Mariko Hirose & Purple Haze, Pit Inn, Tokyo, 6 luglio 2014

Capita ogni tanto di ritrovarsi inaspettatamente in un luogo mitico e talmente idealizzato da apparire irraggiungibile. Quasi inconsapevolmente però, questa sera abbiamo invece varcato, increduli ed emozionati, le soglie del Pit Inn di Tokyo, il mitico locale jazz dove gli Steps di Mike Mainieri e Michael Brecker registrarono il loro primo LP. L’occasione per accedere a uno degli ultimi luoghi in cui è stata scritta una pagina importante del jazz, è stato il concerto di Mariko Hirose & Purple Haze. La scelta di assistere a questo spettacolo è stata più o meno casuale. Nel corso della nostra settimana di permanenza a Tokyo il cartellone della capitale non offriva occasioni memorabili per ascoltare buon jazz, ma la proposta di una giovane giapponese, esordiente a livello discografico e alla guida di una big band di una ventina di elementi, per di più dal nome hendrixiano di Purple Haz,e ha esercitato su di noi un’attrazione irresistibile. L’ascolto di un brano tratto dall’album Differentiation e presente su YouTube ha poi dato conforto alla nostra intuizione.

Fuori del Pit Inn, che si trova nel piano interrato di un edificio a Shinjuku, il pubblico si assiepava qualche minuto prima dell’apertura del locale. La disomogeneità di chi attendeva l’apertura del club, signori e signore di una certa età accanto a ragazzi giovanissimi, suggeriva l’idea che la platea sarebbe stata composta essenzialmente da parenti e amici dei musicisti. La familiarità mostrata dagli artisti nei confronti del pubblico ha confermato questa supposizione. Entrati nel locale ci siamo accomodati su una sedia davanti a un tavolino di cinquanta centimetri. Accanto a noi, come a scuola, un altro tavolino delle stese dimensioni e altre tre sedie a formare una fila di quattro. Al di là del corridoio altre file da quattro sedie e poi ancora sedie lungo tutto il perimetro del locale. In tutto non più di ottanta posti a sedere. Sulla parete alla sinistra del palcoscenico una grande fotografia di un John Coltrane dall’aria assorta, probabilmente una foto della session di Blue Train. A fronteggiarla sull’altra parete un poster di Elvin Jones, che in Giappone era di casa.

L’ambiente è confortevole e intimo. Il palcoscenico è ampio e non improvvisato come in tanti locali di casa nostra. Insomma tutto è funzionale a che il musicista si trovi a proprio agio. Dalle foto esposte all’ingresso riconosciamo Mariko Hirose che si aggira tra il pubblico chiacchierando e scherzando, visibilmente emozionata. La sua figura è minuta, aggraziata, una bellezza giapponese appena sbocciata. Mariko si inchina ogni volta che riconosce qualcuno e a ogni inchino sembra più piccola, quasi voglia scomparire. Pensiamo tra noi che non abbia fatto completamente sue le regole dello spettacolo che vogliono che l’artista non debba essere visto prima del concerto, così come una sposa prima del matrimonio. Ma questo aspetto di spontaneità è simpatico e travolgente. Una volta sul palcoscenico Mariko presenta la sua giovanissima big band, in cui si notano diverse presenze femminili e il concerto ha inizio. Nella direzione l’artista mostra una personalità tutta sua. Dirige più con lo sguardo che con i gesti delle mani, i suoi interventi sono sempre minimali e misurati, spesso si limita a leggere la partitura e addirittura si siede quando tutto fila per il verso giusto. Non per questo la musica ne risente.

Marco Giorgi
Per www.red-ki.com

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D’Andrea, Douglas e Bennink semplicemente… incantano

Han Bennink

Han Bennink

Un pianoforte, una tromba, un rullante. E dietro  a questi strumenti tre grandi uomini di jazz: Franco D’Andrea, Dave Douglas e Han Bennink. Un trio inedito che per la prima volta si presenta davanti un pubblico, attento ed entusiasta, anche se non sufficientemente numeroso. La Roma amante del jazz e dell’improvvisazione si mostra poco ricettiva nei confronti di un evento che sin dalle sue premesse appariva molto promettente e che a consuntivo ha certamente superato le aspettative. Così il secondo appuntamento con la rassegna Carta Bianca, dedicata quest’anno a Franco D’Andrea, è divenuto nei fatti un concerto per pochi intimi dispersi nell’ampiezza della sala Sinopoli.

