I nostri CD: Buone Feste con tanta buona Musica e oggi… non solo Jazz!

Heinz Holliger, Anton Kernjak – “Eventail” – ECM New Series
Consentitemi di aprire questa rubrica in modo assolutamente nuovo, vale a dire con una sortita nel campo della musica classica. Lo faccio perché questo album mi ha semplicemente incantato e credo valga la pena di essere ascoltato soprattutto da quanti, come me, amano la musica francese dei primi anni del secolo scorso incentrata sull’oboe. In programma musiche di Messiaen, Koechlin, Jolivet, Ravel, Debussy, Milhaud, Saint-Saens, Casadeus. L’ oboista e compositore svizzero Heinz Holliger (classe 1939) è considerate uno dei migliori oboisti al mondo particolarmente versato nel genere che si ascolta in questo album; al suo fianco Anton Kernjak, che ebbe modo di collaborare con Holliger nell’album “Aschenmusik” del 2014, mentre l’arpista francese Alice Belugou l’ascoltiamo in un solo brano di Andre Jovilet “Controversia” per oboe e arpa. L’ascolto è impreziosito dal libretto che accompagna il CD in cui Holliger spiega perché ha scelto questi brani illustrandone la valenza storica e artistica.

Veljo Tormis – “Reminiscentiae” – ECM New Series
Un’altra prestigiosa realizzazione di ECM nella collana New Series. Protagonista la musica di Veljo Tormis (1930-2017) considerato a ragione uno dei più grandi compositori corali contemporanei nonché uno dei più importanti compositori del XX secolo in Estonia. Nell’album sono contenute memorie che evocano scene dell’infanzia di Tormis in un alternarsi di situazioni sonore che vedono protagonisti ora il coro e i due soprani più un recitativo, ora il coro e l’orchestra, ora il mezzo-soprano Iris Oja e l’orchestra, ora il coro, il soprano Maria Valdmaa ora alcuni solisti come Indrek Vanu alla tromba, Madis Metsamart alle percussioni e Linda Vood al flauto. L’album assume una particolare rilevanza anche perché è stato personalmente curato da Tõnu Kaljuste che per decadi è stato uno dei più stretti collaboratori di Tomis e che nell’occasione, oltre a dirigere la Tallinn Chamber Orchestra ha scelto personalmente il materiale da far ascoltare, ivi compreso quel ‘The Tower Bell in My Village’ che Tormis compose nel 1978 appositamente per un tour che Kaljuste effettuò di lì a poco. Insomma un album in cui Kaljuste riflette tutto il suo amore, la sua ammirazione verso il compositore scomparso la cui musica non può che affascinare ad onta degli anni che passano.

Anthony Burgess – “Complete Guitar Quartets” – Naxos
Il compositore inglese Anthony Burgess (1917-1993) fu personalità poliedrica, capace di eccellere sia nella letteratura sia nella musica. In quest’ultimo campo compose una serie di quartetti per chitarra che vengono qui presentati in edizione integrale, unitamente ad altre due composizioni, di cui una ‘traditional’ e le altre due dovute rispettivamente all’estro di Gustav Holst e Car Maria von Weber. Tornando ai quartetti di Burgess, composti negli anni ’80, la cosa strana è che Anthony mai ha suonato la chitarra eppure in molte sue novelle il protagonista principale è proprio un chitarrista. Il primo quartetto rilevante, “Quatuor pour Guitares”, completato nel 1986, fu scritto per l’ Aighetta Quartet, e fu eseguito per la prima volta presso l’ Academié Rainer III di Monaco; sottotitolato ‘Quatuor en hommage a Maurice Ravel’ evidenzia una forte influenza della musica francese. Come già accennato, oltre ai quartetti in questo album compare “Trois Morceaux Irlandais” ovvero tre trascrizioni e arrangiamenti di altrettante arie Irlandesi che evidenziano le grandi capacità di Burgess anche come arrangiatore. Un’ultima ma non secondaria notazione: nell’album a suonare la musica di Burgess è chiamato il Mēla Guitar Quartet ovvero Matthew Robinson, George Tarlton, Daniel Bovey e Jiva Housden.

Torniamo sempre con ECM sul terreno jazzistico

Wolfgang Muthspiel – “Dance of the Elders” – ECM
Il chitarrista Wolfgang Muthspiel si ripresenta alla testa del suo trio con Scott Coley al contrabbasso e Brian Blade alla batteria per bissare il successo ottenuto con il precedente album “Angular Blues” del 2018. Ancora una volta la musica dell’artista presenta molteplici riferimenti sia alla musica folk sia alla musica classica solo che, in questa occasione, abbiamo ascoltato un Muthspiel più attratto dalle linee melodiche il più delle volte perfettamente riconoscibili. Di qui un fraseggio sempre originale, misurato, tecnicamente ineccepibile e sempre molto, molto elegante. Dei sette brani presentati nell’album (tutti a firma del leader eccezion fatta per “Liebeslied” di Kurt Weill e Berthold Brecht e “Amelia”) il brano che meglio esemplifica quanto fin qui detto è proprio il conclusivo “Amelia”: si tratta di una splendida ballad di Joni Mitchell che il trio reinterpreta con rara delicatezza e con un linguaggio prettamente jazzistico a conferma, se pur ce ne fosse bisogno, che il jazz si identifica non già per quel che si suona ma per come lo si suona.

Maciej Obara Quartet – “Frozen Silence” – ECM
Maciej Obara è un sassofonista polacco (alto e tenore) che ha già alle spalle una fortunata carriera sia come leader sia come sideman in altri gruppi. Con questo nuovo album è alla sua terza realizzazione per ECM e si ripresenta alla testa del suo collaudato quartetto che ha già alle spalle una lunga storia. Al piano troviamo Dominik Wania anch’egli polacco, un altro grande talento che si è incontrato con Obara una decina di anni fa in un ensemble di Tomasz Stanko. Da 2012 i due sono stati raggiunti da una sezione ritmica norvegese composta dal bassista Ole Morten Vagan e dal percussionista Gard Nilssen. Sette delle otto composizioni dell’album sono state scritte durante il periodo della pandemia e quindi riflettono al meglio il lato interiore di Maciej Obara. Di qui un’atmosfera sempre assai meditativa, alle volte velata da una certa malinconia, il tutto declinato con un linguaggio pacato, mai sopra le righe, che non vuol affermare alcuna validità tecnica ma solo rispondere appieno a quelle che sono le intenzioni comunicative del leader. Molto interessante anche il gioco sulle dinamiche che esplicita al meglio l’empatia tra i membri del quartetto.

Sinikka Langeland – “Wind And Sun” – ECM
Undici composizioni della vocalist norvegese Sinikka Langeland su testi del poeta Jon Fosse più un brano scritto sempre dalla Langelad ma questa volta in collaborazione con Geirr Tveitt. Ad accompagnare la leader un quartetto composto da Trygve Seim – già collaboratore della stessa Langeland – al sax tenore e soprano, Mathias Eick alla tromba, Mats Eilertssen al contrabbasso e Thomas Stronen alla batteria, musicisti tutti ben noti a chi segue il jazz nordico. L’album rispecchia ancora una volta quelle che sono le coordinate stilistiche della Langeland, vale a dire una musica essenziale, senza fronzoli, che trae i suoi motivi ispiratori il più delle volte direttamente dal ricco patrimonio folkloristico nonché dagli input che provengono direttamente dalla natura. Non è certo un caso che la vocalist abbia messo in musica i versi di uno dei più importanti poeti e drammaturghi contemporanei come Jon Fosse –  anch’egli norvegese – conosciuto come “il nuovo Ibsen”. Ma chi si aspettasse un album dalle sonorità arcaiche rimarrebbe deluso in quanto il gruppo si muove invece su elementi di assoluta modernità sorretti da grande preparazione tecnica e da un idem sentire con la vocalist. Sentite, ad esempio, come il sax (ora soprano ora tenore) di Seim sottolinei alcuni passaggi che il kantele di Sinikka continua ad eseguire in sottofondo con una stratificazione di suoni tutt’altro che banale.

Restiamo in Norvegia con le produzioni Losen

Sara Calvanelli, Virginia Sutera – “Ejadira” – Losen
La Losen si va caratterizzando sempre più per la presenza nel suo catalogo di musicisti non norvegesi tra cui parecchi italiani. Questa volta è il caso di un duo al femminile composto da Sara Calvanelli, accordeon, indian harmonium, loops, cojo, voce e Virginia Sutera, violino. Davvero strana la genesi di questo album per cui vale la pena raccontarla brevemente. La Calvanelli è fisarmonicista arguta che ama sia la scrittura sia la libera improvvisazione; dal canto suo Virginia Sutera è violinista anch’essa attenta all’improvvisazione ma soprattutto all’interazione tra la musica e le altre arti. Siamo nell’autunno del 2020, tempo di lock-down. Le due musiciste decidono di incontrarsi seppure solo per corrispondenza: di qui uno scambio di idee, di prove, di registrazioni fino a quando chiuso il periodo del lock-down, le due si incontrano personalmente dando vita all’album in oggetto. Date le premesse tutto il disco si basa su un libero gioco improvvisativo tra le due che dimostrano di avere un’ottima intesa passando da sonorità che richiamano il barocco a momenti folk fino ad atmosfere più “moderne”.

