Greta Panettieri ed Elena Paparusso: ancora due grandi artiste a “L’altra Metà del Jazz””

Anche il penultimo incontro del ciclo “L’altra Metà del Jazz”, ideato e condotto da Gerlando Gatto, ha confermato le premesse da cui la serie ha preso avvio. Rifacendosi al secondo libro di Gatto, “L’altra Metà del Jazz”, il giornalista ha voluto presentare uno spaccato di quanto ricco sia il panorama delle musiciste jazz nel nostro Paese. Di qui una carrellata di artiste notissime, conosciute e meno conosciute che hanno tutte evidenziato un livello artistico di qualità assoluta e che forse, almeno in molti casi, meriterebbero maggiore considerazione.
Ma, rimandando alla prossima, conclusiva puntata del ciclo (martedì 12 marzo, con  Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti) un bilancio più approfondito, veniamo alla serata di martedì scorso.

La prima musicista intervistata da Gatto è stata Greta Panettieri, che esordisce raccontando la sua infanzia a dir poco peculiare: cresciuta facendo vita rurale in una comune in Umbria, ovvero in un casale abbandonato e occupato dai suoi genitori e un gruppo di stretti amici, Greta racconta che questa vita, oltre ad insegnarle ad affrontare con coraggio le difficoltà del momento e a crescere in maniera organica con la natura, è stata fondamentale per avvicinarla al macrocosmo musicale in cui vive oggi. Infatti erano molto comuni le esibizioni musicali e gli ascolti in comunità di numerosi dischi, soprattutto di Frank Zappa, ed è proprio da questo ascolto che nascerà la sua passione per la musica, passione che si concretizzerà tramite lo studio del violino dall’età di sei anni, proseguito a sedici anni con l’ingresso al conservatorio.
A questo proposito viene evidenziato un particolare anno nella vita della cantante, ovvero il 1994: infatti quello sarà l’anno in cui inizierà a studiare canto sotto la maestra Cinzia Spata, prima e unica insegnante di canto – per il resto Greta racconta di essere autodidatta – della quale ricorda con affetto il fatto di essere stata la prima sia ad instillare in lei la concezione della voce come vero e proprio strumento, sia ad approfondire la forma del canto jazz; narra inoltre un simpatico aneddoto secondo cui la passione di Greta per il canto e la sua foga fossero tali da far esclamare alla maestra, l’ultimo giorno di lezione: “Non so nemmeno cosa ti ho insegnato!”. E alla constatazione di Gatto sulle radici siciliane della maestra Spata, come del resto di altre insegnanti – vocalist già menzionate nelle scorse serate – Greta risponde lodando la generosità della gente di Sicilia e la loro voglia di condividere la propria conoscenza.
Altro anno cruciale per la carriera di Greta sarà il 1998, anno in cui vincerà una borsa di studio per andare al Berkeley College of Music di Boston; tuttavia, a differenza di sue altre colleghe, lei non studierà veramente lì: infatti, per una questione di sostenibilità dei costi, non coperti del tutto dalla borsa di studio, si fermerà a New York City per un periodo,  che a conti fatti si dimostrerà molto fruttuoso.
Nel 2004 forma una band, i Greta’s Bakery, con il pianista, produttore e arrangiatore Andrea Sanmartino, suo accompagnatore per la serata nonché compagno nella vita, e il bassista Mike LaValle; con questa band firmerà nel 2007 un contratto con la prestigiosa casa discografica Decca Records, da cui uscirà nel 2010 l’album The Edge of Everything, che comprende sia composizioni originali del trio sia cover di altri celeberrimi artisti come Diane Warren, Mina o gli Outkast. Se da un lato Greta descrive quest’esperienza come estremamente formativa per conoscere meglio il mestiere sia del cantante che del discografico, d’altra parte riconosce le profonde difficoltà riscontrate durante quel periodo: infatti le era stato chiesto dalla casa un cambiamento radicale, sia d’immagine sia dal punto di vista musicale. Di qui la necessità – nonché la voglia – di un cambiamento che la porterà, nel 2011, a rescindere il contratto con la Decca per ritornare ad essere un’artista completamente indipendente. Da questa svolta nascerà nel 2011 l’album Brazilian Nights, in collaborazione con il pianista Cidinho Teixeira, il sassofonista Rodrigo Ursaia,  il batterista Mauricio Zottarelli e il bassista Itaiguara Brandão, disco nel quale, a suo dire, ha ritrovato quell’integrità artistica smarrita durante il periodo con la Decca.
Infine Greta racconta della sua attività secondaria, ovvero la scrittura di libri: infatti a repertorio ha una graphic novel intitolata Viaggio di Jazz, narrazione della sua storia fino a quel momento, e La voce nel pop e nel jazz, un testo universitario in cui si analizzano cento canzoni tratte dal repertorio del pop classico americano degli anni ‘20-‘60. Certo è piuttosto sorprendente scoprire una musicista che scrive libri, ma a ben vedere la cosa non è poi così strana.  Al riguardo, prendendo spunto anche dall’intervista della serata scorsa ad Ottavia Parrilla, che raccontava del suo ruolo di storyteller, non appare particolarmente bizzarro che un compositore, già avvezzo a raccontare storie per mezzo della musica, si trovi nel suo elemento cimentandosi in quelle che in fondo sono altre forme di espressione artistica. È il caso per esempio del rapper spagnolo Rayden, al secolo David Martínez Álvarez, che ha sempre coltivato una passione per la letteratura tale da arrivare non solo a scrivere romanzi durante la carriera, ma addirittura a ritirarsi l’anno scorso, proprio all’apice del suo successo, per dedicarsi in toto alla letteratura e alla scrittura.
I brani presentati live dai due artisti sono stati Don’t know (Sammartino, Panettieri) The Sabiá di Chico Buarque e Tom Jobim, e Strangers In the Night, tratto dal songbook di Frank Sinatra, cui sarà dedicato il prossimo album della Panettieri in uscita a breve.

