La Biblioteca Civica V. Joppi di Udine pubblica alcune riflessioni di Marina Tuni intorno al libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

La Biblioteca Civica Vincenzo Joppi di Udine mi ha invitata a partecipare all’iniziativa “Quarantena d’Artista“, che era partita durante il lockdown ed è poi proseguita con artisti, musicisti, attori, scrittori, giornalisti del Friuli Venezia Giulia.
In pratica, si trattava di scegliere un libro da consigliare, che avesse in qualche modo attinenza al periodo in cui siamo rimasti segregati nelle nostre abitazioni a causa della pandemia, sviluppando delle riflessioni intorno ad esso. Devo dire che nel ricevere la proposta è stato per me naturale pensare a “Il Jazz Italiano in Epoca Covid“, il libro del direttore Gerlando Gatto… più attinente di così! Qui il link del mio intervento che comunque pubblichiamo integralmente anche qui di seguito. (Marina Tuni)

“Silencio… No hay banda. There is no band. Il n’est pas de orquestra.”
<<Con queste parole, pronunciate dal mago sul palco del “Club Silencio” nell’inquietante scena di Mulholland Drive David Lynch ci trasporta in una dimensione straniante, illusoria… che mi ha ricordato quella specie di limbo emozionale nel quale ho fluttuato durante il lungo periodo del lockdown.>>

“In questi giorni si è parlato molto di teatri, esibizioni dal vivo, concerti. Nessuna migliore occasione per il nostro Massi Boscarol per invitare a #quarantenadartista #MarinaTuni, giornalista, che da 16 anni collabora con Euritmica (Udin&JazzOnde Mediterranee, Note Nuove, MusiCarnia) dove è responsabile dell’Ufficio Stampa. Editore della webmagazine instArt e del portale nazionale A Proposito di Jazz, ha scritto e pubblicato cinque fiabe per bambini creando la saga del personaggio di Cioccolino oltre ad aver collaborato per alcuni anni con la cantante Elisa. Ed in tanti di noi la conoscono anche per aver curato la comunicazione di Udine ArtMob e della ciclostaffetta “A Roma per Giulio”, eventi organizzati per chiedere verità e giustizia per #GiulioRegeni.”

<<La citazione di Mulholland Drive l’ho ritrovata anche nel titolo della prefazione, scritta dal M°. Massimo Giuseppe Bianchi, a “Il Jazz Italiano in epoca Covid”, instant book e terzo lavoro di #GerlandoGatto, dove il giornalista e critico musicale intervista 41 jazzisti italiani, “colti” nella loro quotidianità forzata, in un flusso temporale asimmetrico e tralignante.>>

“Abbiamo tra le mani un libro che parla di musica ma nasce dal silenzio. A causa del lockdown; il silenzio ha per mesi eletto a dimora le nostre strade e i nostri spazi. In questi mesi di pausa forzata i palcoscenici hanno taciuto. Non hanno taciuto però gli strumenti, né le matite cessato di grattar la punta sui pentagrammi. Non sono mancati i mille concerti in streaming da casa, eventi coatti che il violinista Uto Ughi, in un’intervista al quotidiano “La Stampa” ha definito “figli della disperazione del tempo che viviamo”. Furono vasi di fiori posati sul davanzale delle nostre provvisorie prigioni. Gerlando Gatto ha pensato di animare questo sfondo plumbeo, spezzando l’incantesimo malvagio. Ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica della loro produzione. Ha provato e ci è riuscito. Gerlando ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla.” (dalla prefazione di Massimo Giuseppe Bianchi)

<<All’interno del libro, tra le tante significative domande che l’autore pone ai musicisti, ce n’è una che mi ha dato molti spunti per riflettere su quanto sia stata importante per me la musica, oltre alla scrittura e al profondo amore per l’arte… passioni che sono diventate parte della mia professione, passioni che mi hanno stimolato e dato la forza per cambiare una vita che in passato indossavo con grande fatica, come avviene con un abito stretto di tre taglie in meno della tua… Perché spesso non basta “volere” a livello conscio per concretare i nostri sogni e le nostre aspirazioni: dobbiamo crederci scendendo ad un piano più profondo, fino ad arrivare all’inconscio.
È ovvio che tutto ciò comporti necessariamente il doversi caricare sulle spalle molti più gravami e consapevolezze, che ci ingabbiano, che compromettono, talvolta, la nostra realizzazione, che condizionano le nostre scelte, che modificano il nostro modo di pensare, portandoci alla privazione della felicità. Tutto questo è uscito ancor più prepotentemente nel trascorrere dilatato del tempo… al tempo dell’isolamento…
Questa è la domanda di Gatto e la risposta che mi ha colpito… quella della vocalist Enrica Bacchia

D: “Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento? Se non la musica a cosa ci si può affidare?”
R: “[…] vorrei chiarire un punto cardine del mio sentire. Se il termine Terribile si
riferisce alle morti di questi giorni: si, la morte appare tanto drammatica agli occhi degli uomini e per la prima volta nella storia dell’umanità paralizza il mondo intero senza discriminazioni…
Sono consapevole di essere una delle (tante) voci fuori dal coro ma mi ascolti bene: spostiamo nuovamente il nostro punto di vista, sintonizziamoci in un’onda diversa e torniamo a considerare quello che lei definisce un momento terribile. Terribile perché l’unico in grado di farci cambiare uno stile di vita intollerabile sotto tutti i punti di vista? Terribile perché ci obbliga a pensare davvero a come reimpostare le nostre esistenze nel micro e nel macro livello? Terribile lo è, forse, perché ciascuno è chiamato a scegliere se farne un’opportunità di crescita epocale. E ora veniamo alla Musica. Ogni pensiero, ogni micro o macro azione, se fatti consapevolmente, possono dare forza al Presente esercitando la creatività, l’immaginazione e la bellezza. E non è forse la musica (ma tutta l’arte della Vita in genere) che ci allena a questo?”.