Sudeshna Bhattacharya & Somnath Roy –“Mousson de Calcutta” – Losen
Ancora una sortita fuori dai confini nazionali da parte di questa coraggiosa etichetta che si è spinta sino a considerare la musica indiana…anche se poi la registrazione è stata effettuata a Oslo. Anche di questo album è protagonista un duo ben lontano, come si accennava, dalle terre e dalle atmosfere nordiche: Sudeshna Bhattacharya e Somnath Roy. Si tratta di un connubio apparentemente improbabile: Sudeshna è infatti uno dei migliori specialisti di sarod, lo strumento a corde tipico della tradizione musicale dell’Hindustan mentre Somnath è conosciuto per la sua straordinaria abilità nel percuotere il ghatam, strumento tipico della musica carnatica indiana. E’ possibile far coesistere questi due generi sulla carta così diversi? Secondo gli esperti di musica indiana assolutamente no: viceversa i due artisti, con questo album, hanno dimostrato che sì, è possibile, basta intendersi su ciò che si vuole esprimere, basta possedere una straordinaria tecnica di base e il gioco è fatto. In repertorio tre composizioni create da Bhattacharya che durano ben sei, 13 e 38 minuti; in tutte e tre spicca il meraviglioso canto della già citata Somnath Roy che riesce ad emozionare ogni ascoltatore al di là di qualsivoglia barriera di terra e di lingua.

Benvenuta alla Ipogeo Records
E’ con vero piacere che salutiamo questa nuova etichetta discografica Ipogeo Records fondata di recente da Filippo Cosentino, uno dei principali compositori e musicisti jazz contemporanei.
Come sottolineano i responsabili dell’etichetta, fondamentale è la solidità del team di produzione. Da un lato il gruppo di lavoro, che nelle figure chiave è formato da Filippo Cosentino, fondatore, producer e direttore artistico; Federico Mollo, fonico e assistente di produzione; Adriana Riccomagno, ufficio stampa e coordinamento team di distribuzione; Fabrizia Gar e Carlotta Vacchetti, team grafico. Particolare attenzione viene dedicata alla cura del catalogo musicale assicurato dalla casa editrice Cose Note Edizioni. Le sezioni del catalogo sono: jazz music, songwriting e cantautorato; musica contemporanea; early music; soundtrack.
In jazz music e musica contemporanea, tre progetti sono stati ammessi al primo turno di ballottaggio dei Grammy® Awards in due differenti edizioni: 65th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Heros, Filippo Cosentino feat. Danilo Mineo e Daniele Bertone, nella categoria Best New Artist; Carlotta The Musical, James David Spellman / Filippo Cosentino, nella categoria Best Theatre Music essendo in effetti la colonna sonora di uno spettacolo teatrale; e quest’anno alla 66th Recording Academy / GRAMMYs for the Grammy® Awards Ask, Filippo Cosentino, nella categoria Best Instrumental Contemporary Music mentre Leeway, singolo tratto da Ask, Filippo Cosentino & Marc Copland feat. Daniele Bertone, nella categoria Best Jazz Performance.
Nella categoria Jazz i primi due lavori pubblicato sono stati “Multiverse” solo in versione digitale e quindi “Heros” di Filippo Cosentino. In quest’ultimo album la formazione è il trio in cui il leader, chitarrista, è accompagnato dal formidabile pianista Marc Copland, per moltissimi anni componente della formazione di John Abercrombie, e Daniele Bertone alla batteria e percussioni. In programma sette composizioni del leader in cui si evidenzia da un lato le capacità strumentali di tutti e tre i musicisti, dall’altro le ottime capacità compositive di Cosentino che di certo non scopriamo oggi. Le atmosfere predilette sono un mix di jazz, folk e country anche se qua e là riemerge l‘anima mediterranea del leader.

In Italia scendono in campo anche i grossi calibri

Amato Jazz Trio – “Keep Straight On” – abeat
Elio Amato piano, Alberto Amato contrabbasso e Loris Amato batteria sono i componenti dell’Amato Jazz Trio, una delle formazioni più longeve he a storia del jazz italiano conosca. Una storia costellata di successi straordinari colti in tutto il mondo tanto che non a caso l’amico Franco Faienz li aveva definiti uno dei più originali trii d’Europa e oltre”. La storia del Trio comincia nel 1979 in Sicilia, a Canicattini Bagni, dove i tre fratellini Elio, Alberto e Sergio si divertono a suonare assieme. Ben presto si fanno notare a livello locale e arrivano i primi ingaggi, i primi concerti. Nel periodo che va dal 1985 al 1987 la svolta: il gruppo viene chiamato per aprire i concerti di stelle quali Betty Carter, Muhual Richard Abrams e Wynton Marsalis. Nel 1988 il gruppo vince a Milano il concorso indipendenti per l’allora celebre rivista Fare Musica e subito dopo il jazz contest della Dire. ottenendo come premio la possibilità di incidere il loro primo disco intitolato ‘Jazz Contest 88’. Da quel momento l’Amato Jazz trio incide una serie di album sempre di grande successo e soprattutto ottiene il plauso indiscriminato di pubblico e di critica mantenendo il suo standard qualitativo sempre molto elevato. Cosa che si ripete anche in quest’ultimo album in cui i tre fratelli convincono sempre di più. La loro è davvero una musica ‘universale’ nel senso che nel stessa confluiscono input assai diversi provenienti ovviamente dal bop, dal free jazz, dalla tradizione classica e dalle straordinarie armonizzazioni proprie della musica dei primo del ‘900, il tutto senza dimenticare le origini mediterranee del trio che trova in ognuno dei componenti l’interprete ideale per quel che in quel momento si sta eseguendo. Di qui la difficoltà di segnalare un brano piuttosto che un altro…anche se qualche parola in più desideriamo spenderla per “Arvo” scritto da Alberto Amato: si tratta di un sentito omaggio al compositore estone Arvo Pärt contenuto in poco meno di quattro minuti in cui le influenze minimaliste la fanno da padrone trasportando l’ascoltatore in un mondo “altro”, ben lontano dalle nefandezze di quello odierno.

Claudio Angeleri – “Concerto feat. Gianluigi Trovesi” – Dodicilune
Si intitola semplicemente “Concerto” il nuovo album firmato Claudio Angeleri e registrato live in occasione del Bergamo/Brescia Capitale della Cultura Italiana il 20 maggio 2023 presso l’Auditorium Modernissimo Nembro. Nella versione live i quadri di Gianni Bergamelli si intrecciano con le composizioni musicali di Claudio Angeleri, i testi narrativi di Maurizio Franco e le animazioni di Adriano Merigo che danzano in tempo reale con le improvvisazioni dei diversi solisti. Il CD che vi presentiamo è quindi  un album a tema in cui   il pianista e compositore bergamasco desidera omaggiare i grandi della cultura lombarda. Per affrontare questo difficile compito Angeleri ha chiamato accanto a sé una schiera di eccellenti musicisti quali Gianluigi Trovesi (clarinetto), Giulio Visibelli (sax soprano e flauto), Gabriele Comeglio (sax alto), Marco Esposito (basso elettrico), Matteo Milesi (batteria), Paola Milzani (impegnata sia come solista vocale sia come direttrice del coro), il giovane talento Nicholas Lecchi (sax tenore) e il coro The Golden Guys. In programma otto brani tutti scritti dallo stesso Angeleri eccezion fatta per “Lacrimosa” tratto dalla Messa da Requiem op. 73 di Gaetano Donizetti, mentre le liriche di “Light and Dark” e “Armida” sono state scritte da Alessia Marcassoli. Cercando di mantenersi in un difficilissimo equilibrio tra antico e attuale, Angeleri mette in campo tutta la sua sapienza musicale scrivendo partiture in cui echi di gospel si mescolano a input di chiara influenza “jazz contemporary” nonché classica in cui l’improvvisazione gioca un ruolo di primissimo piano grazie all’interplay che si è costituito tra i musicisti. Al riguardo eccellente il contributo degli artisti citati in precedenza con un Trovesi che sembra non sentire minimamente il peso degli anni che passano anche per lui. Per la cronaca i protagonisti cui sono dedicate le varie performance sono Caravaggio, Arturo Benedetti Michelangeli, Giacomo Costantino Beltrami, Niccolò Tartaglia, Giacomo Quarenghi, Torquato Tasso e le donne della Resistenza. Infine un elemento su cui interviene lo steso Angeleri: la musica, come si accennava, è tratta da uno spettacolo multimediale, procedimento sempre piuttosto rischioso. Di qui la domanda: è possibile gustare la valenza della musica prescindendo da tutto il resto? “Suggerisco afferma Angeleri –  di dedicarsi ad un primo ascolto esclusivamente sonoro senza guardare e leggere il booklet: solo pura suggestione uditiva. Gli ascolti e le letture successive offriranno così la possibilità di cambiare prospettiva e replicare più volte le emozioni. Il disco, in questo modo, assume una dimensione plurale e condivisa che lo rende ancora oggi, nel terzo millennio, un mezzo vivo e stimolante per i musicisti di jazz – uso volutamente un termine così ampio – che si esprimono nel tempo reale e per il pubblico che ne fruisce. Anche per questo motivo è stata scelta una versione live di Concerto per catturare una versione unica e irripetibile».

