Musica senza barriere: esce “Blu” del professore d’orchestra e multistrumentista Igor Caiazza

Sabato 15 maggio esce con Abeat Records “Blu”, l’album di Igor Caiazza, illustre professore d’orchestra che ha collaborato in Europa con i più grandi direttori come Muti, Abbado, Boulez, Maazel, Barenboim e Dudamel, e con compagini importanti come l’Orchestre de l’Opéra National de Paris, Orchestra e Filarmonica del Teatro Alla Scala, Orchestre National De France, Wiener Symphoniker, Philhamonia Orchestra di Londra, Mahler Chamber Orchestra.

Compositore e arrangiatore, percussionista classico e jazzista, Igor Caiazza ha scritto questo album con un grande desiderio di libertà rispetto ai rigidi canoni delle classificazioni tra i generi musicali. E, da un’aulica perfezione insita nell’essere musicista classico, è scaturita una ricerca gioiosa di un sound aperto, teso alla comunione tra i diversi stili e alla condivisione con l’ascoltatore.
Per colmare quel distacco emotivo che soprattutto i generi più colti e di nicchia impongono tra musicista e pubblico, Caiazza ha fortemente voluto accanto a sé grandi esponenti del jazz italiano, tra cui il trombettista Fabrizio Bosso e il sassofonista Javier Girotto: raffinati interpreti che sanno parlare direttamente all’anima di chi li ascolta. Le 8 composizioni presenti in “Blu” – disponibile in streaming e nei digital store al link https://backl.ink/146071115 – hanno indubbiamente una struttura jazzistica, contengono improvvisazioni e sono interpretate da jazzisti, ma l’aspetto è quello della canzone, di una musica più popolare, influenzata altresì dalla classica e da tutti i generi che accompagnano la vita di Igor Caiazza.

La carriera sinfonica di altissimo livello e le molteplici collaborazioni con grandi artisti come Bobby McFerrin, Placido Domingo, Lang Lang, Stefano Bollani, Mika, Zucchero, Elio, Andrea Bocelli, hanno influenzato il suo approccio alla musica.
Nel suo ensemble – completato dagli eccellenti Giacomo Riggi (Harpejjj), Gabriele Evangelista (contrabbasso), Amedeo Ariano (batteria), Carlo Fimiani (chitarra), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violino), Valentina Del Re (violino), Livia de Romanis (violoncello) – ha voluto riportare la concezione orchestrale della collettività, dove la performance individuale è utile soltanto in funzione dell’insieme. Così, dominando l’impulso di protagonismo, la musica diventa il reale centro dell’attenzione.
“Sono un percussionista, e quindi multistrumentista per definizione. Mi sento a disagio se etichettato o associato a uno strumento musicale in particolare – un vibrafono, una marimba, una batteria – cerco piuttosto di condividere la musica e le mie composizioni a prescindere dal
mezzo, e anzi se possibile preferisco utilizzare ogni volta uno strumento diverso.”

Dopo le esperienze discografiche in ambito orchestrale con Decca, Sony, Deutsche Grammophone e RAI arriva l’album “Blu” e dunque il sodalizio con una delle etichette di spicco del panorama jazz: Abeat Records.
“Il più freddo dei tre colori primari, il Blu domina il senso dell’udito, è il simbolo dello spazio, dell’armonia e dell’equilibrio. Rappresenta il mare, il cielo, il ghiaccio, è il colore della grande profondità e spinge all’introspezione, alla sensibilità, alla calma.”

Fabrizio Bosso: trumpet
Javier Girotto: soprano sax
Igor Caiazza: vibraphone
Giacomo Riggi: harpejji, melodica, e.piano
Gabriele Evangelista: double-bass
Amedeo Ariano: drums
Featuring Carlo Fimiani (guitar), Fabien Thouand (oboe), Marlene Prodigo (violin), Valentina Del Re (violin), Livia de Romanis (cello)

Recorded at LoaDistrict Studio, Roma Sound Engineer: Andrea Cutillo
Mixing: Andrea Cutillo at Auditorium Novecento, Napoli Mastering: Bob Fix

CONTATTI
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Ufficio Stampa (Italy): Fiorenza Gherardi De Candei – www.fiorenzagherardi.com
email: info@fiorenzagherardi.com – tel. +39.328.1743236
Label: http://www.abeatrecords.com/catdetail.asp?IDprod=354

Joe Barbieri: quando la musica diventa poesia

Alle volte capita, anzi capita più spesso di quanto si possa immaginare, che conosciuto personalmente un artista ne rimani profondamente deluso. Ciò perché la personalità e la statura umana non sempre coincidono con la statura artistica.
Di qui il mio compiacimento nel constatare come l’idea che mi ero fatta di Joe Barbieri corrisponde appieno alla statura umana e intellettuale del Barbieri uomo.
L’altro giorno ho avuto il piacere di partecipare ad una affollata conferenza stampa, naturalmente online, per la presentazione del nuovo album del cantautore napoletano – “Tratto da una storia vera” (Microcosmo Dischi/Warner Music Italy), – disponibile dal 16 aprile in Europa e dal 22 aprile in Giappone sia in digitale sia in formato fisico.
Barbieri si è sottoposto ad un vero e proprio tiro incrociato che lo ha visto rispondere sempre in maniera molto intelligente, pertinente e, quel che mai guasta, con grande gentilezza ed educazione, mai mostrando un solo attimo di fastidio. Così all’immagine più che positiva dell’artista, si è aggiunta l’immagine, anch’essa più che positiva, dell’uomo mai saccente, che risponde compiutamente alle domande, cercando di trovare i concetti e le parole giuste, che non si atteggia a grande artista…insomma una persona con cui si può dialogare piacevolmente.

