“Two Ships In The Night” Dino Betti van der Noot e l’ossessione nel comporre

Conosco Dino Betti van der Noot oramai da qualche decennio; ma è sempre bello, stimolante, incontrarlo e scambiare con lui quattro chiacchiere che vanno sempre ben al di là del fatto squisitamente musicale.

Questa volta il nostro incontro è determinato dall’uscita del suo nuovo album (“Two Ships in the Night” presentato a Milano il 18 settembre in uno splendido e riuscito concerto ben recensito dal nostro Massimo Giuseppe Bianchi).

Caro Dino, da dove trai tutta questa energia che poi trasfondi nei tuoi album, come quest’ultimo arrivato – “Two Ships in the Night” – che sembra avviato a ripercorrere i successi delle tue precedenti creature?

“Sono sempre stato abituato a buttarmi a testa bassa nella realizzazione di quello che ho deciso di fare. È successo nel mio lavoro come pubblicitario, succede oggi, quando per fortuna continuo a fare musica. Non so se si tratti di energia o soltanto determinazione; oppure semplicemente dell’urgenza di esprimermi con un linguaggio che mi permette di condividere emozioni che non potrei esprimere in altro modo”.

Tu sei un musicista assolutamente anomalo: ti esibisci dal vivo molto raramente, non suoni (almeno in pubblico) alcuno strumento ma ti limiti – si fa per dire – a comporre, assemblare big band sempre di notevole caratura e dirigerle durante le registrazioni. A cosa attribuisci questo successo che oramai ti arride da tanto tempo?

“In realtà ho suonato diversi strumenti, ma conosco bene i miei limiti come strumentista: meglio che non suoni né la mia musica né quella di altri. Credo che questo limite sia una delle ragioni che mi hanno spinto a comporre musica da far suonare ad altri musicisti. Aggiungi il fatto che (come facevo notare a Marcello Lorrai) sono rimasto folgorato dall’esperienza di suonare il violino in un’orchestra sinfonica e che, quando ho scoperto il jazz, sono stato affascinato dal Kenton del 1949/50 e dall’Herman con le composizioni di Ralph Burns: ecco perché la big band è stata una scelta istintiva. Se di successo vuoi parlare (ma cosa è il successo?), credo che quello che mi distingue è l’aver dato una nuova timbrica alla classica big band e non aver badato a mode o tendenze, facendo una mia strada personale, staccandomi sia istintivamente sia consciamente da modelli anche molto amati, primo fra tutti Ellington”.

Puoi parlarci di questo ultimo album. Da cosa hai tratto ispirazione?

“La risposta che mi viene immediata è: non lo so. Pensandoci bene, ci sono, nascosti lì dentro, momenti che mi hanno emozionato – magari legati alla natura, al mare – e pensieri che mi girano per la testa se rifletto al tempo che stiamo attraversando. Tuttavia, tutto è molto sfumato e, davvero, mi è difficile rispondere. I titoli dei brani possono darti una risposta, perché indicano con una certa chiarezza le sensazioni che vogliono evocare (specifico: non descrivere qualcosa di concreto). The Deafening Silence of the Stars quel senso di infinito che sembra schiacciarti quando sei, nel buio, sotto a un cielo stellato. Those Invisible Wings è semplicemente il piacere di fare musica, le ali chi ti dà la musica. A Thousand Twangling Instruments mi sembra possa calzare su misura su una lamentela di Caliban ne La Tempesta di Shakespeare. Blue Gal of My Life è una delicata ballad dedicata a mia moglie. Something Old, Something New: Somehow Blues è una rivisitazione di quell’archetipo dal quale non possiamo staccarci che si chiama blues. Two Ships in the Night, infine, è nato nel ricordo di una splendida lirica di Longfellow, che è diventata letteralmente un modo di esprimere una condizione umana nei Paesi di lingua inglese. Ma, in fondo, la musica è per sua natura asemantica e vale la pena di ascoltarla semplicemente lasciandosi prendere dall’emozione (se c’è), senza retropensieri”.

Come si svolge il tuo processo creativo?

“Generalmente qualcosa inizia a ronzarmi nel cervello, diventando quasi un’ossessione. Poi cerco di scaricare l’ossessione sui tasti del pianoforte e, man mano, la musica sembra nascere quasi autonomamente, sviluppandosi man mano e suggerendo un ventaglio di strade possibili. Prende forma man mano il percorso compositivo, sia dal punto di vista dello sviluppo a partire dal tema, sia da quello timbrico, sia per le occasioni e l’espressività delle improvvisazioni: tutto contenuto, in nuce, in quella prima ossessione. Poi comincia il lavoro che definirei più “artigianale”, vale a dire la decostruzione delle frasi melodiche in maniera da spostarne gli accenti fuori dagli schemi prevedibili (Massimo Bianchi ha scritto “destabilizzate ritmicamente”) e l’orchestrazione vera e propria. In fondo, però, tutto questo va bene, ma la parte più importante è l’intuizione; quella cosa che, una volta finito tutto, e magari anche registrato, ti fa pensare: ma chi ha composto questa musica? Io no, non ne sono capace…”.

Come ben sai ti seguo da molti anni e mai ho notato un attimo di stanca nelle tue composizioni che, a mio avviso, hanno una sorta di andamento narrativo come se volessero prendere per mano l’ascoltatore portandolo da un punto non meglio definito in un altro punto altrettanto non definito ma di straordinaria fascinazione. Quanto c’è di vero in queste mie sensazioni?

“Quando mi è sembrato di non essere in grado di dire qualcosa che, almeno per me, potesse essere interessante, mi sono fermato: c’è tanta bella musica già esistente che bisogna avere un certo coraggio per proporne dell’altra. E, rispetto alla produzione di molti jazzisti, la mia è decisamente limitata, ma regolarmente non riesco a resistere al bisogno di esprimermi attraverso le note. Le tue sensazioni sono corrette: cerco di instaurare un dialogo, sia con i musicisti che eseguono la mia musica sia con chi l’ascolta, attraverso percorsi spesso tortuosi, con episodi magari contrastanti fra loro, per evocare qualcosa che ognuno potrà interpretare secondo la propria personalità ed esperienza”.

E parliamo adesso dello “strumento” di cui ti servi per esprimere le tue idee: la big band. Con quale criterio scegli i musicisti che ne fanno parte, ti affidi solo a un ‘concetto’ musicale o cerchi anche una qualche affinità umana, una sorta di “idem sentire”?

“Ci sono molti elementi che concorrono: il talento musicale, la capacità tecnica, la disponibilità a mettersi in gioco in situazioni fuori dagli standard, ma anche il lato umano, che è sfociato in questi anni in un forte sentimento di calda amicizia e nel desiderio di fare delle cose insieme. Il tipo di musica che propongo vorrebbe stimolare tutti ad andare oltre a quello che si è fatto fino a quel momento, o comunque a cercare di percorrere strade nuove”.