<<Chiudo con una breve riflessione, affidandomi ad un’altra delle mie grandi passioni, la filosofia. Eraclito diceva: “Nessun uomo può bagnarsi nello stesso fiume per due volte, perché né l’uomo né le acque del fiume saranno gli stessi…” con riferimento al processo di trasformazione perenne, il divenire cui sono soggetti gli esseri umani, che nascono e crescono andando incontro al proprio destino, attraversando nel cammino periodi “buoni” e periodi “critici”. In questi ultimi, la “crisi” dovrebbe essere il LA per intonare gli strumenti per una nuova esecuzione, accogliendo il cambiamento come occasione di accrescimento e di sviluppo della conoscenza e del pensiero creativo.
Se non saremo in grado di cogliere questa opportunità, non v’è rimedio… perché niente può vivere in assenza di cambiamento.>>

Michele Bordoni: fotografo AFIJ del mese di settembre – la gallery e l’intervista

Michele Bordoni

Dopo la pausa agostana, riprende la nostra serie di interviste, con pubblicazione delle relative gallery, ai fotografi dell’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ.
Il mese di Settembre ci porta in Lombardia, nella splendida Valtellina, in questo periodo in cui il foliage, con le sue intense e calde sfumature autunnali, si tinge di verde cinabro, ocra, marrone tennè, vermiglio, regalandoci uno scenario naturale di rara bellezza, nelle sue incantevoli foreste che sembrano uscite da una fiaba.
Qui, in un paesello di neppure cinquemila abitanti che domina la valle dell’Adda, vive il giovane fotografo Michele Bordoni, appassionato di jazz e di sport ma anche innamorato della sua terra. Ognuna di queste passioni entra prepotentemente nei suoi scatti, che catturano bellezza e restituiscono emozioni…
Michele, affascinato dalla fotografia sin da piccolo, grazie alle diapositive di montagna del padre, si avvicina all’arte fotografica solo nel 2009, anno in cui acquista la sua prima reflex.
Oltre alla musica, allo sport e al territorio, affronta nel tempo anche temi diversi quali la lotta alla violenza sulle donne e la valorizzazione del patrimonio culturale e dell’artigianato tipico, sfociati in mostre apprezzate.
Si avvicina al locale festival Ambria Jazz collaborando anche come fotografo, quindi inizia a seguire altri festival e luoghi concentrando le proprie energie nello sviluppo di progetti nell’ambito della musica jazz.
Espone in diverse località prevalentemente valtellinesi, più recentemente anche presso il Jazz Club Ferrara, che frequenta ora abitualmente.
Partecipa nel 2015 a Il jazz italiano per L’Aquila e alle due successive edizioni dedicate ad Amatrice e alle terre del sisma, contribuendo con le proprie immagini alla realizzazione delle omonime pubblicazioni. (Marina Tuni)

– Leggo sulle tue note biografiche che devi a tuo padre e alle sue diapositive di montagna l’inizio del tuo percorso di fotografo, a ventiquattro anni, nel 2009. Quali sentimenti, emozioni, slanci, propositi hanno suscitato in te, giovane uomo, quelle immagini?
«La cosa è forse un po’ strana perché vedere le diapositive su questo grande telo era sempre molto piacevole, ritrovarsi a guardarle e ascoltare quello che rappresentavano suscitava in me grande interesse, soprattutto per quello che trasmettevano.
Poi, non so per quale motivo, ma non avevo mai concretizzato questo interesse prendendo in mano lo strumento in prima persona, forse perché anche mio papà, in quel momento, non scattava più, ma questo non si potrà mai sapere…
Un altro elemento curioso è che nel mio paese si svolgeva molti anni fa un bel festival Jazz, che seguivo talvolta da spettatore, e vedere il fotografo che si muoveva tra pubblico e sotto palco mi ha sempre incuriosito molto. Quindi, oltre ai musicisti, seguivo lui con lo sguardo.
Dopo qualche anno tutto questo è divenuto una realtà con i primi concerti Rock di band locali e poi con il Jazz e la storia continua…».

– Nell’epoca della tecnologia usa e getta e della digital transformation, dove tutto è elaborato, artefatto, ricostruito, filtrato… fa quasi impressione, sicuramente stupisce, sapere che la tua principale preoccupazione non è quella di implementare continuamente la tua attrezzatura e che la tua forma di comunicazione visiva è improntata a trasmettere emozioni dirette e genuine, poco o per nulla edulcorate dai potenti strumenti della post-produzione. Ci spieghi questo tuo modo di proporti?

