argentina Jazz” del 2004 e “Sin lugar a dudas” del 2008, il gruppo si muove su direttrici molto ben individuabili: uno straordinario mix tra tanghi, milonghe e chacareras da un lato, jazz, improvvisazione, sperimentazione dall’altro. Evidentemente una impresa così difficile può essere intrapresa con un minimo di possibilità di successo solo se ad affrontarla sono musicisti che coniugano una spiccata personalità individuale con una capacità di rapportarsi ai compagni d’avventura. Ebbene i quattro musicisti in oggetto possiedono ambedue queste doti essendo tecnicamente molto ferrati ma allo stesso tempo capaci di condurre il discorso musicale sulla base di una profonda empatia. Risultato: un latin-jazz assolutamente coinvolgente che risponde ad un progetto musicale in cui la ricchezza ritmica della musica argentina, seppur ancorata al ricco patrimonio folklorico del Paese, dimostra come la stessa non sia solo tango e milonga, ma molto, molto di più.

Fausto Ferraiuolo – “Il dono” – abeat 212
La genesi di questo album viene esplicitata dallo stesso leader laddove afferma da un canto che il progetto è nato dall’incontro con Jeff Ballard conosciuto molti anni addietro durante una masterclass a Siena, dall’altro che “Il dono” è per lui quello dell’incontro, per cui “donare o ricevere sono due aspetti dello stesso gesto”. Gesto che si concretizza in questo album in cui il musicista napoletano, ben sostenuto da Aldo Vigorito al basso, suo ‘storico’ compagno d’avventure musicali, e dal già citato Jeff Ballard alla batteria (particolarmente importante la sua militanza nel trio di Brad Meldhau), presenta undici brani tutti di sua composizione, eccezion fatta per “O Impro Mio” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard), “Improtune” (Ferraiuolo-Vigorito-Ballard) e “Somebody Loves Me” (George Gershwin). I pezzi originali, per esplicita ammissione dello stesso pianista, sono dedicati alle persone a lui più care. La caratura dell’album appare evidente sin dal primo brano, “Fire Island”: i tre si muovono su un piano di assoluta parità ritagliandosi spazi appropriati (ad esempio in questo brano possiamo già gustare un preciso e gustoso assolo di Aldo Vigorito). Nasce da qui una musica che si inscrive nell’alveo del jazz canonico, con improvvisazioni serrate (particolarmente azzeccata quella sulla falsa riga di “O sole mio” trasformato in “O impro mio”), scambi trascinanti, ricerca di suadenti linee melodiche (particolarmente apprezzate da chi scrive quelle di “4 Septembre” e “C’est tout”) mentre in “Baires” specie nella parte finale si avverte una certa influenza ‘tanguera”. Infine “Improtune” si avventura su terreni contigui al free per tornare ad atmosfere più consuete con la convincente interpretazione del gershwiano “Somebody Loves Me”.

Tommaso Gambini – “The Machine Stops” – Workin’ Label 37
Ecco un’altra prima discografica: protagonista il chitarrista Tommaso Gambini torinese ma newyorkese di adozione, alla testa di un gruppo ad organico variabile composto dai suoi abituali collaboratori Manuel Schmiedel al pianoforte, Ben Tiberio al contrabbasso e Adam Arruda alla batteria cui si aggiungono l’alto sassofonista olandese Ben Van Gelder, il tenor sassofonista e compositore americano Dayna Stephens, il clarinettista Jacopo Albini e la flautista Anggie Obin. In scaletta sette brani tutti firmati dal chitarrista, e riferiti al racconto omonimo dello scrittore inglese Edward Morgan Forster del 1909, racconto che paradossalmente sembra avere molti punti di contatto con la tragica realtà di oggi. Forster parla di una Macchina inventata dall’uomo che prende il sopravvento sulla nostra stessa volontà; sostituite i termini Macchina con Virus e il gioco è fatto. Quindi, almeno sulla carta, si tratta di un concept album. Ma, come al solito in questi casi si pone l’interrogativo: è riuscita la musica a tradurre in suoni tali concetti? Francamente non del tutto; non ho sentito quel clima, cupo, drammatico che forse meglio si sarebbe attagliato alla situazione di cui sopra. Ad onor del vero, il brano d’apertura, anche grazie all’inserto parlato tratto dal volume in oggetto, riflette bene il clima dello stesso ma nei brani successivi è come se l’atmosfera si addolcisse e quindi la tensione si allentasse. Comunque, onestamente, non ho letto il racconto per cui potrebbe darsi che anche i successivi pezzi riflettano in qualche modo i contenuti dello scritto. Ma tutto ciò è abbastanza irrilevante in quanto poco toglie alla valenza dell’album che risulta apprezzabile: Gambini scrive bene, arrangia altrettanto bene e come chitarrista si è fatto ampiamente conoscere collaborando con jazzisti quali Antonio Sanchez, George Garzone, Miguel Zenon e non si lavora con personaggi del genere se non sei più che bravo.

