Nella musica di Randy Weston il mistero dell’amore

 

“The Power of Music”, “the Power of Spirit”: queste due frasi  potrebbero sintetizzare il radioso, energetico, coinvolgente concerto del Randy Weston’s African Rhythms Quintet alla Casa del Jazz il 19 luglio, per il “Roma Jazz Festival 2018. Jazz Is Now”.

Il direttore artistico Mario Ciampà ha in breve presentato il recital, affermando di aver fortemente voluto la presenza di Weston – splendido novantaduenne, nato lo stesso anno di Miles Davis – proprio nella dimensione contemporanea del jazz esplorata dal festival; è quella che nella programmazione vede, tra gli altri, Giovanni Guidi e Fabrizio Bosso, Corey Harris acoustic trio, il settetto di Vijay Iyer, i Five Elements di Steve Coleman e la New Talents Jazz Orchestra diretta da Mario Corvini. In questa “cornice” il pianista e compositore afroamericano rappresenta sì la “tradizione” ma non il “mainstream”, perché la ricerca e il valore delle musiche westoniane sono duraturi e si sviluppano in un percorso Africa-Afroamerica cominciato nei tardi anni ’50 e nutrito da innumerevoli esperienze, progetti, organici, iniziative. Tutto nel nome di una rigorosa coerenza che ha guidato Weston a generare la propria musica senza nessuna concessione al “mercato” o alle “tendenze”, in un’ampia dimensione che rivendica e valorizza l’enorme contributo dato dall’Africa e dai suoi “figli diasporici” alla storia dell’umanità, dalla musica all’economia.

Pubblico abbastanza numeroso e piuttosto partecipe, considerando la situazione jazzistica romana che soffre – in questo luglio – per eccesso di proposte, per la mancanza di una “cabina di regia” (strutture museali che fanno rassegne musicali…), per il conflitto fra concerti gratuiti e a pagamento, per i prezzi non differenziati (perché non fare biglietti ed abbonamenti “giovani”?), insomma per una situazione complessiva che tende ad affastellare date (spesso in concorrenza) e a non valorizzare gli artisti. Lo stesso “Roma Jazz Festival” ha dovuto annullare (e sostituire) l’annunciato concerto dei Freexielanders, da tempo in cartellone, dopo che i musicisti non hanno accettato il tardivo cambio delle condizioni d’ingaggio, con inevitabili code polemiche.

Si diceva del repertorio di Weston e dei suoi African Rhythms: l’ottimo T.K.Blue (sax alto e flauto), l’originale Billy Harper (sax tenore; collaboratore del pianista dal 1972), Alex Blake (contrabbassista virtuoso ed estroverso, dalla tecnica chitarristico-percussiva) e Neil Clarke (percussioni, infaticabile ma in alcuni episodi troppo presente). Randy Weston ha proposto, insieme al ben affiatato gruppo, lunghi brani “storicizzati” che, però, nei rispettivi arrangiamenti (uno della compianta ed eccellente Melba Liston) e nella concreta, vivace e dialettica esecuzione non hanno mostrato rughe. Si parla del fiammeggiante “African Cookbook” (nell’album omonimo del 1964), dell’orchestrale e trascinante “African Sunrise” che rievoca le atmosfere afrolatine di Dizzy Gillespie e Machito (si trova, tra l’altro, nel doppio “The Spirit of Our Ancestors”, 1992), della ballad in tempo dispari “Hi-Fly” (incisa nel 1958), del corposo “Berkshire Blues” che dà il titolo ad un long playing Black Lion del 1965, di “Blue Moses” ispirato alla musica devozionale gnawa (nel nord dell’Africa; il pezzo risale agli anni ‘70) e, come bis, del lento, mistico, profondo “The Mistery of Love” del compositore ghaniano Guy Warren (inserito nel disco “Highlife”, registrato nel 1963 dopo uno dei primi viaggi di Weston in Africa).