«L’idea di partenza è quella di riuscire a raccontare in maniera più realistica possibile gli avvenimenti, come avveniva per i fotoreporter di un tempo, quando questa professione è nata, da qui si sviluppa il lavoro.
Negli ultimi anni sicuramente ho anche investito nella dotazione tecnica, è fondamentale riuscire a tenersi aggiornati con le nuove tecnologie; tuttavia, cerco sempre di mantenere l’equilibrio tra realtà e “immaginazione”.
Negli ultimi anni trovo sempre più fotografi con grandi competenze informatiche e questo ha portato nuovi e positivi sviluppi ma a volte si spinge troppo su questo aspetto e poco su quello che è la fedeltà delle immagini e sulla capacità di un fotografo di raccontare un evento; per quella che è la mia esperienza, non è sufficiente fare dei buoni scatti ma la grande sfida e quella di riuscire a concatenarli per raccontare una storia».

– Sei un grande appassionato di jazz ma anche di sport, con le tue foto sviluppi tematiche sociali, come la lotta alla violenza di genere e, soprattutto, guardando le tue foto e le mostre che hai tenuto, appare evidente l’amore che provi per l’ambiente e la terra, la tua Valtellina in primis, e per il suo patrimonio culturale, paesaggistico e artigianale… è così? Cosa ti lega alla tua terra?

«Amo molto la mia terra ed è stato naturale una volta avuta la mia prima vera macchina fotografica raccontare i luoghi della mia vita e molto spesso sono proprio a un passo da casa, come è stato per un mulino su cui avevo “lavorato” quando ero studente e che ho voluto in seguito raccontare con la macchina fotografica; un altro esempio è la latteria dove fino a qualche anno prima la mia famiglia conferiva il latte.
Negli ultimi anni l’impegno con la musica Jazz non mi ha lasciato molto tempo per questi racconti ma vivendo la mia terra per altre mie passioni le idee sono molte e, anche se con meno frequenza, sviluppo con l’obiettivo di approfondire in futuro.
Cerco di unire le mie varie esperienze per creare un racconto personale del Jazz per come lo vivo».

– Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
«Condivido il pensiero, la fotografia come ogni forma espressiva è soggettiva per molteplici motivi. A partire dagli strumenti che utilizziamo, ma soprattutto da dove arriviamo, il percorso che compiamo ci porta a leggere le situazioni in modi molto diversi.
Quello che fotografiamo è frutto della nostra visione delle cose, con gli occhi vediamo e con il cuore la trasformiamo in qualcosa di tangibile.
Tutto questo è un processo in continua evoluzione, via via che il tempo passa anche le nostre immagini evolvono con noi».

– Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?
È una costante del mio lavoro, anche per questo cerco a ogni concerto diverse prospettive per raccontare la musica e i musicisti in maniera globale, per far sì che quello che uscirà attraverso le immagini sia il più reale possibile e che racconti quello che è realmente successo, sia dal punto di vista dello spettatore in prima fila sia da quello che siede  nell’ultima.
Lo spettatore in prima fila, ad esempio, coglie di più le varie espressione sul volto dei protagonisti mentre quello in ultima potrebbe catturare meglio di la “danza” delle braccia del batterista che colpisce i piatti.
Anche per questo non amo raccontare un evento con una singola o con poche immagini, che magari mettono in luce solo il leader della formazione, il mio racconto vuole essere il più rispettoso possibile verso tutti i musicisti, che sul palco hanno la stessa dignità e importanza».

– La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
«Durante gli scatti la mente è condizionata inevitabilmente da molti elementi. Sicuramente uno dei più importanti è il flusso della musica che crea delle onde che noi seguiamo.
Quando si riesce a stabilire un legame umano, che viene poi alimentato dal suono, l’energia che si crea tra il palco e noi che stiamo dietro un mirino è incredibile.
Un altro elemento molto importante è il luogo che ospita il concerto. Noi in Italia siamo molto fortunati, forse i più fortunati, sempre più luoghi magnifici ospitano concerti, l’architettura la storia di quei luoghi condiziona in maniera positiva gli scatti e noi che seguiamo il Jazz siamo sicuramente privilegiati da questo punto di vista».

– Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
«Sicuramente ci sono degli scatti ai cui sono più legato di altri e questo, come già detto, dipende dall’aspetto emozionale.
Sono molti i musicisti con i quali si crea un atmosfera particolare, se devo sceglierne uno cito Hamid Drake, uno dei musicisti che a livello umano, musicale e fotografico mi ha dato fino ad oggi più. Il suo suono è il riflesso dell’amore per la musica… è la vita che mette in ogni sua esibizione. Per questo, forse, l’immagine a cui sono più legato è la sua, l’unica che ho scelto in bianco e nero per questa presentazione.
È arrivata in un momento molto importante sia della mia vita a livello personale sia nella mia attività fotografica ed è stata una spinta incredibile per il prosieguo del mio lavoro».