C’è qualche modello orchestrale cui ti riferisci anche se, ad onor del vero, faccio fatica ad individuarne uno ben preciso?

“Sai che non lo so? Forse a tutti, cercando di trovare una via per uscirne…”.

Che importanza, che ruolo gioca l’improvvisazione nei tuoi concerti e quindi nei tuoi album?

“Sono due momenti molto differenti. In ogni caso (credo di averlo già fatto notare in passato) cerco di fare in modo che le parti scritte sembrino improvvisate e che le improvvisazioni siano il completamento logico ed emozionale di quelle. Questo è uno dei motivi della mia scelta di avere spesso improvvisazioni a più voci, che dialogano e interagiscono, creando una complessa composizione istantanea all’interno del brano. Le improvvisazioni sono comunque parte integrante delle composizioni”.

Quale di questi tre elementi – melodia, armonia, ritmo – ritieni più importante nella tua musica?

“Sono tutti ugualmente importanti, anche se in questi ultimi tempi sto approfondendo la ricerca di una poliritmia più accentuata. Ma a questi tre elementi aggiungerei il colore orchestrale”.

Ascoltando più volte “Two Ships…” il brano che maggiormente mi ha colpito è stato sempre “A Thousand Twangling Instruments”; questo pezzo ha per te un significato particolare?

“È un tema che ho scritto molti anni fa e che, finalmente, sono riuscito a eseguire come pensavo dovesse essere eseguito. L’integrazione della batteria di Stefano Bertoli, delle percussioni di Tiziano Tononi e del tabla di Federico Sanesi è stata la chiave per arrivare a questo risultato. Ma anche tutti gli altri musicisti coinvolti hanno giocato un ruolo essenziale, ognuno con la sua voce personalissima – la somma di queste voci crea il suono dell’orchestra – sia negli insieme, sia nelle improvvisazioni: in questo caso di Vincenzo Zitello, Sandro Cerino e Niccolò Cattaneo”.

A cosa attribuisci il fatto che oramai i grossi mezzi di informazione quasi non si occupano più di jazz?

“Qualcuno ha definito il jazz come la musica di una minoranza destinata a una minoranza. E le minoranze non fanno audience. Poi, cosa è, o cosa dovrebbe essere, il jazz? Dal mio punto di vista – ed è per questo che ho scelto il jazz come espressione – dovrebbe essere qualcosa di continuamente in movimento, alla ricerca di strade nuove, di nuovi modi di espressione. Dovrebbe rappresentare un approfondimento di temi e pensieri di origini totalmente diverse per arrivare a un risultato complessivo originale. Ma è sempre così? Ed è comodo per i mass media?”.

Internet, a parte indubbi meriti, è comunque diventato una sorta di ricettacolo per chiunque voglia misurarsi con la scrittura e la critica musicale in particolare. Di qui un profluvio di castronerie difficile da arginare. Cosa pensi al riguardo?

“Basta non leggere oltre, appena ti accorgi che c’è qualcosa che non torna. D’altra parte, è molto difficile limitare la libera espressione, in rete, anche se questo porta a una proliferazione di fake news. Tuttavia, purtroppo, proprio le bufale raggiungono livelli notevoli di lettura e apprezzamento. Ci vorrebbe un vaccino specifico, ma temo che anche in questo caso nascerebbe un movimento no-vax”.

Cosa pensi di due fenomeni sempre più presenti nel nostro panorama: cantanti, anche famosi, di musica leggera che ripresentano le loro composizioni con una venatura di jazz; la presenza di pop-star nei festival jazz, pop star cui spesso è affidata o l’apertura o la chiusura di tali manifestazioni.

“Business e audience: ti dice qualcosa?”.

Guardandoti attorno sia in Italia sia nel mondo quali sono i “nuovi” musicisti che più ti affascinano?

“Confesso di essere fondamentalmente interessato ai musicisti che suonano la mia musica. So che non è la risposta che ti aspetti, ma davvero sono affascinato da come, tutti, rispondono agli stimoli che cerco di passare loro. Ne ho ricordati sei, poco fa, ma lasciameli ricordare tutti, perché ognuno, con le sue specifiche caratteristiche stilistiche e il suo suono, è essenziale nella costruzione del sound orchestrale complessivo, oltre che per gli interventi improvvisativi. Gianpiero LoBello, grande prima tromba; Alberto Mandarini, raffinatissimo alla tromba e al flicorno; Mario Mariotti, che ha firmato il suo primo assolo in questo album; Paolo De Ceglie, ecco un giovane che promette molto bene; Luca Begonia, con il suo trombone acrobatico; Stefano Calcagno, che man mano sta trovando il suo spazio; Enrico Allavena, un altro giovane promettente; Gianfranco Marchesi, la base solida su cui poggiano gli altri tromboni; Giulio Visibelli, che esce prepotentemente con due assoli memorabili; Andrea Ciceri, entrato subito nello spirito di questa musica; Rudi Manzoli, che troverà più spazio in futuro (l’ha già trovato in concerto); Giberto Tarocco, polistrumentista estremamente duttile; Luca Gusella, solista elegante e raffinato; Emanuele Parrini, voce indispensabile sia negli insieme sia dal punto di vista solistico; Filippo Rinaldo, il più giovane, ma già con una personalità notevole; Gianluca Alberti, in un libero dialogo continuo con orchestra e solisti”.

Che tipo di musica ascolti?

“Pino Candini, molti anni fa, mi ha definito “onnivoro”. Ti basta se ti dico che tendo ad ascoltare soltanto buona musica?”.

Quale, per te, il rapporto tra il jazz e le altre arti?

“È variato molto negli anni, anche perché il jazz ha vissuto periodi completamente diversi fra loro. Certamente può ispirare opere visive: ci sono opere di mia figlia Allegra, le “Immagini Retiniche”, che hanno la stessa immediatezza di una improvvisazione jazzistica; e non è casuale che io le abbia chiesto di poterle utilizzare per le copertine dei miei album. D’altra parte, Giorgio Gaslini aveva paragonato alcune mie composizioni a tele di Pollock piuttosto che di Rothko o di Klee. Poi c’è la poesia, e personalmente ho avuto la fortuna di musicare bellissime poesie di Stash Luczkiw e Lou Faithlines. Ma qui il discorso diventerebbe molto lungo, perché bisognerebbe analizzare che cosa si intende davvero per poesia”.

Oggi, musica a parte, viviamo un periodo storico particolarmente difficile e impegnativo. Quale pensi debba essere il ruolo del musicista – e in particolare del jazzista – nella società di oggi?

“Mantenere in vita un senso poetico, che mi sembra piuttosto assente in gran parte della vita di ogni giorno, stimolando una partecipazione attiva e una comunicazione fra artisti e pubblico. È qualcosa cui il jazz, per le sue peculiarità, mi sembra particolarmente vocato”.

Se dovessi tornare indietro nel tempo, c’è qualcosa che non rifaresti?

