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Kurt Elling, Roma, 8 luglio 2013

Kurt Elling (di Christian Lantry)

Kurt Elling (di Christian Lantry)

Questa volta il tempo è stato clemente e l’ormai consueto acquazzone che si abbatte su di Roma ogni sera e che ha portato alla cancellazione di ben tre concerti consecutivi che si sarebbero dovuti tenere alla Casa del Jazz, ha deciso di anticipare la sua performance e si è abbattuto sulla capitale verso le 16:00. La violenza degli scrosci è stata tale che l’atteso concerto di Kurt Elling è rimasto in forse fino alle 19:30 ma alla fine è stato confermato e tutto si è svolto nella normalità. L’artista di Chicago che nel corso della sua carriera ha mietuto successi su successi si è potuto esibire alla guida del suo quintetto che annoverava il suo fido collaboratore Laurence Hobgood al pianoforte, John McLean alla chitarra elettrica, lo spagnolo Jeff Pedraz al contrabbasso e Bryan Carter  alla batteria. Il concerto ha confermato pregi e difetti dell’Elling dell’ultimo periodo. Se da una parte, infatti, il vocalist è dotato di un grande talento, di un’estensione vocale di quattro ottave assolutamente sbalorditiva, di una capacità di tenere il palco invidiabile, di una simpatia contagiosa che si trasmette immediatamente al pubblico, di una padronanza della tecnica impareggiabile, dall’altra mostra un’eccessiva tendenza alla spettacolarizzazione della performance, propone una selezione del repertorio che meriterebbe forse una maggiore cura, così come più attentamente dovrebbe selezionare i componenti della band che lo accompagna. Elling non è il solito cantante che si accontenta di una batteria suonata con le spazzole, un pianoforte che suggerisce gli accordi e di un contrabbasso che scandisce il ritmo.

L’artista di Chicago, invece, cala la sua vocalità all’interno del gruppo, si confronta su base paritetica con i vari strumenti e diviene lui stesso uno strumento aggiunto. Non occorre sottolineare che le incredibili qualità vocali e interpretative di Elling devono trovare altrettanta rispondenza nei musicisti del gruppo.  Ma purtroppo Elling sovrasta di una spanna la sua band con la sola eccezione di Hobgood che è sembrato l’unico musicista all’altezza del leader. Forse non è un caso che proprio Hobgood abbia iniziato il concerto con una lunga introduzione solistica al pianoforte che ha preceduto una splendida “Come Fly With Me”. Già da questo pezzo si è potuta apprezzare in pieno la tecnica del cantante. Un attacco da crooner navigato, una serie di chiaroscuri, la voce resa roca per un secondo per poi limpida, l’emissione perfetta e controllatissima. Diversamente da molti dei suoi colleghi Elling mantiene il microfono a una distanza costante dalla bocca e quando vuole creare degli effetti prospettici lo fa controllando l’emissione stessa e non avvicinando o allontanando il microfono da sé. “Grazie essere qui per ascoltare buon jazz” dice rivolto al pubblico che non ha bisogno di essere blandito per essere conquistato.

I brani si susseguono, alternando composizioni di repertorio e standard internazionali a canzoni contenute nella sua ultima realizzazione discografica intitolata “1619 Broadway: The Brill Building Project” con cui, ne siamo certi, mieterà ancora award e riconoscimenti vari. Uno dei momenti più alti della serata coincide con la toccante interpretazione di “A House Is Not A Home” portata al successo da Dionne Warwick. Elling regala alla platea un’interpretazione memorabile, ricca di drammaticità mostrando di vivere la canzone in maniera assolutamente personale e libera da raffronti con il passato. Verso la metà del concerto, però, l’abitudine statunitense di trasformare un concerto in uno show internazionale, buono per tutti i pubblici, prende il sopravvento. Dapprima Elling si avventura in “For Luisa” di Antonio Carlos Jobim, una canzone lenta e ricca di sentimento, dove la sua band comincia a mostrare i suoi limiti. Non scopriamo certo oggi che il senso ritmico anche dei più provetti musicisti statunitensi è in seria difficoltà alle prese con le insidiose bossa nova. Se il jazz si è fuso con il samba per dar vita alla bossa, non per questo il nuovo genere si mostra docile e arrendevole al cospetto del genitore nordamericano. Ancora una bossa nova, “Estate”, firmata da Bruno Martino, viene interpretata come di fronte a una platea di Las Vegas e si trasforma in una sbiadita cartolina. Apprezzabile però lo studio che Elling ha effettuato per ottenere una pronuncia quantomeno accettabile dell’italiano. Nel brano interviene come ospite il sassofonista Rosario Giuliani che esegue un assolo dal timbro tagliente, congruo con lo spirito originale del brano. Segue una personale versione di “I Only Have Eyes For You” che Giuliani arricchisce con un altro assolo. Questo si trasforma in un sensazionale duetto con Elling che, a suon di scat, sciorina scale vertiginose come se anch’egli avesse un sax alto.