Intervista a Gerlando Gatto su JazzDaniels, il blog di Daniela Floris e Daniela Crevena

Pubblichiamo con piacere l’intervista a Gerlando Gatto, fatta da Daniela Floris e pubblicata sul suo blog Jazz Daniels, Jazz e altra Musica (Note e Immagini di Daniela Floris e Daniela Crevena), in occasione dell’uscita del libro “Il Jazz Italiano in Epoca Covid”

«Terzo libro per Gerlando Gatto, giornalista, critico musicale, e direttore del sito A Proposito di Jazz. Un nuovo libro di interviste, protagonisti i musicisti, intervistati in uno dei periodi più drammatici degli ultimi anni: il lockdown durante l’emergenza Coronavirus, che ha costretto l’Italia a fermarsi quasi completamente per quasi tre mesi. La categoria dei musicisti è stata una di quelle maggiormente colpite, una delle ultime a riprendersi, per la impossibilità non solo di organizzare concerti live, ma anche di registrare, provare, promuovere. Tutto bloccato.
Il libro, edito da GG edizioni, contiene una quarantina di interviste tra quelle precedentemente pubblicate nel sito A Proposito di Jazz, ideate dallo stesso Gatto e raccolte in parte anche da Marina Tuni, che ha collaborato alla realizzazione del libro, e dalla sottoscritta.
Qui di seguito la mia intervista a Gerlando, che ringrazio, come sempre, per la disponibilità e la stima che mi dimostra da tanto tempo.

Questo libro di interviste è molto diverso dai due precedenti. Si potrebbe dire che è quasi un’indagine, una fotografia istantanea di una realtà con cui sei costantemente in contatto, quella del mondo del Jazz italiano, in un periodo del tutto eccezionale, una pandemia mondiale. Sembra rispondere a una vera e propria esigenza giornalistica: quale?
“Partiamo da un dato di fondo che nel nostro Paese non mi sembra molto condiviso: gli artisti non servono “a farci divertire”. La loro funzione è molto ma molto più profonda. In tale contesto il jazz è la Cenerentola tra le Cenerentole e quindi da sempre gode di scarsissima attenzione. Di qui la mia idea di focalizzare l’attenzione su un comparto che al momento del lockdown stava attraversando un momento particolarmente difficile e delicato, con tanti musicisti privi di qualsivoglia mezzo di sussistenza. Ecco, volevo tracciare un quadro d’assieme di quel che stava vivendo il mondo del jazz italiano in quei terribili momenti”.

–Scegliere un format unico di domande da porre uguale è una scelta sicuramente ponderata. Ce ne spieghi il perché?
“Tu mi conosci abbastanza bene e come dimostrano anche i miei due precedenti libri io amo studiare chi mi troverò ad intervistare e preparo una serie di domande che possano far venir fuori non tanto il personaggio, l’artista quanto l’uomo, la donna che si celano dietro la maschera ufficiale. In questo caso il mio intento era completamente diverso: non mi interessava il singolo intervistato quanto un ambiente, un insieme, un milieu che potremmo identificare nel mondo del jazz italiano, senza la pretesa, ovviamente, di volerlo rappresentare nella sua globalità. Come noterai, infatti, i singoli musicisti sono introdotti semplicemente con nome, cognome e strumento senza una riga di curriculum. Quindi tutti sullo stesso piano, musicisti, jazzisti che stavano attraversando una congiuntura particolarmente pesante e non solo dal punto di vista economico”.

–Quante testimonianze sono raccolte in questo libro?
“Le testimonianze derivano dalle interviste che io, Marina Tuni e tu stessa avevamo già fatto e pubblicato sul mio blog “A proposito di jazz”. Per il libro sono stato costretto ad eliminarne alcune perché altrimenti lo stesso sarebbe stato troppo voluminoso e di conseguenza caro. Comunque, per rispondere alla tua domanda, le interviste sono 41”

–Come hai individuato le domande da porre, e dunque che tipo di domande hai posto ai musicisti intervistati?
“Questa è stata la parte più difficile del lavoro. Mi interessava scendere nello specifico, nell’intimo, ponendo domande, lo riconosco, indiscrete, crude, come quelle relative ai mezzi di sussistenza o alle eventuali compagnie durante il lockdown, ma era l’unica via da seguire per raggiungere l’obiettivo prefissato. Ho quindi cominciato ad intervistare i musicisti che mi conoscono meglio, che mi sono amici e che quindi mi riconoscono un’assoluta buona fede; viste le loro reazioni più che positive ho rivolto la mia attenzione anche ad artisti che non avevo molto frequentato e devo dire che mi è andata alla grande nel senso che nessuno si è rifiutato di rispondere alle mie domande, anzi…”.

–Il lockdown, l’emergenza, hanno significato per molti un fermo lavorativo spesso drammatico, specie per chi non aveva le spalle coperte dall’insegnamento, magari nei conservatori. Non deve essere stato facile per i musicisti parlarne. Quali sono gli stati d’animo che hai visto prevalere, quali le paure, quali le diverse modalità di raccontare una situazione così difficile?
“Come tu stessa sottolinei gli stati d’animo, con riferimento ai problemi di sussistenza, erano piuttosto diversificati. Così c’è chi, avendo alle spalle una lunga e gloriosa carriera, affrontava questi momenti con pazienza e senza alcuna preoccupazione. Per gli altri netta era la differenza tra chi poteva contare comunque su un’entrata derivante dall’insegnamento e chi no. I primi erano preoccupati ma non troppo e comunque aspettavano con ansia la ripresa delle attività. I secondi sottolineavano la necessità che qualcuno si ricordasse anche di loro, che i sussidi messi in campo dal governo non erano sufficienti. E tutto ciò si trasmetteva nelle modalità con cui raccontavano la loro situazione, modalità che transitavano dal tranquillo-paziente al moderato allarmista all’aperto S.O.S.”.