Erroll Garner – “Octave” – Mack Avenue 02
Erroll Garner è sicuramente uno dei giganti della musica jazz. La “Octave Remastered Series”, prodotta da Peter Lockhart e Steve Rosenthal, continua a riproporre alcune delle perle di questo straordinario pianista. Questo ultimo album include nove pezzi tratti da tre album “That’s My Kick” registrato nel 1967 con Milt Hinton basso, Herbert Lovelle e George Jenkins batteria, José Mangual e Johnny Pacheco congas, Wally Richardson e Art Ryerson chitarra; “Up In Erroll’s Room” del novembre dello stesso 1967 con Ike Isaacs basso, Jimmie Smith batteria, Jose Mangual congas featuring “The Brass Bed”; e “Feeling Is Believing” del 1969 con Wally Richardson chitarra, Joe Cocuzzo, Jimmie Smith e Charlie Persip batteria, Jose Mangual congas, Jerry Jemmott e George Duvivier basso. Per chi conosce il jazz, credo bastino solo queste note per comprendere come si tratti di musica di assoluta livello, registrata quando il pianista di Pittsburgh stava vivendo uno dei suoi tanti momenti positivi. In particolare i brani contenuti nell’album ci mostrano un Garner alla testa di formazioni diverse ma che sempre sono in grado di seguire con partecipazione le idee del leader, il cui pianismo, smagliante, mai conosce un attimo di stasi, di indecisione. E siamo sicuri che anche l’ascolto di questo album aprirà una dialettica, a mio avviso del tutto inutile, tra chi considera Garner un assoluto genio musicale (ed io sono tra questi) e chi invece lo valuta pianista di eccellente tecnica ma troppo dedito a inutili virtuosismi.

Giulio Gentile / Emanuela Di Benedetto – “There’s no Place Like Home” – artesuono 192
Album d’esordio per il pianista Giulio Gentile e la vocalist Emanuela Di Benedetto che da giovani appassionati di musica Jazz, hanno poi studiato al dipartimento Jazz del Conservatorio “Luisa D’Annunzio” di Pescara. Il duo nasce nel 2012 e si fortifica attraverso la partecipazione a numerosi festival, tra cui “MuntagninJazz”, “La Settimana Mozartiana”, il “Castelbuono Jazz Festival”, la rassegna “Sabato in Concerto Jazz” per “Archivi Sonori”. Presto arrivano anche i primi riconoscimenti come il Premio “BEST BAND” al “Bucharest International Jazz Competition 2016”, l’affermazione al “Premio Marco Tamburini 2016” per la sezione band mentre nel 2017 sono vincitori del “Premio Nazionale delle Arti” sezione Jazz tenutosi a Milano Logico, quindi, che si giungesse a questo primo album il cui organico è completato dal batterista Marcello Di Leonardo, dal bassista Luca Bulgarelli, dal sassofonista Manuel Trabucco e dal flicornista Jorge Ro. In repertorio otto brani con musica di Gentile e testi della vocalist. Tenendo conto che si tratta di una ‘prima’ assoluta, l’album presenta note positive riscontrabili soprattutto nella bella intesa tra voce e pianoforte, nella delicatezza dei temi proposti, nella eleganza con cui si manifesta l’amore per la musica e nell’attenzione con cui si guarda alla realtà di oggi. Ecco quindi un omaggio alla città di New York da parte di una giovane donna, una dichiarazione d’amore verso una natura che si vorrebbe più tutelata, un grido di dolore per la lontananza dell’amato/a, un ritratto dell’emigrazione ricco di poesia.

