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a proposito di jazz - i nostri cd

Bardoscia, Alborada, Marcotulli – “Trigono” – Tuk Music 12
Conosciamo Rita Marcotulli da quando ha cominciato a muovere i primi passi nel mondo della musica; l’abbiamo sempre seguita con affetto e stima e la pianista romana ci ha ricambiato con una carriera luminosa, ricca di splendidi episodi sia concertistici sia discografici. Anche questo album della Tuk Music si colloca su livelli molto alti grazie questa volta non solo a Rita ma anche all’ottimo contrabbassista Marco Bardoscia, allo straordinario quartetto d’archi Alborada nonché alla presenza, quali ospiti d’onore, di Maria Pia De Vito in “I’m a Dreamer” e della chitarra di Nguyên_Lê in “Andrea’s Milonga”, dove compare anche Paolo Fresu straordinariamente al pianoforte e ai battiti di mani. In repertorio tredici brani di cui sei a firma di Marco Bardoscia. L’atmosfera che i musicisti sono riusciti a creare è sorprendente: l’ascoltatore si lascia facilmente cullare dalle note proposte con naturalezza dal gruppo che riesce a far apparire semplici anche passaggi che facili non sono. Il sound creato con l’apporto degli strumenti a corda è ora poetico, ora inebriante, ora suggestivo ma sempre ben lontano da facili concessioni anche perché ad orecchie ben aperte non sfugge l’apporto di fonti ispirative diverse che vanno dalla classica, alla musica accademica contemporanea, dal folk al jazz. Si ascolti, ad esempio, con quanta pertinenza la chitarra di Nguyên_Lê e il pianoforte di Fresu si integrino nel tessuto connettivo disegnato dai compagni di viaggio in “Andrea’s milonga” mentre in “I’m a Dreamer” Maria Pia De Vito conferisce ulteriore spessore ad un ensemble di per sé già ottimo. Tra gli altri brani, uno più convincente dell’altro, ci ha particolarmente colpiti per la bellezza della linea melodica introdotta da Marco Bardoscia, “My Head” dello stesso contrabbassista.

Angiolini Bros Quartet – “JazzOmetrix” –
Due fratelli sardi, Alessandro e Andrea Angiolini, rispettivamente sax tenore e pianoforte, sono i co-leaders di un quartetto completato da Mattero Marongiu al contrabbasso e Roberto Migoni alla batteria. L’album, inciso nel febbraio del 2016 per l’etichetta cagliaritana ‘Claire de Lune’, si inserisce nel solco di quel modern mainstream che a sua volta prende le mosse da un hard-bop aggiornato e rivisto. Quindi un jazz robusto, muscolare ma allo stesso tempo raffinato, in cui scrittura e improvvisazione si legano perfettamente. Il tutto declinato attraverso un repertorio di dieci brani tutti composti a partire dalla metà degli anni ’90 fino ad oggi da Andrea Angiolini che denota una certa facilità e originalità di scrittura. Si ascolti, al riguardo, “Dear Astor”, un omaggio a Piazzolla in cui Angiolini è riuscito a ricreare un clima che in qualche modo ci rimanda al grande artista argentino senza far ricorso ad alcuno dei clichés che solitamente si adoperano per omaggiare Piazzolla. Evidentemente la bella riuscita dell’album è legata non solo alla valenza dei brani ma anche alla bravura degli esecutori. Alessandro Angiolini è sassofonista esperto, maturo ben consapevole delle eredità che gli hanno consegnato tenoristi del calibro di Gordon e Brecker ; Andrea Angiolini è pianista di squisita sensibilità, in possesso di una eccellente tecnica di base che gli consente, tra l’altro, un’assoluta padronanza della dinamica; l’intesa tra i due è perfetta segno evidente che i molti anni passati a provare, a suonare assieme non sono passati invano. Marongiu e Migoni costituiscono, infine, una brillante sezione ritmica propositiva e swingante.

Federica Colangelo – “Chiaroscuro” – Alfa Music 168
Delizioso album della pianista e compositrice Federica Colangelo alla testa di “Acquaphonica” formazione composta dall’olandese Joao Driessen sax soprano, dal tedesco Matthijs Tuijn chitarra acustica, dal bulgaro Mihail (Misho) Ivanov contrabbasso e dallo sloveno Kristijan Krajncan batteria e percussioni, insomma una sorta di multinazionale del jazz che raccoglie alcuni dei più luminosi talenti della scena europea. E già da questa composizione dell’organico si ha una prova della maturità raggiunta dalla Colangelo: le sue scelte risultano, infatti, assolutamente coerenti con le idee compositive che la stessa pone in essere dal momento che non si nota una solo attimo in cui il gruppo non si esprima con grande empatia seguendo alla perfezione le indicazioni della leader. Così ognuno ha la possibilità di mettersi in luce in un equilibrio costante tra pagina scritta e improvvisazione: si ascolti, ad esempio, Joao Driessen in “Croma” e “Contemporary Solution” o Matthijs Tuijn in “Graphic Work”. Dal canto suo la Colangelo si fa notare immediatamente fin dalla trascinante introduzione del primo brano “In bilico” per innervare tutto l’album del suo pianismo allo stesso tempo intenso e delicato, frutto di una profonda conoscenza dello strumento: ottima la padronanza della dinamica, leggero e scorrevole il flusso delle improvvisazioni senza alcuna forzatura, senza alcuna volontà di stupire con tecnicismi fuori luogo. Dal punto di vista compositivo, la sua musica è caratterizzata da una linea melodica frutto di varie influenze (musica classica, Karnatic Music ovvero la musica classica dell’India del Sud) che riesce a trasmettere sensazioni profonde.