Il gran finale è lanciato affrontando il repertorio di Stevie Wonder con una “Golden Lady” spettacolare, arricchita da un altro scat vertiginoso e da un assolo di batteria di Carter assolutamente non banale. Il gruppo sta ancora suonando quando Elling abbandona il palcoscenico. Il pubblico lo richiama a gran voce: il bis che il cantante regala alla platea è “La Vie En Rose”, che però mostra gli stessi difetti degli altri brani non statunitensi interpretati nella serata. Il pubblico, comunque, è letteralmente conquistato ed Elling si presta ad essere attorniato dai fan, a farsi fotografare assieme a loro, a scambiare qualche parola, a firmare decine di autografi.  Anche questa disponibilità estrema fa parte del personaggio Elling, un artista che bisogna accettare così, luci ed ombre, apprezzando quei bagliori di grande musica che i suoi spettacoli contengono e accettando quelle cadute di tono che ad altri artisti non sarebbero certo perdonate.

Marco Giorgi
Per www.red-ki.com

Mike Stern – Victor Wooten Band, Roma, 14 luglio 2013

Mike Stern 2 (di Clay Patrick McBride)

Mike Stern 2 (di Clay Patrick McBride)

Accade ormai raramente che un concerto riesca a suscitare un entusiasmo irrefrenabile e che contemporaneamente risulti così difficile da descrivere in un articolo. Il fatto è ancora più eccezionale se l’artista protagonista del concerto è Mike Stern, un musicista da anni sulla piazza, con uno stile ben definito e che ha ormai abituato pubblico e critica a standard elevati, ma non certo a grandi variazioni sul suo pattern. Ma la musica, almeno quella che si basa sull’improvvisazione, è fatta anche di incontri, di interazioni tra musicisti, di somme di parti che come risultato danno più dell’intero. Così se sulla scena accanto a Mike Stern compare Victor Wooten ecco che qualsiasi previsione risulta errata, qualsiasi calcolo sballato, qualsiasi illazione campata in aria.

Nella fresca serata romana, nell’incantevole parco della Casa del Jazz, i due leader si fanno attendere. Il  pubblico intravede Mike Stern, di schiena, alla finestra del primo piano dell’edificio adiacente alla platea e comincia a salutarlo e a chiamarlo a gran voce. Stern ha già la chitarra al collo. Si volge verso la finestra sorride ricambia i saluti sbracciandosi. Ci vorrà ancora qualche decina di minuti prima che arrivi sul palco. Assieme a lui Victor Wooten, al basso elettrico, il sassofonista tenore Bob Franceschini e il batterista Derico Watson, due bianchi agli strumenti solisti e due neri alla ritmica. Almeno questo sembrava, sulla carta, prima che si cominciasse a suonare. Nulla di più sbagliato. Non ci sono né solisti né accompagnatori di ruolo, bensì quattro musicisti completi, quattro solisti eccelsi che sanno scambiarsi i ruoli di primo piano senza gelosie.

Il concerto inizia con un impatto sonoro incredibile, un’energia che ti schiaccia contro lo schienale della sedia. In men che non si dica Stern è già nel mezzo del primo solo, assolutamente devastante. L’impressione è di stare ascoltando un bis in cui i musicisti danno fondo alle residue energie e non un brano di apertura. Appena Stern chiude il suo intervento, è la volta di Franceschini con il suono limpido e intonato del suo sax tenore. È la volta poi di Wooten a prendere il solo con un repentino cambio di clima che da rovente si fa improvvisamente sereno. Le note scandite sono quelli iniziali di “A Love Supreme” di John Coltrane, una base da cui si dipana un’improvvisazione molto complessa giocata sul filo del virtuosismo e arricchita da una miriade di citazioni (sarebbe forse più facile elencare i brani non citati) tra le quali ricordiamo unicamente una dei Weather Report, assieme tributo a una delle più grandi formazioni del jazz elettrico e all’indimenticato bassista Jaco Pastorius. Il pubblico apprezza, applaude a scena aperta e quasi copre l’inizio dell’assolo di batteria di Watson. Al termine Stern annuncia che quello appena eseguito è la title track del suo nuovo lavoro “All Over The Place”, un album in cui il chitarrista è affiancato da una miriade di ospiti di gran nome. Stride un po’ l’annuncio di Stern, che comunica che al termine il concerto potranno essere acquistati i CD del suo lavoro. Certo, vedere un artista del calibro di Stern essere costretto a farsi promotore di se stesso fa stringere un po’ il cuore, ma al tempo stesso è la testimonianza dei tempi che stiamo vivendo. L’annuncio viene ripetuto più volte durante il concerto, per coloro dalla memoria labile.
Dopo un esordio così pieno d’energia ci si poteva aspettare un calo di tensione nei brani successivi.