Occorrerebbe troppo spazio per descrivere in dettaglio ciascuno dei sei brani ma su qualche prassi esecutiva è utile soffermarsi per avere un quadro della musica westoniana e del suo livello. Intanto il pianista ha ancora oggi un carisma fortissimo, sa comunicare con semplicità ed efficacia, dirige i suoi musicisti con piccoli cenni e lascia loro ampi spazi, si ritaglia rari momenti solistici ma costruisce il tessuto vivo della musica a livello armonico, timbrico e ritmico: non a caso è un discepolo di Duke Ellington e Thelonious Monk. Gli African Rhythms non utilizzano batteria ma un set di percussioni (congas, soprattutto, ma anche bongo, timbales e piatti): ciò evita un drumming jazzistico (tranne in rare situazioni) e favorisce una costruzione poliritmica dei brani, vivida e stratigrafica. Spesso i pezzi sono introdotti da preludi pianistici a tempo libero, delle autentiche e vertiginose escursioni in cui Weston accenna alla melodia del pezzo variandola già in modo radicale, inserendo i trilli, le ottave contrapposte, i ribattuti, i cluster e le dissonanze che seducono e rapiscono chi ascolta.  Le composizioni sono strutturate in più episodi scanditi dalla presenza dei due fiati usati in varie combinazioni: T.K.Blue ha uno stile alla Johnny Hodges ma modernizzato mentre Billy Harper evoca la lezione di Sonny Rollins però come prosciugata, essenzializzata. Antifonia, senso del blues e polifonia sono spesso presenti, come una dimensione ritmico-danzante: a volte il pianista sospende la sua azione e ascolta, compiaciuto, il gruppo, accennando qualche movenza di danza. Le alternanze tra tempi liberi e fortemente scanditi è un altro elemento della musica caleidoscopica di Weston, una miscela di collettivo e individuale che è l’essenza del jazz. A volte le personalità esplodono, come nel caso del funambolico Alex Blake il cui contrabbasso diventa chitarra flamenca, gumbri (strumento gnawa), percussione. Innumerevoli i momenti pregevoli ma chi scrive ha apprezzato – in un generale alto livello espressivo – l’esplosiva sezione B di “African Cookbook”, tutti i “preludi/introduzioni” di Randy Weston, sempre altamente ispirati ed intensi, il formidabile senso del blues collettivo, l’alternarsi di quattro battute tra T.K.Blue e Blilly Harper in “Hi-Fly”, il misticismo di “Blue Moses”, la potenza spirituale e melodica di “Mistery of Love”.

Una vita in un concerto, senza retorica e senza presunzione, con una freschezza ed un’immediatezza che rendono Weston e la sua musica campioni di una “saggezza giovanile”, di un desiderio di vivere e di suonare che sembra abbattere il tempo e lo spazio, una musica per tutti gli uomini e contro tutte le violenze: “Mistery of Love”.

Nelle immagini di Pino Ninfa lo spirito del jazz

 

 

 

L’immagine-simbolo è uno struggente “Porgy and Bess” sudafricano in cui dominano le ombre, un violoncello ed una figura di donna. Si parla di “Jazz Spirit”, la più recente delle mostre del fotografo Pino Ninfa (sponsorizzata dalla Olympus), tenutasi dal 5 al 30 giugno al Centro Culturale di Milano, uno spazio altamente funzionale in pieno centro meneghino. Come spesso accade nelle iniziative di Ninfa, la mostra è stata accompagnate da varie performance e incontri: “Sulle strade della musica” con Enrico Intra al pianoforte e gli scatti del fotografo (5 giugno); “Nel sogno del racconto. La città come palcoscenico” con Claudio Fasoli al sax soprano e le foto dei partecipanti al workshop, più una conversazione tra il jazzista ed il musicologo Maurizio Franco (12/6); “Fra sacro e profano. Le feste religiose in Italia e nel mondo” con la tromba di Giovanni Falzone e la batteria di Alessandro Rossi, arricchite dall’uso dell’elettronica e dall’interazione con le foto di A. Safina, E.Resmini, L.Rossetti, R.Iurato, M. Pasini, I.Adversi, C.e S.Onofri e dello stesso Ninfa (15/6); a concludere gli “eventi speciali” un incontro tra Luciano Linzi (direttore artistico di “JazzMi”) ed Enrico Stefanelli (direttore del “Photolux Festival”) su “Fotografare il jazz: Racconto e resoconto. Usi possibili per la committenza” (19/5).

Seguo il lavoro di Pino Ninfa da parecchio tempo e la sua attività non cessa di sorprendermi perché è una costante ricerca. Rispetto alla mostra del novembre 2017 al “Roma Jazz Festival”, l’esposizione milanese è avvantaggiata da uno spazio più adatto, meno dispersivo, con un’ottima illuminazione che ha consentito un efficace montaggio delle quarantatré foto, di cui nove in grande formato, tutte in bianco e nero. Ninfa ha una serie di scatti “caposaldo” che propone da tempo, immagini funzionali e simboliche rispetto alla sua estetica del racconto-resoconto; le serie esposte, però, mutano profondamente nella loro sequenza e si arricchiscono sempre di nuove fotografie. Ho registrato, tra le altre, un Luca Aquino al Vicenza Jazz Festival del 2017, il duo Paolo Fresu e Bebo Ferra in concerto dentro al carcere di massima sicurezza di Nuoro (2012), la Banda De Muro al festival “Time in Jazz” (2016), Max De Aloe ed Antonio Zambrini a “Jazz per l’Aquila” (2015), “Jazz for Kids” al “Liebnitz Jazz Fest” (2016), un’incredibile foto del pianista Gonzalo Rubalcaba al teatro Olimpico di Vicenza (2017) in cui Ninfa riesce a catturare e a fissare tutta l’energia dell’artista e a farne un ritratto dai caratteri barocchi. Splendida anche la doppia immagine di Michel Portal (“Piacenza Jazz Fest” 2017) come una foto che risale al 2005 largamente inedita: si è ai “Suoni per le Dolomiti”, nell’altopiano di Folgaria, e davanti ad una struttura bellica della prima guerra mondiale (Forte Sommo Alto) c’è la tastiera del pianoforte che suonerà Stefano Bollani che è stata smontata per una revisione tecnica. L’accostamento tra l’austero edificio e la tastiera genera un cortocircuito iconico fortissimo e – oltre a rappresentare in modo simbolico e poetico la filosofia della rassegna sonora – genera idee e tensioni narrative immediate. Di grande suggestione anche la foto di Enrico Intra all’ex-grattacielo Pirelli che suona il piano dominando Milano (“Piano City”, 2015) come lo scatto torinese in cui il progetto “Sonic Genome” di Anthony Braxton si ritaglia uno spazio nel museo egizio.