Dimitri Grechi Espinoza – “The Spiritual Way” – ponderosa 147
Nel panorama musicale internazionale Dimitri Grechi Espinoza si è oramai ritagliato uno spazio ben preciso grazie alla sua ricerca che conduce oramai da tempo e che si sostanzia nel progetto Oreb, il monte dove Mosé incontrò Dio. E credo basti questo solo elemento per capire la dimensione in cui opera il sassofonista. Anche questo suo ultimo lavoro, intitolato “The Spiritual Way” per la Ponderosa Music Records, si inserisce, dunque, in quella ricerca che attraverso la musica conduce all’estasi. In particolare in questo terzo volume di Oreb, Dimitri affronta il tema delle virtù spirituali, dando eco e risonanza a uno scritto della tradizione cinese che delinea un percorso di ascesi interiore. Il tutto espresso, ovviamente, attraverso una musica la cui particolarità può essere facilmente percepita se solo la si ascolti con un minimo di attenzione e cuore aperto. In compagnia del suo fido sax tenore, Dimitri ha inciso questo album nel febbraio del 2019 in una località del tutto particolare come il Battistero di Pisa di San Giovanni in Piazza dei Miracoli, un luogo che data la sua particolare acustica è risultato fondamentale per la riuscita dell’impresa. Ed in effetti l‘artista pone a base della sua ricerca anche il rapporto fra suono e spazio-sonoro e il suo significato spirituale. Il suono del sax si staglia stentoreo, preciso, nitido, straordinariamente coinvolgente, ricco di riverberi, che richiama altri grandi del passato primo fra tutti il John Coltrane nella versione più intimista e spirituale. Così il sassofonista ci trascina in un mondo “altro”, un mondo in cui noi tutti avremmo forse voglia di rifugiarci dato il terribile momento che stiamo attraversando.

Hiromi – “Spectrum” – Telarc 0081
Vulcanica, tecnicamente fortissima, semplicemente straordinaria: questi gli apprezzamenti che critici e pubblici di tutto il mondo hanno rivolto a Hiromi Uehara una delle più talentuose protagoniste della nuova scena jazz internazionale. La pianista giapponese (classe 1979) si è messa in luce già da bambina e durante tutti questi anni non ha fatto altro che studiare, suonare, studiare e suonare affinando una tecnica davvero strepitosa e migliorando notevolmente anche l’interpretazione. Queste doti vengono tutte in luce in questo album per solo piano registrato in Giappone nel settembre del 2019. E’ interessante sottolineare come questo sia solo il secondo CD registrato dalla Hiromi per piano solo dopo “Place to Be” del 2009 a conferma di quanto l’artista sia attenta a misurare le proprie capacità. E così “Spectrum” si segnala come una delle migliori prove della pianista che si conferma non solo strumentista in possesso di una conoscenza profonda della tastiera, capace di padroneggiare diversi linguaggi, ma anche interprete raffinata, attenta ad ogni aspetto della sua performance. Hiromi accarezza letteralmente ogni tasto dello strumento, dando a ciascuna nota un suo peso specifico cosicché l’esecuzione raggiunge livelli di profondità non facilmente eguagliabili. Cosa che si nota sia nei brani originali, sia nei pezzi già famosi come “Blackbird” di Lennon-McCartney, “Rhapsody in Various Shades of Blue” ovvero “Rhapsody in blue” corredata da varie interpolazioni, alcune originali altre tratte da “Blue Train” di John Coltrane e “Behind Blue Eyes” di Pete Townshend. Splendida la chiusura affidata ad un melodico “Sepia Effect”.