“Qualcosa che non ho fatto”.

Il tuo sogno nel cassetto?

“Riuscire a fare un ciclo di concerti con questo gruppo di musicisti straordinari: qualcosa che giustifichi sessioni di prove più lunghe di un pomeriggio in cui si deve fare anche il sound check”.

Gerlando Gatto

Stefano Maltese: l’avanguardia è spontaneità

Siciliano di Palermo ma siracusano d’adozione, classe 1955, pittore, compositore, arrangiatore polistrumentista – saxofoni, clarinetti, flauti, pianoforte, chitarra, basso, mandolino, percussioni – Stefano Maltese è oramai da anni artista di punta della scena jazzistica non solo italiana. Giovanissimo inizia l’attività artistica nel campo delle arti visive, esponendo già dal 1969. La pittura lo tiene impegnato fino al 1977, quando decide di dedicarsi esclusivamente alla musica sviluppando strutture compositive in cui scrittura e improvvisazione si bilanciano sì da creare un mix di grande originalità. Parallelamente sviluppa come strumentista un linguaggio assolutamente personale che mette al servizio delle molte formazioni da lui create: dal quartetto di sassofoni al duo, dal trio al quartetto, all’orchestra, cui si affiancano numerose solo performance. E proseguire elencando i moltissimi successi ottenuti da Stefano sarebbe davvero inutile in questa sede: basti dire che la sua fama va ben oltre i confini nazionali e che suoi estimatori sono e sono stati artisti di assoluto livello quali, tanto per fare solo qualche nome, Marilyn Crispell, Steve Lacy, John Tchicai.

L’ho incontrato in occasione della recente visita in Sicilia per la presentazione del mio volume “L’altra metà del jazz”.

-In Sicilia ci sono tanti eccellenti musicisti jazz; come te lo spieghi?

“Credo che una certa formazione antropologica del siciliano gli consenta di interessarsi ad una musica sicuramente di derivazione afro-americana.  Forse sarà banale ma le nostre radici che sono di varie provenienze, ricordando le varie invasioni e le tante “visite” di svariate popolazioni che abbiamo avuto nei secoli scorsi, probabilmente ci danno la possibilità di avvicinarsi a questa musica con una certa disinvoltura. Credo poi che il lavoro di alcuni di noi che hanno iniziato negli anni ‘70 può aver influito nel coinvolgere più giovani in questa espressione musicale. Sicuramente posso testimoniare, per quanto mi riguarda, che molti giovani, provenienti dalle più svariate esperienze, dalla musica classica, dalla musica da banda… e così via non hanno avuto difficoltà ad inserirsi soprattutto in quel tipo di jazz che erroneamente viene definito d’avanguardia”.

-In che senso erroneamente?

“Perché vorrei dare un certo valore alle parole. ‘Avanguardia’ mi dà l’idea di qualche drappello, di un manipolo di soldati che si lanciano oltre le linee per essere decimati dal nemico e così poter fare avanzare le retrovie… qualcosa di chiuso in una stanza dove si fa ricerca. Invece per quanto mi riguarda è sempre stata una musica del tutto spontanea e molti dei musicisti che fanno questo tipo di musica e che conosco provenire da varie parti del mondo lo fanno con estrema naturalezza, non si sono messi lì a sbattere la testa sul muro e a chiedersi ‘adesso cosa facciamo?”.

-La cosa sorprendente nella realtà siciliana è che nonostante esistano sostanziali differenze tra la parte orientale e quella occidentale dell’Isola, questa abbondanza di musicisti la trovi ovunque…

“E’ vero così come è vero che esistono quelle differenze cui tu accenni. Io credo che determinante sia il lavoro svolto o dai musicisti nelle varie zone geografiche della Sicilia o da associazioni quali il Brass Group a Palermo che per anni è stato molto presente anche a Catania e quindi ha contribuito a formare in queste due città musicisti in modo un po’ più tradizionale. Insomma, giusto per capirci, non ho nulla contro la tradizione, anzi tutto il contrario, ritengo solamente che ogni musicista dovrebbe esprimersi intanto nel modo a lui più congeniale; poi credo anche che bisognerebbe cercare di cogliere quel che gira intorno a noi e stare al passo con i tempi. Se un musicista oggi si trova a proprio agio suonando hard-bop io non ci trovo alcunché di strano. Nelle città dove non ci sono state istituzioni di un certo genere, dove c’è stata una certa maggior libertà di pensiero è successo che si sono formati musicisti maggiormente portati ad una musica più contemporanea, più attuale: è quello che è successo nella provincia di Siracusa fino a Lentini, in alcune parti dell’agrigentino… insomma nei posti meno frequentati dal mainstream”.

-Tu appartieni ad una folta schiera di musicisti che, ad onta di una notorietà non solo nazionale ma anche internazionale acquisita sul campo, hanno deciso di rimanere in Sicilia. Come mai?

“Probabilmente è qualcosa di più forte di noi che ci ha legati a questa terra perché io stesso devo ammettere che più volte ho tentato vivere fuori dalla Sicilia, mi  sono trasferito diverse volte… mi ha anche fatto bene stare in ambienti diversi… chessò negli anni ‘70 , all’inizio degli anni ’80 vivevo a Roma, ho provato anche con Milano ai tempi in cui c’erano più scambi fra musicisti ed era possibile suonare nei club non pub come adesso e  c’è una bella differenza come tu sai benissimo; questo avveniva anche in Inghilterra, ho provato anche a Parigi su consiglio di Steve Lacy che mi diceva sempre ‘tu devi stare a Parigi non a Londra, Parigi è il posto giusto’;  sai, lui viveva lì, ma Steve Lacy era un caso a parte, lui poteva vivere in ogni parte del mondo. In ogni caso ricordo che ogniqualvolta andavo via da qui, e partivo non vedendo l’ora di lasciarmi dietro le spalle questa terra piena di contraddizioni, poi quando ero fuori non vedevo l’ora di tornare perché mi mancava tutto quello che c’è qui”.

-In questo tipo di scelte quanto hanno contato gli affetti?

“All’inizio niente perché essendo molto giovane non tenevo in considerazione nulla, come purtroppo fanno tutti i giovani, si pensa solo a fare ciò che si vuol fare. Io volevo suonare, qui non era possibile e allora era meglio andare fuori. Poi gli affetti sono vari nel senso che per me c’è l’affetto anche per il luogo dove vivo, per le strade che percorrevo di notte ad Ortigia, per esempio, fra l’altro in compagni di artisti di una generazione precedente la mia: per mia grande fortuna, passeggiavo con pittori, poeti, scultori, galleristi… sembra strano ma la Sicilia era così negli anni ’70”.

-Tu hai iniziato come pittore; è un’attività che hai completamente abbandonato o qualche volta ti capita di riprendere in mano i pennelli?