– Un giornalista di lungo corso come te ha certamente tratto delle conclusioni da questa che, anche se di lettura molto agevole, appare quasi un’inchiesta. Puoi darci una tua lettura complessiva di queste testimonianze? Quale l’impatto nel mondo del Jazz italiano, quali i tempi di reazione, quali le prospettive, secondo te, in un inverno che si preannuncia comunque difficile?
“Le conclusioni sono abbastanza semplici: il mondo del jazz italiano lamenta una sottovalutazione che si trascina oramai da anni e che riguarda non solo l’universo politico ma anche il cosiddetto mondo culturale e tutto ciò che vi gira intorno. L’impatto del virus è stato terrificante, nel senso che da molti degli intervistati non trapela alcuna nota di ottimismo, anche perché ci si rende perfettamente conto che il domani non sarà più come l’ ieri che abbiamo conosciuto. E tutti sono concordi nell’affermare che la stagione dei concerti così come l’abbiamo conosciuta è finita… almeno per un lungo lasso di tempo”.

– Prendo spunto dalle parole che estrapolo dalla bellissima prefazione del Maestro Massimo Giuseppe Bianchi: “Gerlando capisce e ama la musica, rispetta i musicisti e da loro è rispettato nonché, come da qui traspare, riconosciuto quale interlocutore credibile. Ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla.”
Quanto è importante, alla luce di questo tuo lavoro, godere della fiducia e della stima di coloro che si decide di intervistare per ottenere un risultato come quello ottenuto in questo libro? Come si ottengono fiducia e stima? E quanto importante saper scegliere un linguaggio che sia ad un tempo agile e comprensibile ma adatto a situazioni complesse da spiegare?
“Prima di risponderti, consentimi di ringraziare dal più profondo del cuore l’amico Massimo Giuseppe Bianchi che ha scritto una prefazione per me davvero toccante. E veniamo alla tua domanda che in realtà ne contiene parecchie. La prendo quindi alla lontana e parto dal linguaggio, dalla chiarezza del linguaggio, che è sempre stato una direttrice fondamentale del mio lavoro da giornalista, Come forse ricorderai, io ho vissuto la mia carriera da ‘giornalista economico’; in tale branca essere chiari, usare le parole giuste nel contesto appropriato è assolutamente prioritario. Per ottemperare a questa sorta di obbligo assolutamente personale, quando ho cominciato a lavorare nei primissimi anni ’70 quando ancora stavo a Catania, collaborando con riviste specializzate, una volta finito un pezzo lo facevo leggere alla mia mamma, persona molto intelligente ma assolutamente priva di qualsivoglia rudimento in economia. Se lei capiva ciò che avevo scritto significava che l’articolo andava bene, altrimenti no, e lo rifacevo, Ecco mi sono portato appresso questo insegnamento per tanti anni e lo utilizzo ancora adesso che andato in pensione e lasciata da parte l’economia mi occupo solo di musica. Quindi un linguaggio piano, scevro da tecnicismi che può essere capito ance da chi non si interessa di musica. Quanto alla stima dei musicisti, oramai credo che molti di loro sappiano che mi occupo di musica non per scopo di lucro ma per passione: certo ci sono voluti anni, molti anni ma credo che alla fine sono riuscito ad acquisire la fiducia di molti artisti e per alcuni di loro credo di poter usare la parola ‘amico’. Certo non nego che con alcuni di loro ho avuto dei contrasti alle volte anche energici ma, ovviamente, non si può andare d’accordo con tutti. Comunque una cosa è certa: senza la stima e la fiducia dei jazzisti non avrei potuto porre loro domande così crude e indiscrete”.

– Per finire, c’è una frase, o un pensiero, tra tutte queste interviste, che ti ha colpito particolarmente? Ti chiedo di non fare il nome di chi l’ha formulata: ci penseranno i lettori a scoprirla.
“In tutta franchezza c’è stata un’intervista che mi ha particolarmente colpito per le manifestazioni oserei dire di affetto manifestate nei miei confronti. Per il resto ci sono state molte dichiarazioni che mi hanno impressionato o per i loro contenuti culturali o per il modo particolare di vedere e quindi affrontare il futuro. Ma farei torto a molti se dovessi citarne qualcuna”.»

Il Jazz Italiano in Epoca Covid: è uscito il terzo libro di interviste di Gerlando Gatto

È uscito in questi giorni “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” (GG ed.), il terzo libro di interviste firmato dal nostro direttore, lo storico giornalista di Jazz Gerlando Gatto, dopo “Gente di Jazz (2017, due ristampe) e “L’altra metà del Jazz” (2018), pubblicati entrambi per i tipi di KappaVu Edizioni/Euritmica.

Si tratta di un instant book che raccoglie, attraverso 41 interviste, pensieri, speranze, progetti, consigli di ascolto ma anche paure e preoccupazioni di musicisti e musiciste del Jazz italiano, immortalati in un periodo compreso tra marzo e maggio 2020 durante il lockdown dovuto alle misure di contenimento della pandemia da Covid-19.

Tra gli artisti intervistati in “Il Jazz Italiano in Epoca Covid” troviamo: Maria Pia De Vito, Paolo Fresu, Enrico Intra, Enrico Rava, Franco D’Andrea, Rita Marcotulli, solo per citare alcuni di essi, tutti personaggi di riferimento del jazz nazionale, che compaiono nel volume.