Karabà – “Viola” – emme record 1916
“Viola” è il secondo album dei Karabà, al secolo Alessandro Casciaro al pianoforte e compositore dei brani, Alberto Stefanizzi alla batteria e Stefano Rielli al contrabbasso.
Il gruppo si muove con grande intesa cementata dal fatto che i tre suonano assieme dal 2016 essendo riusciti, cosa non sempre scontata, a fondere le proprie forti personalità in un unicum assolutamente credibile. Anche perché Karabà si tiene ben lontano da sterili sperimentazioni muovendosi su terreni prettamente jazzistici, senza se e senza ma, un jazz indubbiamente moderno ma che nulla dimentica degli insegnamenti del passato. Il tutto agevolato, se non determinato, dalla buona penna di Alessandro Casciaro compositore di otto brani (su nove); l’unico pezzo non originale è “Tonight Tonight” che chiude il disco; si tratta di un riarrangiamento per piano solo del celebre brano degli Smashing Pumpkins che grazie all’estro di Alessandro Casciaro prende nuovo lustro, senza nulla perdere dell’originario fascino. Tornando alle composizioni di Casciaro, le stesse se da un canto esaltano la forza del collettivo, dall’altro offrono ad ognuno dei musicisti la possibilità di esporre appieno le proprie potenzialità. Così, sulla scorta di melodie ben disegnate e di armonizzazioni ricercate, Casciaro ha modo di esporre il suo pianismo sempre essenziale, ben sostenuto da una sezione ritmica affiatata, precisa e, come già detto, capace di prendere in mano il filo del discorso. I brani sono tutti gradevoli anche se personalmente ho preferito “Parco bello luogo” per gli espliciti richiami al bebop grazie soprattutto ad un poderoso assolo di Stefano Rielli e “Primavera 19” per la delicatezza della linea melodica.

Riccardo Morpurgo- “Kaleidoscopic” – artesuono 184
Morpurgo, Maier, Ricci – “” – Palomar records 58
Il pianista Riccardo Morpurgo è presente in due titoli usciti di recente.
Nel primo è alla guida del Mandala Trio completato da Alessandro Turchet al contrabbasso e Luca Colussi alla batteria, vale a dire una delle più affiatate e valide sezioni ritmiche che il jazz italiano possa vantare. Il nome del gruppo è di per sé indicativo: il termine “mandala” si riferisce alle culture buddiste e induiste, e si tratta di immagini geometriche usate per trovare l’equilibrio, l’essenza del proprio essere. Ecco, partendo da queste premesse il trio si avventura in un percorso piuttosto accidentato, declinato attraverso dieci composizioni dello stesso Morpurgo. L’intento è quello di trovare un equilibrio tra pagina scritta e improvvisazione dal momento che, per esplicita ammissione dello stesso pianista, i tre alternano momenti di assoluta coerenza ad una struttura data a momenti in cui si svincolano da qualsivoglia legame e si lanciano in improvvisazioni totali. Evidentemente i momenti più interessanti sono proprio questi in cui Morpurgo e compagni si lasciano andare con risultati eccellenti sia per la bravura del leader sia per quella compattezza ed intesa batteria-contrabbasso cui prima si faceva riferimento. Quindi un disco non facile ma di sicuro interesse.
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Nel secondo album – “Mesmer” – Morpurgo è ancora in trio ma con Giovanni Maier al contrabbasso e Pietro Ricci alla batteria; l’album esce per la ‘Palomar records’ una piccola etichetta fondata e curata da Giovanni Maier, che lavora esclusivamente in autoproduzione e con tirature limitate. Questo “Mesmer” è dedicato quasi totalmente alle musiche di Paul Motian in quanto sei delle composizioni presentate sono del batterista (la settima è invece di Charlie Haden). Il risultato è più che eccellente data da un canto la valenza delle composizioni che lumeggiano al meglio la capacità di scrittura di Motian spesso non adeguatamente valorizzata, dall’altro la capacità del trio di renderle proprie e quindi di reinterpretarle in modo personale ma pertinente. Si parte con “Psalm” title track dell’omonimo album registrato nel dicembre 1981 dal gruppo comprendente Paul Motian, Bill Frisell alla chitarra, Joe Lovano al sax tenore, Billy Drewes ai sax tenore e alto, Ed Schuller al basso e si chiude con “Mesmer” tratto dall’album “Garden of Eden” del 2004. Per tutta la durata dell’album i tra si muovono quasi con cautela, rifuggendo da qualsivoglia esibizione di bravura tecnica e affidandosi molto all’interpretazione. Di qui una musica suggestiva, misurata, spesso eseguita per sottrazione senza che però venga compressa l’abilità individuale. Si ascolti ad esempio il magnifico duetto basso batteria in “Morpion” tratto dall’album “One Time Out” (Blue Note 1987).