“E’ vero, ho iniziato come pittore giovanissimo, ho anche raggiunto un certo successo fin troppo presto e ho abbandonato proprio perché essendo troppo giovane e idealista non volevo stare in certi ambienti in cui bisognava per forza stare al servizio dei grandi mercanti d’arte. Così ho mollato, ho smesso di dipingere o comunque di occuparmi di arti visive per tanti anni ma poi ho ricominciato e devo ammettere che da diversi anni mi chiedono di mettermi ad esporre con delle personali e in passato qualche critico d’arte abbastanza conosciuto anche in ambienti internazionali mi ha spinto molto in questo senso. Credo comunque che tornerò ad esporre perché di lavori ne ho abbastanza”.

 -Il jazz è nato come musica di protesta; in questo momento nel mondo e quindi anche nel nostro Paese viviamo un momento particolarmente delicato. A tuo avviso quale dovrebbe essere, nell’attuale contesto, il ruolo del musicista, e nello specifico del musicista jazz?

“Io non sono mai riuscito a prendere posizioni politiche con la musica; per intenderci non ho mai titolato un disco in un modo che potesse richiamare qualcosa di politico. C’è chi l’ha fatto, in buona fede, in mala fede non lo so… ti ricorderai cosa andava di moda in un certo periodo…”

-E come no. Bastava presentarsi sul palco col pugno chiuso e l’applauso scattava automaticamente senza alcun riferimento al lato artistico della performance…

“Esatto! Fra l’altro negli anni ’70 ho suonato in un gruppo di musica etnica ed in effetti qualcuno del gruppo, essendo del partito comunista di allora, aveva un certo seguito e quindi ‘hasta siempre’, ‘hasta la victoria’ e il successo era assicurato. Io ho preferito sempre esprimermi in un’altra maniera. Io credo che la musica, la bellezza in genere, quindi non solo il musicista di jazz ma ogni musicista o artista che riesca ad esprimere delle opere d’arte che possano fa riflettere, coinvolgere, al di là di qualsivoglia titolo possiamo dare a queste opere, ha già fatto un percorso. Poi io credo particolarmente nella musica, nella forza della musica – è qualcosa che sostengo da molti anni –; nei miei concerti non c’è soluzione di continuità tra i vari brani, perché voglio esplorare una certa dimensione che è al di fuori di quella che conosciamo, una dimensione che viene conosciuta in certe popolazioni tribali in cui con la trance si riesce a guarire, si riesce a dimenticare tutto quello che esiste. Ed in realtà, durante un concerto, se la musica è molto coinvolgente, i musicisti per primi, non dovendo girare foglietti per capire dove si è arrivati, ma eseguendo musica a memoria riescono ad entrare in questa dimensione e riescono ad interagire con il pubblico trasmettendo la forza di questa musica. Così succede che in questo teatro dove ci sono questi musicisti sul palco, si crea tra artisti e pubblico un flusso tale per cui è come se ci fosse una sorta di bolla e così la realtà del momento non esiste più. Questa è un’esperienza che succede non solo con il jazz di un certo tipo, ma anche con la musica contemporanea, con la musica classica di un certo tipo… e se ci riflettiamo questa è un’esperienza collettiva di abbandono della realtà. In quel momento non ci ricordiamo alcunché di ciò che esiste nella realtà vera. Ecco: questo è uno dei miei obbiettivi. Quindi, tornando alla tua domanda, da un punto di vista politico credo che portare le persone ad avere consapevolezza e riuscire a comprendere ciò che può lasciarci un segno nell’anima sia un passo molto forte da fare, un’esperienza da vivere…quasi un dovere, oserei dire, per un musicista, un compositore che opera in questa società. Quanto alla situazione politica che viviamo, io prendo delle posizioni che vanno al di là della musica: lo dico da decenni e quindi te lo ripeto senza difficoltà alcuna, penso che il nostro Paese, così come tanti altri Paesi, siano rovinati dal potere economico che va ben oltre il capitalismo. Il capitalismo è ancora qualcosa di accettabile rispetto a quanto ci sta accadendo. E non è certo solo quest’ultimo governo ad aver creato una tale situazione: la cultura è il primo obbiettivo dei nostri governanti, ma nel senso che vogliono cancellarla”.

-Ti do perfettamente ragione; ma c’è un elemento di disturbo in quello che tu dici. Quanto da te auspicato con riferimento agli artisti, nel campo musicale avviene molto, molto raramente.

“E’ perfettamente vero. Molti, troppi musicisti oramai da tanto tempo tendono sempre più– e forse esclusivamente- ad ottenere consenso. Scrivono i pezzi, congegnano le scalette pensando ad ottenere l’applauso del pubblico o per vendere quelle dieci, venti copie del disco in più secondo me mortificando la propria creatività. Tra l’altro mi è capitato di avere musicisti nelle mie orchestre, nei miei gruppi, con grande talento che però hanno preferito seguire la strada del successo ovviamente cambiando il modo di suonare.  Intendiamoci: il denaro non fa schifo a nessuno, nessuno lo disprezza; io voglio guadagnare, voglio guadagnare bene… tu sai benissimo che negli anni ’80 io e Giorgio Gaslini ci siamo battuti perché i musicisti avessero dei compensi proporzionati alla loro caratura artistica”.

-Cosa che però è caduta nel vuoto…

“Più assoluto. Dopo una decina d’anni credo che la situazione sia addirittura peggiorata. Dai tempi in cui la mia manager mi mandava all’aeroporto la Mercedes con autista ad adesso c’è un abisso totale. Adesso i musicisti quasi pagano…”

-No quasi. Io conosco delle situazioni a Roma per cui se un concerto non raggiunge un certo numero di spettatori tale da coprire le spese – vere o presunte –  che il club sostiene per l’apertura del locale, la differenza deve essere coperta dal musicista…

“E’ tremendo. Non so, però, quale sia il livello dei musicisti che accettano tutto ciò”.

-Anche musicisti di calibro medio-alto, ti assicuro…pur di suonare…

“Francamente continuo a non capire. Con Antonio Moncada, un vero poeta delle percussioni, abbiamo deciso negli anni passati di organizzare anche dei concerti a invito: non voglio neanche un centesimo se voglio far sentire una cosa mia. Inoltre ti segnalo che Antonio ha organizzato anche dei concerti ad abbonamento: chi è veramente interessato si fa una piccola stagione e viene ad ascoltare i concerti. Ma decidiamo noi di non essere pagati e ovviamente la situazione è completamente diversa. Ma se io vado in un festival voglio essere pagato per quello che merito, per quello che merita la mia carriera. Invece vengo a sapere che ci sono delle rassegne in cui i musicisti vanno gratuitamente, viaggio compreso, si accontentano dell’alloggio e vitto. Questo per me è assolutamente inaccettabile”.

-Circa quel discorso stilistico che si faceva prima, quale credi possa essere la responsabilità delle scuole di musica?