In apertura di serata, prima che il trio appaia sul palcoscenico, sono stati fatti ascoltare due remix basati su composizioni del pianista di Merano, opera di due DJ vincitori di un concorso indetto dall’Auditorium Parco della Musica. Poi, D’Andrea, Douglas e Bennink hanno cominciato la loro esibizione, ma sarebbe meglio dire che è iniziato l’incontro tra le loro diverse personalità. Introversa e introspettiva quella di D’Andrea, curiosa e ricettiva quella di Douglas, estroversa e anticonformista quella di Bennink. Le loro indoli si riflettono nell’approccio allo strumento. Se D’Andrea, sembra sprofondare nel pianoforte, con la mano destra a disegnare splendide e inusuali figure musicali e la sinistra a giocare con implacabile e feroce determinazione sulle chiavi dei registri bassi, Douglas sembra esplorare ogni possibilità espressiva del suo strumento, ricorrendo anche a tecniche non ortodosse per estrarre dalla tromba il suono desiderato. Bennink, a settantadue anni compiuti, continua  a sembrare un alieno sceso in terra. Il suo swing ha un’efficacia terrificante e il rullante, che per tutta la serata sarà il suo unico strumento, viene percosso dalle bacchette, accarezzato dalle spazzole, battuto dalle mani nude e successivamente colpito dal tallone dal piede dell’olandese, nonché schiaffeggiato da un canavaccio di cotone da cucina. Bennink è l’uomo del ritmo ma non è esatto dire che il rullante sia il suo unico strumento. A questo dovremmo aggiungere, per completezza d’informazione, le gambe metalliche della sedia su cui è seduto (proprio la sedia di casa fu il suo primo “strumento” che imparò a suonare quando era bambino), il pavimento in legno del palcoscenico e qualsiasi cosa che l’olandese ritenga possa produrre un suono dopo essere stato percosso.

Marco Giorgi
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Jim Hall

Jimy Hall

Lo scorso 10 dicembre si è spento nel suo appartamento del Greenwich Village a New York il grande chitarrista Jim Hall. Aveva da poco compiuto 83 anni. Ad annunciarne la scomparsa è stata la moglie Jane che ha riferito come il marito sia morto nel sonno dopo un breve  malore.

Nonostante l’età  Hall era ancora un artista attivissimo. Aveva tenuto da poco l’ultimo concerto e aveva in programma una tournée in Giappone in duo con il contrabbassista Ron Carter. Chiunque ami il jazz e la chitarra elettrica conosce il valore di questo grande artista, tanto grande quanto modesto, uno di quei musicisti capace di rendere indimenticabile qualsiasi esibizione per la poesia che sapeva far scaturire dal suo strumento. Così, anche se non lo avevamo mai conosciuto di persona, la sensazione è quella di aver perduto un amico. Tante volte lo avevamo visto esibirsi in giro per l’Italia e tante volte, intervistando chitarristi delle nuove generazioni, avevamo potuto constatare quanto questi si ritenessero influenzati da lui o come lo ritenessero imprescindibile per lo sviluppo della chitarra. Tra di loro Pat Metheny e Bill Frisell, che ne ripropose in chiave moderna la tavolozza dei timbri e dei colori.

Hall ce lo ricordiamo sorridente sul palcoscenico, accompagnato, prima che dai musicisti del suo gruppo, dal ronzio incessante del suo vecchio amplificatore Marshall che per tutto il concerto forniva una tonale di fondo alla musica. Col tempo abbiamo cominciato a considerare quel ronzio come parte integrate della musica di Hall, al punto che, sentendolo mancare nelle registrazioni da studio, ne sentivamo quasi la mancanza. Un altro ricordo indelebile che abbiamo di Hall è dovuto al bellissimo documentario “Jazz on a Summer’s Day” del 1960 nel quale il chitarrista esegue, con la band di Chico Hamilton l’ipnotico brano “The Train and the River”.

L’amore di Hall con il jazz risale alla sua adolescenza. Il colpo di fulmine avvenne nel 1943, quando il giovane Jim aveva tredici anni. La radio trasmise un concerto con Charlie Christian alla chitarra. “Capii che quello era il mio destino” ricordò in seguito Hall. “Non capivo neanche bene cosa stesse facendo, ma aveva un sound così affascinante che volevo replicare”.

