A scuola di sassofono con Cafiso e Giammarco

Francesco Cafiso

Francesco Cafiso

Organizzato dall’INPS (gestione ex ENPALS) il Festival del sassofono supera la metà della sua programmazione con gli attesi concerti del duo Francesco Cafiso – Dino Rubino e del nuovo quartetto di Maurizio Giammarco e Battista Lena.

Ad aprire la serata è il giovane duo. Il set si pare con “Libero” una composizione lunga e articolata che esalta i due musicisti, impegnati a giocare con la musica, a improvvisare e a rincorrersi vicendevolmente, proponendo spesso gli stessi temi con una leggera sfasatura temporale, in quella che in musica classica viene chiamata “imitazione”. Cafiso e Rubino si integrano alla perfezione e, se il sassofonista ormai lo si conosce bene, è proprio il pianismo estremamente personale e incisivo di Rubino (che, come se non bastasse, è anche un valente trombettista), a impressionare.

A “Libero”, senza soluzione di continuità, segue “Pablo” un brano tratto da “Travel dialogues” , lavoro che il duo ha recentemente pubblicato e che precede un omaggio a Charlie Haden, “Waltz for Ruth”. Cafiso mette in mostra quelle qualità che hanno fatto di lui un enfant prodige e che oggi, a ventiquattro anni, ne fanno un musicista di grande interesse. L’intonazione del suo sax alto è perfetta, il suono è affascinante e sensuale. Cafiso è un ottimo improvvisatore e, a livello compositivo, mostra il suo amore per la nativa Sicilia. A un certo punto cita un divertente aforisma di Gesualdo Bufalino, il grande scrittore siciliano la cui grandezza è pari solamente al colpevole silenzio che ne avvolge opera e memoria. “E con oggi in tutto nella mia vita fanno sedici minuti di felicità” soleva dire Bufalino, ed è stata l’ironica amarezza di questa affermazione ad accendere la fantasia del sassofonista per la composizione di “Sedici minuti”. Un ultimo brano, “La banda”, ancora legato alla Sicilia e alle bande di paese chiude con un tocco di malinconia il concerto di Cafiso e Rubino.

Dopo l’intervallo e il veloce avvicendamento dei musicisti è la volta del nuovo quartetto di Maurizio Giammarco e Battista Lena, con Luca Bulgarelli al contrabbasso e Marcello Di Leonardo alla batteria. La formazione è nuova ma affonda le sue radici nella storica collaborazione tra i due leader le cui strade si sono incrociate di nuovo. Giammarco ha da poco pubblicato l’ottimo “Lights and shades”, (già recensito di recente in questo stesso sito) in cui è alla testa di un quartetto internazionale che vede la partecipazione di Vic Juris, Jay Anderson e Adam Nussbaum, mentre Lena è reduce dalla pubblicazione di “Notte” per l’etichetta audiofila Fonè in cui si propone in trio con Enzo Pietropaoli e Flavio Sigurtà.

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Keith Jarrett Trio a Roma

keith jarrett trioGli organizzatori sono stati con il fiato sospeso sino all’ultimo. A pochi minuti dall’inizio del concerto la Sala Santa Cecilia era in gran parte vuota. L’orario del concerto, fissato per le 19:00, assolutamente inusuale ma necessario per permettere a Jarrett di partire secondo i suoi piani, faceva temere che gran parte del pubblico convergesse sull’Auditorium alle 21:00, ora di normale inizio dei concerti. In perfetto stile romano, invece, a ridosso dell’orario fissato per l’inizio dello spettacolo, gli spettatori sono arrivati in massa, occupando la platea della Sala Santa Cecilia in ogni ordine di posti.

Con puntualità svizzera, sul palco appaiono Keith Jarrett, camicia rosso fuoco e pantaloni grigi, Gary Peakock e Jack DeJohnette e il concerto, articolato in due set con un intervallo di venticinque minuti, ha inizio. E’ All Of Me ad aprire la serata. Jarrett ne maschera il tema, opera tutta una serie di variazioni prima sui registri medi prima di lasciare spazio a Peacock per un assolo di contrabbasso. Al termine Jarrett continua a improvvisare e di tanto in tanto duetta con i “break” di DeJohnette. Sarà questo lo schema tipico che verrà portato avanti per tutto il concerto, senza quasi nessuna eccezione. Summertime, il cui tema strappa subito l’applauso della platea, viene eseguito a tempo medio. Jarrett gioca con il tema, frazionandolo e riproponendolo spesso, evitando di snaturarne la melodicità. Ma è con il terzo brano, una splendida ballad, che il pianista riesce a far scaldare il pubblico.