Dino Betti Van Der Noot – “Let Us Recount Our Dreams” – Audissea
Mi onoro di conoscere Dino Betti oramai da qualche decennio ma posso tranquillamente affermare che ben difficilmente ho visto un jazzista conservare un entusiasmo, una lucidità, una positività che sempre riscontro quando parlo con lui. E queste qualità si ritrovano puntualmente negli album che, in questi ultimi tempi Dino licenzia producendo sempre musica di altissima qualità. Ovviamente a questa regola non fa eccezione “Let Us Recount Our Dreams” (“Raccontiamoci i nostri sogni”) chiaramente ispirato da una delle più belle e suggestive pagine di William Shakespeare.    A parte l’originalità delle composizioni, è straordinario il modo in cui Betti gioca con le note: lui le fa ruotare, rimbalzare, rincorrere a formare un caleidoscopio che poi, fatalmente va a sfociare in un disegno unitario che evidentemente è lì, nella mente del leader. Ovviamente per raggiungere risultati del genere, è indispensabile poter contare su musicisti che ben conoscono il modo di operare del compositore: non è quindi un caso che anche questa volta Dino Betti Van Der Noot abbia chiamato accanto a sé i ventidue musicisti con i quali ha lavorato negli ultimi anni, in particolare nel precedente “The Silence of the Broken Lute”, con l’aggiunta del trombettista Tiziano Codoro, mentre a scrivere le lunghe note di copertina è stato incaricato il critico statunitense Thomas Conrad le cui considerazioni sono, a mio avviso, condivisibili dalla prima all’ultima riga. Venendo alle nostre personalissime considerazioni, anche in questo album abbiamo ritrovato quelle caratteristiche elencate in apertura con una attenzione maggiore verso certi suoni orientaleggianti che amplificano lo spettro sonoro di cui si serve Dino. Non a caso si è servito di strumenti quali l’arpa, il dizi e il flauto cinese poco usuali nelle orchestre jazz. A Conferma della sua straordinaria conoscenza dell’universo musicale nel suo insieme, non mancano accenni al progressive, accenni sempre misurati e comunque assolutamente pertinenti. Tutto Ciò, agendo allo stesso tempo con l’incrociare delle linee melodiche, con il flusso dinamico che varia in modo straordinario, con il variare delle atmosfere proposte fa sì che l’album mai perda una sola oncia di omogeneità. Insomma un gran bell’album che vale la pena ascoltare più di una volta per capirne ogni più remota sfumatura.

Maria Pia De Vito – “This Woman’s Work” – PMR
Se ci dichiarassimo stupiti dall’ascolto di questo nuovo album di Maria Pia De Vito non saremmo sinceri fino in fondo: in effetti seguiamo la straordinaria carriera della vocalist napoletana da tanti anni e l’abbiamo sempre ammirata per quel suo mai adagiarsi sugli allori di un successo più che meritato, ma continuare a ricercare, ad andare avanti ad esplorare nuovi terreni. Questa volta l’obiettivo è veramente importante e per chi scrive è un piacere sottolinearlo dal momento che proprio a questo argomento ha dedicato un libro: riflessione sulla condizione femminile e su quali strategie sono state attuate dalle donne per resistere in questi lunghi lassi di tempo. Per farlo la De Vito si è avvalsa innanzitutto di un nuovo gruppo senza pianoforte composto da Mirco Rubegni tromba, Giacomo Ancillotto chitarre ed electronics, Matteo Bortone basso ed electroncis, Evita Polidoro batteria. I pezzi in repertorio provengono dal jazz di Tony Williams, Ornette Coleman, dal cantautorato di Elvis Costello e Kate Bush, fino a elementi del folk cui si aggiungono tre pezzi composti a quattro mani dalla leader con Matteo Bortone. L’ispirazione, per esplicita ammissione della stessa De Vito, proviene dalle opere di autrici quali Virginia Woolf, Rebecca Solnit, Margaret Atwood. Il risultato? Assolutamente convincente. La De Vito è del tutto credibile quando affronta la questione femminile anche perché, come si accennava in apertura, ha speso tutta la vita al servizio della musica senza cedere a compromessi e andando sempre dritto per la sua strada. Prescindendo dalle più che lodevoli intenzioni della leader, l’album si segnala per la sua intrinseca valenza artistica: i brani sono tutti significativi, interpretati ora con vigore ora con dolcezza dalla De Vito la cui voce sembra più chiara rispetto ad altre occasioni. More solito la De Vito improvvisa con disinvoltura chiamando in causa la sua profonda conoscenza della musica non solo jazz, ma anche rock, folk e classica. Ovviamente per affrontare una tematica così complessa non solo dal punto di vista musicale, la De Vito si è affidata ad un gruppo di musicisti non solo collaudati ma anche sulla rampa di lancio come la bravissima batterista Evita Polidoro. Al riguardo occorre sottolineare come la scelta si stata più che felice dal momento che il gruppo ha funzionato semplicemente alla perfezione.

Claudio Fasoli NeXt 4et – “Ambush” – abeat–
Conosco Fasoli oramai da parecchi anni e quindi posso affermare, senza tema di smentite, che Claudio è uomo intelligente, spiritoso, cordiale e originale. Queste doti il sassofonista le trasporta nella sua musica che di conseguenza risulta sempre straordinariamente nuova, affascinante, coinvolgente. Ascoltando uno dopo l’altro i vari suoi dischi si rimane davvero stupefatti di come l’artista abbia saputo trovare una chiave sempre nuova per le sue composizioni. Così anche questo “Ambush” presenta una sua spiccata originalità che lo distingue nettamente dai precedenti album, originalità che può farsi risalire ad un uso più spregiudicato e intenso dell’elettronica che trova nella chitarra di Simone Massaron un interprete fondamentale. Le note sembrano quasi rimbalzare da un lato all’altro del pentagramma senza soluzione di continuità con il leader che guida il gruppo con mano ferma anche se le parti improvvisate paiono davvero tante. Il tutto senza che mai il discorso narrativo perda la sua logica: Fasoli è sempre perfettamente a suo agio qualunque strumento imbracci ( sax tenore o sax soprano) e qualunque ruolo rivesta in quello specifico momento. E al riguardo non si può non rilevare la grandezza di Fasoli come compositore, un musicista che conosce benissimo il linguaggio musicale anche al di là del jazz, che sa perfettamente da dove partire e dove arrivare e che soprattutto riesce sempre ad esprimere i propri sentimenti all’interno di una scrittura che sa valutare assai bene anche il valore del silenzio, l’importanza del respiro nella musica, nell’universo sonoro. Non a caso Nat Hentoff ha scritto di lui “che non lo si può confondere con nessun’altro”. Molto ben studiato anche il repertorio in cui a brani veloci si alternano atmosfere più riflessive e intimistiche. Che portano l’ascoltatore a chiedersi con curiosità ‘cosa ascolterò adesso?’. Come ci piace sottolineare sempre in occasioni del genere, quando un album riesce così bene certo il merito va alle composizioni, al leader…ma anche al resto del gruppo che per l’occasione è costituito dal già citato Simone Massaron chitarra elettrica, Tito Mangialajo Rantzer contrabbasso e Stefano Grasso percussioni.

Nicola Mingo – “My Sixties in Jazz” – Alfa Music
Come si è forse già capito dalle mie note, i jazzisti italiani che hanno più di 50 anni praticamente li conosco tutti…o quasi. Ma coloro i quali posso definire “amici” sono ovviamente pochi, molto pochi. Ecco, Nicola Mingo è uno di questi anni. L’ho conosco da tempo e tra di noi si è instaurato un bellissimo rapporto fatto di reciproca stima ed amicizia. Stima ed amicizia che però non mi impediscono di valutare con tutta l’oggettività di cui sono capace le sue ‘imprese’ musicali. E proprio partendo da tale presupposto non ho alcun timore di essere smentito affermando che quest’ultima produzione del chitarrista napoletano è fra le cose migliori da lui incise nel corso degli anni. Nicola è uno dei musicisti più coerenti che abbia conosciuto: lui è u amante del bop e a questo linguaggio rimane fortemente ancorato nonostante i boppers in esercizio permanente effettivo siano rimasti veramente pochi ed è questa una considerazione imprescindibile nel valutare l’album. Lo stesso si pone, infatti, come un esplicito omaggio da un canto ai 60 anni di jazz di Mingo in senso autobiografico e,  dall’altro esplicita il chitarrista “a quegli anni Sessanta che hanno prodotto fenomeni musicali come l’hard bop, Art Blakey and Jazz Messengers e tutte le derivazioni chitarristiche come Grant Green, Wes Montgomery, Kenny Burrell, Barney Kessel, Tal Farlow, Joe Pass, Pat Martino, George Benson, miei punti di riferimento stilistici”. M per essere ancora più chiari Mingo aggiunge che “questo progetto rappresenta un contributo personale, moderno ed innovativo al linguaggio del bebop e al suo fraseggio, nato con Charlie Parker e Dizzie Gillespie e ulteriormente sviluppatosi in una continua evoluzione fino ad approdare alla nostra contemporaneità”. Obiettivo centrato? A mio avviso assolutamente sì. La modernità di Mingo nell’approcciare uno dei linguaggi più complessi del jazz è sotto gli occhi (o meglio le orecchie) di tutti e può rappresentare, soprattutto per i più giovani, un momento di attenta rilettura di uno dei periodi più gloriosi nella storia del jazz, un momento che, specie negli ultimi anni, non tutti hanno saputo interpretare, nel modo più giusto facendolo apparire vecchio e superato. Ottimo, è anche questo è un grande pregio, il rivolgersi a compagni di viaggio che hanno saputo ben interpretare gli intendimenti del leader: Francesco Marziani piano, Pietro Ciancaglini contrabbasso e Pietro Iodice batteria sono risultati perfetti, assolutamente inseriti nel progetto studiato da Mingo.