“Sì, credo che le scuole di musica abbiano una grossa responsabilità. Ci sarà pure un motivo per cui oggi tutti suonano alla stessa maniera e prima no. Per quanto concerne i musicisti della mia generazione nessuno suonava uguale all’altro…Eugenio Colombo, Roberto Ottaviano…quelli di prima come Trovesi, Enrico Rava ognuno ha un proprio stile ben identificabile, nessuno suona come un altro. Abbiamo passato il tempo sugli strumenti, non dietro le scuole, e consumato centinaia di LP per capire come suonare certe cose. Quindi, sì le scuole hanno una pesante responsabilità ma potrebbero ancora fare un buon lavoro lasciando maggiore libertà agli insegnanti, non dettando un programma che è più o meno uniforme per tutta l’Italia. E poi organizzare più seminari con musicisti che però abbiano qualcosa da dire. Ed è inutile che ancora si parli di progressioni – secondo, quinto, primo – queste cose si imparano alla scuola elementare, le sappiamo tutti. E l’espressività? Il suonare lo strumento in un altro modo? Tutto ciò non si insegna ma si può imparare”.

-Come

“Stando gomito a gomito con i musicisti più bravi, più esperti che, ripeto, abbiano qualcosa da dire”.

-Poco fa mi dicevi che quando suoni in concerto preferisci presentare i brani senza soluzione di continuità, in una sorta, quindi, di suite. Ecco tutto ciò presuppone qualche prova o andate sul palco a improvvisare totalmente secondo quanto vi detta la sensibilità del momento?

“Io lavoro su tre fronti diversi. Primo: il livello orchestrale; io compongo, dirigo l’orchestra e all’interno delle composizioni introduco delle ‘conduction’ – oggi si chiamano così ma io e i musicisti della mia generazione queste cose le facciamo dagli anni ’70…- insomma all’interno dei pezzi cerchiamo di stravolgere le cose e ci facciamo capire tramite segni. Il secondo fronte è quello della musica totalmente improvvisata ma è una pratica che frequento solo con musicisti che conosco molto bene e con cui so di poter trovare un’intesa in ogni momento; per esempio la settimana scorsa ho registrato un disco in duo con Alex Maguire totalmente improvvisato e l’anno scorso ho realizzato un box di quattro CD con Antonio Moncada di musica improvvisata,  nel passato con Marilyn Crispell, Evan Parker etc… Infine, con i gruppi più piccoli, trii o quartetti – specialmente il Sonic Mirror quartet, con Roberta Maci sax soprano, alto e tenore, flauto, Alessandro Nobile contrabbasso e Antonio Moncada batteria e percussioni – studiamo le mie composizioni, suoniamo senza spartiti e quasi sempre non dico neanche la scaletta, cioè saliamo sul palco, io comincio a suonare, si capisce a quale pezzo mi sto riferendo e lo suoniamo come va suonato in quel preciso momento, con quello che sentiamo in quel momento; dopo di che si passa ad un  altro pezzo ma non è previsto come”.

-Come avviene il tuto processo creativo?

“Se ci fosse Antonio Moncada accennerebbe un sorriso perché spesso finisco di scrivere i pezzi quando siamo già in studio di registrazione… nel senso che quando so che mi servono dei pezzi, mi seggo e li scrivo, non aspetto l’ispirazione. Però ho sempre con me un quadernetto di musica perché nelle pause scrivo sempre musica”.

-Tocchiamo un altro tasto dolente: le case discografiche. Oramai i musicisti, nel jazz, se si escludono quattro o cinque nomi, tutti gli altri per fare i dischi pagano…così come per pubblicare un libro si paga. Scusami se colgo l’occasione ma vorrei ringraziare ancora una volta il mio editore, la Kappa Vu di Udine, con cui per pubblicare due volumi non ho dovuto sborsare un euro…anzi sono stato retribuito.

“E’ una cosa allucinante. Io sono stato molto fortunato in quanto nel corso della mia carriera ho sempre avuto dei produttori che hanno creduto in me quindi i dischi mi sono stati prodotti e sembrerà strano sentirlo adesso ma i produttori pagavano lo studio di registrazione, il fotografo, chi scriveva le note di copertina e mi davano un acconto sugli utili. Quindi prima che entrassimo in studio avevo già in tasca somme più o meno considerevoli e poi si andava a registrare. Ripeto: non sono venale, ma è il lavoro, il mestiere… se di mestiere si può parlare trattandosi di musica. Come sai ho inciso per diverse case tra cui la Splasc(H), la BlackSaint, la LeoRecords… e anche quest’ultima mi ha prodotto gli album. Adesso le cose sono cambiate e la responsabilità è anche degli americani. Ho saputo da alcuni produttori che negli anni ’90 i musicisti americani hanno cominciato a dare alle case discografiche i master già pronti e allora anche qui si è cominciato a dire ‘ma perché se i mitici americani danno i master già pronti, voi no?’ e la situazione ha cominciato a degenerare. Fatto sta che io, ad un certo punto, per la precisione nel 2006 – dopo tanti anni che ci pensavo – sono giunto alla determinazione di costituire una mia etichetta discografica che si chiama ‘Labirinti sonori’ come il nostro festival proprio perché non voglio più avere a che fare con le etichette discografiche. In linea di massima sono sempre stato trattato bene ma alle volte mi è capitato di incidere qualcosa e di vederla pubblicata dopo due, tre anni cosa assolutamente inaccettabile…. Una volta ci son voluti addirittura dieci anni…quindi diventa un archivio non più una testimonianza di attualità. Con questa nuova etichetta non ci limitiamo a pubblicare i miei dischi… abbiamo pubblicato album di Steve Lacy, di Keith Tippett, John Tchicai… e così via e devo dire che nel corso degli anni mi son trovato anche a non voler pubblicare molti master. Non voglio offendere alcuno ma non capisco perché anche musicisti che mi conoscevano bene mi mandavano master con musica lontana mille miglia da ciò che io amo. Così mi proponevano jazz-rock anni ’70 pur suonato egregiamente o musica brasiliana che non è in cima ai miei pensieri..oppure il cosiddetto mainstream. Lo ripeto: tutta musica rispettabilissima ma che non ha alcuna attinenza con il nostro catalogo”.

-Tu hai collaborato con tantissimi artisti di livello assoluto. Qual è il musicista che ti è rimasto particolarmente nel cuore?

“Tra quanti mi hanno particolarmente colpito c’è Marilyn Crispell con la quale abbiamo inciso due dischi in due pomeriggi consecutivi con la solita modalità di suonare i pezzi uno dopo l’altro senza interruzione e improvvisando dal principio alla fine – uno si chiama ‘Red’ e l’altro ‘Blue’ per la Black Saint- e abbiamo scritto ‘instant compositions’ perché in effetti c’è anche una architettura, cui tengo sempre;  il suo modo di suonare è straordinario: nella mia vita mai ho visto un musicista suonare con tale intensità e tanta spiritualità. Keith Tippett è un altro con cui ho fatto tante cose e anche con lui c’è uno scambio fortissimo. Un’altra emozione fortissima è stata quando sono stato gomito a gomito suonando con John Tchicai, soprattutto quando abbiamo registrato in duo (“Men From Windy Land” Labirinti Sonori 2015 n.d.r.) piuttosto che in orchestra; ecco accanto a lui sentivi il respiro della grande musica, sentivi che lui aveva suonato con Coltrane, con Roswell Rudd… insomma con tanti di quegli artisti che hanno fatto la nostra musica, che l’hanno sviluppata portandola sempre più avanti”.