In particolare, parlando dell’album, Barbieri ha tra l’altro ribadito come lo stesso definisca meglio di mille parole chi è Joe Barbieri dal momento che tutti i brani prendono vita dal suo vissuto più profondo, aggiungendo che il disco ha bisogno di essere pensato e osservato nella sua interezza. Quanto poi alla valenza delle varie tracce, Barbieri ha sottolineato come l’ultimo pezzo, quello solo strumentale, ha per lui un valore particolare rappresentando una sorta di ponte tra ciò che sta facendo e ciò che vorrebbe fare in un futuro non lontano, cioè centellinare le parole, sceglierle con ancor più cura e, perché no, farne anche a meno per una musica solo strumentale.
Rispondendo ad una mia domanda se, sulla scorta di quanto accade nel free-jazz, il musicista deve preoccuparsi solo di esprimere sé stesso attraverso la propria arte o se invece è sempre indispensabile il confronto con l’ascoltatore, Barbieri ha risposto che nella prima fase, quella di creazione, l’artista è solo con sé stesso e la musica ha bisogno di non essere corrotta dal confronto, anche se poi, in un secondo momento, a fatica compiuta, il confronto  diventa vitale perché la musica è come una pianta che ha bisogno di germogliare, di crescere…”Io poi, ha proseguito Barbieri, nel corso del tempo ho avuto il privilegio di vedere svilupparsi intorno alle cose che modestamente faccio, una piccola comunità di persone che si sentono legate, in qualche modo, alla mia musica per cui, inevitabilmente, quando faccio un disco nuovo penso a loro, quindi ci penso due, tre , quattro volte prima di presentare un nuovo disco, una nuova canzone”.
E non c’è dubbio alcuno che questa piccola comunità cui Barbieri fa riferimento, avrà accolto con entusiasmo questo “Tratto da una storia vera”.
L’album è infatti di indubbia valenza grazie ad una serie di elementi. Innanzitutto la bellezza della linea melodica che caratterizza oramai da tempo le produzioni di Barbieri coniugata con una scelta di testi coerenti, mai banali. In secondo luogo la preziosità degli arrangiamenti tutti assai ben curati. In terzo luogo le straordinarie capacità interpretative del vocalist il cui stile oramai trascende i confini della musica pop, per situarsi in una sorta di sfera atemporale in cui è possibile trovare influssi provenienti da più fonti, dalla tradizione napoletana, alla musica brasiliana, dalla world music, al jazz, dalla bossa nova al cantautorato. A tutto ciò occorre aggiungere la sapienza con cui Barbieri ha saputo circondarsi di musicisti strepitosi: ecco quindi la tromba di Fabrizio Bosso in “La Giusta Distanza” e “Tu, Io E Domani”, mentre il trombone di Mauro Ottolini si fa apprezzare in “Promemoria”. E ancora, Jaques Morelenbaum con il suo violoncello in “Niente Di Grave”, Luca Bulgarelli col suo contrabbasso, le voci di Carmen Consoli, di Tosca (con la quale Barbieri ha già altre volte collaborato) e di Sergio Cammariere, l’organo Hammond di Alberto Marsico in “Vedi Napoli E Poi Canta”. Il tutto senza inficiare di una sola virgola l’unitarietà dell’album assicurata da un Barbieri sempre presente ma non per questo debordante. Insomma un artista sobrio, maturo, elegante, perfettamente consapevole dei propri mezzi vocali messi sempre al servizio dell’espressività di una musica a tratti sinceramente toccante. Come la riproposizione di “Lazzari Felici”, un omaggio esplicito al grande Pino Daniele, proposto con originalità ma, allo stesso tempo, rispettando la valenza originaria del brano.

Gerlando Gatto

Cettina Donato e Ninni Bruschetta pubblicano “Alcol”: primo singolo del loro album “I Siciliani”

Un incontro artistico di successo, all’insegna della poesia e dell’impegno civile: è quello tra la pluripremiata pianista, compositrice e direttore d’orchestra Cettina Donato (che ha collaborato con grandi nomi tra cui Eliot Zigmund, Fabrizio Bosso, Stefano Di Battista) e uno dei più amati attori italiani, Ninni Bruschetta, diventato noto al pubblico soprattutto per le sue celebri interpretazioni in Boris, I cento passi, I Bastardi di Pizzofalcone.
Dopo i sold out ottenuti a teatro con due spettacoli di “Il Giuramento” e “Il mio nome è Caino”, Cettina Donato e Ninni Bruschetta sono entrati in studio di registrazione per uno speciale progetto discografico: l’album “I Siciliani”, che omaggia l’arte e la poesia di Antonio Caldarella, grande scrittore siciliano, recentemente scomparso.