Sade Farida – “La terra dei ciclopi” – Inner Circle Music 064
Un pianismo spumeggiante non scevro da reminiscenze classiche e folcloriche. Questa, in estrema sintesi, la carta d’identità stilistica di Sade Farida così come la si evince da questo album uscito a fine settembre per la Inner Circle Music, etichetta discografica newyorkese guidata da Greg Osby. “La Terra dei Ciclopi” è il primo album in piano solo di Sade Farida Mangiaracina, interprete e compositrice siciliana che si è fatta già conoscere in tutto il mondo , grazie a collaborazioni con artisti di fama internazionale come Fabrizio Bosso e Michael Rosen . Come si accennava, l’album è per piano-solo eccezion fatta per due brani , “Ballarò” e “Sugnu tutta pi tia”, in cui accanto alla pianista è possibile ascoltare uno strepitoso Luca Aquino impegnato alla tromba e al flicorno. Ma probabilmente il brano più interessante è “Ciuri Ciuri” che assieme a “Vitti ‘na crozza” è la canzone popolare siciliana più famosa di ogni tempo; composta da Francesco Paolo Frontini nel 1883, con testi d’autore ignoto, “Ciuri Ciuri” ha fatto parte del repertorio di qualunque artista abbia voluto affrontare con serietà il grande patrimonio della canzone popolare siciliana. Ne hanno fornito buone versioni, tra gli altri, Mina, Fiorello, Roy Paci e Otello Profazio cui si aggiunge, adesso, Sade Farida. La sua è una interpretazione sotto certi aspetti straniante: dopo una sorprendente introduzione, Sade intona il tema ma lo fa in modo assolutamente personale, innanzitutto ritardandolo all’inizio di molto rispetto alle esecuzioni cui siamo abituati per poi assumere un andamento più veloce sostenuto da un ostinato della mano sinistra; l’esecuzione prosegue alternando, in mirabile equilibrio, improvvisazione e fedele richiami all’originale.

Claudio Fasoli – “Inner Sounds” – abeat 158
Fasoli è uno di quei rari musicisti che, come si dice in gergo, mai sbaglia un colpo: lo conosco e lo seguo oramai da molto tempo e non ricordo una sola volta in cui un suo concerto, un suo disco mi abbiano deluso. E anche quest’ultimo album non sfugge alla regola: il sassofonista veneziano (ma oramai milanese d’adozione) si presenta alla testa di un doppio quartetto, il Quartetto “FOUR” ed il “SAMADHI 4et” , ad eseguire sette sue composizioni originali, ispirate a una raccolta di sette poemi (Horae Canonicae), le “ore canoniche” del poeta inglese Wystan Hugh Auden. Il percorso seguito da Fasoli, more solito, non è dei più semplici alternando momenti di grande apertura, liricità a situazioni più scure all’insegna della più assoluta imprevedibilità. Il perché è motivato assai bene dallo stesso Fasoli in una breve nota che accompagna il CD, laddove l’artista spiega che per poter dare ad ogni musicista la possibilità di esprimersi in un territorio sonoro scelto solo per lui, si è giunti ad una moltiplicazione delle situazioni musicali e a brani politematici; di qui la studiata volontà di accostare atmosfere le più lontane fra loro, di qui la possibilità di creare una serie di variabili strumentali che si alternano con grande fascino. Ed è proprio questo, a nostro avviso, il merito maggiore dell’album, vale a dire la capacità dell’inusuale organico di misurarsi, con successo, su partiture tutt’altro che semplici che testimoniano la volontà di Fasoli di mai fermarsi sugli allori, di sperimentare continuamente, di cercare sempre di dare sfogo alla propria creatività con una coerenza, un’onestà intellettuale che unanimemente gli viene riconosciuta. Il tutto impreziosito da una valentia strumentale che trova pochi eguali e non solo in ambito nazionale; il suo sound, il suo fraseggiare sia al tenore sia al soprano hanno una precisa riconoscibilità mentre le capacità compositive sono oramai talmente acclarate che riteniamo inutile ogni ulteriore commento. Insomma un gran bel disco che merita la massima attenzione.

Raffaele Genovese Trio – “Musaico” – Alfa Music 193
Il pianista siracusano Raffaele Genovese giunge con questo “Musaico” al terzo album da leader per l’Alfa Music. Accanto a lui Ben van Gelder al sax alto, Carmelo Venuto al basso e Emanuele Primavera alla batteria. In programma nove composizioni originali di Genovese e “Gentle Piece” di Kenny Wheeler. L’album, come accennato, vede Genovese in veste di leader…anche se, in realtà, il ruolo del pianista e quello del sassofonista risultano paritari. In effetti , nonostante la giovane età (28 anni) , Ben van Gelder , olandese di nascita ma statunitense d’adozione e di formazione, è considerato uno degli esponenti di punta della nuova scena musicale newyorkese. E il perché lo si capisce anche ascoltando questo album: il sassofonista non nasconde la sua diretta discendenza da John Coltrane evidenziando un attacco sempre puntuale, un sound ampio, cristallino, lirico, alle volte lievemente increspato da un leggero vibrato e un fraseggio misurato, mai incline al virtuosismo ma tutt’altro che banale. Dal canto suo Genovese affida anche alla scrittura le sue potenzialità di musicista. Così tutto l’album è come una sorta di racconto autobiografico in cui il pianista racconta di sé, della sua vita. Ad, esempio, la dolcezza di “Settembre”, resa magnificamente dal soffiato di van Gelder, si spiega con il fatto che il brano è dedicato al figlio, così come l’atmosfera piuttosto cupa, raccolta di “Via D’Amelio” non abbisogna certo di molte spiegazioni dati i drammatici fatti che il titolo evoca. Tra gli altri pezzi particolarmente interessante “Ibn Hamdis” , dedicato al poeta arabo nato a Siracusa nel 1056, in cui sax e piano si dividono la scena con il leader impegnato in un assolo di sapore arabeggiante. Ottima, come d’altronde in tutto il disco, la sezione ritmica che segue con attenzione e inventiva le elaborazioni di pianoforte e sassofono.