Persone, paesaggi, musicisti, luoghi, strumenti, materia e architetture si incontrano nel gioco delle luci e delle ombre; la macchina fotografica di Pino Ninfa riesce a catturare lo “spirito del jazz” in modo polifonico e poliedrico, regalando al visitatore tante tracce su cui incamminarsi e attraverso cui ricercare.

Luigi Onori

Sempre in primo piano il vulcanico Paolo Fresu

 

E’ nota la particolare – per certi versi unica – capacità di concentrazione, creatività ed impegno artistico-intellettuale di Paolo Fresu, da poco presidente dell’Italian Jazz Federation (IJF). Tra il 27 aprile ed il 1° maggio il trombettista-flicornista ha partecipato all’”Umbria Jazz Spring” a Terni, suonando in diversi contesti: insieme al violoncello di Giovanni Sollima e all’Orchestra da Camera di Perugia in un nuovo progetto, in duo con Daniele Di Bonaventura (alla Cascata delle Marmore) e con il quartetto Devil (Bebo Ferra, Paolino della Porta e Stefano Bagnoli). Il 30 aprile era a Verona (teatro Ristori) per l’International Jazz Day con “Lumină”, progetto ideato e realizzato insieme a cinque musicisti pugliesi: la vocalist Carla Casarano, la violoncellista Leila Shirvani, il pianista William Greco, il contrabbassista Marco Bardoscia, il batterista/percussionista Emanuele Maniscalco. In realtà è stato Fresu a pensare integralmente il progetto per la propria etichetta Tŭk Music, concependo un’intera opera intorno al tema della “Luce”, con suggestioni letterarie riprese da Erri De Luca, Lella Costa, Marcello Fois e Flavio Soriga.

Non si vuole, qui, tessere elogi in modo acritico, semplicemente mettere in fila dei fatti e sottolineare come l’artista Fresu riesca a seguire in contemporanea svariate iniziative e a cambiare in tempo reale veste e ruolo senza perdere la sua personalità, sfaccettandola invece in innumerevoli aspetti che le donano una maggiore lucentezza.

Il 23 aprile, ad esempio, era a Roma per inaugurare al teatro Eliseo il festival “Special Guest”, organizzato dal Saint Louis College of Music. Il trombettista proveniva dalle prove a Perugia con Sollima ed aveva, nella mattinata, avuto un importante incontro istituzionale mentre il 24 era già pieno di impegni. Essendo personalmente la sera occupato a seguire un concerto all’Auditorium (l’argentino Aca Seca Trio), ho chiesto ed ottenuto il permesso di assistere alle prove del recital dell’Eliseo. Nove i brani in programma, tutti di Paolo Fresu ma in appositi arrangiamenti per il Saint Louis Ensemble, formazione orchestrale diretta dal vulcanico Antonio Solimene. Gli arrangiamenti, davvero pregevoli, sono opera di Luigi Giannatempo a parte tre brani: “Paris” e “Un tema per Roma” affidati a due giovani ricchi di talento come Fabio Renzullo e Filippo Minisola. Anche un tema popolare sardo, “Duru duru durusia”, è stato proposto in un brillante – e complesso – arrangiamento di Giovanni Ceccarelli.

Assistere alle prove è stata un’occasione per apprezzare la qualità del jazz italiano in senso proprio ed in senso lato. Paolo Fresu è stato, da par suo, concentratissimo, attento e partecipe. Ha suggerito qualche modifica, dispensato complimenti ad orchestrali ed arrangiatori, provato e riprovato – quando necessario – con l’umiltà ed il carisma dei grandi artisti. I nove brani della scaletta percorrevano un vasto periodo, con composizioni dei primi anni (“Opale”, “Fellini”) fino a temi più recenti: oltre ai già citati, erano previsti “Walzer del ritorno”, “Trasparenze”, “Tango della buona aria”, “E varie notti”. Il Saint Louis Ensemble è stato impeccabile, professionale ed ispirato durante le prove, pronto a seguire il vigoroso direttore Solimene, a ripetere parti di brani, ad eseguire in modo perfetto gli arrangiamenti conferendo, tuttavia, alla musica il necessario calore. Qualche esempio. In “Un tema per Roma” le partiture sostengono un tema semplice ed ispirato, come il solo di Fresu che ora rallenta, ora illumina, ora velocizza. In “Parigi” si crea un’atmosfera vellutata ed intima, con flauto e clarinetti in sezione, e con l’apporto del sax soprano (Gabriele Pistilli) l’orchestra è pronta a lanciare un liberatorio solo di flicorno.