La serata prosegue con Elena Paparusso, artista poliedrica che nonostante i suoi legami con numerose forme d’arte, tra cui la danza, si sente prima di tutto musicista; di lei Gatto nota subito il curriculum zeppo di eventi cui ha partecipato, ed Elena risponde affermando che questa è una passione nata fin da quando lei era piccola: condividere e far conoscere degli artisti da lei stimati attraverso l’organizzazione di eventi, concerti e rappresentazioni. Inoltre, interrogata riguardo la scarsa produzione discografica da parte sua, spiega come la sua attività non si fermi alla musica, ma si estenda anche ad altre branche dell’arte – e di conseguenza la maggior parte delle sue idee non trova concretizzazione in dischi (ad esempio la danza contemporanea).
Parla poi della sua storia personale: nata a Noci, cittadina in provincia di Bari, dopo aver finito le superiori si trasferisce a Roma – inizialmente per studiare economia, ma poco dopo si iscrive al Conservatorio di Santa Cecilia studiando con Maria Pia de Vito, laureandosi e specializzandosi in canto jazz ma proseguendo comunque i suoi studi di canto con il contralto lirico Lucia Cossu; a questo proposito racconta che, dato il suo timbro da mezzosoprano, ha sempre avuto una particolare attenzione alla tecnica vocale, notando la difficoltà da parte delle persone con il suo stesso timbro vocale nel cambiare registro.
A proposito della sua discografia e delle sue opere, parlando del suo primo album Inner Nature del 2016, l’artista afferma il legame profondo con la tradizione jazz presente in esso; a questo proposito cita i suoi modelli di riferimento: in quanto a cantanti Carmen McRae, Jeanne Lee, Becca Stevens, Sarah Vaughan, Abbey Lincoln ed Ella Fitzgerald. Inoltre, riguardo alle sue composizioni, la cantante spiega come il testo di una canzone e scrivere quello che si canta siano visti da lei come elementi di estrema importanza nei suoi lavori, nonostante questo non le impedisca di musicare alcune poesie già esistenti: a questo proposito, oltre a citare tra i suoi lavori un adattamento di Dark August di Derek Walcott, racconta di come abbia messo in musica una raccolta di poesie dello scrittore Vittorio Tinelli. A proposito interviene Gatto che racconta un gustoso episodio di come molti anni addietro, prima del Nobel,  conobbe Walcott in una splendida spiaggia caraibica, trovandolo un uomo molto colto ma allo stesso tempo gentile e affabile.
Riguardo alla sua carriera, nel 2015 vince il premio come Miglior Compositrice nel Women in Jazz Competition, vittoria che le permetterà di suonare sia a Londra sia  ala Casa del Jazz; a questo proposito, rispondendo alla consueta domanda di Gatto sulle discriminazioni a stampo sessista nell’ambito jazzistico e musicale, lei risponde che non molti uomini, fortunatamente, mettono in atto comportamenti di questo genere, esistono tuttavia ancora discriminazioni in questo ambito: in sostanza, si sono fatti passi avanti ma c’è ancora molto da fare.
Nel 2018 partecipa al progetto della sua insegnante Maria Pia de Vito, Moresche e altre invenzioni, realizzato in collaborazione con l’Ensemble Burnogualà: di questa collaborazione Elena ricorda divertita le sessioni di registrazione a Ventotene, le esibizioni sulle Dolomiti e a Ravello e in generale l’atmosfera cameratesca che si respirava in quell’ambiente.
Accenna infine alle sue altre attività, sia parlando dell’evento Cantiere Infinito nel 2019 in collaborazione con la coreografa Mariagiovanna Esposito, descritto come una collaborazione tra il conservatorio e l’accademia nazionale di danza e come un momento di sperimentazione tra musicisti e ballerini, sia raccontando della sua attività didattica come docente di canto jazz al conservatorio. Dell’entusiasta racconto che Elena fa di questa sua esperienza, ormai quinquennale, due sono i punti su cui focalizza maggiormente la sua attenzione: la soddisfazione ottenuta dal buon feedback ricevuto dai suoi alunni e l’aver capito la necessità da parte loro di lavorare con persone attive e appassionate.
I pezzi presentati dalla cantante e dal suo accompagnatore Francesco Poeti, alla chitarra-basso, sono stati Labile, sua composizione originale eseguita originariamente in quintetto con Francesco Poeti, Domenico Sanna al piano, Luca Fattorini al basso e Fabio Sasso alla batteria, My First Dance With You come anteprima del suo nuovo album Anatomy of the Sun di prossima uscita, In attesa e Poor Butterfly.

Beniamino Gatto

Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla: grande riscontro di pubblico per gli incontri curati da Gerlando Gatto alla Casa del Jazz:

Una giornata grigia ha fatto da cornice alla serata di martedì scorso, sia letteralmente, data la pioggia battente su Roma in quel momento, sia metaforicamente parlando, a causa della prematura scomparsa del giornalista musicale Ernesto Assante, che il direttore della Casa del Jazz Luciano Linzi ha ricordato con un breve discorso all’inizio della serata, dedicata al terzo incontro del ciclo “L’altra metà del Jazz“ ideato e curato da Gerlando Gatto.
La prima protagonista della serata è stata la vocalist Sara Jane Ceccarelli, accompagnata dall’eccellente pianista tedesco Christian Pabst e dal fratello Paolo Ceccarelli alla chitarra elettrica.