Per l’ideazione e la realizzazione dell’opera, Gatto si è avvalso della collaborazione della giornalista musicale Marina Tuni, che ha anche raccolto alcune delle interviste assieme a Daniela Floris (entrambe autrici su “A Proposito di Jazz”).

Gerlando Gatto

Il libro contiene la prefazione di Massimo Giuseppe Bianchi, pianista, compositore e profondo conoscitore della musica del ‘900, che ben delinea lo spirito della pubblicazione: «In questi mesi di pausa forzata i palcoscenici hanno taciuto. Non hanno taciuto però gli strumenti, né le matite cessato di grattar la punta sui pentagrammi. Le idee arpeggiavano sulle corde dei progetti, quantunque ombreggiati dalle preoccupazioni figlie di un tempo calamitoso. Non sono mancati i mille concerti in streaming da casa, eventi coatti che il violinista Uto Ughi, in un’intervista al quotidiano “La Stampa” ha definito “figli della disperazione del tempo che viviamo”. Gerlando Gatto ha pensato di animare questo sfondo plumbeo, spezzando l’incantesimo malvagio con una quarantina di interviste ad altrettanti musicisti. Ha provato ad andare oltre l’analisi stilistica della loro produzione, disciplina per cui l’acuminato giornalista siciliano si distingue nel panorama italiano in tanti anni di acuta e rispettata militanza nella critica. Ha provato e ci è riuscito. Gerlando capisce e ama la musica, rispetta i musicisti e da loro è rispettato nonché, come da qui traspare, riconosciuto quale interlocutore credibile. Ha congegnato una griglia di domande semplice e uniforme quanto variegata al suo interno. Ha voluto, credo, fare quello che un critico non ha tempo o voglia di fare: comunicare direttamente con la persona, abbracciarla. Da poche risposte vien fuori, allora, molto: il privato, lo stato dell’arte, la musica propria e quella altrui, uno sguardo sulla società italiana, ironie, aneddoti e ricordi. Il gioco ha funzionato e tutti hanno vinto».

Gerlando Gatto, instancabile divulgatore della musica jazz, è anche il direttore del seguitissimo portale A Proposito di Jazz ed ha condotto diverse trasmissioni radiofoniche e televisive nazionali dedicate a questo genere musicale; è anche tra gli estensori della “Enciclopedia del Jazz” edita da Curcio negli anni 1981-‘82 e dal 2007 collabora con la Casa del Jazz di Roma, per la quale ha ideato e condotto diversi cicli di guide all’ascolto.

“Il Jazz Italiano in Epoca Covid” è acquistabile online sul sito lulu.com e alle prossime presentazioni nelle librerie… Covid permettendo! (A breve informazioni dettagliate).

Redazione

 

Antonio Baiano: fotografo AFIJ del mese di luglio – la gallery e l’intervista

Nel prosieguo della felice collaborazione di A Proposito di Jazz con l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ, s’inserisce l’iniziativa “Il fotografo AFIJ del mese”. Luglio mi ha riservato un’inaspettata sorpresa, l’intervista ad Antonio Baiano. Devo dire che le sue risposte e le sue immagini mi hanno trascinata in un viaggio dell’anima che ha messo in moto anche la mia sete di conoscenza, accendendo i sensori della mia curiosità; un viaggio che mi ha portato a scoprire il suo modo intimo di fotografare il jazz e la sua capacità di cogliere l’istante perfetto, come nella foto che ha scattato a Carla Bley e Paul Swallow… delicata, tenera… emozionante. Attraverso le sue foto sulla Santeria, una religione che fonde le pratiche animiste dell’Africa occidentale e il cattolicesimo, mi si è svelato un aspetto inconsueto e affascinante di Cuba. Al netto della passione per il jazz e per i viaggi, ho scoperto di avere in comune con lui anche quella per i Van der Graaf Generator e per i King Crimson!  (Marina Tuni)

Nato a Napoli nel 1962, Antonio Baiano, vive a Torino dal 1990 ed ha iniziato la sua attività fotografica nel 1997 fotografando concerti jazz.
Nel suo percorso formativo ha frequentato i seminari di David H. Harvey, Kent Kobersteen, Tomasz Tomaszewski, Ernesto Bazan e Alexandra Boulat.
Oltre alle immagini di spettacolo, predilige i reportage, che considera il mezzo perfetto per approfondire l’esplorazione e la conoscenza di tematiche sociali e diversità culturali.
Nel 2001 parte il suo progetto “Roots” sulle religioni afro-caraibiche; negli anni ha portato avanti un lungo progetto sui riti della Santeria Cubana e sul Candomblé, in Brasile.
Le immagini di questi reportage sono state esposte a Cuba, in Francia e in Italia e sono conservate nel museo “Casa de Africa” ​​de L’Avana e nel Museo Etnografico “Pigorini” di Roma. Suoi scatti sono pubblicati su varie riviste e giornali come Musica Jazz, Repubblica, Volunteers for Development, Collections Edge ed è anche autore di diverse copertine di CD.
Collabora regolarmente con la webmagazine All About Jazz ed è membro dell’American Society of Media Photographers (www.asmp.org) dal 2002.