Ispirata dai suoi versi Cettina Donato ha sviluppato il concept del disco, componendo e arrangiando per ensemble 8 brani e 3 preludi per pianoforte densi di emozione e pathos, nei quali Ninni Bruschetta magistralmente recita e canta le poesie di Caldarella.
Cettina Donato: “Scrivendo e arrangiando nuova musica sui suoi meravigliosi versi, ho conosciuto Antonio Caldarella, pur non avendolo mai incontrato. Ciò che di noi è più bello, rimane immortale.”
Prodotto ed edito dall’etichetta AlfaMusic e distribuito da Believe Digital – EGEA Distribution, il disco sarà pubblicato il 14 maggio, mentre venerdì 16 aprile uscirà il primo singolo “Alcol” – disponibile nei principali digital store e sulle piattaforme streaming al link https://backl.ink/145533332 – accompagnato dalle immagini girate da Francesco Bruschetta (https://youtu.be/aSOt_yvGuAI) in una location speciale, storico tempio del jazz italiano: l’Alexanderplatz Jazz Club di Roma.
Ninni Bruschetta: “La poesia “Alcol” scritta da Antonio Caldarella è un’ubriacatura di acquavite di Sardegna: Filu ‘e ferru malidittu! Con la musica scritta da Cettina, abbiamo cantato il viaggio e il sogno visionario di un grande artista.”

L’intero disco è disponibile in formato cd, per ora in pre-order, sul sito www.cettinadonato.com. Nel comporre e arrangiare gli 8 brani, Cettina Donato ha voluto attorno a sè un grande cast di musicisti: dagli archi della BIM Orchestra diretta da Giuseppe Tortora, ad un trio jazz formato da eccellenti musicisti, il sassofonista Dario Cecchini (Lee Konitz, Natalie Cole Band, Kenny Wheeler Hot Eleven, Funk Off, Paolo Fresu, Enrico Pieranunzi, Dave Liebman), il contrabbassista Dario Rosciglione (Cedar Walton, Joe Lovano, Randy Brecker, Phil Woods, Tony Scott, Danilo Rea) e il batterista Mimmo Campanale (Paolo Fresu, Bob Mintzer, Phil Woods, Lee Konitz, Randy Brecker, Dee Dee Bridgewater). A completare l’ensemble, l’attrice e cantante Celeste Gugliandolo (seconda a X Factor 2011 con I Moderni), interprete di uno dei brani del disco.

Attore di teatro, cinema e tv, Ninni Bruschetta ha firmato più di 40 regie teatrali, dirigendo, tra gli altri, Anna Maria Guarnieri, Claudio Gioè, Donatella Finocchiaro, Roberto Citran, David Coco, Edy Angelillo e Angelo Campolo.E’ stato per due volte direttore artistico dell’EAR Teatro di Messina. Tra cinema e televisione ha preso parte a quasi cento titoli, spaziando dalle grandi serie generaliste (Squadra Antimafia, Borsellino, Distretto di Polizia,I bastardi di pizzo falcone) al cinema d’autore (Luchetti, Giordana, Corsicato, Guzzanti, Pif, Von Trotta, Woody Allen, Paolo Sorrentino) al record di incassi di “Quo Vado?” di G. Nunziante, con Checco Zalone. E’ uno dei protagonisti della serie cult “Boris” e del relativo film di Ciarrapico, Torre e Vendruscolo nonché dell’ultimo capolavoro televisivo di Mattia Torre (La linea verticale). Premio Tony Bertorelli alla carriera nel 2018. Ha pubblicato tre sceneggiature con Sellerio e due saggi critici sul lavoro dell’attore con Bompiani e Fazi.
Pluripremiata pianista, compositrice e direttore d’orchestra, Cettina Donato da anni è annoverata tra i migliori arrangiatori italiani al Jazzit Award. Conduce la sua carriera concertistica prevalentemente tra Europa e Stati Uniti. Docente di jazz in diversi Conservatori italiani, ha ricoperto il ruolo di International President del Women of Jazz del South Florida. Ha diretto diverse orchestre italiane, mentre a Boston ha fondato una big band a suo nome con musicisti provenienti dai cinque continenti. Nella sua carriera ha collaborato con importanti solisti del panorama jazz nazionale e internazionale, pubblicando cinque album a suo nome.

Antonio Caldarella (1959 – 2008), attore, poeta e pittore, è nato ad Avola ed è cresciuto a Napoli, a Messina e in giro per il mondo. In teatro ha lavorato con Antonio Neiwiller, Mario Martone, Elio De Capitani, Ninni Bruschetta e al cinema con Daniele Luchetti, Francesco Calogero, K.M. Brandauer e altri. Le sue poesie sono edite da piccole Case Editrici Siciliane che avevano capito il suo genio, senza che lui si sforzasse di fare qualcosa di più che non fosse scriverle. Persino Jean Paul Manganaro ha scritto parole meravigliose su di lui. Ma dev’essere stato un caso. Forse si erano parlati una sera davanti al mare. I suoi quadri, gli acquerelli e persino i bigliettini da visita dipinti a mano, sono sparsi nelle case di amici e conoscenti che li custodiscono gelosamente.