Marco Giorgi
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Gilberto Gil – Roma, Cavea dell’Auditorium Parco della Musica

Gilberto gil

Gilberto Gil

Gilberto Gil, non solo è un grande musicista ma anche un uomo che ha da sempre legato la sua carriera artistica a un sincero impegno politico e sociale. Dal 2001 è “Ambasciatore di buona volontà “ della FAO, titolo che ha mantenuto anche quando ha svolto l’incarico di Ministro della Cultura nel governo del presidente Lula. Come rappresentante della FAO, Gil ha sostenuto il progetto “Fame Zero” e appoggiato la campagna “Un Miliardo di Affamati nel Mondo”. Così non stupisce cha la prima delle quattro date italiane del cantante di Bahia sia patrocinata proprio dall’organizzazione che combatte la fame nel mondo. A presentare la serata, assieme a Gil, c’è Josè Graziano da Silva, direttore generale della FAO che parla di come una persona su sette soffra la fame, nonostante nel mondo ci sia cibo sufficiente per tutti. L’alimentazione è un diritto, afferma, e su questo tutti in platea sono d’accordo.

Alla domanda rivolta a Gil su cosa sia l’essenza della sua musica Gil risponde semplicemente “Solo due parole: Carità e Amore”. Il musicista brasiliano propone al pubblico romano The String Concert And The Rhythm Machine (Concerto De Cordas E Màquina De Ritmo) un progetto essenzialmente acustico in cui l’artista è accompagnato da suo figlio Bem alla chitarra, dallo straordinario violoncellista e arrangiatore Jacques Morelembaum, dal violinista francese Nicholas Krassik e dal percussionista Gustavo di Dalva. Pochi secondi per accordare la chitarra ed è proprio Màquina de Ritmo, contenuta nell’album Banda Larga Cordel, del 2008 ad aprire il concerto.

Il ritmo della chitarra acustica di Gil interagisce con il tessuto armonico creato da violoncello e violino e dà vita a un affascinante contrasto, mentre le percussioni di di Dalva restano sempre in sottofondo e offrono una propulsione ritmica discreta, quasi timida e mai superano la dinamica degli strumenti a corda. E’ questa la precisa scelta artistica di Gil per questo progetto. Mantenere tutto sullo stesso piano offrendo una versione cameristica della sua musica. Così, nel corso del concerto, i raffinatissimi arrangiamenti di Morelembaum talvolta risultano appiattirsi e a rischiano di risultare addirittura stucchevoli proprio per la mancanza del calore di una ritmica decisa.

Marco Giorgi

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Tony Bennett, quando l’arte non ha età

Tony Bennett

Tony Bennett

Alle quattro del pomeriggio Roma è troppo calda per fare le prove. Così, con grande sensibilità per gli ottantasei anni di Tony Bennett, i responsabili dell’Auditorium Parco della Musica, decidono di spostare il concerto dalla Cavea, all’aperto, alla meglio refrigerata Sala Sinopoli.

Bennett, è considerato l’ultimo dei crooner, uno dei più eccelsi rappresentanti della canzone americana. Amatissimo da Frank Sinatra, ha sviluppato la sua carriera tra jazz e canzone commerciale creando un perfetto equilibrio tra arte e intrattenimento. Per questo la sua esibizione, sebbene sia solo una delle tante previste dalla sua lunga tournée estiva, è comunque un vero evento.

E’ Antonia Bennett, sua figlia, ad aprire la serata. I sei brani che esegue, accompagnata dal quartetto del padre, cominciano a scaldare la platea. Una manciata di standard, Too Marvellous For Words, Take A Chance On Love, Embraceable You, From This Moment On, sono trattati con discrezione, eleganza e swing. La voce di Antonia è leggera, forse più adatta al pop che al jazz. La sua esibizione è breve e in alcuni momenti l’emozione le gioca qualche brutto scherzo, ma il pubblico la applaude comunque con convinzione.

Terminato il set di apertura sul palco appare Tony Bennett ed è allora che succede l’inaspettato. Tutto il pubblico si alza in piedi e tributa al crooner una lunga standing ovation che coglie di sorpresa il cantante e ritarda l’inizio del concerto. E’ solo la prima dimostrazione di affetto che il pubblico romano esternerà dei confronti dell’artista newyorkese e che Bennett ricambierà senza remore.