Finite le prove, democraticamente, Paolo Fresu, Antonio Solimene e l’orchestra decidevano la scaletta del concerto serale che sarà stato magnifico, come le prove pomeridiane nella loro dimensione di laboratorio ad uno stato già avanzatissimo.

Mi sembra, infine, giusto ricordare tutti i membri del Saint Louis Ensemble: Maurizio Leoni, sax alto e flauto; Gabriele Pistilli, sax tenore e sax soprano; Luigi Acquaro, sax tenore e clarinetto; Luca Padellaro, sax baritono e clarinetto basso; Mario Caporilli, tromba; Antonio Padovano, tromba; Giuseppe Panico, tromba; Elisabetta Mattei, trombone; Federico Proietti, trombone basso e basso tuba; Andrea Saffirio, piano; Fabrizio Cucco, basso e Alessio Baldelli, batteria.

Il festival “Special Guest” ritornerà il 10 e 15 giugno con gli ospiti Fabrizio Bosso & Serena Brancale e Javier Girotto & Martín Bruhn.

Luigi Onori

Italiani alla ribalta: Roberto Laneri e Francesco Venerucci

Quando un musicista parla di “venti di cambiamento” vuol dire che dentro di sé soffia ancora la creatività e che sa coltivare lo spirito libertario del 1968 (di cui si ricorda quest’anno il cinquantenario).

“Winds of Change” di Roberto Laneri (prodotto in Giappone dall’etichetta DaVinci Jazz) è un album allo stesso tempo di bilancio e di rilancio della propria e plurima dimensione di compositore, polistrumentista, leader, arrangiatore. Dopo un ventennio trascorso in gran parte nell’ambito della musica contemporanea e della docenza in conservatorio (a Firenze, fino al 2011), Laneri – che è anche attivissimo nel campo, pratico e teorico, del “canto armonico” – ha avuto l’esigenza di tornare in territori più jazzistici e di dar vita (nel 2016) ad un quartetto stabile. Esso vede l’elegante e duttile voce di Giuppi Paone, il versatile ed ispirato pianoforte di Stefano Diotallevi ed il propulsivo contrabbasso di Alessandro Del Signore. “Winds of Change” è, in un certo senso, lo specchio fedele del gruppo e del suo leader, calati in un presente musicale fitto di ispirazioni e radicati in un passato che ha visto Laneri attraversare molte esperienze: dagli studi in filosofia a Roma a quelli musicali alla University of California di San Diego, dalle collaborazioni con Charles Mingus a quelle con Peter Gabriel, dai molti soggiorni e viaggi (negli States come in Asia, Africa ed Australia) ai due volumi sull’ “overtone singing”.

Nell’album gli otto brani si muovono secondo un asse del tempo che va dal ’68 (“Canone perpetuo”, dove si inseguono tre voci: sax alto, canto e piano) sino al 2017 (la conclusiva “Winds of Change” che presenta due sezioni a contrasto, rispettivamente in 5/4 e 4/4).  Il campo sonoro dell’album prevede anche un asse dello spazio che comprende – in un atlante tra il reale ed il fantastico – il Colorado (“Imaginary Crossroads n.1”),  il Sud come terra natìa del Blues e categoria mentale (“South”), l’Egitto (“Voice of Ancient Queens”), l’India che finisce per incontrare l’Australia del didgeridoo (l’intensa “Mala” in cui la voce della Paone ed il sax sopranino – che suona come uno shanai indiano, un aerofono tra il flauto e l’oboe occidentali – ricreano l’intensità ipnotica della musica hindustani; nella seconda parte del brano dialogano contrabbasso e didgeridoo). Non manca un riferimento diretto al jazz, in particolare al John Coltrane di “Spiritual” che viene elaborato in “Tumbleweeds”, uno dei vertici del Cd per la fitta, magmatica e sciamanica interazione tra i quattro musicisti nonché esempio di un’idea della musica quale aspirazione alla trascendenza. Ci sono altre chiavi di lettura per “Winds of Change” che si svela ascolto dopo ascolto nella sua complessità e stratigrafia. Intanto Laneri è compositore di valore che trova nel polistrumentismo (sopranino, soprano, alto, clarinetto basso e didgeridoo) una varietà di colori sonori e dimensioni acustiche perfettamente integrate con il resto del gruppo che – in un’estetica dalle venature cool – non utilizza né batteria né percussioni. Inoltre è autore di brevi quanto efficaci testi in cinque brani. Tra essi c’è “Delta Yearning” che – grazie alla complicità e versatilità di Giuppi Paone, con cui il sassofonista romano collabora da decenni – è una sorta di parodistica canzone-blues. In effetti il polistrumentista non utilizza i generi “canonici” del jazz, piuttosto li evoca e crea nuove forme, come nel caso di “Winds of Change”, un canto di speranza che si nutre della forza cosmica della natura. C’è grande bisogno di messaggi positivi, oggi.