Marius Neset, London Sinfonietta – “Viaduct” – ACT 9048-2
Il sassofonista norvegese Marius Neset (Bergen 1985) si ripresenta al pubblico del jazz alla testa del suo gruppo anglo-scandinavo (Ivo Neame piano, Jim Hart vibrafono, marimba e percussioni, Petter Eldh basso, Anton Eger batteria e percussioni) con il robusto supporto della London Sinfonietta, complesso di ben 19 elementi diretta da Geoffrey Paterson con cui Neset, sempre per la ACT, aveva già inciso nel 2016 l’album “Snowmelt”. Neset è a ben ragione considerato uno dei migliori jazzisti delle nuove generazioni tanto che la rivista Downbeat lo considera non solo uno dei più eccitanti artisti jazz del momento ma anche un musicista di straordinaria preparazione tecnica dotato altresì di una felice vena compositiva. Doti, queste, che risaltano evidenti anche da quest’ultimo album, contenente un paio di suite intitolate rispettivamente “Viaduct part 1” in 6 capitoli e “Viaduct part.2” in 4 elementi. Originariamente commissionata per il concerto d’apertura del Kongsberg Jazz Festival nel 2018, “Viaduct” ha offerto a Neset la fantastica opportunità di mostrare le molteplici facce del suo stile, così composito, ricco di richiami, colorito e soprattutto capace di convogliare numerosi input provenienti da fonti diverse. Il suo sassofono è sempre preciso, con un sound potente sia al tenore sia al soprano, che richiama sia il migliore Brecker sia il grandissimo Garbarek, capace di dettare le atmosfere che si respirano per tutta la durata dell’album. Certo, la bravura di Neset come sassofonista è indubbia, ma non sarebbe stata sufficiente a determinare la bontà dell’album se non fosse stata declinata attraverso le dieci composizioni originali dello stesso Neset che riescono a coniugare il jazz propriamente inteso, ricco quindi anche di improvvisazione, con la musica classica contemporanea.

Enrico Pieranunzi – “Frame” – Cam J 7955 2
Enrico Pieranunzi è musicista colto e in quanto tale ‘aperto’ verso tutte le altre forme artistiche. Nel passato, anche recente, ne abbiamo avuto prova evidente riscontrando la sua profonda predilezione per il cinema e le colonne sonore. Si ricordi, ad esempio, il concerto organizzato il 20 febbraio scorso dall’Ambasciata d’Italia e dall’Istituto di Cultura Italiana a Washington in occasione del centenario della nascita di Federico Fellini, con Enrico Pieranunzi, accompagnato da Luca Bulgarelli al basso e da Mauro Beggio alla batteria, impegnato in un repertorio interamente dedicato alle colonne sonore del maestro romagnolo. In questo album l’interesse del pianista romano è rivolto alle arti figurative: immaginatevi una galleria d’arte in cui sono esposti i capolavori di Pollock, Hopper, Picasso, Paul Klee, Rothko, Matisse e Mondrian; Enrico si sofferma dinnanzi ad ogni quadro e disegna, in splendida solitudine, con le note del pianoforte o alla celesta, un affresco da inserire in una ipotetica ‘cornice’, “Frame” per l’appunto. L’effetto è quanto meno intrigante: Pieranunzi non si smentisce e la sua arte pianistica rifulge sempre luminosa sia che si avventuri in stupefacenti e trascinanti avventure magari con illustri partner d’oltre oceano, sia, come in questo caso, che si rivolga di più al suo coté intimista regalandoci una serie di bozzetti che illustrano meglio di mille parole le sue riflessioni determinate dai pittori sopra citati. Un’ultima considerazione: capita sempre più spesso che la data di pubblicazione di un disco sia di molto posteriore alla sua incisione; ad esempio questo album è stato registrato nel 2012 ma pubblicato solo nel febbraio di questo non felicissimo 2020.