William Greco – “Corale” – Workin’ Label 12
Grande amore per la melodia: questa la principale sensazione che ci ha prodotto l’ascolto di questo album in cui il pianista salentino William Greco si presenta in trio con Marco Bardoscia al basso e Massimo Manzi alla batteria cui si aggiungono Rafaele Casarano al sax alto in tre brani e Carla Casarano alla voce nella title track. Amore per la melodia, dicevamo e tale elemento risulta evidente già dai tre brani non originali inseriti in repertorio: “Cherokee” di Ray Noble con un Casarano in grande spolvero, “My little suede shoes” di Charlie Parker e “Oh que serà” di Chico Buarque trattato con particolare grazia dal trio, con Marco Bardoscia che dimostra ancora una volta di essere uno dei migliori contrabbassisti oggi in esercizio, uno dei non molti capaci di far cantare il proprio strumento. Gli altri pezzi sono tutti originali, sei scritti dal leader ed uno da Bardoscia. Musicista jazz ma di chiara impostazione classica, William frequenta ancora oggi tutti e due questi terreni con risultati apprezzabili in entrambi i casi, grazie innanzitutto ad una ferrea preparazione di base che gli consente un tocco raffinato, un perfetto controllo della dinamica, una totale indipendenza delle de mani…ma tutto ciò non sarebbe sufficiente se non fosse accompagnato da quella sensibilità che porta l’ascoltare ad emozionarsi quando ascolta. E che Greco sia un artista completo lo dimostra anche la qualità delle sue composizioni , tutte innervate da quel senso melodico cui si accennava in apertura. Da segnalare particolarmente “Fryderyk”, introdotto da un pianismo secco, quasi minimalista, caratterizzato dal ripetersi di una nota, prima di sfociare nel tema in cui si richiama esplicitamente un preludio di Chopin, cui Greco è particolarmente legato.

Guidi, Petrella, Sclavis, Cleaver – “Ida Lupino” – ECM 2462
Ecco il lavoro vincitore del premio come “miglior album italiano 2016” nell’annuale “Top Jazz”. La cosa, ovviamente, non stupisce vista la qualità dei musicisti impegnati: Giovanni Guidi al pianoforte, Gianluca Petrella al trombone, Louis Sclavis al clarinetto e Gerald Cleaver alla batteria, quindi un quartetto senza contrabbasso quale ancoraggio armonico, ruolo che solo di rado viene ricoperto dal pianoforte. L’album si inserisce di diritto nel solco della musica improvvisata nel senso che, ad eccezione di “Per i morti di Reggio Emilia” di Fausto Amodei, “Ida Lupino” di Carla Bley , e “La Terra” di Guidi e Petrella, tutti gli altri brani sono il frutto di improvvisazioni scaturite nello studio di registrazione, senza alcunché di scritto. Il risultato è davvero straordinario: i quattro si intendono a meraviglia e se non fosse stato lo stesso Guidi a spiegare che la maggior parte dei brani sono stati improvvisati in studio, si sarebbe propensi a intravvedere in queste esecuzioni una scrittura più vasta e pervasiva. Si ascolti, al riguardo, come il gruppo, riesca, in “Gato”, a rendere magnificamente un’atmosfera triste e compunta essendo il brano dedicato a Gato Barbieri che ci ha lasciati di recente (si ascolti con attenzione il fitto dialogo tra pianoforte e trombone chiuso da un conclusivo di Guidi dal sapore onirico di impostazione classicheggiante) mentre in “No More Calypso?” possiamo gustare un Louis Sclavis che ancora una volta si conferma uno dei migliori improvvisatori della scena musicale internazionale. Ovviamente superlativa anche l’interpretazione dei brani “scritti”: esemplare, al riguardo, l’eleganza con cui è presentata la ben nota composizione di Carla Bley che dà il titolo all’album e la trasformazione di “Per i morti di Reggio Emilia” da canzone folk-politica a brano jazz altamente coinvolgente con un Petrella superlativo.