Gatto, come di prammatica, le ha  chiesto se e come l’essere donna avesse influito sulla sua carriera; Sara Jane ha risposto raccontando la sua storia familiare: figlia maggiore di 4 figli, di cui tre maschi, non ricorda di aver mai sofferto di privazioni o discriminazioni di alcun tipo, grazie all’educazione egualitaria ricevuta in famiglia e, a suo dire, ciò le ha anche fortificato il carattere. Passando invece alla questione femminile in generale, ammette di aver compreso solo di recente il disagio provato dalle sue colleghe con le quali si è confrontata, disagio di cui, a suo dire, è necessario rendere consapevoli soprattutto gli uomini. Tale stato di cose è accentuato dal fatto che molti gruppi attuali, nonostante abbiano come leader una donna, siano formati quasi esclusivamente da uomini. D’altro canto corre l’obbligo di constatare che i gruppi formati da sole donne hanno la tendenza a sciogliersi più facilmente dei gruppi maschili, anche a causa di piccole rivalità tra le componenti. Infine sulla questione delle quote rosa, la Ceccarelli non esita a dichiarare che possono essere considerate come una forzatura nei confronti sia di uomini sia di donne; di qui la  fiducia che arriverà un momento in cui la presenza delle donne nel panorama jazz verrà considerata normale, senza forzature di alcun tipo.
Tornando alla sua storia personale, parla di come si sia avvicinata alla musica: suo padre, pianista, l’ha indirizzata a quell’ambiente fin dalla tenera età di tre anni (ci tiene a specificare, tuttavia, che per quanto riguarda l’ingresso nel mondo della musica si è trattato di un processo naturale, senza obblighi di alcun tipo da parte della famiglia). All’inizio studia con una maestra di pianoforte giapponese, di cui ricorda con affetto il complesso rituale di attese e respiri che precedevano l’esercizio vero e proprio: in seguito ecco l’avvicinamento con il fratello Paolo, con il quale è cresciuta musicalmente: tra i tanti possibili esempi, ha citato il fatto che insieme hanno diretto il Correnti Jazz Festival, svoltosi l’estate scorsa a Sigillo, in provincia di Perugia.
Parlando della sua musica, Sara afferma di essere ancora una compositrice in erba, ha infatti iniziato a scrivere solo una volta trasferitasi a Roma dalla natia Gubbio; riguardo al metodo compositivo lo stesso varia da brano a brano, ovvero può partire sia da un testo che da un giro di accordi proposto da un altro musicista. Riferendosi in particolare ai testi, non si può non convenire sul fatto che gli stessi rappresentino un po’ l’anello debole del jazz; incalzata da una domanda del conduttore su quali siano i suoi autori di testi preferiti nel mondo del jazz, la Ceccarelli cita i fratelli Gershwin.
Ad una nuova domanda da parte di Gatto sulla scena contemporanea italiana, Sara risponde con una riflessione molto interessante riguardo alla diversa concezione degli spettacoli per i giovani: a suo avviso, ormai il concerto è diventato un’esperienza visiva tanto quanto auditiva, se non di più; tuttavia si possono notare alcuni eventi dove la dimensione dell’ascolto prende completamente il sopravvento su quella dello spettacolo visivo. É il caso, ad esempio, del tanto criticato listening party organizzato da Kanye West e Ty Dolla Sign al Forum di Assago per promuovere il loro nuovo album ‘Vultures’; evento dal prezzo simile a quello di un concerto (dai 115 ai 207 euro circa), ma in cui non c’è stata alcuna esibizione dal vivo: infatti West e Ty Dolla Sign si sono limitati a saltare sullo scarno e semplice palco e a riprodurre i loro brani preregistrati, lasciando spazio al puro ascolto delle tracce – e personalmente chi vi scrive spera che questi non siano i concerti del futuro. A questo proposito, Sara propone un programma di educazione musicale fin dai più piccoli (come già enunciato la volta scorsa da Chiara Viola) per insegnar loro a distinguere la musica di sostanza da quella meramente superficiale. A questo punto Gatto ha espresso una critica molto dura sia nei confronti della RAI – dove in passato c’erano numerosi programmi dedicati al jazz mentre oggi, viceversa, è del tutto scomparso dalle onde sonore – sia nei confronti della scena contemporanea pop italiana e sull’uso dell’autotune nelle canzoni; Sara risponde  facendo notare come i musicisti jazz portino meno ascolti alle radio rispetto ad altri generi musicali, e come l’autotune sia uno strumento di cui si può fare un buon uso o abusare, come dimostrato da artisti come Kanye West, i Bon Iver, i Daft Punk o T-Pain.
Sempre riguardo alla sua musica, la Ceccarelli afferma che cantare ciò che si scrive sia una sfida maggiore rispetto a quando si interpretano standard jazzistici, ma che al tempo stesso, se il brano è gradito dal pubblico vi è una soddisfazione ben maggiore del normale.  Inoltre, sempre parlando delle sue composizioni, afferma di essere affascinata dalle varie lingue del mondo e dai vari colori che esse possono dare alla voce (Sara canta infatti in ben 10 lingue diverse, nonostante non le capisca tutte), ma di non avere il talento necessario a sentire naturale invece lo scat mentre improvvisa. Infine, a proposito del suo rapporto con la musica a livello professionale, racconta come all’inizio questa non fosse la sua occupazione primaria, essendo laureata in comunicazione aziendale, e prima di diventare musicista a tempo pieno lavorava in un’azienda di cibi di lusso; a seguito di un incontro con il compositore Bruno de Franceschi nel 2009 e di una crisi personale decide di mollare tutto per trasferirsi a Roma e studiare al conservatorio di Santa Cecilia: qui gli studi con Maria Pia de Vito e Paolo Damiani, fondamentali per la sua crescita umana e professionale.
I brani eseguiti sono stati I Forgot Love della stessa Sara, contenuto nell’album “Milky Way” della Parco della Musica; A Fior di Labbra, traduzione in italiano del brano Du bout des lèvres della cantante francese Barbara a cura di Sara e David Riondino; una rielaborazione di Children’s Song no. 3 di Chick Corea; il testo è della stessa Ceccarelli la quale aveva scritto all’Universal proprio per proporre questa elaborazione; contrariamente a quanto accade di solito, Corea pochi giorni prima di morire rispose alla mail della Ceccarelli approvando i suoi testi; di qui la comprensibile gioia dell’artista e la decisione di inserire il brano nel già citato album  “Milky Way” con arrangiamento di Edoardo Petretti e la scelta di omettere il pianoforte dalla registrazione.  A chiudere la prima parte della serata Lush Life, uno degli standard più conosciuti ma più difficili del song-book statunitense, letteralmente amato da Tony Scott che si definiva il migliore interprete di questo brano.
La seconda parte della serata è dedicata alla cantante calabrese Veronica Parrilla, accompagnata da Carlo Manna, pianista cosentino che il pubblico della Casa del Jazz aveva già avuto modo di apprezzare come accompagnatore di Marilena Paradisi, ospite di Gatto nella prima sezione del ciclo.