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Chick Corea: l’Iperione del pianismo jazz. Un pensiero dedicato al musicista scomparso il 9 febbraio

Hyperion, «colui che precede il Sole», era un Titano della mitologia greca, padre di Elio (Dio del Sole), di Eos (l’Aurora) e di Selene (la Luna). Collegare questa mitologica figura ad Armando Anthony Corea, detto Chick, scomparso a 79 anni a Tampa Bay il 9 febbraio, è stato istintivo: lui è un titano della musica jazz, un audace precursore che come pochi altri ha saputo sviluppare l’arte del pianoforte portandola a livelli altissimi o, come mi ha scritto un amico pianista, un illuminato, «tra i più grandi creatori di archetipi della storia».
Qualche giorno prima che Chick se ne andasse, così… all’improvviso, stavo ascoltando un album, non certo epidittico della sua enorme, cinquantennale produzione. Si tratta di un LP del 1976 (Atlantic Records) «Chick Corea, Herbie Hancock, Keith Jarrett, McCoy Tyner». È un’operazione suggestiva, una sorta di silloge dell’arte pianistica che racchiude due brani per ciascuno dei quattro più importanti pianisti dell’era post-bop, nella formazione in trio.
Chick sceglie un brano di sua composizione “Tones for Joan’s Bone’s” (che è anche il titolo del suo album di debutto, nel 1968) nel nel quale è accompagnato da Joe Chambers alla batteria e Steve Swallow al basso, mentre il secondo, “This is New”, porta la firma “nientepopodimeno che” di Kurt Weill e Ira Gershwin; qui lo accompagnano il trombettista Woody Shaw e il sassofonista Joe Farrell. C’è un assolo di Corea che mi fa impazzire… è bizzoso e puntuto…

Il Chick che ho ascoltato di più, tuttavia, è quello dei Return To Forever, nelle sue varie formazioni (dal 1971 ai giorni nostri) nelle quali sono transitati musicisti molto noti, tra cui alcuni top guitarist come Al Di Meola ed Earl Klugh. L’album di debutto della band, “Return to Forever”, uscito nel 1972 per l’etichetta ECM, con Chick al Fender Rhodes, Stanley Clarke al basso, Joe Farrell al flauto e sax, Airto Moreira, alle percussioni e la grande voce di Flora Purim, è per me uno dei dieci album di jazz-fusion più belli in assoluto…

Già… il Fender Rhodes… c’è un famoso aneddotto legato a questo strumento, che Corea raccontò così in un’intervista:

«Nel gruppo di Miles (Davis) facevo ciò che mi veniva chiesto. Per i primi sei mesi suonai il piano acustico, poi Miles disse che voleva un sound diverso; una notte si presentò con un piano elettrico e mi disse: “suona questo”. All’inizio ho odiato il Fender Rhodes, perché lo suonavo come un pianoforte, cosa che non è. Ma mi sono applicato, ho fatto di tutto per accontentare Miles. Poi quando ho fondato il mio primo gruppo Return to Forever ho suonato soprattutto il Fender».

Chick Corea l’ho incontrato nel 2015 a Udin&Jazz (a Udine venne anche nel 1997 in duo con il vibrafonista Gary Burton) e, al di là dello splendido concerto per piano solo a cui ho avuto la fortuna di assistere, nel quale presentò un repertorio composto non solo dalle sue composizioni originali ma che viaggiava anche sulle note di Gershwin, Scarlatti, Chopin, conservo gelosamente nel mio cuore il ricordo di una persona estremamente aperta e disponibile, sia con il numeroso pubblico presente, sia con noi dietro le quinte.