Andreas Schaerer, Hildegard Lernt Fliegen – “The Waves Are Rising, Dear!
Già altre volte, questa testata si è occupata di Andreas Schaerer sottolineandone le innumerevoli virtù e la capacità di interpretare più parti in commedia dal momento che la sua arte gli consente di fare non solo ciò che hanno fatto i più grandi vocalist del jazz, ma di esibirsi come “beatboxer”, di imitare vari strumenti e di improvvisare con uno scat inventivo e trascinante. Questa volta lo svizzero di Berna si presenta alla testa del suo gruppo “Hildegard Lernt Fliegen” il più creativo e originale progetto musicale che la Svizzera abbia potuto offrire in questi ultimi anni. In effetti una performance del gruppo è sempre qualcosa di straordinario dal momento che è difficile stabilire se si tratti di un concerto jazz, rock, rap, di cabaret, di musica da circo (si ascolti, ad esempio il brano d’apertura “Dripping Pint”) con incursioni sempre misurate anche nel mondo dell’elettronica. Ad assecondare le acrobazie vocali di Andreas cinque solisti di eccellenza quali il trombonista e tubista Andreas Tschopp, i sassofonisti Matthias Wenger e Benedikt Reising (che si ascoltano rispettivamente anche al flauto e al clarinetto basso), il bassista Marco Muller e Christoph Steiner alla batteria e alla marimba. Il tutto rinforzato, purtroppo in un solo brano “Embraced By The Earth” dalla presenza del celebrato fisarmonicista francese Vincent Peirani e dalla intensa voce di Jessana Némitz. Così la musica scorre impetuosa, tutt’altro che banale, lontana da qualsivoglia piacevolezza superficiale in cui l’ascoltatore è coinvolto nella sua totalità, mente e corpo, emozione e intelletto. Da questo punto di vista è difficile scegliere in particolare qualche brano anche se personalmente ho maggiormente apprezzato il già citato pezzo in cui si ascoltano anche Peirani e la Némitz e il brano di chiusura “Love Warrior: Part I-IV” che si muove su coordinate più spiccatamente jazzistiche.

Ian Shaw – “Integrity” – abeat 01
Il cantante, pianista e songwriter inglese Ian Shaw è considerato, insieme a Mark Murphy e Kurt Elling, uno dei migliori cantanti jazz di sesso maschile di tutto il mondo. Lo evidenziano i tanti riconoscimenti ottenuti in questi anni: miglior Vocalist Jazz ai BBC Jazz Awards nel 2007 e nel 2004, e nomination nella categoria Miglior Vocalist del Regno Unito ai JazzFM Awards nel 2013… In questo album Ian è accompagnato da un trio italiano composto da Alessandro Di Liberto al piano, Tommaso Scannapieco al basso ed Enzo Zirilli alla batteria. In programma accanto ad alcuni grandi classici ‘leggeri’ come “People”, cavallo di battaglia di Barbara Streisand dal film “Funny girl” del 1964 (arrangiato per l’occasione da Di Liberto), e “Smile” di Charlie Chaplin arrangiata da Enzo Zirilli, ecco alcuni standards del jazz tra i meno battuti come “Use me” di Bill Withers che chiude l’intero disco. In tutti i brani risalta evidente il ruolo svolto dagli strumentisti che riescono a intessere un tappeto ritmico-armonico in cui si inserisce con assoluta pertinenza la voce di Ian Shaw che, dal canto suo, evidenzia una maturità espressiva non comune. Di solito quando si ascolta un disco il cui leader è un cantante (indipendentemente dal sesso) la formula è quella del vocalist con accompagnamento. In questo caso la situazione è completamente diversa in quanto il gruppo appare perfettamente coeso e si muove all’unisono dando ad ognuno la possibilità di mettersi in evidenza. Certo, Ian Shaw è la stella dell’album e la sua prestazione è assolutamente all’altezza dei suoi precedenti album che hanno giustificato, nel tempo, i riconoscimenti cui in apertura si faceva riferimento. I brani sono tutti notevoli con una preferenza, del tutto personale, per il celeberrimo “Smile” di Charlie Chaplin.

