Roberto Ottaviano: oggi tutto, anche la musica si consuma troppo in fretta
E’ la mattina del 10 ottobre scorso; siamo a Ruvo di Puglia, per l’esattezza all’interno del Palazzetto dello Sport. Sul palco la funambolica MinAfric Orchestra di Pino Minafra che sta provando in vista del concerto serale. Tra i molti nomi illustri che compongono l’orchestra, c’è anche Roberto Ottaviano sassofonista di assoluta levatura internazionale. Sulla scena oramai da molti anni, Roberto Ottaviano si è imposto alla generale attenzione di pubblico e di critica come un innovatore del linguaggio sassofonistico essendo stato tra i primi ad immaginare e realizzare gruppi composti da soli fiati. Viene, inoltre, a ben ragione considerato come uno dei più originali interpreti della musica di Steve Lacy cui ha dedicato molti anni di appassionati studi. Anche con Ottaviano ci lega un rapporto di lunga data per cui è stato semplice farlo parlare di argomenti anche spinosi come potrete constatare nell’intervista che segue.
-Roberto, a mio personalissimo avviso, tu sei uno dei più grandi sassofonisti europei, eppure non hai ancora ricevuto i riconoscimenti che meriti. Sei d’accordo con questa mia valutazione, e , se sì, come te lo spieghi?
Innanzitutto ti ringrazio per l’apprezzamento e aggiungerei che il mio strumento preferito, quello con cui forse mi distinguo, è il sax soprano. Devo comunque confessarti che se questa poca comprensione del mio lavoro poteva costituire un cruccio fino a quindici, venti anni fa, poi ho smesso di pensarci, sono diventato un po’ più sereno perché mi rendo conto che alla fine conta molto di più riuscire a fare quello che si ha in testa, realizzare la propria progettualità, cercare di fare sempre il possibile per non barattare le proprie idee musicali, il proprio istinto, la propria integrità, la propria creatività con qualche cosa di non sincero tanto per ottenere un consenso facile. Io ho sempre fatto quello in cui credo fermamente e l’ incontrare amici che credono in me, che in qualche modo mi hanno sostenuto e mi sostengono, questo mi basta anche se mi rendo conto che forse il circuito musicale alle volte si perde qualcosa.
-Sì, però resta il fatto che in Italia arrivano delle meteore che nell’arco di pochi anni raggiungono i vertici per poi scomparire improvvisamente così come sono arrivate, mentre musicisti che hanno seminato a lungo , con grossa valenza alle spalle sia tecnica sia progettuale, i vertici mai li raggiungono…
Probabilmente è anche un segno dei tempi per cui si è spinti a consumare tutto in fretta: quando c’è un re nudo lo sposti dal regno e hai bisogno di eleggerne immediatamente un altro perché si ritiene che questo porti freschezza, una sorta di diversità nella scena… Io concordo sul fatto che ci sono ancora molti artisti che, nonostante l’età anagrafica, nonostante abbiano delle cose molto importanti da dire e da raccogliere per quanto hanno seminato nel tempo mantenendo un legame molto forte nel proprio percorso, della musica improvvisata, della musica afro-americana, non riescono purtroppo a raggiungere i traguardi che meritano. Se vuoi, il nostro lavoro è sotto certi aspetti paragonabile a quello di uno scultore che lavora su un materiale all’inizio grezzo per ottenere, dopo tempo e applicazione, il risultato voluto. Invece, oggi si pensa che, affrancandosi da tutto questo e abbracciando la moda del momento, si sia più attuali, più convincenti… Io, ovviamente, non ci credo assolutamente!
-A proposito di questa presunta modernità, cosa pensi dei fenomeni sempre più frequenti oggi da un canto di coniugare musica leggera e jazz, operazione posta in essere da alcuni grossi calibri della musica leggera italiana, e dall’altro di mescolare jazz e dj, operazione questa portata avanti anche da alcuni importanti nomi del jazz internazionale?
Alle volte leggo le motivazioni che spingono alcuni musicisti a contemplare nell’ambito dei loro repertori la canzone italiana quasi se si potesse traslare così il senso di ciò che è stato Tin Pan Alley, Broadway per gli americani. Per me, tutto sommato, è importante che ciò non diventi manierismo; l’idea una tantum di suonare un pezzo perché magari c’è un’ispirazione particolare, non mi pone il problema se sia Monteverdi piuttosto che Tino Rossi tanto per dire… e a proposito un grande maestro che ci ha lasciati poco tempo fa, Giorgio Gaslini, docet nel vero senso del termine: lui ha fatto grandi cose con la canzone italiana negli anni Cinquanta davvero molto avanzate, molto spinte in avanti, e non erano un jazzificare, così col vezzo sincopato, tizio o caio ma era un intervento all’interno del melos, della struttura formale. Oggi tutto questo non lo vedo, scorgo piuttosto il tentativo di farsi piacere un po’ di più usando il veicolo del pezzo della Mannoia piuttosto che del pezzo di Gino Paoli … e così via discorrendo. Questo mi sembra veramente manierismo che non solo non porta alcunché ad un’operazione progettuale, nulla di nuovo , nulla di interessante, di specifico dal punto di vista identitario ma anzi in qualche modo relega le pur notevoli capacità di tanti nostri musicisti ad un aspetto ancora ghettizzato dove, a questo punto, è la musica leggera a legittimare il jazz e l’improvvisazione mentre è semmai esattamente il contrario. Quando io ho cominciato a insegnare in conservatorio, molti docenti accademici ritenevano che siccome il jazz era approdato in questa Istituzione, allora aveva diritto di esistere, di essere considerato con maggiore serietà. Non è questa l’equazione che funziona, anzi è esattamente il contrario, solo che purtroppo i media trasmettono un messaggio fuorviante ed il pubblico lo recepisce falsificato: è come se il Fabrizio Bosso di turno, siccome suona con Sergio Cammariere ha una valenza, ma non è così. Sono gli artisti Pop ad avvantaggiarsi di una preziosità che viceversa le loro dinamiche, ormai povere sotto tutti i profili musicali, hanno perso. (altro…)