Sempre generoso e aperto allo scambio, Chick invitò sul palco alcuni pianisti presenti che ebbero l’incredibile opportunità di suonare con una leggenda del jazz, vincitore di ben 23 Grammy Awards! Nel 1993, ricevette anche una Targa Tenco per “Sicily”, interpretata con il nostro Pino Daniele. Corea suonò il pezzo a Napoli, durante il suo concerto all’Arena Flegrea nel 2016, dedicandolo all’amico Pino, scomparso un anno prima, definendolo uno dei più grandi musicisti italiani e del mondo…
Se penso che quest’estate avrei finalmente rivisto questo straordinario pianista in Friuli Venezia Giulia, dov’era atteso a luglio per una data di Grado Jazz…
Nel periodo del primo lockdown, in aprile, lui postava sulla sua pagina Facebook un sacco di video: «Hello everybody, it’s Chick! Day 2» e via così… Ne ho seguiti diversi, rimanendo una volta di più stupefatta dal suo grande cuore e dal suo sempre impellente desiderio di condividere con gli altri la sua visione della musica.
Tra i suoi innumerevoli progetti, tengo particolarmente a menzionare la Chick Corea Elektric (in trio anche Akoustic) Band, con Patitucci, Gambale e Weckl, a testimonianza dell’eclettismo di questo artista e di quanto egli amasse addentrarsi nelle infinite pieghe della sperimentazione, con ibridazioni musicali cross-over.
Herbie Hancock, suo grande amico, racconta su Rolling Stone di quando una sera, nel 1980, al Montreux Jazz Festival… «sono finito sotto il pianoforte, suonavo la parte in legno. Chick era sopra il piano e faceva qualcosa con le corde. Il pubblico era fuori di testa. […] Non facevamo i pagliacci. Volevamo fare musica e allo stesso tempo divertirci. Che c’è di male?
Sapete cosa abbiamo fatto per il quinto bis? Eravamo dietro le quinte e Chick mi ha detto: “Dobbiamo tornare indietro, stanno ancora gridando”. Ho risposto: “Ok Chick, perché non mettiamo due sedie di fronte al pubblico e facciamo dei giochi con loro?”. È andata proprio così. Non abbiamo più toccato il pianoforte. Ci siamo seduti e abbiamo fatto tutto quello che ci veniva in mente: usavamo le parti del nostro corpo per suonare le percussioni, ci toccavamo la gola per fare dei suoni oscillanti. […] Non lo dimenticherò mai. È un ricordo monumentale».

Herbie Hancock& Chick Corea – Ph: Torben Christensen ©

Monumentale, un aggettivo che si attaglia perfettamente all’immenso lascito artistico di Chick Corea, un patrimonio prezioso, una fonte inesauribile di ispirazione per intere generazioni di musicisti, come nel suo ultimo messaggio, scritto quando aveva già la consapevolezza di doverci lasciare: « Voglio ringraziare tutti coloro che nel corso del mio viaggio hanno contribuito a mantenere vivo il fuoco della musica. Spero che chi di voi abbia l’attitudine per suonare, scrivere, esibirsi o altro lo faccia. Se non per voi stessi, fatelo per noi. Non solo perché il mondo ha bisogno di più artisti ma anche perché è molto divertente esserlo!»

Per te, Chick, una dedica speciale con una poesia di Srečko Kosovel, poeta sloveno poco “mainstream”, che quell’attitudine per scrivere di cui parli ce l’aveva eccome!
Purtroppo non ha potuto esprimerla appieno essendo morto a soli 22 anni…
«Oh, ma non c’è morte, morte! Solo il silenzio è troppo profondo. Come in una foresta verde in espansione! Solo ti ritiri, solo diventi silenzioso, solo cresci… solo… solo, solo, solo, invisibile.
Oh, ma non c’è morte, morte! Solo tu cadi, solo cadi… cadi, cadi in un abisso di blu infinito».
I bid you farewell, Chick, I bid you farewell. Ti ritroverò nell’imponderabilità tonale di una nota blu…

Marina Tuni ©

Dora Musumeci: un’illustre dimenticata

C’è un paradosso che francamente non riesco ancora a spiegarmi: Dora Musumeci è stata una grandissima artista, la prima pianista e cantante jazz italiana che ha ottenuto incredibili successi anche al di fuori dei confini nazionali. Eppure le varie storie del jazz, scritte sia da stranieri sia da italiani, non ne fanno menzione. Anche le più moderne, le più pretenziose, magari scritte a quattordici mani, se la cavano con una semplice citazione, nulla di più. Come mai? Un mistero cui non so dare una logica spiegazione. E’ per questo motivo che ho deciso di riproporvi un bell’articolo pubblicato dal “Sicilian Post” a firma del collega Giuseppe Attardi. (G.G.)