I Giganti della montagna – “Io sono tre” – Improvvisatore Involontario 049
Disco davvero interessante questo registrato a Scordia nel dicembre nel 2015 e pubblicato nel novembre 2016 da “I Giganti della Montagna”, sigla con cui si esibisce il trio formato da Ferdinando D’Urso al sax, Federico Sconosciuto al violoncello e Lorenzo Paesani al pianoforte. Un combo, quindi, assolutamente inusuale sia per l’organico sia per la proposta musicale, proposta difficilmente classificabile. In effetti questo terzo album , dopo “Oi dialogoi” e “L’arsenale delle apparizioni”, si presenta come il più maturo del gruppo, soprattutto per un elemento, la facilità, oseremmo dire la disinvoltura, con cui i tre musicisti sono riusciti a fondere nel loro linguaggio le influenze provenienti da mondi pure assai diversi tra di loro. Così, nei dieci pezzi originali, possiamo ascoltare echi della tradizione eurocolta, della musica contemporanea, del jazz specie quando i tre si lasciano andare ad improvvisazioni sempre pertinenti e di gran gusto, senza che alcuna di queste direttrici prenda il sopravvento sulle altre. Così la musica si snoda affascinante, certo non facilissima da seguire, ma se si ha la pazienza di ascoltare senza pregiudizi e con le orecchie bene aperte, allora lo sforzo – sicuramente non ciclopico – sarà ripagato ampiamente. Al riguardo abbiamo trovato particolarmente suggestivo “Melancholia” di Federico Sconosciuto in cui ci è parso di ascoltare echi di un compositore che amiamo particolarmente, Francis Poulenc . E per chiudere consentiteci una breve digressione: per chi ancora non la conoscesse, consigliamo di ascoltare la “Sonata per oboe e pianoforte” di Poulenc.

Michael Lösch – “Heroes” – Sweet Alps
Prima di procedere oltre, vorrei chiedere scusa al pubblico e allo stesso Lösch per il ritardo con cui ci occupiamo di questo pregevole album. Il fatto è che lo stesso era andato a finire sotto una pila di dischi che avrei dovuto ascoltare in tempi brevi… e invece è passato un anno. Comunque quasi a tutto c’è rimedio per cui eccoci a parlare di Lösch e dei suoi “Heroes”. Fortemente legato alla sua terra, il Tirolo, il pianista e compositore Michael Lösch ha studiato pianoforte jazz con Franco D’Andrea, Barry Harris, Harold Danko e Kenny Barron. Raggiunta una piena maturità, nel 2001 ha fondato la Unit Eleven Jazz Orchestra con la sassofonista Helga Plankensteiner, collaborazione che dura ancora oggi tanto che non è infrequente ascoltarli in duo. Nel 2005 Michael Lösch ha composto la suite “Sweet Alps” per orchestra jazz e sassofono, commissionata dal festival Jazz & Other di Bolzano e nel 2006 la suite “Voyage”, commissionata dalle Settimane Musicali Meranesi; risale invece al 2009 il progetto audiovisuale “Heroes 09” per orchestra jazz la cui musica è contenuta nel CD in oggetto. Alla testa di un nonetto con Steven Bernstein e Martin Ohrwalder alla tromba, Florian Brambock al sax alto, la già citata Helga Plankensteiner al sax baritono, Peter Cazzanelli al trombone basso, Enrico Merlin alla chitarra, Stefano Senni al basso e Zeno De Rossi alla batteria, Lösch ci presenta questa suite dedicata agli eroi della sua terra quali Andreas Hofer che fu il comandante delle milizie tirolesi insorte contro la Baviera nel 1809. In coerenza con l’intento di celebrare questi eroi, la musica induce alle volte un clima bandistico, quasi epico, fortemente evocativo, (si ascolti il pezzo d’apertura “Ander Titel” e il successivo “3/4 Marsch”) anche se non mancano brani con atmosfere assai diverse. Così, ad esempio, “Ander Verdacht” ha un sapore più squisitamente jazzistico con un gran lavoro del leader all’organo Hammond e di Florian Brambock al sax alto, mentre “Ander Five” è connotato da un andamento latineggiante, impreziosito dall’ assolo introduttivo di Stefano Senni.

Federica Michisanti – “Isk” – Filibusta Records 1611
E’ stato pubblicato il 20 gennaio scorso, per la Filibusta Records, l’album “Isk” (parola araba che significa Amore). Protagonista un trio guidato dalla contrabbassista Federica Michisanti e completato da Simone Maggio al pianoforte e dal polistrumentista Matt Renzi impegnato al sax tenore, al clarinetto basso, al corno inglese e all’oboe. L’album fa seguito al suo primo disco “Trioness”, con Simone Maggio al piano ed Emanuele Melisurgo al sax tenore e soprano, pubblicato nel 2012. Com’è quindi consuetudine della Michisanti, anche questa volta il combo non presenta la batteria e affida l’andamento ritmico a contrabbasso e pianoforte. Risultato: la musica assume un carattere quasi cameristico in cui i tre musicisti dialogano con evidente intesa curando in modo particolare sia l’aspetto melodico sia la timbrica . Di qui un flusso costante attraverso cui è facile intravvedere nel solismo della Michisanti una robusta preparazione classica: in effetti, scorrendo il curriculum dell’artista, si scopre come la stessa abbia studiato musica classica con il maestro Andrea Pighi. Dal punto di vista strumentale sia Simone Maggio sia Matt Renzi se la cavano egregiamente consentendo alla leader di tessere le proprie trame sonore su un impianto che si mantiene solido e coinvolgente per tutta la durata del CD. In repertorio cinque improvvisazioni totali e sette composizioni della Michisanti che riflettono la sua variegata personalità artistica, così brani in qualche modo collegati ad una grammatica jazzistica per effetto soprattutto dei fiati di Renzi, si alternano pezzi che maggiormente si avvicinano alla musica ‘colta’ contemporanea come la splendida “Impro1”.