Venerucci è un pianista e compositore (autore di musiche di scena, balletti, colonne sonore, musica da camera e sinfonica) che molto si è dedicato alla tradizione “colta” e contemporanea del Novecento europeo mantenendo, tuttavia, per il jazz un’attenzione ed uno studio profondi. Non si tratta di un pianista classico che si diletta di musica afroamericana: il rapporto è molto più intenso e, soprattutto, strettamente intrecciato alla ricerca estetica complessiva che, non a caso, pone al suo centro il delicato e fecondo rapporto fra composizione ed improvvisazione. <<Ci sono molte più cose in comune di quanto non si creda – ci ha detto in una recente intervista -: bisogna fare un atto di umiltà come studioso di musica classica e un atto di consapevolezza, di superiorità come “amatore” di jazz ed ad un certo punto si arriva ad un gradino superiore>>. Nell’album (coprodotto dall’artista con Gabriele Rampino, “motore” dell’etichetta dodicilune) c’è un diretto riferimento a Massimo Fagioli, <<medico psichiatra, pensatore ed artista (che) ha speso la vita per la realizzazione e il benessere psichico degli esseri umani. Dedico questo lavoro a lui ed all’Analisi Collettiva a cui ho avuto l’immenso piacere di partecipare>> (Fagioli è scomparso il 13 febbraio 2017)

Un inequivocabile segnale della valenza dei dieci brani proposti (nove originali e lo standard “When You Wish Upon a Star”) è la presenza in quattro titoli del sax soprano di Dave Liebman. Non c’è stato “contatto diretto” tra i due artisti: Venerucci ha inviato le sue musiche (registrate e su partitura) al celebre solista e didatta il quale ha accettato con entusiasmo di sovraincidere (presso il Red Rock Recording studio di Saylorsburg, in Pennsylvania) ed arricchire “Good Morning Mr Samsa”, “Music fo Lilith”, “Exodus” ed “Early Afternoon”, composizioni in cui si avvertono riferimenti letterari e sonori. Talmente è marcata la personalità di Dave Liebman – tra i migliori e più creativi discepoli di John Coltrane, da cui ha ereditato l’urgenza espressiva e la maestria tecnica mai fine a sé stessa – che l’effetto sovraincisione sparisce a favore di una compresenza degli artisti, pur distanti nel tempo e nello spazio, che si fa reale e palpabile. Tutto ciò senza una base ritmica e nella più empatica interazione fra piano e sax soprano.

<<Si vede danzare qualcuno sopra il pianoforte, si aggiunge un movimento in più ed era proprio quello che cercavo (…) Il disco all’inizio doveva essere – precisa Venerucci –  in piano solo. I brani sono stati composti originariamente per sax soprano solista o un ensemble orchestrale. Quindi ho dovuto fare una riduzione dell’orchestrazione fino al piano solo, anche per poter portare in giro i brani più agevolmente. Poi mi sono accorto che avevo comunque questo legame con il sax soprano, alcuni pezzi erano assolutamente adatti a quella presenza ed ho pensato che Liebman fosse la persona ideale: per l’ammirazione che gli porto, per la sua vicenda, per la statura d’artista e per come ha attraversato la storia del jazz, partendo dai massimi livelli (Miles Davis), cercando di non tradirsi mai e di evolversi sempre>>.  Musica fortemente connotata e strutturata quella del pianista che nasce in un arco temporale vasto e da circostanze concrete. L’occasione per preparare i materiali di “Early Afternoon” (dopo circa dieci anni da “Tango Fugato”, 2007) origina da un recital commissionato nel 2011 dall’Associazione “Amore e Psiche” presso la loro sede, <<una bellissima libreria del centro storico di Roma>>, come precisa l’autore. Il tema portante è quello dei rapporti tra musica e letteratura e l’autoindagine di Venerucci copre un arco compositivo di circa vent’anni: attinge, in buona sostanza, ad un repertorio personale di brani nati sulla suggestione di letture (“Delitto e castigo”, “La piccola fiammiferaia”…) che traducono in vibrazioni sonore quello scatenarsi di emozioni e sentimenti causati dallo scendere “dentro” un testo letterario.

<<Ci sono circostanze – racconta Venerucci – che mi hanno portato ad avere contatto con certe letterature; le musiche sono nate in quella temperie lì. Altre volte sono nate per degli spettacoli ma non sono didascaliche. E’ tutto un fatto di temperie emotiva e di circostanze della mia vita personale che mi hanno condotto a coinvolgermi verso certe letture>>.  Altro tema importante è quello delle figure femminili disseminate in vari titoli e frutto di un elaborato processo, come ha spiegato l’autore. <<“Aurora” era per Nietzsche, un confronto con un gigante scritto quando ero molto giovane. Confrontarmi con Nietzsche, Kafka, Dostoevskij, Andersen lo potevo fare quando ero abbastanza incosciente. Di immagini femminili ci sono la piccola fiammiferaia, Siduri e Lilith. Siduri viene dalla sagra di Gilgamesh e Lilith era una figura biblica-prebiblica di origine sumerica. Siamo nell’ambito delle origini della letteratura che mi ha sempre interessato, le “immagini primordiali” che sono alla base della nostra cultura e, a volte, sono precedenti a qualsiasi documento scritto. Sono interessato a rifletterci da vari stimoli>>.