Veronica esordisce parlando della sua vita musicale e descrivendo il canto come una modalità di espressione in lei insita, tanto che i genitori la iscrivono a concorsi di canto per gioco, le organizzano un concerto nel suo paese di Cirò Marina, in provincia di Crotone, a soli dieci anni (concerto che racconta di averla influenzata molto nel superamento della paura del pubblico e dell’ansia da palcoscenico); soddisfatti dei risultati, la incoraggiano ad iscriversi ad una scuola di canto gestita dalla maestra Erica Mistretta, che ricorda con molto affetto: infatti è stata quest’esperienza ad insegnarle ad apprezzare i suoi successi come i suoi fallimenti, a rilevare i suoi punti di forza come le sue lacune. Non solo: è stata la stessa maestra ad indirizzarla verso il canto jazz, dopo aver notato una sua tendenza a personalizzare le melodie cantate mentre eseguiva i brani del repertorio di Mina, e ad iscriversi al conservatorio jazz di Vibo Valentia, che inizia a frequentare a partire dall’ultimo anno del liceo scientifico e a cui decide di dedicarsi in toto a seguito della sua decisione di non iscriversi alla facoltà di Logopedia dopo aver superato il test. Si laureerà in canto jazz frequentando il triennio a Vibo, studiando con Daniela Spalletta, e il biennio a Messina con Rosalba Bentivoglio: due eccellenti vocalist e didatte siciliane. Riconosce a questo proposito che l’aver studiato sotto più insegnanti con scuole di pensiero così diverse l’ha arricchita molto.
Riguardo alla sua musica, illustra il suo intento stilistico, ovvero la ricerca di una commistione tra le tradizioni del jazz e le sonorità moderne. Questa concezione si vede anche nelle sue stesse composizioni: infatti racconta che ogni testo che scrive è autobiografico, che quando scrive assume anche una funzione da storyteller e che ogni brano musicale è una sorta di lezione da cui si può imparare qualcosa. Proprio parlando di messaggi Veronica illustra il suo progetto, il quartetto Above All nato circa un anno fa: il titolo non è un caso, infatti esso vuole comunicare un messaggio per cui nella società moderna dovrebbero sempre prevalere valori come lealtà, rispetto della diversità e amore. Infine cita come sue muse ispiratrici due cantanti: una del passato, Ella Fitzgerald, e una del presente, Samara Joy.
Ricollegandosi al discorso sulle tradizioni, esprime la sua opinione riguardo agli standard jazz, dichiarandosi contraria a quanti ritengono che gli stessi non andrebbero più suonati in quanto obsoleti.
Parlando del suo essere donna con specifico riferimento alla sua carriera, dice, un po’ in virtù della sua giovane età, e un po’ per il suo carattere che tende a non considerare il genere di una persona ma il suo carattere in sé, di non avere mai avuto problemi – inoltre considera che per quanto riguarda la scrittura sia le donne che gli uomini possono avere una stessa sensibilità, posizione condivisa anche da Susanna Stivali in uno degli scorsi appuntamenti.
Di fronte alla domanda di Gatto sul suo sentimento riguardo alla scena musicale italiana attuale, che il giornalista non manca mai di criticare, Veronica si mostra ottimista, illustrando come questo sia secondo lei solo un momento, ed esprime la speranza di tempi migliori. Infine, partendo dal brano Above All, omonimo del quartetto precedente menzionato, viene dedicato spazio alla relazione personale, oltre che professionale, tra Carlo e Veronica: entrambi esprimono fiducia nel loro rapporto e nella sua saldezza nonostante la separazione di coppie sia oggi all’ordine del giorno, e personalmente chi vi scrive non può che augurare loro il meglio per il futuro.
I brani scelti dai due artisti sono stati Infant Eyes di Wayne Shorter, I Can’t Give You Anything But Love, Above All, una loro composizione originale, e What Are You Doing With the Rest Of Your Life, una struggente melodia di Michel Legrand interpretata dalla Parrilla con sincera partecipazione tanto da non lasciare indifferente il numeroso pubblico che l’ha salutata con un intenso applauso.

Beniamino Gatto

Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Cinzia Gizzi e Noemi Nuti entusiasmano il pubblico: Ripresa alla Casa del Jazz la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz condotta e ideata dal nostro direttore Gerlando Gatto

Dopo un’attesa di circa due mesi e mezzo, la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz, a cura di Gerlando Gatto, è ricominciata alla Casa del Jazz con due valide artiste: la pianista Cinzia Gizzi e l’arpista e vocalist Noemi Nuti.
La prima parte della serata è dedicata appunto a Cinzia Gizzi, la cui intervista inizia con una riflessione sull’assenza del canto jazz nel Festival della Canzone Italiana di Sanremo, conclusosi pochi giorni prima dell’evento: riflessione da cui scaturisce l’amara considerazione di un confinamento del jazz in certe nicchie e ambienti definiti, nonostante  l’attuale tendenza alla contaminazione tra generi.

Parla poi della sua carriera: partendo dal primo incontro con la musica che avvenne per caso durante i suoi studi universitari in una facoltà impostale dalla famiglia . Ma ben presto la musica ebbe la meglio e nell’arco di poco tempo si andò delineando la personalità di una grande artista che  proseguì con il suo rapporto con il piano classico, che lei definisce fondamentale per una buona formazione jazzistica ma non indispensabile. Sulla musica classica tornerà in seguito, esprimendo la sua preferenza, tra i compositori, per Bach, genio capace di donare equilibrio a chi lo ascolta. Enumera quindi alcune delle sue collaborazioni più significative e di alto profilo come Harry “Sweets” Edison, Joe Newman, Sammy Davis e Tony Scott, dei quali ricorda con grande affetto l’aspetto umano oltre a quello artistico. E si arriva così  al 1988, anno della svolta per la sua carriera: sarà infatti quello l’anno in cui vincerà una borsa di studio, grazie ad una sua amica che la convinse a presentare la domanda, che la porterà negli USA, a Berkeley; Cinzia ricorda questi tempi negli Stati Uniti come duri ma molto soddisfacenti. Altri incontri e collaborazioni l’hanno segnata: nello specifico con Chet Baker, Dizzy Gillespie e in particolare Jaki Byard, con cui ha studiato metodologia a seguito di un incontro presso il Mississippi Jazz Club, allora gestito dai fratelli Toth.
Racconta poi del suo ritorno in Italia e della pubblicazione del suo primo disco Trio and Sextet, nel 1991, con la collaborazione di musicisti come Flavio Boltro alla tromba, Piero Odorici al sassofono, Giovanni Tommaso al basso, Gianni Cazzola alla batteria e Mario Migliardi al trombone, e della sua carriera didattica di cui ricorda luci e ombre: tra le prime ricorda la soddisfazione dell’insegnamento, sottolineandone tuttavia la complessità; tra le seconde illustra le difficoltà affrontate a causa di un sistema che imponeva al detentore della cattedra unica l’insegnamento di sette materie in tutto il semestre ed anche del fatto che, in quanto donna, ha dovuto dimostrare più degli altri colleghi maschi. Da questo complessivo bagaglio di esperienze le deriva la forza e la capacità di scrivere due libri dedicati agli “Arrangiatori Jazz”.
Toccando infine gli aspetti più recenti della sua carriera, ricorda il premio alla carriera vinto nel 2017 nell’ambito del Premio Internazionale Profilo Donna, grazie alla segnalazione di Patricia Adkins Chiti, e conclude con una piccola riflessione sulla quasi totale assenza di jazz nella Rai, collegandosi alla prima domanda fatta durante l’incontro da cui si evince, secondo Cinzia, che i giovani d’oggi vengono bombardati da un determinato tipo di musica, mentre dovrebbero avere la possibilità di scegliere la musica che amano e la Rai – servizio pubblico, non dimentichiamolo – dovrebbe dare modo ai suoi ascoltatori, che pagano un canone, di seguire ogni genere musicale.
Come al solito non sono mancati interventi musicali: in questo caso Cinzia è stata accompagnata dal contrabbassista Pietro Ciancaglini e dal batterista Marco Valeri, e insieme hanno suonato I Keep Love in You di Bud Powell, Subconsciously di Lee Collins e Te Vojo Bene Assaje.