Molester sMiles – “Social Music” – Milk
I Molester sMiles sono un sestetto nato per iniziativa del chitarrista Enrico Merlin che ha chiamato a collaborare i sassofonisti Massimiliano Milesi e Achille Succi, il tastierista Giancarlo Tossani, il bassista elettrico Giacomo Papetti e il batterista percussionista Filippo Sala. L’intento è chiaramente esplicitato nel titolo del disco che richiama una celebre dichiarazione di Miles Davis il quale, nel corso di una intervista dei primi anni ‘80, definì il jazz “social music”. Il gruppo, al suo debutto discografico, intende, quindi, ripercorrere le vie del ‘Miles elettrico’ ossia di quell’artista che a cavallo tra i sessanta e i settanta seppe dare, per l’ennesima volta, una decisa evoluzione al linguaggio musicale, non solo jazzistico. Ma seguire le strade di Davis, almeno in questo caso, non significa ripercorrerne le orme in modo pedissequo, ché l’operazione sarebbe risultata sicuramente perdente, quanto cercare di ricreare un clima, un’atmosfera che in qualche modo riconduce l’ascoltatore alle atmosfere davisiane di quegli anni. Di qui anche la scelta intelligente di un repertorio che comprende solo due composizioni, per altro splendide, di Davis, “Black Satin” che apre l’album e “Ife”, accompagnate da sette brani originali scritti da Merlin, Tossani, Milesi e Papetti. E per capire quanto l’obiettivo sia stato centrato, basti a nostro avviso ascoltare “Ritual” di Enrico Merlin in cui il gruppo si esalta in un convincente gioco d’assieme impreziosito, però, da una serie di assolo che vedono protagonisti tutti i membri del sestetto. Davvero un ottimo disco d’esordio per questo gruppo di cui sentiremo ancora parlare.

Giorgio Pacorig, Massimo De Mattia – “Blue Fire” – Klopotec
Un unico brano di oltre 42 minuti, “Blue Fire”: questo il contenuto dell’omonimo album registrato dal vivo durante un concerto a Porta Azzurra nel dicembre del 2015 da Giorgio Pacorig al pianoforte e alla melodica, e Massimo De Mattia al flauto, e pubblicato proprio in questi giorni dalla Klopotec di Iztok Zupan. Quanti seguono il jazz d’avanguardia, ben conoscono questi due musicisti che hanno oramai raggiunto una dimensione internazionale grazie alle loro qualità artistiche che li pongono in cima ad una ipotetica classifica degli improvvisatori made in Italy. Se a ciò si aggiunge il fatto che i due si conoscono assai bene collaborando oramai da molti anni (ricordiamo il precedente album del 2002 “La Parte (O)scura”) si avrà un quadro preciso della valenza dell’album. E al riguardo bisogna dare atto dell’ottimo lavoro svolto da Iztok Zupan; Iztok, oltre ad essere un eccellente fotografo, è apprezzato soprattutto per il suo lavoro di ingegnere del suono tanto che tutte le uscite della sua etichetta, Klopotec, sono registrate dal vivo dallo stesso Iztok. Inoltre il fatto di seguire la musica improvvisata, ha fatto sì che la Klopotec sia oggi a ben ragione considerata come una delle etichette più coraggiose e intraprendenti in ambito europeo. Tornando all’album, i due suonano magnificamente: la musica scorre in modo naturale, in un gioco continuo di rimandi, di rincorse, di grandi aperture ed improvvise chiusure, di tensioni e distensioni in cui i due dimostrano di conoscere assai bene tutta la letteratura jazzistica, ivi compresa quella tradizionale. Non a caso alle volte sembra quasi di sentire un ragtime rivisto e rivisitato alla luce di una moderna sensibilità: Ed è davvero un piacere ascoltare due che dialogano alternando pagine scritte ad improvvisazioni, pratica in cui sono dei veri e propri maestri. Insomma un disco che non mancherà di interessare anche chi non segue con particolare attenzione la musica improvvisata.

Greta Panettieri – “Shattered – Sgretolata” – Greta’s Barey Music 003
Molti gli artisti coinvolti dalla vocalist e compositrice Greta Panettieri per questo suo nuovo album: così ritroviamo nelle vesti di compositore, arrangiatore, pianista e tastierista Andrea Sammartino; Claudio “Greg” Gregori, Piji Siciliani e Jennie Booth quali autori dei tre testi non scritti dalla Panettieri; i brasiliani Itaiguara Brandao e Mauricio Zottarelli, rispettivamente basso e batteria, che hanno collaborato con Greta a New York, Francesco Diodati impegnato in un coinvolgente duo voce e chitarra (“I’m In Love”), i sassofonisti Max Ionata e Cristiano Arcelli. Negli ultimi tempi Greta era riuscita ad ottenere una maggiore visibilità grazie a quegli interventi sempre misurati e assai godibili su “la 7”, interventi che naturalmente sono stati cancellati dato che in televisione oramai parlare di jazz è grave, gravissimo, intollerabile. Ma torniamo all’album che si fa particolarmente apprezzare per la sua varietà. Greta si dimostra artista oramai matura, capace di affrontare con sicurezza brani di chiara impronta jazzistica (come ad esempio la title track impreziosita da un bell’assolo di Cristiano Arcelli al sax alto), così come pezzi che si richiamano alla musica brasiliana (si ascolti “Pensamento Feliz” con il contributo dei due artisti brasiliani sopra citati) o al pop (ben centrata l’esecuzione di “Life on Mars” di David Bowie con Sammartino in bella evidenza). Interessante anche “Oppure no” sia per il frizzante duetto con Greg sia per l’ottimo uso della lingua italiana che Greta adopera con scioltezza e assoluta pertinenza.