Modern Art Trio – “Modern Art Trio” – Gleam Records
Franco D’Andrea pianoforte, piano elettrico e sax soprano, Franco Tonani batteria e tromba, Bruno Tommaso contrabbasso sono gli artefici di una registrazione che è rimasta iconica, una registrazione che ha spinto la Gleam Records a ristampare per la quarta volta il disco in oggetto. Questa ulteriore ripresentazione dell’album è il frutto di una importante opera di restauro audio voluta dal produttore Angelo Mastronardi e realizzata grazie al fortuito ritrovamento del nastro originale da parte dell’editore Luca Sciascia e accuratamente restaurato e masterizzato dal fonico Jeremy Loucas negli Stati Uniti. L’album è disponibile in edizione limitata su Vinile 180 gr. (bauletto con inedito booklet) e su CD (formato gatefold con booklet arricchito), dal 10 novembre 2023 e distribuito da IRD International Distribution. Ciò detto vediamo più da vicino i contenuti musicali (e non solo) di questo “Modern Art Trio”. Siamo nell’aprile del 1970 a Roma e già da qualche anno (per la precisione dal 1967) è attivo il Il Modern Art Trio che rimarrà in attività fino al 1972. La prima formazione vedeva al contrabbasso Marcello Melis che lascerà il posto l’anno successivo a Giovanni Tommaso, il quale a sua volta nel 1969 sarà sostituito da Bruno Tommaso. Il primo e unico disco del trio riporta sulla copertina la sigla “Progressive Jazz”, un chiaro riferimento alla musica suonata. L’album fece scalpore in quanto si trattava di un primo tentativo di mettere ordine in un linguaggio che di ordine non voleva sentir parlare come ricorderanno chi quegli anni ha vissuto in prima persona. E che il tentativo fosse già di per sé piuttosto ambizioso se non addirittura velleitario lo evidenzia lo stesso D’Andrea quando nel libro dedicato a Gato Barbieri da Andrea Polinelli afferma: Quando con Gato facemmo ‘Ultimo tango’ io venivo fuori da questa cosa terribile che era il MAT nel quale come linguaggio musicale stavo completamente da un’altra parte”. Comunque a parte le sensazioni che i componenti il trio possono esprimere oggi, resta il fatto che il disco rappresentò una grossa novità specie per il panorama italico dal momento che in ogni modo rappresenta una sorta di dichiarazioni di intenti, un documento in cui Tonani e compagni illustrano le ricerche che in quel momento stavano portando avanti, ricerche che come dimostrerà un attento ascolto del disco, avevano, hanno e avranno un loro perché.

Roberto Ottaviano – “A che punto è la notte”, “Astrolabio mistico” – Dodicilune
Credo di aver speso tutte le aggettivazioni possibili parlando di Roberto Ottaviano che considero in assoluto uno degli artisti più innovativi, immaginifici, tecnicamente superlativi, coerenti con alcuni inderogabili principi di fondo quale in primo luogo l’onestà intellettuale, che calchino le scene del jazz internazionale. E ciò che si abbia riguardo sia ai concerti sia alle registrazioni. A quest’ultimo riguardo due sono le perle che il sassofonista barese Roberto Ottaviano ha deciso di regalarci nel corso di questo 2023 che ci sta salutando: la prima – “Roberto Ottaviano & Pinturas – A che punto è la notte” – è un progetto interamente pugliese in cui il gruppo guidato da Ottaviano è completato dalla chitarra di Nando di Modugno, dal contrabbasso di Giorgio Vendola e dalla batteria e dalle percussioni di Pippo D’Ambrosio. Il progetto è dedicato alla memoria del chitarrista pugliese Rino Arbore prematuramente scomparso nel 2021. Per chi ama leggere “A che puto è la notte” avrà sicuramente richiamato il titolo di un racconto di Fruttero e Lucentini ma Ottaviano spiega chiaramente che la frase è stata usata strumentalmente solo perché “può racchiudere in sé molte altre atmosfere e richiami, come quelli contenuti in diversa letteratura”. Ciò premesso, l’album si snoda minuto dopo minuto, attimo dopo attiamo, scoprendo di volta in volta le sue innumerevoli sfaccettature. Ecco quindi trapelare nelle composizioni originali il profondo radicamento dei musicisti nella realtà mediterranea bilanciato in qualche modo dai due brani che aprono e chiudono il disco, di “O Silencio das Estrellas” della cantante e compositrice brasiliana Fatima Guedes e “Avalanche”, del cantautore canadese Leonard Cohen. Ma a parte queste citazioni quel che colpisce è soprattutto l’empatia che si avverte tra i musicisti e la loro capacità improvvisativa che emerge magari laddove non te l’aspetti.
Il secondo volume in realtà è a firma doppia – “Michel Godard, Roberto Ottaviano – Astrolabio mistico – Dodicilune” e racconta la vita di Bianca Lancia, «l’unica donna che l’imperatore Federico II di Svevia abbia mai amato». Per questa non facile impresa l’ 11 e 12 settembre scorsi al Castello Normanno-Svevo di Gioia del Colle (Ba), si sono dati appuntamento il serpentone e il basso elettrico di Michel Godard, il sax soprano di Roberto Ottaviano, il canto di Ninfa Giannuzzi, la tiorba di Luca Tarantino, i testi e la voce recitante di Anita Piscazzi. In programma quattordici brani originali scritti dai musicisti, con testi di Anita Piscazzi e arrangiamenti di Michel Godard e Luca Tarantino. In perfetta coerenza con la storia raccontata, l’album è pervaso da una a volte struggente malinconia come nel bellissimo brano d’apertura firmato da Roberto Ottaviano. E questo tono soffuso, raccolto si avverte per tutta la durata dell’album che acquisisce così una propria personalità ben distinta dal clamore della sperimentazione ad ogni costo o dalla riproposizione sic et simpliciter di modelli usati e abusati. Insomma una originalità di esposizione che caratterizza non già da oggi le produzioni dei due leader; ad ulteriore conferma si ascolti il terzo brano, “Light the Earth”, per l’appunto scritto da Godard.

Gerlando Gatto

DEXTER GORDON

Il be-bop si sviluppa negli anni ’40 a New York City, forte però anche dell’apporto di un crogiuolo di musici provenienti dalla West Coast e che si ritrovavano, prima di scrivere la Storia che tutti noi conosciamo, nei sobborghi di Los Angeles – California. Nativi di quell’area geografica ricordiamo personaggi come Art Pepper, Charles Mingus, Chet Baker. Molti di essi venivano poi ingaggiati da importanti capi-orchestra di passaggio i quali, rapiti dal grande talento di questi giovani virgulti, decidevano di portarli con sé in tour.

Negli anni ’40, nonostante le spinte del modern jazz, il pubblico impazziva ancora letteralmente per le suddette grandi orchestre capitanate dai vari Duke Ellington, Lionel Hampton, Benny Goodman, Louis Armstrong… Prima con Hampton e poi con Ellington aveva suonato ad esempio il giovane Mingus.

Nato a L.A. il 27 febbraio del 1923, stessa sorte ebbe il sassofonista tenore Dexter Gordon, che ritroviamo da giovanissimo nell’orchestra del re dei vibrafonisti quanto, subito dopo, in quella di Armstrong.

Oltre alla fortuna di poter maturare una grande esperienza artistica, sono occasioni uniche queste per imparare il complesso mestiere del musicista, con tutta la fatica che ciò si porta dietro. Non da ultimo il sapersi destreggiare, specialmente per un musico di colore, nell’America di quegli anni, barbaramente intrisa di segregazione razziale.

Il giovane Dexter dimostrava fin da subito di poter suonare a meraviglia il suo sax tenore, strumento cardine di quella che si può considerare una vera e propria nuova tradizione, principiata pochi anni prima dai suoni di Coleman Hawkins e Lester Young.

Proverò ora a sintetizzare in un pensiero le caratteristiche principali del suono unico del Nostro.

Un buon musicista jazz deve imparare innanzitutto a familiarizzare con il linguaggio dello swing. È un modo di stare sul tempo che non basta saper riprodurre meccanicamente. Poco aiuta il solfeggio in tutto ciò: risulta fondamentale il come “swingare”, e solo di conseguenza il cosa improvvisare. La caratteristica più rappresentativa del suono di Dexter è certamente l’incredibile cantabilità delle frasi, ma anche il come suonarle sul tempo. Suonare dietro al tempo, non davanti: fluttuare nella musica con quel pizzico di ritardo che esalta certamente la cantabilità delle belle frasi.

Per sfatare un mito, posso con certezza affermare che ciò non accade solo nel jazz; se non ne avete memoria, vi invito ad andare a riascoltare alcune interpretazioni, ad esempio, dei notturni di Chopin per pianoforte, così come di una qualsiasi aria d’opera tratta dal repertorio del Belcanto italiano. Si può notare come il solista ritardi le frasi, si fa seguire dall’accompagnamento, crea una vera e propria dilatazione poetica (così mi viene da definirla).

La magia di applicare ciò nello swing differisce dalla musica romantica in una lampante peculiarità: il metronomo della musica romantica cambia continuamente (rallentando, accelerando…) mentre nello swing il treno non perde mai, salvo rare eccezioni, la sua meravigliosamente ossessiva funzione di trasporto musicale. Il “ritardo” nel fraseggio di Dexter Gordon è, non solo a mio parere, la singolarità più affascinante del suo suonare.

Dopo la parentesi con Armstrong (con cui rimase amico tutta la vita – è a lui che avrebbe dedicato quel famoso premio Oscar mancato nel 1987), decise di seguire l’orchestra di Billy Eckstine; scelta di cuore, scelta prettamente stilistica -da Armstrong rifiutò addirittura un cospicuo aumento della paga-.

Approdò dunque a New York alla fine del 1944 dove iniziò subito a suonare in jam, concerti e sessioni di registrazione con i grandi bopper del momento: primo su tutti Dizzy Gillespie, con cui nel 1945 registrò brani come Blue’n Boogie e la “super-bop” Groovin’ High.