Dopo il consueto intervallo di cinque minuti, la serata è ripresa con l’arpista e vocalist Noemi Nuti che purtroppo, a causa di un problema tecnico con l’arpa, si è presentata solo nelle vesti di cantante, accompagnata dall’eccellente pianista Andrew McCormack, compagno non solo sulla scena ma anche nella vita.
La vita di Noemi è caratterizzata da numerosi viaggi e contatti con diverse culture: nasce infatti a New York da famiglia italiana e ci rimane fino agli otto anni; da quel momento si trasferisce in Italia dove passerà la tarda infanzia e l’adolescenza, per poi trasferirsi a Londra, dove tuttora risiede. Già fin dall’età di otto anni Noemi inizia a studiare l’arpa, di cui si è innamorata grazie alla copertina di una rivista che la raffigurava in tutto il suo splendore; comincia quindi con lo studio dell’arpa classica e folk (soprattutto celtica) fino all’ottavo grado, ma grazie al contatto con la musica di Kurt Rosenwinkel ed Ella Fitzgerald decide di passare alla musica jazz: ed è in questo ambito che nel 2012 si diplomerà al Trinity College di Londra, studiando con insegnanti del calibro di Anita Waddell, John Hendrix e Sammie Purcell.
Nella sua musica risulta evidente un vivo interesse per la musica brasiliana, soprattutto per l’unione, da lei illustrata, tra ricchi ritmi e melodie leggere, semplici solo all’apparenza ma che in realtà nascondono una complessità disarmante: questa passione la porterà a formare una band di samba che arriverà fino al celeberrimo Carnevale di Rio de Janeiro. A proposito del Brasile, Noemi lo descrive come un posto molto particolare: un luogo isolato e un porto allo stesso tempo, contemporaneamente un melting pot e un luogo legato alla propria cultura.
Un altro luogo di cui parla con molto affetto è la sua residenza attuale, ovvero Londra: facendo un paragone tra la scena musicale londinese e quella italiana Noemi nota un attaccamento al passato e alle tradizioni molto più presente in Italia che nel Regno Unito dove, al contrario, osserva una maggiore apertura all’innovazione e attenzione da parte del governo nei confronti delle arti. Sempre a proposito del jazz inglese, descrive l’influenza subita dalla musica sudafricana e le differenze dei ritmi afro-jazz presenti nelle varie regioni del mondo: da una chiacchierata con il pianista panamense Danilo Pérez nasce una maggiore attenzione alle casse e ai bassi nelle regioni del Sud America, mentre, al contrario, una predilezione nei confronti dei piatti e delle frequenze alte nel Regno Unito; a questo proposito ha citato la cantante britannica Norma Winstone e come un suo brano, Azimuth, sia tornato alla ribalta grazie ai celebri rapper Drake e Yeat e ai produttori Bnyx e Sebastian Shah, che l’hanno campionata nel loro  IDGAF, uscito nello scorso ottobre. Conclude infine il suo intervento con un ulteriore elogio nei confronti di Londra, ovvero di come la scena inglese permetta un’ottima formazione a livello professionale e di affrontare a ogni sorta di pubblico e ambiente.
I brani proposti con il pianista Andrew McCormack sono stati “For What I See,” composizione originale di Noemi contenuta nel suo disco ‘Venus Eye’ uscito nel 2020 e ispirata da “Treme Terra” di Flora Purim e Airto Moreira con Joe Farrell (il disco si chiama “Three-Way Mirror”). A questa prima, trascinante esibizione hanno fatto seguito “Disfarça e Chora” di Cartola e “I Can’t Believe You’re In Love With Me” di Jimmy McHugh, interpretato anche da Billie Holiday.
In quanto a pubblico la serata è stata un successo, facendo registrare non solo un numero di spettatori tale da riempire quasi l’intera sala ma anche un entusiasmo e un gradimento che chi vi scrive non può che condividere.

Il prossimo appuntamento è in programma martedì 20 Febbraio alle 21 con Susanna Stivali e Chiara Viola. Clicca qui per info&tickets

Beniamino Gatto

Gatto alla Casa del Jazz: secondo ciclo di incontri per “L’altra metà del Jazz”

Com’era facilmente prevedibile, visto l’ottimo risultato del primo ciclo, il nostro direttore Gerlando Gatto il 13 febbraio torna alla Casa del Jazz di Roma con “L’altra metà del Jazz”, cinque ulteriori serate da lui ideate e condotte.   Il format è sempre lo stesso: ogni martedì sera interviste a due musiciste jazz, una che ha raggiunto un livello di fama ormai consolidato e un astro nascente ancora non così conosciuto.
Scopo di questo ciclo, come dichiarato dallo stesso Gatto, è quello di dare, da una parte un contributo, per quanto minimo, all’abbattimento delle barriere di genere all’interno del sistema jazzistico, e dall’altra di offrire un trampolino di lancio ad alcune giovani musiciste talentuose, ma non ancora note al grande pubblico.
E veniamo al calendario di questo secondo ciclo.

Martedì 13 febbraio Cinzia Gizzi e Noemi Nuti
Cinzia Gizzi pianista, compositrice, arrangiatrice, ha iniziato lo studio del pianoforte classico all’età di otto anni. Si avvicina al jazz durante gli anni di università, quando si trasferisce da Pescara, sua città natia, a Roma. Qui suona per lungo tempo nei jazz club avendo l’opportunità di accompagnare moltissimi musicisti italiani e americani. Nell’anno accademico 1995-96 ricopre la cattedra di “Jazz” presso il Conservatorio di Reggio Calabria.
Noemi Nuti. Nata e cresciuta a New York fino all’età di otto anni, inizia il suo viaggio musicale da bambina studiando l’arpa celtica in Italia per poi conseguire una laurea in arpa classica presso la Brunel University a Londra.  Nel 2012 si diploma con un master in jazz al “Trinity College of Music” di Londra. Il suo album di debutto “Nice to Meet You” (2015) è stato prodotto dal trombettista Quentin Collins. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 20 febbraio Susanna Stivali e Chiara Viola

Susanna Stivali. Studia pianoforte, canto classico e jazz, perfezionandosi con Bob Stoloff e Murk Murphy; si specializza presso il Berklee College of Music di Boston. Affianca ad una intensa attività concertistica, quella di docente di canto jazz presso alcuni Conservatori. Particolarmente interessata alle collaborazioni con musicisti della nuova scena brasiliana.
Chiara Viola. Nata a Roma, si avvicina alla musica dopo aver visto “Sister Act”. Così studia dapprima chitarra classica e poi canto jazz al Conservatorio di Santa Cecilia. Nel 2019 la prima realizzazione discografica, dopo di che si trasferisce a Parigi dove attualmente vive e lavora. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 27 febbraio  Sara Jane Ceccarelli e Veronica Parrilla