È siciliana non solo la prima cantautrice italiana, Rosa Balistreri, ma anche la prima pianista e cantante jazz italiana: Dora Musumeci. E la Sicilia è stata capace di dimenticare entrambe. Se dell’artista di Licata si è cominciato in ritardo a celebrarla con sparute e disarticolate iniziative, la musicista catanese sembra essere caduta nel dimenticatoio. Eppure, da molti fu considerata la “Regina dello swing”, tanto da essere corteggiata da Broadway.
La musica la piccola Giulia Isidora Musumeci l’aveva respirata sin dai primi vagiti: il padre, Totò, era violino di fila al Teatro Bellini, il fratello Tito suonava il contrabbasso, la nonna era una eccellente pianista per diletto. Insomma, il ritmo Giulia Isidora lo aveva nel sangue. Enfant prodige, già a 6/7 anni si esibiva, suonando il piano in una orchestrina con la quale effettuerà nel Dopoguerra un tour in Tripolitania. La chiamavano perché lei era capace di leggere e suonare immediatamente tutti i pezzi che le proponevano. A 9 anni chiese al padre di mandarle a ritirare direttamente dagli States gli spartiti di George Gershwin, che da quel momento sarà il suo punto di riferimento. Attraverso l’autore di Porgy & Bess scoprirà il jazz e se ne innamorerà.
Ed è mentre accompagna ballerini, comici e soubrette, che si sparge la voce di questa favolosa pianista che suona la musica degli afroamericani.
Forse insegue e sogna Broadway quando, subito dopo aver conseguito a 18 anni il diploma di pianista al San Pietro a Majella di Napoli, sceglie il nome di Dora e presta il suo piano alla rivista. Ed è mentre accompagna ballerini, comici e soubrette, che si sparge la voce di questa favolosa pianista che suona la musica degli afroamericani. “Musica Jazz” le dedica un articolo monografico, lei comincia a girare per l’Italia esibendosi con i grandi della musica, soprattutto jazz, come Dizzy Gillespie e Lionel Hampton. In questo stesso periodo, forma la sua prima band e incide le sue prime opere, che la porteranno in tour in Spagna, Francia, Portogallo, Germania, Belgio e Svizzera.
«Dora è stata la prima grande pianista jazz, un talento straordinario: per lei la musica era un elemento naturale», ricorda Roby Matano, musicista cantante de I Campioni, che per due anni lavorò con la musicista etnea. «Fu suo padre a chiedermi di entrare nel complesso di Dora come cantante/bassista. Con lei si creò subito un’intesa artistica perfetta e una grande fraterna amicizia. Fu un periodo di tournée in tutta Italia: ricordo per esempio il locale L’Oleander a Ischia dove, tra i grandi personaggi che lo frequentavano (attori, giornalisti, ecc.), c’era anche Alfred Hitchcok, anche lui in vacanza a Ischia: a lui piaceva molto la canzone napoletana, in particolare ‘O Marenariello. Il mio rapporto con Dora si interruppe a Viareggio, mentre eravamo al Principe di Piemonte per il veglione di Carnevale, ospite d’onore Gina Lollobrigida… mi arrivò la notizia che dovevo partire per il servizio militare».
Negli anni Sessanta arriva a Roma e porta il jazz nel “tempio del beat”, al Piper club. Fu un successone, tanto che Arrigo Polillo scrisse: «Che l’avvenire del jazz sia nelle mani femminili?».
Nel 1956 Dora vince il Festival del jazz di Modena Dora e pubblica per la Cetra il suo primo album: La regina dello swing. Fu registrato a Torino, a casa di Gorni Kramer che suonava il contrabbasso, mentre Gil Cuppini stava alla batteria. Negli anni Sessanta arriva a Roma e porta il jazz nel “tempio del beat”, al Piper club, esibendosi con Romano Mussolini e Lionel Hampton. «Ed ora vi lascio con questa meravigliosa pianista», la presentò una sera Nunzio Rotondo, con il quale suonava, lasciandola sola con la ritmica. Fu un successone, tanto che Arrigo Polillo scrisse: «Che l’avvenire del jazz sia nelle mani femminili?».

Seguirono tantissimi concerti, radio, televisione, Dora ebbe parte attiva nel mondo del cinema, registrando alcuni brani per colonne sonore assieme a importanti compositori, tra cui il maestro Ennio Morricone, Romano Mussolini e Giovanni Tommaso. Con il compianto autore di C’era una volta il West, incise il 45 giri Caffè e camomilla, sulla cui copertina era presentata con queste parole. «Ragazza dal viso aperto e dagli occhi luminosi nei quali si riflettono i colori della Sicilia. Pianista ben preparata e appassionata di jazz: qualcuno sentendola cantare e accompagnarsi con tanta carica di swing, l’ha definita la Nelly Lutcher italiana. Non c’è dubbio che Dora Musumeci sia su un livello artistico molto elevato, anche perché sa esprimere con particolare eleganza la sua natura di donna romantica e di ragazza moderna. Un contrasto messo in evidenza da Caffè e camomilla».

In quegli stessi anni prese parte al festival di Comblain-la-Tour, dove suona con Cannonball Adderley.
«Ai pianisti maschietti il mio successo non fece tanto piacere e cercarono di mettermi, in tutti i modi, i bastoni fra le ruote. Prima erano loro che chiamavano me, adesso ero stata io a chiamare loro e questo dava fastidio»
La piccola Dora diventa la “first lady” italiana del jazz che le donne le voleva al massimo cantanti, muse, ma non musiciste. Dora è una pioniera: pelle bruna, anelli d’oro alle orecchie, treccione nero sul prendisole a righe “alla marinara”, lei sta in mezzo a Intra, Gaslini, Cerri, che di nome fanno Enrico, Giorgio, Franco, mentre il suo termina per “a”, Dora come Donna. «Ai pianisti maschietti il mio successo non fece tanto piacere e cercarono di mettermi, in tutti i modi, i bastoni fra le ruote», accusò in una intervista a Gerlando Gatto, pubblicata nel libro L’altra metà del jazz, ricordando uno specifico episodio: «Fui invitata a un festival a Torino: ero una sorta di organizzatrice di regina del festival e feci venire Carlo Loffredo, Romano Mussolini, ma tutti questi erano distaccati, quasi incattiviti, probabilmente pensavano che mi stessi impadronendo della situazione: prima erano loro che chiamavano me, adesso ero stata io a chiamare loro e questo dava fastidio».