Un album, in definitiva, che coniuga rigore compositivo con fluenza improvvisativa, temi culturali e letterari vissuti senza effetti “mimetici”, musiche che si collocano tra Europa/Asia/NordAmerica attingendo ovunque. Un Cd avventuroso e maturo, meditato e spontaneo, costruito da una personalità complessa che non rinuncia a sé stessa pur trovando una comunicativa diretta e, a tratti, irresistibile. Cosa dire del candore e della tenerezza che traspaiono (si vorrebbe dire trasudano) da “When You Wish Upon a Star”?

Luigi Onori

 

 

La Kabbalah in musica con Gabriele Coen

“Malkuth”: il regno, il terreno, i piedi secondo la Kabbalah, alla base del misticismo ebraico che connette trascendente ed immanente. Il Gabriele Coen quintet ha chiuso il suo concerto (8/11) al Pitigliani Centro Ebraico Italiano con un brano ispirato al più “terrestre” dei livelli kabalistici, di fronte ad un pubblico da tutto esaurito. Il luogo è a Trastevere in una delle rare zone medievali, un posto ad alta suggestione poco lontano dal Lungotevere e sulla sponda opposta a quella dove c’è la Grande Sinagoga.

Il recital del pluristrumentista (sax soprano e tenore, clarinetto) e compositore romano è il terzo appuntamento del Roma Jazz Festival. Nella sua 41a edizione la rassegna, diretta da Mario Ciampà, esplora i rapporti tra musica di ispirazione afroamericana e spiritualità: terreno fertile, vasto, a tratti scivoloso, significativo. <<Oggi, il jazz … (è) una lingua franca, parlata da musicisti di tutto il pianeta. In un clima politico – si legge nel comunicato stampa del RJF – come quello attuale, lacerato da conflitti etnico-religiosi, c’è più che mai bisogno di un simile esperanto comune, che aiuti a superare barriere ideologiche e politiche in nome di una comune spiritualità: quella della musica>>. Così la rassegna (5-31 novembre) si svolge in vari luoghi (Parco della Musica, soprattutto; Casa del Jazz, Alcazar, il Pitigliani, Sacrestia del Borromini, S.Nicola da Tolentino, il Pantheon) <<scelti con il criterio di maggior suggestione, riflessione, per ognuno dei progetti presentati dagli artisti>>, come nel caso di Gabriele Coen.

ph: Davide

Fortemente radicato nella tradizione, “Sephirot. Kabbalah in Music” è un progetto (ed un Cd, Parco della Musica Records) che musicalmente guarda al Miles Davis elettrico come a Electric Masada e The Dreamers di John Zorn, estimatore e produttore per la sua Tzadik di Coen. Il quintetto vanta una lunga storia e vede, alle ance del leader, affiancarsi il Fender Rhodes di Pietro Lussu, la chitarra del giovane ed interessante Francesco Poeti, il basso elettrico di Marco Loddo e la batteria di Luca Caponi (Lussu e Lutte Berg – altro chitarrista del gruppo – sono anche compositori). Dieci brani per altrettanti livelli della kabbalah, partendo da “Kèter” (la corona, ispirazione dell’universo). La musica muta nei vari livelli, mantenendo un impianto modale e combinando chitarra-piano elettrico con le tre ance del leader, magistrale soprattutto al soprano ed al clarinetto. In un repertorio eccellente emergono “Binàh” (intelligenza, la sfera femminile) e “Tifèret” (bellezza, il cuore) ma in ogni brano risaltano il sovrapporsi e fondersi di fiati e chitarra, la marcata personalità dei temi e l’alternarsi dei ritmi.

Luigi Onori

“Il jazz italiano per le terre del sisma” con oltre 30.000 partecipanti

 

La scossa di martedì scorso (5 settembre) – con epicentro a Campotosto vicino L’Aquila – ha ricordato quanto sia ancora profonda e aperta la “ferita” dei terremoti che hanno colpito quattro regioni dell’Italia centrale (Lazio, Abruzzo, Umbria e Marche) tra il 2009 e il 2016. Attraverso la musica, la solidarietà, la mobilitazione di jazzisti e pubblico – in una chiave ricostruttiva e positiva – la rassegna “Il jazz italiano per le terre del sisma” (31 agosto-3 settembre) aveva riacceso i riflettori sui luoghi terremotati pochi giorni prima, per non dimenticare e per guardare al futuro.  Iniziata a Scheggino e transitata per Camerino, la manifestazione ha fatto tappa il 2 ad Amatrice. Qui sarà costruito ex-novo un Centro Polifunzionale, uno spazio per le arti; vista l’impossibilità di riedificare lo storico cinema-teatro Garibaldi, tutti i fondi raccolti dall’iniziativa dei jazzisti italiani (fin dall’edizione 2016) saranno destinati a questo luogo-simbolo. Nel sito dove sorgerà il Centro Polifunzionale di Amatrice hanno suonato Paolo Fresu e Daniele di Bonaventura, tromba e bandoneon, in un evento di apertura promosso dalla Croce Rossa Italiana (proseguito, poi, con altri concerti nel piazzale dell’ex Istituto Alberghiero).