Marco Giorgi

per www.red-ki.com

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Con Dave Pell rivive l’epopea della California anni 50

I Concerti alla Casa del Jazz di Roma – Domenica 28 luglio 2013

20130802-191939.jpgDave Pell è stato musicista molto attivo sulla West Coast negli anni Cinquanta e Sessanta. Si era fatto le ossa nell’orchestra di Les Brown ed aveva poi formato un suo ottetto con cui aveva ottenuto un ottimo successo di pubblico. Le sue numerose incisioni per diverse etichette discografiche testimoniano del suo jazz molto morbido, leggero che strizzando l’occhio alla commercialità coniugava il jazz della West Coast con la tradizione delle dance band. Come molti musicisti del periodo Pell divideva la sua attività professionale tra concerti, incisioni e lavoro negli studi cinematografici e televisivi. Pell appartiene a quella schiera di giovani sassofonisti che elessero Lester Young a proprio mentore stilistico e che ne perpetuarono l’eredità dando vita alla grande stagione del jazz californiano.

Marco Giorgi
per www.red-ki.com

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I concerti alla Casa del Jazz

Kurt Elling, Roma, 8 luglio 2013

Kurt Elling (di Christian Lantry)

Kurt Elling (di Christian Lantry)

Questa volta il tempo è stato clemente e l’ormai consueto acquazzone che si abbatte su di Roma ogni sera e che ha portato alla cancellazione di ben tre concerti consecutivi che si sarebbero dovuti tenere alla Casa del Jazz, ha deciso di anticipare la sua performance e si è abbattuto sulla capitale verso le 16:00. La violenza degli scrosci è stata tale che l’atteso concerto di Kurt Elling è rimasto in forse fino alle 19:30 ma alla fine è stato confermato e tutto si è svolto nella normalità. L’artista di Chicago che nel corso della sua carriera ha mietuto successi su successi si è potuto esibire alla guida del suo quintetto che annoverava il suo fido collaboratore Laurence Hobgood al pianoforte, John McLean alla chitarra elettrica, lo spagnolo Jeff Pedraz al contrabbasso e Bryan Carter  alla batteria. Il concerto ha confermato pregi e difetti dell’Elling dell’ultimo periodo. Se da una parte, infatti, il vocalist è dotato di un grande talento, di un’estensione vocale di quattro ottave assolutamente sbalorditiva, di una capacità di tenere il palco invidiabile, di una simpatia contagiosa che si trasmette immediatamente al pubblico, di una padronanza della tecnica impareggiabile, dall’altra mostra un’eccessiva tendenza alla spettacolarizzazione della performance, propone una selezione del repertorio che meriterebbe forse una maggiore cura, così come più attentamente dovrebbe selezionare i componenti della band che lo accompagna. Elling non è il solito cantante che si accontenta di una batteria suonata con le spazzole, un pianoforte che suggerisce gli accordi e di un contrabbasso che scandisce il ritmo.

L’artista di Chicago, invece, cala la sua vocalità all’interno del gruppo, si confronta su base paritetica con i vari strumenti e diviene lui stesso uno strumento aggiunto. Non occorre sottolineare che le incredibili qualità vocali e interpretative di Elling devono trovare altrettanta rispondenza nei musicisti del gruppo.  Ma purtroppo Elling sovrasta di una spanna la sua band con la sola eccezione di Hobgood che è sembrato l’unico musicista all’altezza del leader. Forse non è un caso che proprio Hobgood abbia iniziato il concerto con una lunga introduzione solistica al pianoforte che ha preceduto una splendida “Come Fly With Me”. Già da questo pezzo si è potuta apprezzare in pieno la tecnica del cantante. Un attacco da crooner navigato, una serie di chiaroscuri, la voce resa roca per un secondo per poi limpida, l’emissione perfetta e controllatissima. Diversamente da molti dei suoi colleghi Elling mantiene il microfono a una distanza costante dalla bocca e quando vuole creare degli effetti prospettici lo fa controllando l’emissione stessa e non avvicinando o allontanando il microfono da sé. “Grazie essere qui per ascoltare buon jazz” dice rivolto al pubblico che non ha bisogno di essere blandito per essere conquistato.