Delusa dal mondo misogino del jazz, Dora respinge le avances che le arrivano da Broadway e negli anni Settanta abdica al trono di “regina dello swing” per dedicarsi alla musica classica, suo primo amore, soprattutto a quella di Debussy, Bach, Rachmaninoff. Compose musiche per spettacoli radiofonici, tra cui nel 1972 La scuola dei buffoni di Michel de Ghelderode, per la regia di Romano Bernardi. Collabora con il Teatro Stabile di Catania (ben venti produzioni) ed è spesso protagonista di recital al Bellini, nel frattempo insegna pianoforte al Conservatorio Francesco Cilea di Reggio Calabria. Nel 1994 venne nominata Cavaliere dell’Ordine al merito della Repubblica, come eccellenza italiana nel mondo. Dieci anni dopo muore, uccisa da un pirata della strada nei pressi del Corso Italia, dopo un lungo periodo di coma. Dimenticata dal jazz e dalla sua città.

Giuseppe Attardi

Antonio Baiano: fotografo AFIJ del mese di luglio – la gallery e l’intervista

Nel prosieguo della felice collaborazione di A Proposito di Jazz con l’Associazione Fotografi Italiani di Jazz AFIJ, s’inserisce l’iniziativa “Il fotografo AFIJ del mese”. Luglio mi ha riservato un’inaspettata sorpresa, l’intervista ad Antonio Baiano. Devo dire che le sue risposte e le sue immagini mi hanno trascinata in un viaggio dell’anima che ha messo in moto anche la mia sete di conoscenza, accendendo i sensori della mia curiosità; un viaggio che mi ha portato a scoprire il suo modo intimo di fotografare il jazz e la sua capacità di cogliere l’istante perfetto, come nella foto che ha scattato a Carla Bley e Paul Swallow… delicata, tenera… emozionante. Attraverso le sue foto sulla Santeria, una religione che fonde le pratiche animiste dell’Africa occidentale e il cattolicesimo, mi si è svelato un aspetto inconsueto e affascinante di Cuba. Al netto della passione per il jazz e per i viaggi, ho scoperto di avere in comune con lui anche quella per i Van der Graaf Generator e per i King Crimson!  (Marina Tuni)

Nato a Napoli nel 1962, Antonio Baiano, vive a Torino dal 1990 ed ha iniziato la sua attività fotografica nel 1997 fotografando concerti jazz.
Nel suo percorso formativo ha frequentato i seminari di David H. Harvey, Kent Kobersteen, Tomasz Tomaszewski, Ernesto Bazan e Alexandra Boulat.
Oltre alle immagini di spettacolo, predilige i reportage, che considera il mezzo perfetto per approfondire l’esplorazione e la conoscenza di tematiche sociali e diversità culturali.
Nel 2001 parte il suo progetto “Roots” sulle religioni afro-caraibiche; negli anni ha portato avanti un lungo progetto sui riti della Santeria Cubana e sul Candomblé, in Brasile.
Le immagini di questi reportage sono state esposte a Cuba, in Francia e in Italia e sono conservate nel museo “Casa de Africa” ​​de L’Avana e nel Museo Etnografico “Pigorini” di Roma. Suoi scatti sono pubblicati su varie riviste e giornali come Musica Jazz, Repubblica, Volunteers for Development, Collections Edge ed è anche autore di diverse copertine di CD.
Collabora regolarmente con la webmagazine All About Jazz ed è membro dell’American Society of Media Photographers (www.asmp.org) dal 2002.

Ci racconti qualcosa di te? Cos’è che ti ha fatto capire che la fotografia, di jazz soprattutto, sarebbe stata una parte determinante della tua vita?
“Sono vissuto in una famiglia amante della musica: ho un fratello ed una sorella musicisti classici che, fin da piccoli, hanno riempito la casa e la mia vita di musica. Fra i dischi di Beethoven e Stravinsky c’erano alcuni “V Disc” e una copia di “Giant Steps” di mio padre, ed io ho cominciato con essi ad ascoltare il jazz. Mio padre mi fece avvicinare alla fotografia dandomi la sua Nikon F con la quale ho fatto i miei primi scatti. Il connubio tra fotografia e musica è stato quindi inconsciamente sempre naturale. Mi sono avvicinato alla fotografia di Jazz dopo aver lasciato lo studio della chitarra, forse è stato un atto compensativo per questa rinuncia perché, quando fotografo i concerti, mi sembra di partecipare attivamente ad essi. A volte mi sembra quasi di scattare al ritmo del brano che stanno suonando!”

-Ho letto – e devo dirti che mi ha colpita molto – del tuo progetto dedicato alla Santeria Cubana, con gli scatti che hai realizzato a Cuba in un periodo molto lungo. So che per i cubani la Santeria rappresenta non solo un culto, che peraltro si mescola al cattolicesimo, ma una vera e propria filosofia di vita basata sulla ricerca della felicità e sul fatto che la realizzazione di una persona non può avvenire se ciò arreca infelicità all’altro. Determinante è stato per te l’incontro con Yadira, che hai conosciuto nel 1999 quand’era ancora una bambina e che continui a seguire anche ora che è diventata donna e madre. La sua storia è legata a doppio filo alla Santeria, alla quale fu iniziata dai genitori in tenera età. Credo che un’esperienza così intensa possa aver influito profondamente nella tua vita personale e forse anche nel tuo modo d’intendere la fotografia. È così?