Ma è stato a L’Aquila – come nella I edizione del 2015 – che si è concentrata domenica 3 settembre la maggioranza degli eventi: diciotto palchi sparsi nella città dove circa settecento jazzisti italiani di varie regioni, stili e generazioni (in base ad un democratico criterio di rotazione) hanno suonato (esibendosi gratuitamente) dalle 11 all’una di notte.

Alle spalle di questa mobilitazione di energie positive ci sono enti, strutture e persone. “Il jazz italiano per le terre del sisma” è stato promosso da Mibact, 723a Perdonanza Celestiniana nonché dalle città de L’Aquila, Amatrice, Scheggino e Camerino. Sponsor principale è la SIAE ma la costruzione materiale dell’esteso happening sonoro è frutto del lavoro del direttore artistico Paolo Fresu, di I-Jazz (che raccoglie parecchi festival e organizzatori nazionali), dell’associazione MIDJ (Musicisti Italiani di Jazz, con la sua dinamica presidentessa Ada Montellanico) e della romana Casa del Jazz. Come per le precedenti edizioni, si è realizzato un coordinamento di settore non comune nel nostro Paese, attraverso un lavoro preparatorio (volontario e gratuito) durato molti mesi.

Tanto lavoro ha rischiato di esser messo in forse dal maltempo ma – dopo una notte di forti temporali –  il sole si è alternato alle nubi consentendo lo svolgimento della rassegna all’aperto (anche se erano state predisposte situazioni al chiuso). Trentamila le persone che sono alla fine transitate a L’Aquila per “Il jazz il jazz italiano per le terre del sisma”, un risultato importante considerate le minacce atmosferiche e il ripetersi “usurante” di iniziative di solidarietà.

Pubblico, musicisti e politici (dal ministro Franceschini al sindaco Pierluigi Biondi) si sono ritrovati nel concerto di apertura alla Fontana delle 99 Cannelle alle 11: luogo fortemente simbolico per la gente aquilana, restaurato e magnifico sotto il sole; ben visibile, tuttavia, dalla fontana un edificio transennato ed inagibile. La voce di Peppe Servillo ed i Solis String Quartet hanno dato corpo alla magia della musica, a quell’immateriale che serve al materiale per credere ancora nella vita, nella bellezza. Gli artisti si sono esibiti in un repertorio di brani della canzone napoletana, con omaggi a Fausto Cigliano e Nino Taranto. Il primo appuntamento ha visto anche discorsi e premi, con un chiaro impegno per la ricostruzione da parte della politica e la volontà concreta di contribuire alla rinascita della città da parte del jazz italiano.

Per il secondo concerto (ore 12) si è saliti dalla Fontana delle 99 Cannelle all’area dov’era la Casa dello Studente (vi hanno cantato le Saint Louis Voices, dirette da Milena Nigro); il percorso mette drammaticamente in evidenza quanto ancora ci sia da riedificare. Ancora sul posto una parte delle macerie dell’edificio dove sono morti otto studenti universitari ma altri quarantasette – alloggiati in case private – sono scomparsi per il terremoto del 2009. Sono stati ricordati prima del concerto e si è chiesto un “luogo della memoria” per non dimenticarli.

Dalle 14 sino all’una di notte “Il jazz italiano per le terre del sisma” si è articolato su altri sedici palchi; ben presenti misure di sicurezza che, comunque, non hanno limitato la possibilità di fruire dei molteplici appuntamenti e percorsi sonori. Dal duo alla big-band si è ascoltato un variegato spaccato stilistico e generazionale della musica di ispirazione afroamericana nel nostro paese. In ogni sede di concerto c’era, inoltre, la possibilità di versare un contributo economico per il centro polifunzionale di Amatrice; il pubblico, soprattutto a partire dalle ore 16, è iniziato ad aumentare fino alla cifra già ricordata di 30.000 persone. In vendita in alcuni punti c’era anche il nuovo libro curato dall’associazione MIDJ che racconta – attraverso foto e testimonianze di musicisti – l’edizione dell’altr’anno: “il jazz italiano per Amatrice” (coordinamento editoriale di Marcello Allulli; comitato redazionale di Maria José Galindo e Paolo Soriani; 190 pagine, euro 25). I fondi raccolti con la vendita del volume di grande formato, pagate le spese di realizzazione, andranno sempre per la struttura culturale amatriciana.