Tra il 1945 e il 1946, ingaggiato dall’etichetta Savoy, registrò diverse sessioni a suo nome. Fece ritorno a Los Angeles alla fine degli anni ’40. Oltre a continuare ad incidere per la Savoy ed incarnare il ruolo di turnista nelle formazioni di grandi musicisti jazz dell’epoca, si ricordano in questi nuovi anni a L.A. alcune vere e proprie sfide tra tenoristi, chiamate tenor battles, in particolare con il sassofonista Wardell Gray. Per corsi e ricorsi storici quanto artistici nella grande propulsione creativa americana del tempo, la vicenda viene citata anche nel famoso romanzo-simbolo della beat generation On the Road di Kerouac.

Negli anni ’50 Dexter dovette però affrontare il periodo più buio probabilmente di tutta la sua esistenza, a causa dei suoi sempre più importanti problemi di tossicodipendenza da eroina, conosciuti purtroppo in quel tempo, com’è noto, da una grossa fetta di eroi del bop. Nonostante alcune, poche, session a suo nome e qualche apparizione da sideman, si può dire che Dexter Gordon passò un intero decennio dentro e fuori dalle prigioni. Venne scarcerato definitivamente nel 1959.

La rinascita avvenne nei primi anni ’60, quando firmò per la Blue Note e registrò 4 album strepitosi: “Doin’ Allright”, “Dexter Calling…”, “Go!”, e “A Swingin’ Affair”, gli ultimi due fuoriusciti da due giorni di sessioni con il quartetto stabile formato da Sonny Clark al pianoforte, Butch Warren al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.

Ma la vita dei musicisti jazz non poteva prescindere, in quel tempo, dalla fascinazione per gli altri continenti. In Oriente ad esempio -in Giappone specialmente- i musicisti di jazz erano visti come dei veri e propri eroi, come ben dimostrano gli aneddoti, tra i tanti, dei primi tour nipponici compiuti dai Jazz Messengers di Art Blakey.

Similmente accadeva in Europa, specialmente in alcune capitali: Parigi, Oslo, Copenhagen su tutte. È proprio nella celebre città danese che Dexter decise di trasferirsi. Per tutti i 14 anni successivi visse tra Copenhagen e Parigi, contribuendo a quell’ondata di noti jazz players che, trovando riscontro e grande interesse da parte del pubblico europeo, decisero di stabilirsi nel vecchio continente o di passarvi lunghi periodi.

Per uno strano gioco del destino, quando venne chiamato ad interpretare il protagonista nel film Round Midnight di Tavernier, oltre ad omaggiare la vita di Bud Powell e Lester Young, a mio avviso Dexter si ritrova ad interpretare anche un po’ sé stesso.

Negli anni europei, oltre a registrare -per la Blue Note prima e per la Prestige poi- con noti musicisti jazz americani come Kenny Drew, Bobby Hutcherson, Freddie Hubbard e altri, Dexter si ritrovò a suonare con giovani musicisti della scena europea come il contrabbassista francese Pierre Michelot e il danese Niels-Henning Ørsted Pedersen (che ricordiamo anche in uno degli ultimi trii di Oscar Peterson).

Nel 1976 fece ritorno negli Stati Uniti. Registrò alcuni splendidi album per la Columbia e ricevette, da musicista ormai all’apice del successo, alcuni importantissimi riconoscimenti: musicista dell’anno per la rivista DownBeat nel 1978 e nel 1980, anno in cui venne inserito nella Jazz Hall of Fame.

Nel 1987 si ritrovò protagonista del già citato splendido film di Bertrand Tavernier, uscito in Italia con il titolo “A mezzanotte circa”, ruolo che gli valse numerosi importanti premi, rientrando addirittura tra i possibili vincitori dell’Oscar come miglior protagonista. La prestigiosa statuetta la ricevette Herbie Hancock per la miglior colonna sonora, magistralmente incisa anche, però, dal suo sax tenore.

Morì nel 1990 all’età di 67 anni per un cancro alla laringe che gli causò un’insufficienza renale, probabilmente dovuto al fumo. Quel fumo di sigaretta imprescindibilmente legato alla sua figura, che ben ricordiamo in una delle foto più iconiche della storia del jazz, scattata da Herman Leonard al Royal Roost nel 1948.

Danilo Blaiotta

Wayne Shorter: quando si dimentica il personale per mettersi al servizio della musica

Come ricordare degnamente Wayne Shorter? Più che intervenire personalmente, ho creduto fosse opportuno rivolgermi ad un grande artista che ben conosce la musica di Wayne, uno dei più grandi sassofonisti europei della cui amicizia mi onoro oramai da qualche decennio: Maurizio Giammarco
G.G.

Accolgo con piacere l’invito dell’amico Gerlando a dire due cose su Wayne Shorter, una figura che è stata per me fondamentale sotto ogni aspetto.
M.G.

*****

Con la dipartita di Wayne Shorter se n’è andato uno degli ultimi, grandi protagonisti del Jazz “storico”: parlo di quei musicisti che seppure nati prima della seconda guerra mondiale sono stati comunque a diretto contatto con i maestri del Jazz di ogni epoca. Ne sono rimasti in vita ancora pochissimi.

Ma Wayne è stato più di un protagonista “importante” della storia del Jazz, direi piuttosto un protagonista “speciale”. Perché al di là delle sue universalmente riconosciute doti musicali Wayne è stato (o forse sarebbe meglio dire “è” ancora) una grande anima e un grande spirito. E i grandi spiriti, per nostra fortuna, rimangono. E’ in fondo questa la principale caratteristica che rende alcune figure immortali. Pensiamo ad Armstrong, Ellington o Coltrane… sono forse le loro specifiche note che ricordiamo (ben inteso… ci ricordiamo anche quelle) o non è piuttosto lo spirito che le ha ispirate e rese vitali (e continua ancora a farlo)? La statura dei musicisti citati (solo a titolo esemplare) è infatti addirittura cresciuta nel tempo, e sono sicuro che la stessa sorte toccherà anche a Shorter.

Non a caso Shorter è stato da subito talmente bravo che non ha dovuto faticare per trovare lavoro. E’ stato il lavoro a trovare lui. Una roba da far crepare d’invidia qualsiasi musicista. Ha infatti passato la prima metà della sua carriera da gregario. Un gregario di lusso, ben inteso. Dopo un periodo di tirocinio in fondo piuttosto breve entrò nei Jazz Messenger di Art Blakey (1959-64), diventandone subito direttore musicale e scrivendo per questo gruppo un notevole numero di brani. Dal ’64 al ’69 è con Miles Davis, nel quintetto di Jazz forse più importante della seconda metà degli anni sessanta, e i brani che porta al gruppo segnano un ulteriore sviluppo del suo stile compositivo. Partecipa alla “svolta elettrica” ma anche “free oriented” del suo leader. Dopo una breve pausa fonda i Weather Report con Zawinul e Vitous, un gruppo che ha monopolizzato le sue energie dal 1972 al 1985. L’ultimo gruppo di Jazz che è riuscito a riempire i Palasport, come successe in un memorabile concerto a Roma che non dimenticherò mai. Pur avendo registrato dischi a suo nome fin dal 1958 è solo con la chiusura dei Weather che Shorter, cinquantenne, intraprende una carriera concertistica in proprio. Nella seconda metà degli anni Ottanta escono i suoi dischi per la Columbia, che documentano un’ulteriore svolta estetica (in cui le nuove sonorità, anche elettriche, della musica jazz-rock-fusion sono dirette con un approccio registico di natura colto-classica), e infine la conclusione col suo fantastico quartetto degli ultimi anni, coronazione finale, sintesi suprema di tutto il suo passato estetico-musicale, insieme ad alcuni lavori per grande organico. Ma andare nel dettaglio ci porterebbe ora troppo lontano: troppo ci sarebbe da dire.

Al pari di tutti i musicisti della mia generazione, abbiamo seguito in tempo reale tutti gli sviluppi della musica di Shorter, e per tutti noi è stata una lezione continua. Il suo stile sassofonistico è stato semplicemente inimitabile, anche perché basato fondamentalmente sulle soluzioni super-sorprendenti della sua mente compositiva (nel suo caso più che mai va sostituito il termine improvvisazione con quello di composizione estemporanea). L’unica lezione che puoi trarre dallo stile sassofonistico di Shorter è: impara tutto e lavora d’ingegno (…se ce l’hai…) e suona quello che meno ci si aspetta! Punto.

Un discorso diverso riguarda l’aspetto compositivo. Studiare, capire, imparare, fagocitare e digerire la musica di Shorter è semplicemente indispensabile per chiunque voglia approfondire seriamente il Jazz composto, o concepito o realizzato, nel secondo dopoguerra. Le sue composizioni hanno esplorato ogni aspetto strutturale e ogni paradigma formale del possibile mantenendo al contempo un’impronta stilistica inconfondibile. Un’impronta basata su alcune costanti fondamentali: melodie semplici (cantabili) spesso di matrice pentatonica (il blues) e generalmente prive dei classici stilemi sincopati del be-bop; stesse note melodiche che cambiano prospettiva rispetto all’armonia che cambia sotto di esse: tessuti armonici di essenza modale che si muovono per gradi spesso cromatici o congiunti in modo originale sfruttando le cadenze classiche solo al momento opportuno e il minimo indispensabile; uso del ritmo come fattore jolly sia nella composizione delle melodie che nell’invenzione di riff (l’Africa che ogni tanto fa capolino).

Questa (semplice?) miscela ha prodotto melodie indimenticabili, venate da un perenne senso di nostalgia e da tinte di un’essenza di blues distillata e sublimata all’estremo (come aveva cominciato a fare già Ellington).