Ci racconti qualcosa di te? Cos’è che ti ha fatto capire che la fotografia, di jazz soprattutto, sarebbe stata una parte determinante della tua vita?
“Sono vissuto in una famiglia amante della musica: ho un fratello ed una sorella musicisti classici che, fin da piccoli, hanno riempito la casa e la mia vita di musica. Fra i dischi di Beethoven e Stravinsky c’erano alcuni “V Disc” e una copia di “Giant Steps” di mio padre, ed io ho cominciato con essi ad ascoltare il jazz. Mio padre mi fece avvicinare alla fotografia dandomi la sua Nikon F con la quale ho fatto i miei primi scatti. Il connubio tra fotografia e musica è stato quindi inconsciamente sempre naturale. Mi sono avvicinato alla fotografia di Jazz dopo aver lasciato lo studio della chitarra, forse è stato un atto compensativo per questa rinuncia perché, quando fotografo i concerti, mi sembra di partecipare attivamente ad essi. A volte mi sembra quasi di scattare al ritmo del brano che stanno suonando!”

-Ho letto – e devo dirti che mi ha colpita molto – del tuo progetto dedicato alla Santeria Cubana, con gli scatti che hai realizzato a Cuba in un periodo molto lungo. So che per i cubani la Santeria rappresenta non solo un culto, che peraltro si mescola al cattolicesimo, ma una vera e propria filosofia di vita basata sulla ricerca della felicità e sul fatto che la realizzazione di una persona non può avvenire se ciò arreca infelicità all’altro. Determinante è stato per te l’incontro con Yadira, che hai conosciuto nel 1999 quand’era ancora una bambina e che continui a seguire anche ora che è diventata donna e madre. La sua storia è legata a doppio filo alla Santeria, alla quale fu iniziata dai genitori in tenera età. Credo che un’esperienza così intensa possa aver influito profondamente nella tua vita personale e forse anche nel tuo modo d’intendere la fotografia. È così?

“Sicuramente l’incontro con Yadira è stato un elemento determinante della mia vita; siamo profondamente legati e ormai dei momenti della mia vita passata e futura sono legati a lei ed alla sua famiglia. Ma non penso che abbia cambiato il mio modo di intendere la fotografia, perché almeno per me è sempre dipeso dall’etica con cui l’affronto e dai motivi per cui fotografo. Quando affronto un progetto fotografico, avendo il raccontare come elemento di base, il mio principio è prima di tutto quello di essere sincero nei confronti sia del soggetto fotografato sia di chi poi guarda le mie foto e “legge” la mia storia. Così è stato per Yadira e così per altri lavori, come quello sulla Santeria o sul Kurdistan. Poichè la fotografia non descrive la realtà, ma in qualche modo la interpreta o comunque lascia gli spazi all’interpretazione, ritengo sia necessario che il proprio approccio sia quanto più possibile onesto e sincero, perlomeno in un campo come quello del reportage”.

-Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
“Sono totalmente d’accordo con te! Come ho detto sopra, la fotografia interpreta e lascia interpretare. È il fotografo che decide cosa e come inquadrare, e con che parametri, come la focale o l’esposizione. È il fotografo che decide cosa lasciare all’interpretazione, cosa svelare, cosa nascondere, se ingannare o meno lo spettatore. D’altronde, artisti in altri campi ci hanno insegnato che anche gli oggetti reali possono non essere quello che sembrano. Come potrebbe quindi la fotografia essere oggettiva?”

-Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?

“Sicuramente. Anche io faccio una scelta molto ponderata (di cui magari poi mi pento dopo la pubblicazione) delle foto che ho scattato, cercando di restituire al meglio ciò che ho ascoltato e fotografato. A mio avviso però qui entra in gioco maggiormente (rispetto al reportage) il voler raccontare sé stessi in quella foto o meglio mostrare come si vede  quel musicista e la sua personalità. Rimane sempre presente quel filo legato alla soggettività della fotografia”.

-La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
“Penso che in qualche modo la musica che viene suonata mi condizioni, ma in modo limitato. Alla fin fine sono un fotografo, quindi cerco forme, ombre e luci. Sono molto più condizionato da questi elementi e da come e cosa il musicista fa in scena e di come interagisce con gli eventuali partner”.

Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Alcune delle mie immagini preferite sono fra quelle che ho scelto per questo articolo, come quella di Carla Bley e Steve Swallow. È un momento così sincero di tenerezza fra i due che penso descriva molto di questi due musicisti e sono sempre stato felice di aver colto quell’attimo. Un’altra foto che mi piace molto è quella di Ralph Towner mentre accorda la chitarra. Ralph è un musicista determinante nella mia vita perché fu ascoltando lui che decisi di studiare chitarra classica. Accordare lo strumento, se vogliamo, è un gesto banale ma fondamentale che il chitarrista ripete spesso durante un concerto. Quella foto coglie l’estrema attenzione con cui il musicista lo compie. Poi la foto di David Jackson (la numero nove, ndr). Non potevo credere di conoscere uno dei musicisti di uno dei miei gruppi preferiti, i Van der Graaf Generator. È una persona estremamente cordiale e disponibile, ricca di umanità; ebbi una bella discussione con lui, che sfociò in quello scatto. Penso che descriva molto della sua personalità. Poi sicuramente (ed ovviamente) tanti degli scatti fatti a Yadira o della Santeria sono parte integrante di me!”