Maria Patti – “Five” – Splasc(H) 714.2
Di recente avevamo elogiato la Caligola per aver ristampato il secondo lavoro discografico della Keptorchestra, “Sweet Sixteen”, registrato nel 1993 con Steve Lacy; adesso è la volta della Splasc(H) che ha ritenuto di dover ristampare quest’album della cantante siciliana Maria Patti registrato nel luglio del 1998 e pubblicato subito dopo. All’edizione originale sono state ora aggiunte quattro takes: “Who Can I Turn To”, “You Don’t KnowWhat Love Is”, e due ulteriori versioni di “Just One Of Those Things” e “Five”. A distanza di oltre diciotto anni, l’album nulla ha perso dell’originaria freschezza anche perché all’ottima performance della cantante si accompagna la bravura di chi l’accompagna nei due differenti organici, dai sassofonisti Pietro Tonolo, Corrado Sambito, Marco Bonetti e Gilberto Tarocco ai trombettisti Mario Cavallaro e Davide Ghidoni, dai trombonisti Lorenzo Grasso e Alessandro Castelli per finire con l’eccezionale sezione ritmica composta dal pianista Giuseppe Emmanuele, dal bassista Alberto Amato e dal batterista Giampiero Prina. Il tutto impreziosito da un repertorio tanto inusuale quanto impegnativo: ecco quindi la versione cantata di “Forest Flower” uno dei pezzi più belli scritti da Charles Lloyd, con la Patti che dà un saggio delle sue possibilità vocali interpretando il pezzo con straordinaria eleganza. Ma è in tutto l’album che si può apprezzare la sua capacità tecnica, il senso del ritmo, la purezza timbrica, la capacità di sintesi propria di chi conosce a fondo la materia, la freschezza nell’improvvisazione, doti queste proprie solo di una grande artista.

Ciro Riccardi – “Racconti di vinile” – Alfa Music 190
Un vociare indistinto, un suono di banda: inizia così, con “La invenciòn de Morel”, questo album del trombettista Ciro Riccardi, significativamente intitolato “Racconti di vinile”. L’atmosfera bandistica dura poco che già il secondo brano, “Raimondo de sangre” assume un andamento latineggiante, ed eccoci al terzo brano, “Me so’ scurdato ‘e me” una sorta di blues napoletano affidato alla voce di Peppe Servillo; ancora un cambio ed eccoci a “I marinai di Kronstadt” di più netta derivazione jazzistica con un impianto ritmico di marca vagamente funky… Questo alternarsi di atmosfere, di situazioni è l’esplicazione del titolo: come i dischi in vinile raccontano storie del passato, così il musicista napoletano vuole raccontare, attraverso la musica, delle storie, “ognuna – spiega lo stesso Riccardi – con una sua ambientazione, con i suoi personaggi e con le sue suggestioni”. Certo, c’era il pericolo di una certa disomogeneità, ma l’ostacolo viene brillantemente superato dallo stesso Riccardi che con il suo strumento si incarica di collegare tra di loro i vari episodi, utilizzando in modo egregio i due ospiti che hanno risposto alla sua chiamata. Di Peppe Servillo abbiamo accennato; Daniele Sepe si fa ammirare sia nel già citato “I marinai di Kronstadt” sia ne “Il discorso di Pericle”

Paolo Russo – “Bandoneon Solo – Vol.I – Jazz Standards”
Dodici brani, uno più bello e conosciuto dell’altro, eseguiti da un solo strumento, il bandoneon, nelle capaci mani di Paolo Russo. Si tratta di un musicista italiano che per trovare spazi adeguati ha deciso nel 1996 di stabilirsi in Danimarca, così come – lo ricordiamo per inciso – ha dovuto fare un altro eccellente pianista quale Luigi Bozzolan che attualmente suona ed insegna nella Lapponia svedese. Ma torniamo a Russo: nato a Pescara nel 1969, ha iniziato a studiare pianoforte all’età di nove anni, senza trascurare gli altri studi tanto è vero che ha frequentato per cinque anni la facoltà di architettura. Ma il richiamo della musica era troppo forte per cui abbandonati matite e compassi si è dedicato esclusivamente al jazz stabilendosi, come già detto, a Copenhagen. Dopo una serie di apprezzabili album, di recente Russo ha pubblicato due dischi pregevoli in cui lo si può ascoltare in duo con il violoncellista lettone Ruslan Vilensky e in solo. Ed è per l’appunto quest’ultimo il CD di cui ci occupiamo in questa sede. “Jazz Standards” si apre con un brano che è forse la quinta essenza dello standard jazzistico tali e tanti sono gli artisti che l’hanno inciso, “Lush Life” di Billy Strayhorn; Russo ne da una versione originale e convincente nel pieno rispetto dell’originaria linea melodica. Ed è questa una strada che il bandoneonista seguirà nell’interpretazione di tutti i brani, vale a dire mantenimento della melodia, che conserva intatta tutta la sua riconoscibilità, su cui Russo innesta le sue improvvisazioni. Notevoli, al riguardo, “Bluesette” e “Round Midnight”, mentre “How Insensitive” di A. Carlos Jobim si segnala per quel clima di soffusa malinconia che Russo ha saputo egregiamente ricreare.