Da temi diventati classici a esperienze free Shorter ha esplorato di tutto, in una evoluzione continua anti-manieristica che ha ereditato, o più probabilmente semplicemente condiviso, con Miles.

Per chi come me, ma come tanti altri specialmente europei, la composizione ha rappresentato un mezzo fondamentale per trovare una propria dimensione musicale, la lezione di Shorter è stata di influenza assolutamente primaria.

Ma c’è un aspetto che mi preme ora sottolineare. Dal periodo dei Weather in poi Wayne è stato molto poco interessato a produrre dei veri e propri assolo secondo i parametri convenzionali del mainstream. E’ stato viceversa interessato a una musica collettiva (una caratteristica che era del Jazz dei nonni), in cui i contributi individuali emergono solo se ritenuti necessari alla musica che si sta collettivamente costruendo. Ecco allora che due semplici note di Shorter, messe al punto giusto e con l’intenzione e il suono giusto, valgono come e forse di più di un intero solo. Gesti sonori di uno spirito che cerca di emergere nel frastuono assordante di un mondo mediatico gestito da mezzi di distrazione di massa, un frastuono che rende questo momento storico una barzelletta di pessimo gusto. Un frastuono che ritiene la notizia della scomparsa di una grande anima come la sua non così importante per il telegiornale che ho appena finito di vedere qualche attimo fa.

E’ dunque paradossale che la statura di un musicista cresca ancora di più nel momento in cui questo musicista cerca di trovare la sua vera dimensione nel tutto. Nel momento in cui, in vera e propria pratica, dimentica il personale per mettersi al servizio della musica e basta. Ora Wayne si è definitivamente ricongiunto al tutto, un momento in cui la sua pratica spirituale buddista lo aveva probabilmente ben preparato. E anche in questo abbiamo tutto da imparare.

Maurizio Giammarco

Presente e futuro nel Roma Jazz Festival

Sono solo quattro i concerti che ho potuto seguire nel corso dell’annuale Roma Jazz Festival, ma se il livello di tutte le manifestazioni è paragonabile a quello dei musicisti che ho ascoltato, bisogna dare atto a Ciampà e compagni di aver ancora una volta scelto assai bene gli artisti da presentare al pubblico romano.

Ma procediamo con ordine. C’è voluto molto tempo prima che alla Fusion venisse riconosciuta quella dignità che merita. Una delle band che maggiormente ha contribuito all’affermazione della Fusion è stata Spyro Gyra, esibitasi all’Auditorium Parco della Musica il 12 novembre scorso. Siamo a New York a metà degli anni ’70 quando il sassofonista Jay Beckenstein, assieme al pianista Jeremy Wall, mette su un gruppo che curiosamente chiama Spyro Gyra da una famiglia di alghe, appunto le spirogire, la cui grafia viene cambiata dal gestore del locale dove si esibiscono per la prima volta. Nel 1978 viene inciso Spyro Gyra, ma il successo vero arriva l’anno dopo con Morning Dance che si piazza tra le quaranta migliori vendite di album negli Stati Uniti, con la title-track fra i singoli più venduti sempre negli USA. Da questo momento è tutto un susseguirsi di successi: oltre 10 milioni di album venduti, oltrepassati i 40 anni di attività, più di 30 album all’attivo. Ovviamente nel corso di tutti questi anni il gruppo ha cambiato spesso organico: Beckenstein, classe 1951, è rimasto a guidare il gruppo sino ad oggi condividendo la direzione della band con il pianista Jeremy Wall fino alla fine degli anni ’80. Ciò che è rimasto sostanzialmente invariato è la forza d’urto che questo gruppo sa esprimere sul palco: un cocktail di rhythm & blues, melodie popolari, riferimenti a ritmi caraibici in cui si innestano assolo di chiara impronta jazzistica. Ad interpretare questa formula vincente a Roma è un insieme di grandi musicisti che affiancano il leader ancora in gran spolvero: Tom Schuman, piano, Scott Ambush, basso, Julio Fernandez, chitarra e Lionel Cordew, batteria. Tutti sono apparsi assolutamente all’altezza del compito regalando agli spettatori alcuni momenti davvero spettacolari come un duetto, artisticamente pregevole, tra batteria e contrabbasso, alcuni momenti in cui il leader ha imbracciato contemporaneamente i suoi due strumenti sax alto e flauto, e un brano di chiara ispirazione cubana, De la Luz interpretato con sincera partecipazione dal chitarrista, per l’appunto cubano, Julio Fernandez che è membro di Spyro Gyra dal 1984.

Si inizia un po’ in sordina con Walk The Walk che fa parte del repertorio Spyro Gyra già dai primi anni ’90; la band sembra piuttosto freddina ma già con il secondo pezzo le cose cambiano. Groovin’ for Grover evidenzia un Tom Schuman in gran forma che sfodera un pianismo modale allo stesso tempo toccante e trascinante. Seguono in rapida successione altri brani tratti dai tantissimi album del gruppo: Captain Karma, Shaker Song che ritroviamo addirittura nel primo album inciso dalla band nel 1978, I Believe in You di Tom Schuman tratto da Alternating Currents, ottavo album in studio del gruppo pubblicato nel giugno 1985 e classificato al terzo posto dalla rivista settimanale statunitense Billboard per la categoria Top Jazz Album, il già citato De la Luz, l’originale versione di Tempted By The Fruit Of Another incisa dagli Squeeze nel 1981… Insomma un concerto che è andato in crescendo tra gli appalusi di un pubblico chiaramente appassionato del genere.

Il giorno dopo altro appuntamento straordinario con la Mingus Big Band. Probabilmente a ben ragione la big-band è considerata da molti la quinta essenza del jazz dal momento che ne contiene tutti gli elementi fondamentali: scrittura, arrangiamenti, improvvisazione, senso del collettivo, bravura solistica. Purtroppo in questo periodo è sempre più difficile ascoltare una grande orchestra sia dal vivo sia su disco. È quindi con il massimo interesse che mi sono recato all’Auditorium Parco della Musica per ascoltare una delle orchestre più prestigiose di questi ultimi anni: la Mingus Big Band. Nata nel 1991 per la volontà di Sue Mingus di perpetuare il repertorio del genio di Nogales, celebrandone la musica in tutti i suoi molteplici aspetti,  la band vanta attualmente undici album, di cui sei nominati per i Grammy, e nell’ottobre scorso ha pubblicato The Charles Mingus Centennial Sessions (Jazz Workshop) a 100 anni per l’appunto dalla nascita dell’artista; attualmente consta di quattordici elementi tra cui alcuni dei più grandi musicisti di New York, quali il trombonista Robin Eubanks, i trombettisti Alex Sipiagin e Philip Harper (dal 1986 al 1988 membro degli Art Blakey´s Jazz Messengers ) e Earl Mcintyre trombone basso, tuba, già a fianco dello stesso Mingus. Ben diretta dal contrabbassista russo Boris Kozlov, l’orchestra è in tournée per la prima volta dopo la morte di Sue Mingus a 92 anni nel dicembre scorso, e il successo è clamoroso ovunque si esibisce grazie all’elevato tasso artistico dei singoli musicisti. La loro musica si richiama espressamente allo spirito della musica mingusiana, un viaggio nell’affascinante universo del celebre contrabbassista e compositore. Gli elementi che hanno reso indimenticabile Mingus ci sono tutti: i repentini cambiamenti di ritmo, le melodie alle volte sghembe ma sempre affascinanti, i maestosi collettivi, gli assolo scoppiettanti, il potere trascinante, una miriade di sfaccettature che ben difficilmente si ritrovano in altre composizioni, la tensione che si riesce a trasmettere, l’immediatezza e l’universalità del linguaggio.

Molti i brani celebri in programma: dall’esplosivo Jump Monk, al trascinante Sue’s Changes tratto dallo straordinario “Changes One” inciso nel 1975 da una bellissima formazione comprendente Jack Walrath alla tromba, George Adams al sassofono tenore, Don Pullen al piano e Dannie Richmond alle percussioni. Ma i brani forse più riusciti sono stati So Long Eric e Self-Portrait in Three Colors. Il primo è stato scritto da Mingus per invitare l’amico e collega Eric Dolphy a tornare nella band dopo che questi, a seguito di una fortunata tournée, aveva deciso, nel 1964, di rimanere in Europa; ironia della sorte la sera del 29 giugno dello stesso 1964, a Berlino Ovest durante un concerto Eric ebbe un malore determinato da una grave forma di diabete che lo condusse alla morte. Self-Portrait in Three Colors è uno dei pezzi più classici di Mingus: lo stesso contrabbassista amava descriversi così nell’incipit di Peggio di un Bastardo (la sua autobiografia), uno e trino allo stesso tempo. Insomma, tornando al concerto, una serata memorabile grazie ad una musica straordinaria eseguita da un gruppo di eccellenti musicisti.