Un vero peccato che la parte serale dei concerti tenutasi nel piazzale davanti alla Basilica di Collemaggio (ancora in restauro) – condotta da Geppi Cucciari –  sia slittata di un’ora e mezza nel suo svolgimento. Per questo motivo hanno suonato ad ora troppo tarda il pianista Enrico Intra (in duo con Marcella Carboni all’arpa) e Marcello Rosa (con una formazione di soli tromboni), musicisti ultraottantenni di grandissima levatura a cui, peraltro, MIDJ ha dato un premio alla carriera. Uno svarione organizzativo che ha visto il pubblico, complici le temperature rigide, scemare dopo il concerto di Mario Biondi (preceduto da banda di Paganico, big-band del Conservatorio de L’Aquila diretta da Massimiliano Caporale, quartetto di Gegè Munari e seguito dal duo Franco Ambrosetti/Dado Moroni) e prima dei “senatori” Intra e Rosa: si sarebbe potuto evitare modificando la scaletta degli interventi, che sono proseguiti con i recital di Gegè Telesforo “SoundzforChildren”, del pianista Rossano Sportiello, di Remo Anzovino e Roy Paci in “Fight for Freedom – Tribute to Muhammad Ali”.

Nel corso del pomeriggio chi scrive ha avuto la possibilità di ascoltare alcuni recital, che si susseguivano nei vari luoghi a distanza di un’ora o quarantacinque minuti. La centrale piazza Duomo – dove i restauri procedono – ha ospitato in un vasto palco formazioni orchestrali, tra cui la Roberto Spadoni & New Project Orchestra; la formazione – diretta dal chitarrista e didatta romano – vede, tra gli altri, Roberto Cipelli al piano, Giovanni Falzone alla tromba e Mauro Beggio alla batteria ed ha un repertorio vivace ed originale che si rifà all’album “Travel Music: l’Italia dal finestrino” (Alfa Music). Lungo l’asse centrale di corso Vittorio Emanuele si affacciano edifici storici i cui chiostri sono stati luoghi di musica. A palazzo Cappa Cappelli il trombettista/flicornista Giovanni Di Cosimo si è esibito con il gruppo elettrico “Nu”, in una formula che attualizza il linguaggio davisiano arricchendolo di tensioni e visioni contemporanee. Poco distante c’è Palazzo Natellis che ha visto l’applaudito recital di Marco Colonna (ance), Eugenio Colombo (ance, flauto) ed Ettore Fioravanti (batteria), il trio “Rahsaan” che propone un’originale e policroma lettura del repertorio di Roland Kirk.

Centralissimi la basilica di San Bernardino e la scalinata ad essa antistante. Come nel 2015, all’interno della magnifica chiesa si sono susseguiti recital pianistici fra cui quelli di Roberto Magris e Mario Piacentini. Quest’ultimo ha saturato lo spazio con brani dal sapore ora minimalistico ora più decisamente jazzistico, arrivando a distillare suoni in grande sintonia con lo spazio e gli spettatori. Sulla scalinata – con una magnifica vista sugli Appennini e su una zona de L’Aquila ancora caratterizzata dalle gru – ha suonato l’orchestra “L’Insiùm” del pianista Glauco Venier e del direttore-arrangiatore Michele Corcella, formazione eccellente con musicisti friulani e di varie parti d’Italia (Mirco Cisilino, Antonello Sorrentino, Simone La Maida, Michele Polga, Alfonso Deidda tra gli altri). Questo “laboratorio permanente di ricerca musicale” ha proposto prevalentemente musiche del cinquecentesco Giorgio Mainiero, oltre ad un “Dear Lord” in omaggio a Coltrane davvero mistico. Sempre sulla scalinata si è materializzata la musica di Jimi Hendrix nella non-filologica e corrosiva versione del gruppo MIDJ Espresso: Giovani Leoni “Purple Whales”, con – tra i vari – Simone Graziano, Alessandro Lanzoni e Dimitri Grechi Espinoza. Alla fine del corso V.Emanuele, in direzione della basilica di Collemaggio, c’era il palco della Villa Comunale che ha offerto il MatTrio, con il sax tenore di Marcello Allulli, la chitarra di Francesco Diodati e la batteria di Ermanno Baron: un gruppo dal linguaggio intenso e tagliente che declina il jazz nelle tensioni e nella dimensione contemporanea.

Tanti altri musicisti in tanti altri luoghi: piazza S.Margherita e piazza dei Gesuiti, l’interno e l’esterno dell’Auditorium del Parco (creato da Renzo Piano), palazzo Lucentini Bonanni, il ponte della Fortezza Spagnola, piazza Chiarino, parco del Castello, chiese del Crocifisso e di S.Giuseppe Artigiano… Camminando tra un concerto e l’altro un anonimo ha detto ai suoi amici: “Questa è L’Aquila che mi ricordo”; speriamo che non lo sia per un giorno l’anno e che tutti i luoghi colpiti dal sisma possano risorgere in una rinnovata dimensione, con l’aiuto – piccolo o grande – del jazz italiano che nel 2018 sarà per l’ultima volta a L’Aquila nella formula solidale e militante sinora utilizzata.