Djime Sissoko, Djama Djigui – “Kabako” – Caligola 2272
Tutti conosciamo Baba Sissoko; ebbene Djime è il di lui nipote che vive a Bamako in Mali. Come si dice buon sangue non mente e anche questo artista è degno della massima attenzione. Si badi bene, però: la sua musica non è quella sorta di jazz fortemente contaminato dall’Africa che ha reso famoso Baba; qui siamo sul terreno della musica africana, meglio maliana, lontana da qualsivoglia contaminazione e proprio per questo di grande fascino. Djime si presenta alla testa del suo gruppo, “Djama Djigui” una formazione assolutamente particolare in quanto composta da fratelli, cugini, vicini che sono cresciuti assieme, discendenti della grande famiglia dei Griot Sissoko, tra cui ovviamente il più volte citato Baba. L’album, oltre della maestria del leader al ngoni (strumento a corda proprio dell’Africa occidentale) e al tama (strumento a percussione sempre dell’Africa occidentale) e dello straordinario affiatamento del gruppo, si avvale della splendida voce della moglie di Djime, Aichata Bah. Oltre a quella di Aichata, si possono altresì ascoltare le voci di Baba in “Ma Kono Djarabi” e in “Djumara Djeli”, di Sadibuou Kanté in “Djuku Ya Magnie” e di Samba Tourè in “Anka Miri”, tutti in veste di ospiti. Particolarmente significativo il brano che chiude l’album,”Tama solo”, in cui Djime Sissoko evidenzia tutto il suo virtuosismo per l’appunto al tama. “Kabako”, oramai l’avrete già capito, ci conduce in un meraviglioso viaggio attraverso il Mali grazie alla sua musica che affonda le proprie radici nella tradizione di quella terra.

Warren Wolf – “Reincarnation” – Mack Avenue1169
L’ afroamericano Warren Wolf, anche attraverso i suoi quattro precedenti album pubblicati per la Mack Avenue tra il 2005 e il 2016, si è affermato come uno dei migliori vibrafonisti degli ultimi anni e in questa nuova incisione ha chiamato accanto a sé giovani sideman e alcuni veterani. Con lui ecco quindi Brett Williams al Fender Rhodes ed al pianoforte, Richie Godds al basso elettrico e su “Livin’ the Good Life” al contrabbasso, Mark Whitfeld su due brani alla chitarra, Carroll “CV” Dashell III alla batteria ed alle percussioni e due cantanti che si alternano: Imani-Grace Cooper e Marcellus “bassman” Shepard. L’album è sostanzialmente incentrato sul R&B, sul soul e su una fusion di qualità, mentre dal punto di vista dell’ispirazione, il fattore dominante è l’amore declinato attraverso le sue mille sfaccettature; è lo stesso Wolf a chiarirlo: “Questo è un album sull’amore e la musica che mi fa stare bene – spiega Wolf – A questo punto della mia carriera, volevo solo dimostrare che posso essere versatile ed esprimermi in molti stili diversi”. Così ad esempio “For Ma” è dedicato alla madre, Celeste Wolf, deceduta nel 2015, “Sebastian e Zoë” è un delicato omaggio ai suoi due bambini più piccoli, mentre “Come And Dance With Me” è stata scritta per la moglie che è una ballerina. Da quanto sin qui detto, risulta evidente come l’album riuscirà particolarmente gradito a quanti amano la black music nella sua accezione più ampia. Tuttavia, ad opinione del vostro recensore, uno dei pezzi meglio riusciti è “Sebastian and Zoe” in cui Shepard , con espliciti riferimenti a Barry White, dialoga con Imani-Grace Cooper facendo rivivere quelle atmosfere che hanno segnato per molti di noi gli anni ’70.