Mirko Signorile Quartet – “Open Your Sky” – Parco della Musica Records
Album assai variegato ma che proprio in questa particolarità trova la sua ragion d’essere. Dopo “Clessidra” (2009) e “Magnolia” (2012) il pianista barese si ripresenta alla testa di un combo completato da Giorgio Vendola al contrabbasso, Fabio Accardi alla batteria e Cesare Pastanella alle percussioni, cui si aggiunge quale special guest il chitarrista Fabrizio Savino in due brani, “Locus” e “The Other Side of Locus Mood”. In apertura si accennava alle atmosfere assai diversificate che il gruppo riesce a costruire in omaggio ad un preciso intendimento: aprire – come afferma lo stesso Signorile – la propria immaginazione ed il proprio cuore ; di qui il titolo e l’essenza stessa dell’album, “Open Your Sky”, apri il tuo cielo, “sii potente oltre ogni limite”, parafrasando un discorso di Nelson Mandela molto caro al musicista. E’ chiaro come, partendo da questo assunto, il pianista non si sia minimamente preoccupato di ‘omogeneizzare’ l’album e bene ha fatto dato che i risultati gli danno ampiamente ragione. Così l’album si ascolta con grande interesse dalla prima all’ultima nota con quell’aurea di sorpresa, di imprevedibilità che quasi ci si aspetta dopo l’apertura travolgente di “Confusion Smell Beauty” e la dolcezza della title track … e ancora l’andamento travolgente, quasi bandistico, di “Tipo Mattia” cui si contrappone il successivo, quasi rapsodico, “Locus” a nostro avviso uno dei pezzi più interessanti del CD. Un’ultima ma non secondaria annotazione: gli undici brani attraverso cui si articola l’album , sono di Mirko Signorile a lumeggiare, ancor meglio, la statura artistica del personaggio.

Roberto Spadoni New Project Jazz Orchestra – “Travel Music” – Alfa Music 191
In periodi di crisi come l’attuale è sempre un piacere potervi segnalare qualche album di big band date le enormi difficoltà in cui si dibattono organici di questo tipo. La soddisfazione è ancora più grande nel caso in cui l’orchestra è diretta da un artista che conosciamo da vicino e stimiamo oramai davvero da tanti anni quale Roberto Spadoni. Il titolo dell’album è quanto mai esplicativo, “Musica da viaggio”, ossia la musica come colonna sonora della vita del musicista sempre in viaggio per portare la propria musica, per farla conoscere ad un pubblico sempre più vasto. Ma c’è di più specie per chi, come Spadoni, fa della creazione una parte essenziale della propria attività artistica: è indubbio che la composizione assorbe in qualche modo le energie e gli input della località in cui viene concepita. Ed in effetti i sei brani che ascoltiamo, tutti del leader, sono stati scritti e sviluppati interamente in viaggio tanto che, confessa lo stesso Spadoni, “di molti frammenti è ancora viva dentro di me l’immagine del luogo e del momento in cui si sono concretizzati”. Attenzione, però: i pezzi non hanno alcun intento descrittivo, essendo piuttosto l’espressione di luoghi e tempi interiori. Adoperando queste chiavi di lettura, è ancora più godibile l’ascolto dell’album che si sviluppa lungo un percorso tracciato con cura da Spadoni che riesce ad equilibrare le varie sezioni producendo un sound affatto particolare. D’altro canto l’orchestra è affiatata da tempo avendo tra l’altro realizzato tre CD dedicati rispettivamente a Gerry Mulligan, Thelonious Monk e Billy Strayhorn. Se a ciò si aggiunge il fatto che per l’occasione Spadoni ha chiamato quali ospiti d’onore Giovanni Falzone alla tromba, , Roberto Cipelli al pianoforte e Mauro Beggio alla batteria si avrà un quadro esauriente della big band che non mancherà di deliziare anche i palati più raffinati.

The Dixieland Stumblers – “The Dixieland Stumblers” artesuono 149
Sotto la sigla “The Dixieland Stumblers” si raccolgono Daniele D’Agaro al clarinetto,
Luigi Vitale al vibrafono, Denis Biason al banjo, Marzio Tomada al contrabbasso e Maurizio Pagnutti alla batteria ovvero alcuni dei massimi esponenti del cd. jazz tradizionale nel nostro Paese. E anche sotto questo aspetto l’Italia presenta una sua peculiarità non proprio positiva: mentre negli altri Paesi ( e mi vengono in mente sia la Norvegia sia la Finlandia) il jazz tradizionale gode sempre di un suo prestigio e i musicisti che lo suonano sono ammirati e seguiti con attenzione, lungo lo Stivale i musicisti che eseguono dixieland o New Orleans o comunque una musica pre-boppistica sono guardati con sospetto e ottengono attenzione quasi nulla da parte dei mezzi di informazione. E’ anche per tale ragione che vi presentiamo questo album, registrato nel dicembre del 2015, che si articola su tredici brani degli anni ‘20 e ’30 , portati al successo da padri del jazz quali Louis Armstrong, Jelly Roll Morton, Benny Goodman, Fats Waller e Duke Ellington. La band, come si accennava, è una delle migliori non solo a livello nazionale, potendo contare su un notevole affiatamento e sulla indiscussa bravura dei suoi componenti. Così Daniele D’Agaro, dopo una lunga permanenza di 16 anni in Olanda , adesso vive a Udine. Tra le sue collaborazioni , quella con l’ orchestra berlinese Globe Unity e la permanenza da circa dieci anni nel trio di Franco D’Andrea. Il vibrafonista Luigi Vitale ha vinto nel 2004 il Premio Massimo Urbani e Premio del Pubblico come giovane talento del jazz italiano; da allora ha proseguito una carriera ricca di successi che l’hanno portato a collaborare con molti grandi musicisti. Denis Biason vanta una ricca carriera musicale nel campo della musica classica, flamenco e jazz con diverse tournées in Russia, Cina e Giappone. Marzio Tomada è un giovane talento udinese con una intensa attività concertistica, mentre Maurizio Pagnutti è uno dei più apprezzati batteristi del Friuli Venezia Giulia.