-Guardandoti indietro c’è qualcosa che non rifaresti e qualcosa che, viceversa, rifaresti?

“A livello discografico rifarei assolutamente tutto in quanto, anche se nella registrazione di qualche disco c’è stato un qualche problema, comunque superato, ogni album è la testimonianza di ciò che ero in un determinato momento storico…per cui, mi ripeto, rifarei assolutamente tutto. Per tutti i primi anni della mia carriera discografica mi sono concentrato soprattutto sull’aspetto compositivo tralasciando il momento improvvisativo che frequentavo prevalentemente durante i concerti e soprattutto non ho registrato alcun disco con il mio quartetto di sassofoni che nacque nel ’77 e quindi non c’è alcuna traccia se non in alcune registrazioni amatoriali. Ecco, se potessi tornare indietro non commetterei questi che ora considero errori”.

-Tu insegni?

L’ho fatto ma adesso non più. Mi piace molto condurre i seminari, questo sì.

-Quindi tu sei uno dei pochissimi musicisti jazz che vive solo di musica?

“Fino a qualche anno fa sì, Ma da quando è nato mio figlio, l’amato Leonardo, sono cambiato. Forse ti sembrerà strano ma ho molto diradato l’attività concertistica perché non volevo allontanarmi da lui… per lo stesso motivo ho rifiutato molti ingaggi all’estero e mi sono dedicato più all’attività di produzione ma adesso che è più grande sto riprendendo appieno l’attività di musicista”.

E sulla mia considerazione di quale effetto possa avere un figlio sulla tua vita, si chiude questa lunga e a tratti toccante conversazione.

Gerlando Gatto

Dalla e Battisti: due geni dei nostri giorni

Chiedo scusa ai miei lettori se questa volta esco proprio dal seminato, ma i primi giorni di marzo rappresentano per me un insieme di ricordi indelebili che riguardano tanto la mia vita privata quanto i miei gusti musicali.

Sul primo versante solo pochissime parole: il 2 marzo del 1905 nacque mio padre, il 4 marzo del 2004 è nato mio figlio che come ripeto spesso “è la cosa più bella che ho fatto nel corso della mia vita”.

Veniamo, invece, ai gusti musicali che evidentemente interessano molto di più quanti seguono “A proposito di jazz”.

Il 4 marzo del 1943 a Bologna vedeva la luce Lucio Dalla; il 5 marzo sempre del 1943, quindi a sole dodici ore di distanza, a Poggio Bustone nasceva Lucio Battisti; due fenomeni artistici assolutamente ineguagliabili, ambedue con lo stesso nome, ambedue sotto il segno zodiacale dei pesci.

Solamente un caso? Come diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»… qua di indizi ce ne sono ben di più per poter concludere che in quei giorni di marzo del ‘43 il Creatore (per chi ci crede) e la natura (per i laici) si son dati particolarmente da fare per regalarci due geni che avrebbero riempito di musica i nostri cuori e le nostre giornate.

Ciò detto, è possibile trovare dei punti di contatto tra i due artisti?

Assolutamente sì. Innanzitutto, come si accennava, ambedue hanno scritto canzoni che sono rimaste nell’immaginario collettivo; basta citare qualche titolo per rendersi conto di cosa si stia parlando: “Il mio canto libero”, “4/3/43”, “La canzone del sole”, “L’anno che verrà”, “Non è Francesca”, “Caruso”, “Emozioni”, “Ma dove vanno i marinai”… e l’elenco potrebbe continuare ancora a lungo.

E che si tratti di pezzi musicalmente assai validi lo dimostra il fatto che molti musicisti jazz si sono rivolti a questo repertorio, anche se con diverse modalità, declinandolo sì da rendere jazzisticamente attuale la tradizione melodica italiana. Tutto ciò non stupisce più di tanto ove si consideri che il jazz è nato come musica ibrida, come musica, cioè, che si nutre di tutto ciò che la circonda; di qui le riletture di brani celebri che, almeno fino all’avvento del bop, hanno costituito il bacino da cui i jazzisti hanno tratto ispirazione. In particolare nella realtà italiana, negli ultimi decenni sono particolarmente aumentati gli “omaggi a”, divenuti un genere a doppia valenza: per interpretare passioni e sentimenti del popolo italiano, per allargare l’ancora ristretta cerchia degli appassionati di jazz.

Se, come dicevamo, tutto ciò non è una sorpresa, risulta davvero straordinario il fatto che nel 1990, per la ‘Gala’ esce “Ci ritorni in mente” un doppio vinile in cui ben quattordici formazioni diverse, con oltre sessanta artisti, interpretano esclusivamente brani di Battisti. È probabilmente il primo lavoro collettivo dedicato esclusivamente ad un musicista. Ma al cantautore di Poggio Bustone si sono rivolti alcuni dei più grandi jazzisti italiani, da Giorgio Gaslini a Tiziana Ghiglioni, da Ettore Fioravanti a Helga Plankensteiner, da Enrica Bacchia a Enrico Rava, da Enrico Pieranunzi a Rita Marcotulli… a Renato Sellani, tanto per fare qualche nome. E si tratta sempre di produzioni di alto livello artistico; la cosa assume un rilievo ancora maggiore considerando che le riletture dei suoi brani sono tutt’altro che facili sia per la complessità del disegno melodico, sia perché le sue canzoni sono strettamente correlate alla voce e all’interpretazione del testo. Di qui il dilemma che quasi tutti i jazzisti, misuratisi con la musica di Battisti, si sono trovati dinnanzi: procedere ad una difficile rilettura dei brani per coglierne lo spirito e rispettarne il più possibile l’integrità oppure andare dentro il brano, stravolgerlo per farlo rivivere secondo la propria sensibilità. Strade che, in effetti, sono state ambedue percorse. Peccato che tutto questo discorso sia come inficiato da un enorme paradosso: del jazz a Lucio Battisti poco o nulla importava.