Martedì 15 almeno a mio avviso la più bella sorpresa del Festival: il concerto del pianista e compositore azero Isfar Sarabski. Avevo già ascoltato qualche brano dell’artista tratto dall’album Planet del 2021 ma sentirlo all’opera dal vivo è tutt’altra cosa. Ben coadiuvato da Behruz Zeynal al tar (strumento a sei corde simile al liuto che viene suonato con un piccolo plettro d’ottone), Makar Novikov al contrabbasso e Sasha Mashin alla batteria, il pianista si è espresso su altissimi livelli meritandosi i convinti applausi del pubblico. In realtà il concerto non era iniziato nel migliore dei modi: affidato soprattutto alle capacità solistiche di Behruz Zeynal la serata sembrava indirizzata lungo i binari di quel mélange tra jazz e medio-oriente di cui abbiamo già molte testimonianze. Per fortuna dal secondo pezzo le atmosfere sono cambiate e siamo entrati prepotentemente su un terreno assolutamente originale e poco frequentato in cui è difficile distinguere le influenze che fluttuano l’una sull’altra, dall’etno al jazz propriamente detto, dal folk alla musica classica senza trascurare l’elettronica, il tutto in un contesto strutturale ben delimitato. In effetti tutti i pezzi erano costruiti allo stesso modo: una lunga introduzione affidata volta per volta ad un singolo strumento per poi lasciare il campo all’ensemble che per la maggior parte del tempo si è espresso nella formula del trio, senza Zeynal. Ed è così emersa la straordinaria figura del leader. Nato nel 1989 a Baku, in Azerbaijan, Isfar Sarabski si forma presso il Berklee College of Music di Boston, per poi vincere nel 2009 la Solo Piano Competition del Montreux Jazz Festival. Per il piccolo Isfar la musica è un elemento immediatamente familiare: il padre è un grande appassionato di musica, la madre insegna violino mentre il suo bisnonno era Huseyngulu Sarabski, figura leggendaria della musica azera. Evidentemente tutto ciò ha contribuito in maniera determinante a creare un artista assolutamente straordinario che ha voluto condividere con il pubblico romano buona parte del repertorio contenuto nel già citato album Planet; splendida la riproposizione di Clair de lune di Claude Debussy interpretata con rara delicatezza e totale partecipazione.

E veniamo alla serata finale del festival, il 19 scorso, con Steve Coleman alla testa dei suoi Five Elements, vale a dire Jonathan Finlayson alla tromba, Sean Rickman alla batteria, Rich Brown al basso elettrico e il rapper Kokayi con il quale Coleman collabora fin dal 1985. Illustri colleghi hanno scritto meraviglie di questo concerto, e, una tantum consentitemi di dissentire. Intendiamoci: nessuno, tanto meno chi scrive, mette in dubbio le capacità di Coleman che in tutti questi anni ha dato prova di essere un grande artista; nessuno contesta la sua abilità nel rifarsi a musiche dell’Africa occidentale e dell’Asia meridionale; nessuno nega la sua profonda conoscenza della cd. “street culture”. Ma tutto ciò produce un certo tipo di musica che non trova il mio personalissimo interesse: non mi trascina (tutt’altro) la ripetizione per parecchi minuti dello stesso frammento melodico, non mi appassiona la matericità della sua musica, non mi convincono gli interventi del rapper anche perché nel passato ci sono stati esempi ben più probanti di integrazione tra jazzisti e rapper. Assolutamente apprezzabile, viceversa, il richiamo alla tradizione testimoniato dalla citazione di Confirmation, cavallo di battaglia di un certo Charlie Parker. Comunque il pubblico, non numerosissimo, ha gradito e l’esibizione è stata salutata da scroscianti applausi.

Il Festival si è così concluso con un bilancio ancora una volta largamente positivo: oltre 5000 presenze in due settimane di programmazione fra l’Auditorium, la Casa del Jazz e il Monk, con il coinvolgimento di ben 115 artisti provenienti da tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Azerbaigian, dalla Gran Bretagna alla Romania, passando per il Bahrain. “In tante edizioni, raramente ho visto un così grande entusiasmo del pubblico in ogni concerto, sia per gli artisti più famosi che per le novità. – Ha commentato Mario Ciampà, direttore artistico del festival. – Un pubblico trasversale, bambini, giovani e adulti che hanno voglia di buona musica e nuove proposte. Un successo che ci incoraggia a proseguire ulteriormente sulle traiettorie che hanno segnato questa edizione: il dialogo fra musica e innovazione tecnologica, il protagonismo femminile, la programmazione dedicata ai più piccoli e l’equilibrio fra i nomi storici del jazz e gli artisti più in sintonia con il gusto delle nuove generazioni come gli esponenti della nuova scena british, e non solo”

Gerlando Gatto

MUSICA E ZODIACO

Musicisti di diverse epoche e latitudini hanno tratto ispirazione dai segni zodiacali. Se ne può far cenno in relazione a Gustave Holst (“The Planets. Op. 32”, 1914-1916). Ancora più specifico il rimando ad un esponente della generazione dell’Ottanta come Gian Francesco Malipiero, grande estimatore di Vivaldi (“La Sinfonia dello Zodiaco, Quattro partite: dalla primavera all’inverno”, 1951). Nello stesso anno si collocano opere di Ralph Vaughan Williams (“The Sons of Light. II. The Song of Zodiac”) e Philip Sparke (“Zodiac Dances. Six Miniatures Based on Animals from the Japanese Junishi”). Apparirà centrale, a livello di d’avanguardia, il ruolo di Karlheinz Stockausen a cui si deve lo “zodiaco elettrico” di “Tierkreis” (1974-75). Passando ad anni più recenti ecco Franz Reizenstein, (“The Zodiac. Op. 41 III”, 2014), John Tavener (“The Zodiac, 1997), Ivar Lunde Jr.( “Zodiac”, 1999), Akemi Naito (“Months. Spaceship for Zodiac”, 2006), Lars Jergen Olson (“Zodiac, Op. 4 n. 12” 2010) a comprova del fascino esercitato dalla astrologia anche sulla musica odierna.

In ambito neo-folk da segnalare, di David Tibet, l’album HomeAleph datato 2022 “Current 93-If A City Is Set Upon A Hill” per la elettro-cameristica “There Is No Zodiac”. In altro contesto, quello della costellazione rock e pop della canzone “astrologica”, risulta relegata al solo titolo la denominazione dei mitici The Zodiacs che con Maurice Williams sbancarono le classifiche USA nel ’60 con “Stay” (gli Zodiac sono attualmente una band tedesca di hard rock).  Più pertinente il richiamo alla “Zodiac Lady” Roberta Kelly. Il suo successo “Zodiacs” del 1977, con Moroder fra i produttori, è un evergreen della discomusic. E ci sono da segnalare almeno “Aquarius. Let The Sunshine In”, a firma The Fifth Dimension e “No Matter What Sign You Are” interpretata da Diana Ross & The Supremes con i successivi “Goodbye Pisces” di Tori Amos del 2005 e “Gemini” degli Alabama Shakes del 2015.

In Italia titoli e testi si richiamano ai segni astrali in più occasioni. Si pensi al Venditti di “Sotto il segno dei Pesci”, alla “Seconda stella a destra” di Edoardo Bennato in “L’isola che non c’è” o a Giorgia che canta “Di che segno sei” come nell’incipit di “La pioggia della domenica” di Vasco Rossi, peraltro, autore di “Tropico del Cancro”. C’è chi come Juri Camisasca che sentenzia “quanti scorpioni con code contratte e pesci che vanno al contrario … siamo macchine astrologiche” laddove Raffaella Carrà intona Maga Maghella che “dal firmamento prende una stella, un micro oroscopo farà” facendo il paio con l’Alan Sorrenti e i suoi “Figli delle stelle”. Generazioni a confronto: da una parte Michele Bravi in “Zodiaco” “sotto un segno di terra o di fuoco” e Calcutta che si preoccupa perché “sono uscito stasera ma non ho letto l’oroscopo” (il brano è appunto “Oroscopo”) dall’altra Mina in canzone omonima lo interroga per sapere di felicità e amore prossimi venturi. Altra notazione d’obbligo: non si trovano riferimenti nel Peter Van Wood musicista prima della sua conversione all’attività astrologica.

E il jazz? Per lo scrittore Marco Pesatori l’astrologia “è come il jazz, parti da un simbolo e non la smetti più di volare” (cfr. Dario Cresto-Dina, repubblica.it, 18/12/2021). In effetti la materia si presta in quanto aperta, a differenza della scienza astronomica, alla interpretazione. Senza dover disquisire di eventuali ascendenze che incidano sul carattere dei grandi maestri (cfr. al riguardo Aldo Fanchiotti, Sotto il segno dell’arte. Correlazione fra temperamento artistico e segno zodiacale, www.cicap.org)  o  quale dei segni zodiacali sia meglio affiancabile alla musica afroamericana (per Miriam Slozberg il più accreditato sarebbe il Capricorno, cfr. askastrology.com, 14/3/2020), limitiamoci a segnalare, anche attraverso la discografia, alcuni fra i casi di più o meno evidente “congiunzione” fra jazz e astrologia. Fra gli esempi più salienti la pianista Mary Lou Williams, per “Zodiac Suite Revisited” a cura del Mary Lou Williams Collective incisa per la prima volta nel 1945 per la Ash Records, di recente ristampata, che racchiude “una serie di ritratti di amici musicisti distinti per ogni segno zodiacale” (cfr. Thomas Conrad, JazzTimes.com , 25/4/2019). Altro caso illustre il John Coltrane di “The Fifth House” (da Coltrane Jazz, Atlantic, 1971) dove la quinta casa sta per creatività, svago, passatempo, sport, piacere, talento (cfr. The Fift House: The House of Pleasure, The 12 Houses of Astrology, Labyrinthos.com). Eppoi il Barney Wilen di “Zodiac Album Review” prima incisione nel 1966. Ancora jazz stars in “Oroscope” dell’intergalattico Sun Ra e Arkestra e in “Horace Scope” di Horace Silver, album Blue Note nonché lavori di Cannonbal Adderley come Love Sex and Zodiac (Capitol, 1970) Fra gli italiani spicca il vinile “Carnet Turistico” di Amedeo Tommasi con H. Caiage (Gerardo Iacoucci) edito da Four Flies Records, serie Deneb, nel 1970.  A seguire si è stilata, a mò di divertissement, una possibile non esaustiva Playlist basata non sulle date di nascita e su conseguenti ascendenze e/o predisposizioni bensì sui possibili contenuti o semplici riferimenti musicali e/o testuali.