Trio Bobo – “Pepper Games” – Nadir 0037
‘Pepper Games’, prodotto da Nadir Music e distribuito da Egea, è il secondo album del Trio Bobo al secolo Faso al basso, Christian Meyer alla batteria e percussioni e Alessio Menconi alla chitarra. Quanti seguono la musica italiana avranno certamente riconosciuto in Faso e Meyer l’affiatata sezione ritmica di ‘Elio e le Storie Tese’ mentre Alessio Menconi è a buon diritto considerato uno dei migliori esponenti della chitarra jazz italiana. A scanso di equivoci diciamo subito che l’album nulla ha a che vedere con il gruppo di Elio basando tutta la sua valenza sul fatto squisitamente musicale, senza cioè far ricorso a quell’ironia di cui, a nostro avviso, ‘Elio e le Storie Tese’ spesso e volentieri abusano. D’altro canto la presenza di un chitarrista come Menconi era logico indirizzasse il trio verso mete più propriamente jazzistiche. Non è, quindi, un caso se già nel pezzo di apertura , “Fast Boulitch” firmato da tutti e tre i musicisti, c’è un reiterato richiamo a “A Love Supreme” di John Coltrane. Ma l’ampia conoscenza dell’universo musicale, globalmente inteso, si avverte precisa proseguendo nell’ascolto dell’album in cui i tre riescono a fondere in un unicum originale le chiare influenze provenienti, oltre che dal jazz, dal rock, dal progressive nonché dal Brasile e dall’Africa. La musica è così innervata da una grande empatia (i tre suonano assieme da molti anni anche se hanno inciso solo due album) e da una energia che si percepisce anche nelle esecuzioni più squisitamente jazzistiche come “Mbobo-eh”, caratterizzato tra l’altro da un dolce e orecchiabile finale.

Wolf Gang 4et – “Shinnen” –
Ancora un disco d’esordio; protagonista il quartetto Wolf Gang guidato dal chitarrista Riccardo Lovatto e completato da Jacopo Mazza al pianoforte, Giacomo Tagliavia al basso e Alessandro Rossi alla batteria. I sette brani, tutti a firma del leader, hanno una storia particolare: come spiega lo steso Lovatto nelle note che accompagnano l’album, i brani risalgono al periodo in cui il chitarrista si trovava in Giappone e si basano sul sistema di scrittura giapponese, vale a dire ogni titolo, ogni pezzo, è il tentativo di tradurre in musica gli ideogrammi giapponesi. Partendo da queste premesse, ci si attenderebbe una musica con una qualche influenza orientale: niente di tutto questo, siamo in pieno mainstream con il gruppo impegnato a seguire le impostazioni del leader e quest’ultimo che, a sua volta, si mette al servizio della musica e dell’ensemble. Questo per sottolineare come i quattro si muovano su un terreno comune che tutti dimostrano di conoscere assai bene: non a caso collaborano oramai da cinque anni; anche la coabitazione tra due strumenti armonici – pianoforte e chitarra – funziona alla grande e sia Lovatto sia Mazza sanno perfettamente quando è il momento di prendere in mano le redini del gioco e quando, viceversa, passarle al compagno d’avventura. Puntuale, precisa, propositiva la sezione ritmica (si ascolti il centrato assolo di Tagliavia nella title track). In tale contesto non mancano pezzi di indubbio fascino, quale, ad esempio “Mu” e il conclusivo “Tooi” ben introdotto dal pianoforte di Mazza e successivamente illuminato dagli assolo di Lovatto, ancora di Mazza, di Rossi.

Riccardo Zegna, Giampaolo Casati, – “Paris Blues” – fonè 144
Un sentito omaggio a Duke Ellington da parte di due raffinati artisti quali Riccardo Zegna al pianoforte e Giampaolo Casati tromba, cornetta e flicorno. L’album registrato nelle sale dell’ albergo Il Castello di Certaldo Alto, in Toscana, caratterizzato dalle antiche volte in cotto che assicurano una perfetta acustica, presenta un duo ben conosciuto agli appassionati di jazz, soprattutto liguri, dato che sia Zegna sia Casati si son fatti le ossa al Louisiana Jazz Club di Genova. Poi, a partire dagli anni novanta, hanno deciso di costituire un duo che ha riscosso successo ovunque e che ora ritroviamo in questo album tanto delicato quanto, sotto molti aspetti, sorprendente. In effetti, come si accennava in apertura, il repertorio è costituito in massima parte (sei su undici) da brani ellingtoniani, come a dire da brani che sono stati eseguiti più e più volte. Eppure i due riescono a darne interpretazioni davvero personali frutto di un’intesa assoluta ma anche di una profonda meditazione e del rispetto con cui hanno affrontato e studiato partiture talmente importanti. Così, ad esempio, nella title track si avverte come i due abbiano interiorizzato la melodia che viene riproposta con il chiaro intento di esaltarla magari ponendo in secondo piano la ricercatezza e la originalità degli assolo. Ed è questa una sensazione che si avverte per tutta la durata del disco; si ascolti, ancora, come i due cesellino la splendida “Isfahan” e “Just One Of Those Things” di Cole Porter: tutto , anche le improvvisazioni, sembrano convergere verso un unico obiettivo: far emergere la bellezza melodica di questi brani che non a caso resteranno nella storia della musica, senza etichette di sorta.

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