E qui le analogie con Lucio Dalla si fermano ché viceversa l’artista di Bologna ha sempre amato il jazz tanto da suonare con eccellente tecnica il clarinetto. Come strumentista Dalla si affermò negli anni tra i’50 e i ‘60 quando Bologna era considerata una sorta di capitale del jazz italiano. Così a soli 15, 16 anni Lucio suonava in jam session con Chet Baker… poi le imprese con  Jimmy Villotti; un disco con Marco di Marco ( “Lucio Dalla/Marco di Marco” uscito per la prima volta nel 1985 su etichetta Fonit Cetra con Lucio Dalla clarinetto e voce, Marco Di Marco pianoforte, Jacky Samson basso e Charles Saudrais percussioni); la collaborazione con Mario Schiano (nell’album ‘Progetto per un inno’ del 1976 Dalla al clarinetto assieme a De Gregori voce e Antonello Venditti pianoforte propongono una straniante versione dell’ “Internazionale”); la tournée con Stefano Di Battista del 2004; le straordinarie performance con Michel Petrucciani tra cui quelle del 1998 e del 2002 e il prestigioso invito a Juan Les Pins per suonare con  Charles Mingus, Bud Powell e Eric Dolphy. Ma, al di là delle prestazioni jazzistiche di Dalla, vale la pena sottolineare un aspetto più costitutivo del suo rapporto con la musica afro americana, quella capacità di adoperare lo scat, quel suo amore per il ritmo, per i cambi di atmosfera, per quelle soluzioni armoniche così ardite sicuramente riconducibili al jazz.

Ho avuto la fortuna di conoscere personalmente Lucio, di ascoltarlo in diversi concerti e di condurre un programma su RadioUno cui partecipava anche il cantautore bolognese. Ed è stata un’esperienza bellissima in quanto Lucio era una persona gentilissima, dolcissima, divertente, che amava considerare e rispettare qualsivoglia persona con cui si trovasse ad interloquire e che, soprattutto, aveva le idee ben precise sulla musica che voleva fare.

Una musica che, contrariamente a quanto accaduto per Battisti, non è entrata spesso nel repertorio dei jazzisti; così a livello nazionale si sono cimentati con i pezzi di Dalla tra gli altri, Silvia Barba e Pippo Matino, Renzo Ruggieri, i 14 musicisti che hanno inciso “Dalla in jazz”, Enrica Bacchia, Paolo Fresu con Uri Caine, mentre a livello internazionale Richard Galliano e Aldo Romano ci hanno regalato delle toccanti interpretazioni di “Caruso”. Devo confessare che ogniqualvolta ascolto questo pezzo, non posso fare a meno di commuovermi. Una commozione che mi pervade anche in questo momento, quando sto scrivendo del mio cantautore preferito, un artista che avevo cominciato ad apprezzare, ad amare nel 1967 quando alla radio ascoltai “Il Cielo”, con cui Lucio partecipò al Festival delle Rose, vincendo, per la seconda volta, il premio della critica.

A questo punto forse taluni si staranno chiedendo: ma i due, Battisti e Dalla, si sono mai incontrati, hanno avuto modo di collaborare? Sì, i due in vita ebbero modo di conoscersi e apprezzarsi ma non hanno avuto la possibilità di collaborare artisticamente; Dalla aveva lanciato la proposta di una tournée e di un disco in comune ma Battisti rifiutò in quanto era già entrato nella logica di appartarsi dalle scene.

Peccato! Sono sicuro che ne sarebbe scaturito qualcosa di eccezionale!

Gerlando Gatto

Francesco Orio Trio e Domenico Ammendola Trio al Roccella Jazz

Il Comune di Roccella Jonica (RC)
è lieto di presentare:

ROCCELLA JAZZ FESTIVAL 2017 – RUMORI MEDITERRANEI
XXXVII EDIZIONE

“A me piace il sud”
Original Tribute to Rino Gaetano

Direzione Artistica: Vincenzo Staiano

Sabato 19 agosto 2017
ore 18.00
Ex Convento dei Minimi
Roccella Jonica (RC)

Francesco Orio Trio

ore 22.00
Largo Colonne
Roccella Jonica (RC)

Domenico Ammendola Trio

ingresso gratuito

Sabato 19 agosto ultima serata di Jamming Around & New Talents con due terzetti, diversi ma complementari perchè indicativi della bontà del jazz italiano e del respiro internazionale di tanti nostri musicisti. Apre le danze il Francesco Orio Trio, formidabile piano trio della scuderia Nau Records: accanto al titolare e pianista Orio il bassista Fabio Crespiatico e il batterista Davide Bussoleni, che presenteranno l’ultimo album Causality Chance Need. Orio è stato definito l’erede di Giorgio Gaslini per l’originalità dell’opera e l’audacia nel comporre e scomporre elementi del linguaggio jazz pianistico. Dal pianoforte al clarinetto con il trio guidato da Domenico Ammendola, che si presenta insieme a Francesco Scopelliti (Contrabbasso) e Andrea Brisso (Batteria). Un trio tutto calabrese, che presenta in anteprima l’imminente nuovo album Play, di prossima pubblicazione.

Prossimo appuntamento: Antonella Ruggiero, Hawkins/Mateen/Edwards/Noble e Red Basica domenica 20 agosto.

Roccella Jazz:
http://www.roccellajazz.org/

Concerto jazz Paolo Botti “SOLO” | 30 aprile 2017

PAOLO BOTTI “Solo”

Concerto musica jazz

Paolo Botti / viola, dobro, banjo tenore, banjo 5 corde, violino di Stroh

Domenica 30 aprile 2017 ore 18,30

 

Concerto jazz Milano Paolo Botti

Torna l’ultimo appuntamento con IntimArte – rassegna di musiche trasversali, domenica 30 aprile si esibirà in concerto il musicista jazz Paolo Botti.

Spiega Paolo: “sono sempre stato convinto che ci sia una forte e preziosa continuità tra le forme più avanzate dell’improvvisazione di derivazione jazzistica e le fonti più arcaiche della musica afroamericana, per indagarle meglio e più a fondo negli ultimi anni ho approfondito lo studio delle testimonianze sonore che ci sono rimaste delle origini della musica nera americana (il blues del delta e il jazz di New Orleans in particolare) ed ho sentito il bisogno di allargare la mia strumentazione per avvicinarmi a quelle sonorità praticando strumenti come il banjo (nelle sue versioni a 4 e 5 corde) ed il dobro oggi in larga parte caduti in disuso (o relegati in ambiti di revival). La mia musica vuole essere una sorta di riflessione ad alta voce su questa continuità sonora, suoni che cercano di trovare un loro centro emotivo e strutturale nella concretezza e nella ‘ruvidità’ di sonorità arcaiche, sperando in ogni modo di rifuggire da esercizi calligrafici e di maniera.

Paolo Botti _ dopo rigorosi studi accademici come violista si dedica al jazz e alla, ha collaborato con molti musicisti tra cui ricordiamo Franco D’Andrea, Bruno Tommaso, Giorgio Gaslini, Dave Liebman, Tristan Honsiger, Dave Burrell, William Parker Keith Tippet, Karl Berger esibendosi in moltissimi festival e rassegne in Italia, Europa, ma anche in Cina e nel NordAfrica . Ha al suo attivo una quarantina di partecipazioni discografiche (tra cui sette dischi a suo nome) e si è esibito in molti importanti festival in Italia e all’estero, è stato più volte votato tra i migliori solisti sull’annuale referendum indetto dal mensile Musica Jazz. Il suo ultimo lavoro ‘The Lomax Tapes’ dedicato alla figura del grande musicologo di cui ricorrono i cento anni della nascita, è stato pubblicato dalla rivista Musica Jazz nel numero di Maggio 2015.