Marina Tuni

 

I jazzisti italiani reclamano maggiore attenzione: i risultati della nostra inchiesta con l’intervento di oltre 50 artisti

Con le interviste a Nico Morelli e Pippo Guarnera si è chiusa la nostra inchiesta sul “Jazz italiano ai tempi del Coronavirus”.
Solitamente le interviste che pubblichiamo su “A proposito di Jazz” si basano su due presupposti fondamentali: una approfondita conoscenza del personaggio da intervistare e una serie di domande che tendono a far emergere non tanto l’artista quanto l’uomo o la donna che a quell’artista hanno dato vita. Quindi, ovviamente, domande studiate ad hoc per ogni soggetto da avvicinare.
Questa volta le cose sono andate diversamente: la nostra intenzione era quella di tastare il polso ai musicisti di jazz italiani per capire come stessero vivendo questo terribile momento. Per avere un quadro almeno minimamente rappresentativo abbiamo studiato una griglia di una decina di domande che abbiamo rivolto, quasi sempre identiche, a tutti i musicisti sì da poterne ricavare delle indicazioni significative.
Abbiamo quindi parlato con oltre cinquanta musicisti che abbiamo presentato solo con nome, cognome e strumento ‘frequentato’ prescindendo dalla loro notorietà. Ecco quindi stelle di primaria grandezza a livello internazionale accanto a giovani alle prime armi ma forniti di sicuro talento.
E da tutti sono arrivate indicazioni molto significative pur all’interno di un contesto variegato, in cui, per fortuna, solo un artista è stato colpito dal virus.

Le prime domande erano rivolte ad inquadrare la situazione sotto un profilo pratico: “Come sta vivendo queste giornate? Come tutto ciò ha influito sul suo lavoro? Pensa che in futuro sarà lo stesso? Come riesce a sbarcare il lunario?”.
Sulle prime tre domande le risposte hanno, bene o male, disegnato lo stesso spartito: i nostri amici musicisti hanno per lo più approfittato del tempo a disposizione per studiare, leggere, ripercorre la loro vita artistica. Disastrosa, ovviamente, la situazione lavorativa dal momento che tutto è stato bloccato né si ha una qualsivoglia certezza sul come e sul quando sarà possibile riproporre musica dal vivo. Quanto alla domanda sul dove trarre i mezzi di sostentamento si nota una profonda differenza tra chi è supportato dall’insegnamento e chi no. I primi riescono a cavarsela piuttosto bene, o almeno senza grossi problemi, mentre per gli altri è molto più difficile anche perché il governo non sembra aver dedicato particolare attenzione a questa categoria destinata, a quanto sembra, solo a “divertire” dimenticando ancora una volta quale debba e possa essere il ruolo dell’arte in una società che ami definirsi moderna e democratica.
Sul fatto di vivere in compagnia questo particolare momento gli intervistati sono stati concordi nell’attribuire molta importanza alla possibilità di affrontare questi eventi così difficili non da soli anche se i pochi jazzisti che sono stati da soli non sembrano aver sofferto più di tanto questa situazione.

Proiettate al futuro le successive domande: “Pensa che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e professionali sotto una luce diversa? Crede che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento? Se non la musica a cosa ci si può affidare? Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?”.
A questo proposito le risposte sono state piuttosto variegate eccezion fatta per l’importanza determinante che la musica possa avere avuto durante il ‘lockdown’. Così i più ottimisti pensano che le cose, dal punto di vista dei rapporti umani e professionali, possano cambiare in meglio mentre i pessimisti ritengono che questa situazione non farà altro che acuire le caratteristiche di ognuno per cui chi era già una brava persona rimarrà tale mentre chi non lo era probabilmente peggiorerà. Identico discorso per l’eventuale sovraccarico di retorica in questi richiami all’unità.

Abbiamo lasciato volutamente indefinita la successiva domanda: “È soddisfatto di come si stanno muovendo i vostri organismi di rappresentanza?”. Abbiamo cioè voluto lasciare all’intervistato la possibilità di esprimersi sia sul governo sia sugli organismi di rappresentanza della categoria. Dobbiamo constatare come la maggior parte abbia inteso la domanda riferita al governo il cui operato è stato valutato per lo più positivamente ferma restando quella mancanza di adeguata attenzione cui prima si faceva riferimento. Anche i commenti verso gli organismi di rappresentanza della categoria sono stati tiepidamente positivi anche se non sono mancati, ad onor del vero assai pochi, valutazioni di segno diametralmente opposto tendenti a lumeggiare la scarsa omogeneità della categoria “musicisti jazz”.
Conseguenti le risposte alla successiva domanda: “Se avesse la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederebbe?”. Per lo più i musicisti hanno insistito sulla necessità di una maggiore presa in considerazione delle difficoltà di tutto il settore.

A nostro avviso assolutamente preziose le risposte fornite all’ultima domanda: “Ha qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?”. Seguendo le suggestioni dei nostri amici jazzisti si avrà, infatti, la possibilità di scegliere nel vastissimo panorama musicale alcune opere che tutti dovremmo conoscere ed apprezzare.
Quindi buon ascolto e che l’attuale fase 3 ci porti definitivamente fuori dal pantano.

                                                                                                              Gerlando Gatto