I brani si susseguono, alternando composizioni di repertorio e standard internazionali a canzoni contenute nella sua ultima realizzazione discografica intitolata “1619 Broadway: The Brill Building Project” con cui, ne siamo certi, mieterà ancora award e riconoscimenti vari. Uno dei momenti più alti della serata coincide con la toccante interpretazione di “A House Is Not A Home” portata al successo da Dionne Warwick. Elling regala alla platea un’interpretazione memorabile, ricca di drammaticità mostrando di vivere la canzone in maniera assolutamente personale e libera da raffronti con il passato. Verso la metà del concerto, però, l’abitudine statunitense di trasformare un concerto in uno show internazionale, buono per tutti i pubblici, prende il sopravvento. Dapprima Elling si avventura in “For Luisa” di Antonio Carlos Jobim, una canzone lenta e ricca di sentimento, dove la sua band comincia a mostrare i suoi limiti. Non scopriamo certo oggi che il senso ritmico anche dei più provetti musicisti statunitensi è in seria difficoltà alle prese con le insidiose bossa nova. Se il jazz si è fuso con il samba per dar vita alla bossa, non per questo il nuovo genere si mostra docile e arrendevole al cospetto del genitore nordamericano. Ancora una bossa nova, “Estate”, firmata da Bruno Martino, viene interpretata come di fronte a una platea di Las Vegas e si trasforma in una sbiadita cartolina. Apprezzabile però lo studio che Elling ha effettuato per ottenere una pronuncia quantomeno accettabile dell’italiano. Nel brano interviene come ospite il sassofonista Rosario Giuliani che esegue un assolo dal timbro tagliente, congruo con lo spirito originale del brano. Segue una personale versione di “I Only Have Eyes For You” che Giuliani arricchisce con un altro assolo. Questo si trasforma in un sensazionale duetto con Elling che, a suon di scat, sciorina scale vertiginose come se anch’egli avesse un sax alto.

Il gran finale è lanciato affrontando il repertorio di Stevie Wonder con una “Golden Lady” spettacolare, arricchita da un altro scat vertiginoso e da un assolo di batteria di Carter assolutamente non banale. Il gruppo sta ancora suonando quando Elling abbandona il palcoscenico. Il pubblico lo richiama a gran voce: il bis che il cantante regala alla platea è “La Vie En Rose”, che però mostra gli stessi difetti degli altri brani non statunitensi interpretati nella serata. Il pubblico, comunque, è letteralmente conquistato ed Elling si presta ad essere attorniato dai fan, a farsi fotografare assieme a loro, a scambiare qualche parola, a firmare decine di autografi.  Anche questa disponibilità estrema fa parte del personaggio Elling, un artista che bisogna accettare così, luci ed ombre, apprezzando quei bagliori di grande musica che i suoi spettacoli contengono e accettando quelle cadute di tono che ad altri artisti non sarebbero certo perdonate.

Marco Giorgi
Per www.red-ki.com

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I nostri CD. L’arte di Stan Getz in un grande album del ‘55

Non c’è alcun motivo particolare per scrivere questo articolo se non il piacere che abbiamo provato nell’ascoltare un disco jazz… anche se poi, in tempo reale, una triste notizia ha quasi motivato, a posteriori, questo nostro scritto.

L’incisione che ci ha strappato dalla nostra “apatia letteraria” è Stan Getz in Stockholm, registrata il 16 dicembre del 1955. Getz era reduce da un periodo di convalescenza trascorso in Nord Africa dove si era ripreso dagli effetti congiunti di una pleurite e di una polmonite che aveva buscato, incredibilmente, in piena estate, poco dopo la registrazione al Radio Recorders di Los Angeles  delle tracce che sarebbero poi confluite in East of the Sun – The West Coast Sessions (19 agosto 1955). I medici gli avevano prescritto l’astinenza dal sassofono e Getz non aveva toccato il suo strumento per ben quattro mesi. Rientrato dall’Africa il musicista si era recato a Copenhagen dove aveva incontrato Norman Granz che lo aveva convinto a registrare un disco per la sua etichetta. Detto – fatto. Pochi mesi dopo vedeva la luce uno splendido 33 giri. Sulla copertina vediamo un Getz giovanissimo, appena ventottenne, salutare dalla scaletta di un aereo della SAS, il braccio destro teso in aria, nella mano sinistra il sassofono dentro la sua custodia parzialmente coperto dall’impermeabile che ha sul braccio. L’impressione è quella che stia salutando la Svezia alla sua partenza, dopo aver lasciato un segno tangibile della sua arte, piuttosto che all’arrivo. Ma questa è solamente un’impressione che lascia il tempo che trova. Un’altra immagine ci viene immediatamente in mente: è quella di un elegantissimo Stan Getz in giacca chiara e pantaloni bianchi insieme al pianista Jan Johanson, inserita all’interno del documentario Trollkarlan sullo sfortunato pianista svedese. I due erano sorridenti il ritratto della gioia giovani, belli, con tutte le possibilità che il futuro avrebbe aperto davanti a loro. Giovani Dei con il fuoco della musica dentro.

Marco Giorgi
per
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