MAGGIORI INFO: http://www.linguaggicreativi.it/appuntamenti/paolo-botti-solo-concerto-musica-jazz-rassegna-intimarte/

QUANDO: domenica 30 aprile 2017.

ORARIO: 18.30 – a fine concerto verranno offerti tarallucci e vino

DOVE: Teatro Linguaggicreativi – Via Eugenio Villoresi, 26, Milano (MM2 Romolo).

PRENOTAZIONE FORTEMENTE CONSIGLIATA:

Tel. 0239543699 – 333.6213155, mail: promozione@linguaggicreativi.it.

BIGLIETTI:
– Intero 14€
– Ridotto allievi e convenzionati 10€

TESSERA: Per partecipare alle serate di Teatro Linguaggicreativi è obbligatorio avere la tessera associativa GRATUITA. Richiedila sul sito cliccando qui o inviando una email a promozione@linguaggicreativi.it.

Affrancare il Jazz. Con una serie di francobolli sul grande jazz italiano!

 

Per il 30 aprile 2016 la Repubblica di San Marino ha dedicato alla Giornata Internazionale del Jazz tre valori bollati realizzati dal designer Lucio Schiavon. La ricorrenza è stata adottata dall’Unesco a partire dal 2012 con la motivazione che il jazz è strumento di sviluppo e crescita del dialogo interculturale volto alla tolleranza e alla comprensione reciproca.

Si è trattato di un bel segnale di attenzione da parte della filatelia nei confronti della musica afroamericana, un segnale che si auspica possa influenzare in positivo anche l’Italia. Perché se è vero che hanno avuto il proprio meritato spazio i vari Leoncavallo e Rossini, Verdi e Puccini, Vivaldi e Casella, Pavarotti e Mino Reitano, come anche “Tintarella di luna” e “Nel blu dipinto di blu” fra le canzoni, l’industria della fisarmonica e persino zampogna e launeddas fra gli strumenti etnici, non ci pare che francobolli sul jazz siano state emissioni molto ricorrenti.

Dalle fonti a nostra disposizione non pare rilevare, nella produzione filatelica nostrana, un’apertura costante al grande jazz italiano, nonostante alcune singole emissioni su festival e artisti e diversi annulli su cartoline postali. Eppure non sarebbe male editare una serie filatelica su jazzisti italiani, a partire da Gorni Kramer, Nicola Arigliano, Lelio Luttazzi, Pepito Pignatelli, Dora Musumeci, Nunzio Rotondo, Gianni Basso, Oscar Valdambrini, Gil Cuppini … fino a Massimo Urbani, Renato Sellani, Giorgio Gaslini … insomma quanti storicamente figurano, a diverso titolo, nell’Olimpo del jazz italiano. Ma, si sottolinea, da stampare e diffondere serializzati, e non in modo sporadico, a riprova dell’esistenza di una tradizione, una scuola, un background consolidato. E non solo per la gioia di collezionisti e il vezzo di quanti ancora utilizzano il servizio postale in barba a mail, chat, tweet e chi più ne ha più ne spedisca. O per motivi di promozione culturale. Ma perché il jazz, come ha certificato l’Unesco, è un genere musicale simbolo di libertà e “affrancamento”.. E perché il jazz è anche Immagine in grado di interfacciarsi con diverse discipline artistiche sicuramente adatta alla raffigurazione filatelica.

Ci sono all’estero tanti esempi su come il jazz sia da “affrancatura”.

Dalla Grande Madre Africa ecco il Chad con bella effigie trinitaria su postcard di Ellington/Bechet/Armstrong. Dal Mali voila un Cole Porter del’71. E poi ancora materiale dall’Alto Volta, Senegal, Congo, Gabon, o un Sachtmo versione Niger. In Europa la Francia (vedasi il Django del 1993 o la mitica coppia Piaf-Davis edita da La Poste in partnership con U.S.Postal Service nel 2012) dimostra, come da dna, uno specifico riguardo alla materia. Gli U.S.A., ovviamente, abbondano, in primis con i Morton, Hawkins, Garner, Coltrane, Blake, Parker, Parker, Monk, Mingus fra i Jazz Musicians delle Legend Of American Music Series. E con bei ritratti fra gli altri di Ella Fitzgerald, Sarah Vaughan, Billie Holiday, Bessie Smith (it.pinterest.com / Black Heritage Post Stamps) e un Ray Charles quotato su Amazon a 10,50 $ (esempio-campione in quanto ci sarebbe di che approfondire anche sulle quotazioni). In Italia va detto che le PT anche negli ultimi tempi stanno registrando, nelle scelte tipo/grafiche dei francobolli, il consueto sguardo ai creativi oltre alle tradizionali materie come occasioni, avvenimenti, natura, fede, spettacolo, storia, tradizione,  monumenti, palazzi, piazze, chiese, città, sport, politici, santi, economisti, scienziati, filosofi, marchi d’impresa, etc. Ed il fatto che il primo francobollo celebrativo del 2017 sia dedicato a Luigi Tenco rafforza un trend per certi versi positivo.

Ma la musica jazz dovrebbe avervi una presenza più decisa, a nostro modesto avviso, come presa d’atto istituzionale di una immagine estetica da (tele)comunicare attraverso i mezzi di cui si dispone.

I francobolli hanno valore economico nominale  e in quanto oggetti da collezione, di mercato; ed hanno una valenza estetica specifica perché questo mini/modo di rappresentare un’arte musicale può coinvolgere fotografia, pittura, scultura, disegno, computer graphic: è forse questa varietà di forme possibili il carattere più tipico del francobollo jazzistico. E del resto questo genere di filatelia, rileva Joaquim Romaguera in El Jazz Y Sus Espejos (Edicion de La Torre, 2002), è arte “plastica jazzistica” così come pittura e comics lo sono nel quadro dei rapporti multidisciplinari che il jazz, polisemico, intreccia (le altre discipline afferiscono a Suono/Immagine e Letteratura).

Si potrebbe proseguire parlando di poster, affiches di rassegne, cover discografiche, fotogrammi filmici… Ma lo scopo di questa nota, scritta in prossimità della Giornata Europea del Jazz 2017, è solo l’auspicio che anche in Italia l’occhio del jazz si posi, in maniera non episodica, nelle emissioni postali. Giriamo l’appello, via posta prioritaria, al manager Ente Poste pro-tempore e per conoscenza al competente Ministero che sovraintende. In attesa di cortese esito. O di gradita smentita.

 

Amedeo Furfaro