  1. ARIETE
    Aries , Freddie Hubbard, in “The Body & The Soul”, 1964.
  2. TORO.
    Taurus in The Arena of Life, Charles Mingus, in “Let My Children Hear Music”, Columbia, 1973.
  3. GEMELLI
    Gemini, Erroll Garner, in “Gemini”, London Records, 1972.
  4. CANCRO
    Cancer influence . Stephane Grappelli ( in “ Stephane Grappelli ’80”, Blue Sound, 1980).
  5. LEONE
    Leo. John Coltrane, in “ John Coltrane.  Jupiter Variation”,  Record Bazaar, 1979.
  6. VERGINE
    Virgo.  Wayne Shorter, in “Night Dreamer”, Blue Note, 1964.
  7. BILANCIA
    Libra * – Gary Bartz, in “Libra/Another Earth”, Milestone, 1998.
  8. SCORPIONE
    Scorpio. Mary Lou Williams, in “Zodiac Suite”, Asch, 1945.
  9. SAGITTARIO
    Sagittarius, Cannonball Adderley, “Cannonball in Europe!”, Riverside, 1962
  10. CAPRICORNO
    Capricorn Rising *, Don Pullen-Sam Rivers, in “Capricorn Rising”,  Black Saint, 1975
    Capricorn, Wayne Shorter in “Super Nova”, Blue Note, 1969.
  11. ACQUARIO
    Aquarian Moon, Bobby Hutcherson, in “Happening”, Blue Note, 1967. ///
    Aquarius, J.J. Johnson, in “J.J. Johnson Sextet”, CBS/Sony, 1970.
  12. PESCI
    Pisces * (Lee Morgan) Art Blakey & The Jazz Messenger, Blue Note, 1969.

 

Curiosa la circostanza che molti sassofonisti – Parker, Coltrane, Rollins, Shorter, Pepper, Liebman, Brandford Marsalis – siano della Vergine anche se altri maestri come Garbarek e Coleman sono dei Pesci. Ma forse l’argomento più interessante sono biografie e birth chart. Per esempio la vita di Al Jarrow riletta attraverso coordinate specifiche del ramo da Mario Costantini su astrologia classica.it.  Ma se ne trovano di Coltrane e Sakamoto, Fripp e Sylvian così come di Mahler, Mozart, Beethoven …. Ha osservato Alessandro D’Angelo in L’astrologia e la critica d’arte (sites.google.com) “la musica individua sette note in una scala tonale, l’astrologia i sette pianeti nel sistema astrologico tolemaico. Assonanze e dissonanze sono presenti in entrambe le discipline: nella musica si presentano accordi cioè una simultaneità di suoni aventi un’altezza definita: analogamente nell’astrologia sono presenti come aspetti celesti”. Semplici coincidenze? O affinità elettive nel sistema astrojazzistico? Dal suo pulpito Goethe, in linea con Keplero,  ha scritto negli “Scritti orfici” che “nessun tempo e nessuna forza / può spezzare la forma già coniata che vivendo si evolve”.

Nota sitografica: gli audio contrassegnati con * sono ascoltabili su Josh Jackson, Zodiac Killers Star Signs In Jazz, npr.org, 21/7/2009 ; la musica di “Virgo” di Shorter è postata su Jazz hard…ente & Great Black Music. Il jazz e lo zodiaco, riccardofacchi.wordpress.com, 21/%/2020. “Horace Scope” è ascoltabile su raggywaltz.com mentre gli incipit delle tracce digitali della Suite della Williams sono sul catalogo Smithsonian Folkways Recordings. Per l’ascolto di autori contemporanei citati a margine si rinvia a Maureen Buja, interlude.hk/zodiac, 10/4/2018.

 

Amedeo Furfaro

Per Brass in Jazz un altro progetto inedito al profumo di Flamenco

Molti i concerti al femminile nel programma della stagione concertistica Brass in Jazz

Per il secondo appuntamento della stagione concertistica Brass in Jazz, il Reale Teatro Santa Cecilia si tingerà con i suoni del flamenco grazie ad un altro progetto inedito proposto dal Brass Group con la presidenza del Maestro Ignazio Garsia e la direzione artistica di Luca Luzzu. Ad abbellire questo fine settimana la città con la musica che risale alle culture moresche dell’Andalusia, sarà un concerto unico in assoluto. Per la prima volta l’Orchestra Jazz Siciliana sarà diretta dal grande Maestro Bernard van Rossum, vincitore di Awards internazionali e Contests.  Gli elementi del flamenco verranno ridefiniti attraverso l’orchestrazione colorata e la gamma dinamica della Big Band, una simbiosi in cui le armonie e i ritmi del flamenco forniscono un nuovo contesto per l’improvvisazione. Appuntamento quindi con il concerto BVR Flamenco Project in Luz de Luna venerdì 11 e sabato 12 novembre, con doppio turno alle 19.00 e alle 21.30.

Questo progetto riunisce la voce di Bernard come compositore, arrangiatore e musicista. Sassofonista, compositore, arrangiatore e insegnante, Bernard van Rossum inoltre riflette nella sua musica la multiculturalità del proprio vissuto poiché è nato e cresciuto in Spagna da madre inglese e padre olandese, ha trascorso l’adolescenza ascoltando rock e suonando la batteria, ha conseguito la laurea in Biologia all’università di Edinburgo; quindi, si è innamorato del sassofono e del jazz, approfondendone lo studio nei conservatori di Barcellona, di Denton nel Texas e di Amsterdam. Fautore di una originale ed eccitante miscela sonora che rilegge la tradizione andalusa del flamenco secondo le strutture e i modi improvvisativi del jazz, Rossum in questi anni ha ottenuto grande successo alla testa della sua “BvR Flamenco Big Band”, formazione con cui ha pubblicato tre album acclamati dalla critica internazionale. La sua direzione vanta anche alcuni dei migliori artisti di flamenco del mondo, tra cui Paco de Lucia associati Carles Benavent, Antonio Serrano, David de Jacoba e ballerini di flamenco come Karen Lugo, Cristina Hall e Irene Alvarez. Spettacoli recenti includono Festival Internacional de Jazz di San Javier, Biennale di Flamenco, Bimhuis, Amersfoort Jazz, Festival Internacional de Jazz de Alicante, Jazz in Duketown e Xabia Jazz, tra gli altri. Per il suo lavoro con la Big Band, van Rossum ha recentemente vinto il “Rogier van Otterloo award 2022″, “Concurso de arreglos de big band SGAE 2022” e il “Canarias Big Band Composition Contest 2021”.

Una scelta importante quella del Brass che anche quest’anno ha voluto raddoppiare i concerti in programma nella stagione. L’aumento delle repliche dei concerti deriva da uno specifico bisogno culturale a cui la Fondazione risponde con un calendario ricco di artisti internazionali, produzioni orchestrali e prime assolute. Tanti i nomi del mondo jazz inseriti per la nuova stagione concertistica del Brass.

Tra gli artisti che scorrono nel cartellone del Brass in Jazz la prima mondiale con il concerto di Benny Green in Master of Piano feat. Vito Giordano. Benny Green possiede la storia del Jazz a portata di mano. Combina la padronanza della tecnica della tastiera con decenni di esperienza nel mondo reale suonando con i più celebri artisti dell’ultimo mezzo secolo, e non c’è da stupirsi che sia stato salutato come il pianista hard-bop più eccitante di sempre come emerge da Jazz Messengers di Art Blakey.

All’interno del programma ci sono anche tante figure femminili come la bellissima Janusett Mcpherson con il concerto Deezer . La cantante, pianista, arrangiatrice e cantautrice cubana,  dopo una brillante carriera a Cuba dove ha vinto l’equivalente di una Victoire de la Musique (Premio Adolfo Guzman) e ha moltiplicato prestigiose collaborazioni (Orquestra Anacaona, Omara Portuondo & Buena Vista Social Club, Alain Perez, Manolito Simonet, Tata Guines, Miles Peña ecc), si stabilì nel sud della Francia. Notata da Yves Chamberland nel 2011 (produttore di Nina Simone, Henri Salvador, Michel Petrucciani, Richard Galliano…), ha registrato il suo primo album in Francia con alcuni illustri ospiti (Didier Lockwood, Andy Narell, Michel Alibo, Thierry Fanfant, Olivier Louvel, etc…), e arrangiamenti firmati da Nicolas Folmer (Paris Jazz Big Band) e Bernard Arcadio (Henri Salvador)).

Altro concerto in rosa è rappresentato da Lucy Garsia, che con le sue altissime qualità canore, di recente ha riscontrato enorme successo sia al Teatro Massimo che nel concerto delle Ladie, si esibirà in Tribute to Sarah Vaughan con l’OJS diretta dal Maestro Domenico Riina.

Altro concerto al femminile è quello della straordinaria Bianca Gismondi in Maracatù. In duetto saranno invece Cande y Paulo con lo spettacolo The Voice of the Double Bass.

Un progetto in esclusiva nazionale e prima assoluta è anche quello che verrà messo in scena con un noto martista siciliano, Mario Incudine che si esibirà con l’Orchestra Jazz Siciliana diretta dal Maestro Domenico Riina in Serenate d’Amuri mentre l’esibizione dell’artista Ola Onabulè sarà diretta dal Maestro Antonino Pedone.

E lo spettacolo Hollywood Movies avrà la direzione del Maestro Vito Giordano. Una stagione quella del Brass Group per un audience ampia e con target diversificato, per gli amanti del jazz e della bella musica.

Info: https://www.brassgroup.it/