Sara Jane Ceccarelli. Italo canadese nasce a Gubbio ma vive a Roma. A 3 anni comincia a studiare pianoforte classico; a 16 anni canta e si diploma al Corso Jazz del Conservatorio Santa Cecilia. Si esibisce con il fratello chitarrista Paolo. Nel 2012 inizia il suo percorso di studio e interpretazione di musica proveniente dalle culture più diverse: canta nelle lingue originali (più di dieci) ampliando così il suo straordinario repertorio.
Veronica Parrilla. Nasce a Cirò Marina e consegue il diploma accademico di I Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “F. Torrefranca” di Vibo Valentia e il diploma accademico di II Livello in Canto Jazz presso il Conservatorio “A. Corelli” di Messina. Attualmente prosegue il triennio accademico in Pianoforte Jazz e il triennio accademico in canto Pop/Rock. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 5 marzo Greta Panettieri e Elena Paparusso

Greta Panettieri. Vocalist e scrittrice. La sua storia musicale parte da giovanissima, con lo studio del violino e del pianoforte al Conservatorio di Perugia; quindi, la vita a New York documentata anche dal libro a fumetti “Viaggio in Jazz”, dove le doti vocali di Greta vengono notate dalla Universal/DECCA che pubblica il suo primo disco “The Edge of Everything”. Seguono il tour europeo come opening di Joe Jackson, le collaborazioni con grandi della musica mondiale, il ritorno in Italia dove continua a mietere successi.
Elena Paparusso. Cantante e compositrice, nel 2015 ha terminato il Biennio di specializzazione in Jazz con il massimo dei voti e lode, presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. “Anatomy Of The Sun” è il suo ultimo lavoro discografico prodotto per la Parco della Musica Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

Martedì 12 marzo Cinzia Tedesco e Laura Sciocchetti

Cinzia Tedesco. Artista pugliese, riesce con il suo stile a superare le barriere tra i generi musicali. Cantante, compositrice, interprete di musical, rappresenta appieno l’artista completa, la cui cifra musicale si situa tra il jazz ed il soul. Numerosi i riconoscimenti all’Italia e all’estero così come le produzioni discografiche tutte di eccellente livello.
Laura Sciocchetti. Nata a Roma, inizia da adolescente lo studio di canto, chitarra e pianoforte, coltivando nel contempo la passione per il teatro. Studia il linguaggio Jazz con Elisabetta Antonini e successivamente si perfeziona al Conservatorio S. Cecilia di Roma, dove si laurea cum Laude in canto. Nel 2020 esce il suo primo disco di composizioni originali dal titolo “Characters”, per Filibusta Records. (ingresso 5€ online su ticketone)

(MT – Redazione)

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Lun – Ven 9:00 – 21:00 / Sab 9:00 – 17:30
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tel. 0680241281

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00154 Roma

I nostri cd: un anno di jazz

Tutto si può dire dell’anno che si chiude, a livello di dischi jazz, tranne che sia stato monocorde e monotono.  La varietà delle proposte ha infatti caratterizzato il 2023 in modo significativo grazie a lavori spesso di bradisistica vitalità. Le recensioni che seguono ne rappresentano una possibile campionatura fra le tante proposte meritevoli. Le affidiamo alla lettura per una riflessione su quanto espresso e sui destini possibili del jazz e della musica nell’anno che verrà.

Federica Michisanti Quartet, “Afternoons”, Parco della Musica Records.
Il quartetto di Federica Michisanti featuring il clarinettista Louis Sclavis, il violoncellista Vincent Courtois e il batterista Michele Rabbia si cimenta nell’album Afternoons edito da Parco della Musica Records. Si tratta di una formazione cameristica che “illustra” musicalmente dei pomeriggi qualunque, quelli in cui il “presto” ed il “sostenuto” del ritmo mattutino cedono il passo al “moderato” e al “lento” tardopomeridiano. La musica della Michisanti si snoda in sette composizioni che la compositrice-contrabbassista romana ha definito mostrando di aver ancor più affinato la scrittura ora arricchita dalle cromie percussive che accompagnano la sottile trama arco-fiato. Il brano introduttivo “Two” espone un groove d’avanguardia che in “Sufi Loft” si mitiga in atmosfere soffuse, armonizzanti, che paiono richiamare sfondi bergmaniani. Il successivo “Not” ha strutture più decise specie quelle ritmiche di caffeinici frattali jazz. Tenero è il “Nocturne” con la libertà ispirata dal fascino delle tenebre e dai sogni, altrettanto dicasi per “Spot” contenuto nella stessa traccia. “Be4 PM” alterna momenti melodici a surplaces dialogici, un doppio registro che si rileva nella stessa “Floating”, in  conclusione. L’approccio colto-europeo non deriva solo dalla anagrafe artistica della formazione ma è il portato di un vissuto musicale comune del 4et che conduce a superare moduli interpretativi fin troppo rodati per sondare nuovi orizzonti espressivi. In definitiva un album davvero degno d’attenzione come dimostrano i prestigiosi riconoscimenti ottenuti proprio n questo periodo.

Adriano Clemente, “The Coltrane Suite and Other Impressions”, Dodicilune Records
In piena era jazzistica d.C. (dopo Coltrane) esce un album destinato, c’è da giurarci, a rimanere nel tempo. Vi si rievoca, del grande sassofonista neroamericano, lo Spirito fattosi Suono, la Mistica divenuta Suite. E’ il multistrumentista leccese Adriano Clemente a presentarlo con The Coltrane Suite and Other Impressions, per i tipi di Dodicilune. Giganteggia, già nel primo dei due cd, la performance del saxtenorista David Murray assieme a The Akashmani Ensemble. E furoreggia alla batteria il galvanizzante Hamid Drake, in veste di riguardevole ospite di… riguardo. Personaggio complesso da affrontare, Trane. Ma Clemente è dotto ed edotto in materia per come già fatto con Mingus con la medesima label nel 2016. Già a partire da “Mother Africa” (inizio di una tracklist con 25 sue composizioni) ne compenetra  pathos e l’alfabeto sin nella prima parte del lavoro, tirando fuori, nella seconda, Impressioni nelle quali si confermano imprescindibili i membri della Akashmani, Guidolotti e Sorrentino (sax), Pirone (tr.ne), Carucci e Buccella(pf), Pierotti e Scandroglio(cb), Aiello (cong.), Lanzini (cello), Makarovic (tr.). E naturalmente svetta il direttore Clemente con i suoi dieci e passa strumenti da maneggiare a seconda della situazione musicale.