“Sicuramente l’incontro con Yadira è stato un elemento determinante della mia vita; siamo profondamente legati e ormai dei momenti della mia vita passata e futura sono legati a lei ed alla sua famiglia. Ma non penso che abbia cambiato il mio modo di intendere la fotografia, perché almeno per me è sempre dipeso dall’etica con cui l’affronto e dai motivi per cui fotografo. Quando affronto un progetto fotografico, avendo il raccontare come elemento di base, il mio principio è prima di tutto quello di essere sincero nei confronti sia del soggetto fotografato sia di chi poi guarda le mie foto e “legge” la mia storia. Così è stato per Yadira e così per altri lavori, come quello sulla Santeria o sul Kurdistan. Poichè la fotografia non descrive la realtà, ma in qualche modo la interpreta o comunque lascia gli spazi all’interpretazione, ritengo sia necessario che il proprio approccio sia quanto più possibile onesto e sincero, perlomeno in un campo come quello del reportage”.

-Da più parti si sostiene che la fotografia è un elemento oggettivo. A mio avviso è esattamente l’opposto dal momento che è il fotografo a scegliere i vari parametri dello scatto. Qual è la tua opinione a riguardo?
“Sono totalmente d’accordo con te! Come ho detto sopra, la fotografia interpreta e lascia interpretare. È il fotografo che decide cosa e come inquadrare, e con che parametri, come la focale o l’esposizione. È il fotografo che decide cosa lasciare all’interpretazione, cosa svelare, cosa nascondere, se ingannare o meno lo spettatore. D’altronde, artisti in altri campi ci hanno insegnato che anche gli oggetti reali possono non essere quello che sembrano. Come potrebbe quindi la fotografia essere oggettiva?”

-Una foto ben fatta ha un’anima e soprattutto mostra l’essenza del musicista, quel filo che lo unisce al suo pubblico. Spesso, quando scrivo un articolo, una recensione, mi soffermo a pensare al peso, all’impatto che ogni singola parola potrà avere in chi mi legge… È una grossa responsabilità, non trovi? Capita anche a te di pensarlo per le fotografie che scatti?

“Sicuramente. Anche io faccio una scelta molto ponderata (di cui magari poi mi pento dopo la pubblicazione) delle foto che ho scattato, cercando di restituire al meglio ciò che ho ascoltato e fotografato. A mio avviso però qui entra in gioco maggiormente (rispetto al reportage) il voler raccontare sé stessi in quella foto o meglio mostrare come si vede  quel musicista e la sua personalità. Rimane sempre presente quel filo legato alla soggettività della fotografia”.

-La musica, si sa, è una fenomenale attivatrice di emozioni… anche estetiche, se vogliamo. Esiste persino una ricerca che dice che le nostre menti hanno la capacità di elaborare una sorta di libreria musicale che riesce a richiamare, attraverso una singola emozione collegata ad un brano, una multiforme combinazione di sentimenti ad esso associati. Quando scatti una fotografia, quanto la tua mente è condizionata dal fatto che ti piaccia o meno la musica dell’artista che stai fotografando e quanto ciò influisce sul risultato finale?
“Penso che in qualche modo la musica che viene suonata mi condizioni, ma in modo limitato. Alla fin fine sono un fotografo, quindi cerco forme, ombre e luci. Sono molto più condizionato da questi elementi e da come e cosa il musicista fa in scena e di come interagisce con gli eventuali partner”.

Immagino che tu, come un padre nei confronti dei suoi figli, ami ogni tuo singolo scatto… tuttavia, ne ricordi qualcuno di cui sei particolarmente orgoglioso?
“Alcune delle mie immagini preferite sono fra quelle che ho scelto per questo articolo, come quella di Carla Bley e Steve Swallow. È un momento così sincero di tenerezza fra i due che penso descriva molto di questi due musicisti e sono sempre stato felice di aver colto quell’attimo. Un’altra foto che mi piace molto è quella di Ralph Towner mentre accorda la chitarra. Ralph è un musicista determinante nella mia vita perché fu ascoltando lui che decisi di studiare chitarra classica. Accordare lo strumento, se vogliamo, è un gesto banale ma fondamentale che il chitarrista ripete spesso durante un concerto. Quella foto coglie l’estrema attenzione con cui il musicista lo compie. Poi la foto di David Jackson (la numero nove, ndr). Non potevo credere di conoscere uno dei musicisti di uno dei miei gruppi preferiti, i Van der Graaf Generator. È una persona estremamente cordiale e disponibile, ricca di umanità; ebbi una bella discussione con lui, che sfociò in quello scatto. Penso che descriva molto della sua personalità. Poi sicuramente (ed ovviamente) tanti degli scatti fatti a Yadira o della Santeria sono parte integrante di me!”

Marina Tuni