Marco Giorgi

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Con Metheny non esiste il rischio routine

Pat Metheny

Pat Metheny

Sembra un paradosso per un artista che si muove nell’ambito del jazz, ma sono più di trent’anni che Pat Metheny non proponeva una formazione del cui organico facesse parte un sassofono. L’ultima volta che il chitarrista aveva integrato le ance nel suo sound era stato nell’album 80/81, impiegando Michael Brecker e Dewey Redman. “Ai tempi di 80/81, sarebbe stato difficile credere che non avrei proposto per molto tempo un tradizionale quartetto jazz, dato che si trattava di una formazione con cui avevo suonato spesso. Sotto certi aspetti le mie band sono state alternative alle formazioni più convenzionali con cui avevo suonato”, ha dichiarato Metheny. “Il fatto che ci siano voluti più di trent’anni per tornare al quartetto a testimonianza di quanto mi avessero tenuto impegnato queste alternative”. La pubblicazione del nuovo lavoro, Pat Metheny Unity Band, ha per questo il sapore di un gradito ritorno. Il CD ha ricevuto consensi unanimi e molti elogi dalla critica . Non possiamo far altro che unirci al coro di chi ha apprezzato grandemente questo lavoro. C’è chi ha scritto che Metheny è tornato al sound del passato, ma su questo non ci sentiamo di concordare, in quanto non basta l’utilizzo della chitarra synth, peraltro molto limitato nell’album, per sostenere una tale affermazione. Più che cercare similitudini con il passato è forse meglio analizzare il presente, che per Metheny è rappresentato dalla Unity Band, impegnata in una colossale tournée di settantatré date in Europa e negli Stati Uniti. Un programma da grande rock band, più che da quartetto jazz.

Marco Giorgi
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Chet Baker rivive nell’arte di Riccardo Del Fra

Riccardo Del Fra

Riccardo Del Fra

Riccardo Del Fra torna in Italia con il suo progetto “My Chet, My Song” in occasione de Les Jours de France a Rome, la settimana francese a Roma (13 -22 aprile), organizzata dal Terzo Municipio e dal tredicesimo arrondissement parigino. Le apparizioni in patria del grande contrabbassista romano sono purtroppo sporadiche e proprio per questo assumono il carattere di un evento. Del Fra risiede a Parigi dagli inizi degli anni Ottanta dove insegna al conservatorio e porta avanti la sua carriera di musicista moderno e costantemente proiettato verso il futuro. Complice del suo trasferimento oltralpe fu Chet Baker, che Del Fra incontrò nel 1979. Il sodalizio artistico con il trombettista americano sarebbe durato nove anni e avrebbe prodotto ben dodici album. “ (Chet Baker) ha influenzato la mia musica e la scrittura”, scrive Del Fra sul suo sito, “dalla qualità del suono a tutto tondo con un vibrato leggero, alla relazione diretta con la vocalità in tutto l’approccio strumentale, alla ricerca della costruzione di lunghe frasi che attraversano le armonie e di un pensiero quasi costante di respirazione e silenzio”. Non sorprende quindi che Del Fra proponga un progetto intitolato “My Chet, My Song” che però non ha l’intento rievocare la memoria del grande trombettista, quanto quello portare avanti quei concetti musicali che Baker, forse più inconsciamente che consapevolmente, ha espresso nel corso di tutta una vita. Del Fra si presenta alla Casa del Jazz alla guida, per la prima volta in Italia, di un quintetto giovanissimo ma già carico di allori. Airelle Besson, alla tromba e al flicorno, ha conquistato il Django D’Or nel 2008 come miglior giovane talento. L’altosassofonista Pierrick Pedron ha ottenuto nel 2006  riconoscimenti da l’Academie du Jazz per il miglior album,  “Deep in a Dream”,  e come miglior artista. Il pianista Bruno Ruder ha già all’attivo un curriculum di tutto rispetto e ha effettuato anche escursioni in territorio non jazzistico suonando con lo storico gruppo rock francese Magma. Ariel Tessier è invece un batterista funambolico che si è diplomato come percussionista classico ma che ha trovato nel jazz la sua vera dimensione. Oggi è uno dei giovani batteristi più richiesti della scena francese.

Marco Giorgi
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