Anche questa volta la nostra palla di vetro risulta appannata.
Non avevamo mai visto Wooten in azione. Ne avevamo sentito parlare come un fenomeno, una sorta di sintesi  tra Jaco Pastorius e Stanley Clarke, un miracolo tra tecnica e feeling, il suono pastoso di Pastorius e lo slap funky di Clarke. Ma, incredibilmente, c’è molto di più. Nel secondo brano, “My Life”, tratto da un lavoro precedente di Wooten, il bassista si esibisce anche come cantante. Il testo divertente, una sorta di talking blues in gran parte improvvisato, con riferimenti anche allo stesso Mike Stern, è la quiete prima della tempesta. Inizia, quasi in sordina, un assolo che cresce e che oltrepassa la sfera del possibile, che trascende ogni spettacolarità a cui sinora abbiamo assistito. È assolutamente stupefacente come Wooten coniughi  arte, espressività, tecnica e spettacolo. Descrivere quello che abbiamo visto è molto difficile per i limiti del linguaggio. Wooten si lancia in un tempo impossibile, prima pizzicando le corde, poi cominciando uno slap violento a una velocità supersonica. Ancora una volta si è indotti a pensare che sia questo l’apice dell’assolo e ancora una volta ci si sbaglia. Wooten comincia a suonare con le due mani lungo tutta la tastiera del suo basso pizzicando le corde un po’ come faceva il chitarrista Stanley Jordan, snocciolando una serie di note rapidissime, musicali e armonicamente impeccabili. In questa tempesta di suoni, mentre il pubblico è atterrito e Mike Stern, con le mani, si drizza i capelli in testa a sottolineare le cose fantascientifiche che sta facendo Wooten, il bassista si lancia in un’acrobazia degna di uno sbandieratore di Siena, facendo roteare il basso attorno al suo corpo, mentre questo, magicamente, continua a suonare. Gli applausi arrivano, ma sono incerti perché il pubblico è letteralmente sbigottito da quello a cui ha appena assistito. La sua capacità di reazione è rallentata dalle miriadi di note che i musicisti riversano su di lui. Ancora una volta è Stern a chiamare l’applauso a scena aperta, mentre il Wooten ha ripreso a cantare il suo indolente talking blues. I brani successivi mostrano uno Stern introspettivo impegnato molto spesso a doppiare la chitarra con la voce, in una sorta di effetto Pat Metheny. Da segnalare un suo assolo accompagnato dalla sola batteria e un altro di Wooten su un tempo medio che mostra come il bassista sia validissimo anche a velocità medio-bassa. Ma ancora non basta. Sempre Wooten comincia a costruire un nuovo assolo registrando un loop e poi usandolo come base per la sua performance. Stern si accomoda su una sedia sul palco e si unisce alla schiera di spettatori esterrefatti. Improvvisamente, da una cascata di note tirate fuori dalla tastiera del basso suonata con entrambe le mani, scaturisce una deliziosa “Norwegian Wood” che poi si evolve in “Amazing Grace”, il cui tema è spesso suonato sugli armonici del basso. Segue un’altra composizione di Wooten, “Left Right & Center”, in cui Stern torna ad essere protagonista. Cita dapprima Hendrix e poi esegue brevemente “Pretty Woman” che gli viene suggerita da Wooten, per poi lanciarsi in un assolo velocissimo stile Dixie Dregs (Steve Morse non ti annoi a suonare con i Deep Purple?), intervallato dai puntuali interventi di Franceschini. A questo punto il pubblico si alza in piedi, completamente fuori tempo, e si riversa in massa sotto il palcoscenico mentre la musica continua a fluire. Tutti in piedi ad acclamare la Stern-Wooten band. Il brano finisce e il gruppo saluta e fa per andarsene ma non riesce neanche a scendere dal palco. L’amore dimostrato dal pubblico romano merita certo un bis e Stern non glielo nega. Ma non basta ancora. Stern capisce che non può finire così e alza il dito indice e dice “one more”. È “Upside Downside”, tratta dal suo primo album solista, che chiude in bellezza questo concerto. La folla è acclamante. Wooten prende il telefonino e senza smettere di suonare filma la gente entusiasta. Le luci si riaccendono, il concerto è veramente finito. Stern chiama ancora il pubblico all’acquisto del suo album e subito si forma una fila.  È lo stesso Stern a scartare il cellophane dei CD, a firmare il booklet interno e a incassare i 20 euro del costo.
Che cosa volevate che facessimo… Ci siamo messi in fila anche noi e abbiamo acquistato dalle sue mani il frutto, autografato, della sua ultima fatica.

Marco Giorgi
Per www.red-ki.com

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