Christian Pabst, “The Palm Tree Line”, Jazz Sick Records.
Musica di dove crescono le palme. E’ il pianista tedesco Christian Pabst a compilare una sua personale playlist dedicata a suoni di quei sud da cui è da sempre affascinato nell’album The Palm Tree Line (Jazz Sick). L’attacco è “Mambo” di Bernstein, da “West Side Story”, in un’esecuzione nervosa ed al tempo stesso seducente, con il Rhodes ad accentuare un certo suo modo di sincopare e “contratemporeggiare”. Il seguente “Amarcord” nell’alternare swing a beguine schiarisce, e non di poco, la nebbia felliniana impressa sul brano restituendogli luce solare. Nel terzo pezzo, all’ottimo combo che vede Francesco Pierotti al basso e Lorenzo Brilli a batteria e percussioni, interviene al canto Ilaria Forciniti ad intonare “Amara terra mia”, di Modugno, e con lei l’altro ospite Federico Gili, con la fisarmonica a coprire gli interstizi lasciati aperti dalla voce e a ritagliarsi, così come il pianoforte, un chorus per una impro breve quanto vibrante. Proseguiamo nel raccontare, in pillole, il disco, dando conto di “Un’ora sola ti vorrei” resa con delicato lirismo condiviso nel solo del contrabbasso di verve classicheggiante. Strano accostamento subito dopo quello dell’ “Alhambra” di Lecuona e, a marca Bongusto-Trovajoli di “‘O cielo ce manna ste cose”, a riprova di quanto possano essere vicine Granada e Napoli, accomunabili dalla musica oltre che dalla macchia mediterranea che arriva dalla Campania all’Andalusia. Alla fine, appena eseguita una tenera “Dèjame Llorardi Oteo, Pabst offre un proprio acquerello sulla tastiera del “Tramonto”, per due minuti di tratteggio, andante per sensazioni sonore, del crepuscolo del sole che si addormenta.

Claudio Giambruno, “Overseas”, Via Veneto Jazz
Swing, bebop, modale, jazz samba e tutto quanto ne è seguito con i relativi adeguamenti di  grammatica, sintassi, vocabolario alle successive tendenze stilistiche. Claudio Giambruno è  sassofonista che li ha conformate coniugandole alla propria sensibilità latina in Overseas (Via Veneto Jazz-Millesuoni). Nell’album parte innescando una marcia neohardbop alquanto light – e non è un ossimoro – essendo ciò dovuto alle due fonti “over seas” che avvicinano Mediterraneo ad Atlantico e Pacifico per addolcirsi poi in ballad ed evergreen come “ ‘Na voce ‘na chitarra e ‘o poco e ‘luna”. Nella traversata gli sono accanto il pianista Andrea Rea, il contrabbassista Dario Rosciglione e il batterista Amedeo Ariano, band di cui Seamus Blake ha elogiato il repertorio dalla modalità “thrilling and soulfull”, emozionante e pieno d’anima, declinata in nove fra standards ed originals.   In questi ultimi si denota anche una netta autorialità di Giambruno, jazzista che non rinnega la tradizione semmai se ne serve come spioncino per scrutare nel futuro.

Two Things of Gold, A.Ma Records
Un duo, quello formato dalla vocalist Francesca Sortino e dal produttore dj romano nonché figlio della vocalist Diego Lombardo, che nell’album Two Things of Gold (A.Ma), perfeziona un originale confronto, su basi elettroniche, fra jazz e house – funk – soul in un lavoro inciso su ideale supporto di l. P. .  Ne scaturiscono 14 tracce delle quali tre squisitamente jazzistiche – “Con Alma” di Gillespie, “Malachi” di Hill e “Where Flamingos Fly” successo di Gil Evans – con decollo da una piattaforma di musica internazionale per planare su lidi sonori e canori dinamici spazianti da toni duri a timbriche calate su linee melodiche più morbide nei passaggi di climax.  Della Sortino è da rimarcare il desiderio di cimentarsi “atipicamente” rispetto a certe aspettative che vorrebbero le voci femminili jazz impegnarsi nella riproposizione dei capisaldi della materia o al massimo nell’esecuzione di originals che a quella tradizione si ispirano. L’affiancarsi a un giovane musicista come Lombardo dalle visioni innovative e rampanti risulta vincente. Da segnalare nella produzione gli ospiti Roberto Rossi, Alessandro Maiorino, Alberto Parmegiani, Mauro Beggio, Pierpaolo Bisogno.

Minimal Klezmer, “Öt Minusz Kettò”,  Caligola Records
Album n. 3 (campeggia la sottrazione 5-2 all’interno della cover) per i Minimal Klezmer, al secolo Francesco Socal (cl.sax), Roberto Durante (keys, pf, acc.), Enrico Milani (cello), Pietro Pontini (v. viola) con Matteo Minotto al basson e percussioni. Il collettivo nato a Londra nel 2011 presenta Öt Minusz Kettò. prodotto unitamente a Caligola Records e presentato da Martin Tesnone. La musica ivi contenuta si rifà alla tradizione ebraica e dei paesi dell’Est (Romania, Russia, Anatolia , Grecia) nonché gitana. Ed in effetti i tredici brani, di cui quattro traditional, hanno in comune uno spirito yiddish errante che li porta a di/vagare fino al jazz. E’ questo elemento di fusione (non diciamo contaminazione) che caratterizza alquanto il gruppo e ne arricchisce il sound di componenti, come l’improvvisazione, che ci impediscono di catalogare il lavoro come etnomusicale sic et simpliciter . Ciò anche se la loro è a  pieno titolo musica klezmer, genere musicale diffusosi anche grazie ad un duraturo revival, così pimpante di strumenti, scoppiettante di note che sprizzano melodia da tutti i pori, fra introversa meditazione e scena estroversa.

Remedio, “Semillas”, Gutenberg Music.
Un “Real book” ispanomericano non potrebbe che annoverare, ab initio, miti iconici come il pajador argentino Atahualpa Yupanqui e la cantatrice cilena Violeta Parra. Hanno provato a inciderne una versione aggiornata i Remedio – Laura Vigilante (v.), David Beltran Soto Chero (chit. cuatro charango), Alberto Zuanon (cb), ospite Sergio Marchesini alla fisa – includendovi  brani dello spagnolo Carlos Cano (Maria la portuguesa), della messicana Natalia Lafourcade (Hasta la raiz), di Manuel Raygada Ballesteros (Mechita), peruviano come Ramòn Ayala (El cosec hero), degli argentini Facundo Cabral (No soy de aqui ni soy de allà) e Natalia Doco (Respira), della statunitense Llhasa de Sela (El desierto), della band uruguagia Onda Vaga (Mambeado, Tataralì), del colombiano Gentil Montana (Porro). L’album Semillas che risulta dalla selezione, un lavoro “accalorato” anche dalla presa diretta della registrazione effettuata live al Piccolo Teatro Tom Benetollo di Padova, offre, della terra dei nostri cugini d’America, un “canto para una semilla” anzi semillas lanciate a mano aperta su quel terreno fertile da cui i musicisti hanno raccolto straordinari frutti liric-musicali.  P.S. Di Yupanqui è eseguita “Luna tucumana”. Della Parra “La jardinera”.

Gloria Trapani / Alessandro Del Signore, “InControVoce”, Filibusta Records
Ci sono voci il cui canto abbisogna di un tappeto orchestrale su cui guizzare. E ci sono ugole che, al contrario, si esaltano quando l’ambiente sonoro che le circonda è essenziale, secco, minimale. E’ il caso di Gloria Trapani che, nell’album InControVoce edito da Filibusta, si lascia accompagnare da basso e contrabbasso da Alessandro Del Signore in “clusters” di brani latini  (“Vocè E Linda”, “Mais Clara Mais Crua”), standard di jazz classico e moderno (“Summertime”, “Nature Boy”, “In Walked Bud”),  hits pop e caraibici (“Humane Nature”, “Redemption Song”).  Fra un vocalizzo ed un altro emerge l’attitudine della voce ad elasticizzarsi smorzando, misurando altisonanza ed estensione e nel contempo lavorando di cesello su melismi e fioriture nonché sulla felpatura di timbro e smalto  vocale. Del Signore si rivela dal canto suo jazzista a proprio agio nel ruolo, attento a non infrangere il “muro” del suono nel senso di non spaccare mai con tocchi eccessivi o fuori posto la magia costruita dal duo sul preesistente silenzio.

Pietro Ciancaglini, “Consecutio”, GleAm Records
Si va bene ma la consecutio temporum? Eccolo lì il tallone d’Achille di tanti che scrivono usando male i verbi. In musica, a voler fare un parallelo, la mancata concordanza fra principali e subordinate ha mietuto diverse vittime. Meno male che anche nel jazz ci sono maestri del coordinare  secondo conseguenzialità logico-lineare un discorso musicale “corretto”. Sono, queste, delle considerazioni applicabili al nuovo album del bassista e contrabbassista Pietro Ciancaglini dal titolo Consecutio. Il lavoro, edito GleAM Records, con dieci sue composizioni, è un esempio di come il jazz debba saper coniugare le frasi che “pronuncia”. In tale operazione l’uso del basso elettrico da parte del musicista romano, al posto del contrabbasso, orienta l’approccio stilistico verso raffinate prospettive elettriche di fusion(e) fra hard bop e contemporary senza lasciarsi peraltro stregare da ammiccamenti mainstream. Il risultato più che apprezzabile è anche merito del pianista-tastierista  Pietro Lussu, del batterista Armando Sciommeri e della vocalist Chiara Orlando. Le improvvisazioni, peraltro ben presenti, sono coerenti al tutto, e così le linee melodiche sono installate su armonizzazioni ricche e raffinate. E soprattutto “conseguenti”.

Haiku, Sun Village Records
Haiku, la forma poetica giapponese adottata da Rilke, Eluard e da poeti ermetisti, è anche il gruppo di jazz-funk italiano che licenzia l’ album omonimo per Sun Village Records. Trattasi di un 5et ben assortito, che annovera Federico ‘Privi” Privitera a tromba e piano elettrico, Andrea Salvato a flauto e sinth, Costanza “Skalli” Bortolotti alla chitarra, Vyasa Basili al basso e Alessandro Della Lunga alla batteria, capace di invenzioni che vanno dirette all’ orecchio dunque  nient’affatto ermetiche. Il riferimento al format nipponico al riguardo andrebbe visto come tendenza alla sintesi, alla enunciazione breve non logorroica neanche nelle impro. Certo è che le otto tracce per una mezz’ora di musica del disco si sviluppano vischiosamente, col flauto che “inalbera” pindaricamente le note più alte, le tastiere lì a “strattonare” la sezione ritmica, la tromba pronta ad acute proiezioni liriche, la chitarra protesa ad imbellettare di riverberamenti il tutto.

Nicole Johänntgen, “Labirinth”, Selmabid Records.
Gran bell’album Labirinth della sassofonista Nicole Johänntgen edito da Selmabird Records (Suisa)! Peraltro adatto a più palati musicali compresi quelli che adorano il funky e comunque i generi che abbiano una propulsione perloquale. Affidata in questo caso alla tuba di Jon Hansen ed alle percussioni di David Stauffacher, caricati del compito di dare adeguato sostegno ritmico a dieci brani. Vi svettano, come fra le montagne, gli alto e soprano della leader dalla bella voce blues ascoltabile in “Canyon wind”, il tutto arricchito dall’ospite Victor Hege al sousaphone in “Simplicity Curiosity” e “Straight Blues Baby Straight”. Nel labirinto della jazzista non è difficile muoversi, basta tenere stretto il filo d’Arianna disteso dal sax per essere condotti nel suo mondo dorato, un inno alla gioia del fare musica da proporre Coram populo affinché altri possano a loro volta appropriarsene.

 

Gaetano Duca, “Bugiardi”, Abeat Records
Lounge? No! Semmai è uno smooth dai sapori funk-fusion il jazz che propone il chitarrista Gaetano Duca nell’album Bugiardi (Abeat Records).
Un tocco, il suo, che apparirebbe bensoniano se non fosse per il fraseggio personale della propria “longa manus” esecutiva.
Il jazz “musica bugiarda”, lo diceva un suo vecchio maestro. Ma qui il riferimento si allarga all’epoca in cui viviamo, in cui si coltivano disvalori e illusorietà.
Dunque il titolo del disco va visto come un incipit, un’introduzione a… Anche perché siamo sinceri, le sue 11 “bugie” musicali sono vero jazz, E i Bugiardi, gli altrettanti brani numerati scaletta, non mentono sullo stato di salute di tale genere musicale, che è florido, nonostante tutto, e ne rappresentano una possibile cartina di tornasole. Se si considera poi la componente “etnea” insieme alla napoletanità acquisita dal leader siculo il mix appare “vulcanico”. Il risultato è merito anche dei Friends di Duca: Dario Paolo Picone (k.), Gaetano Diodato (b.), Mario Nasello (cb), Vittorio Riva e Santino Montesano (v.), Nico Roccamo (dr), EnzoTamburello (sax), Filippo/Piscitello (t.), Tonino Piscitello (t.ne).

Amedeo Furfaro