OPEN PAPYRUS JAZZ FESTIVAL edizione 38, la seconda giornata

VENERDI’ 23 MARZO, SECONDA GIORNATA

La seconda giornata di Open Papyrus Jazz Festival è tradizionalmente quella più corposa e ricca di eventi, che anche quest’anno si sono svolti nella Sala Santa Marta, per la prima parte, e poi al Teatro Giacosa.

Già molta gente in Sala per la presentazione del libro Il Michelone, Nuovo dizionario del jazz. 1200 dischi jazz in 100 anni di Guido Michelone. Le recensioni dell’autore di 1200 dischi di Jazz usciti in 100 anni, che diventa un nuovo dizionario del Jazz. Il pubblico non si è sottratto al fitto dibattito che ne è conseguito.

Alle 19, dopo l’ Aperitivo – Degustazione Consorzio Vini Canavese comincia il concerto di Oba Mundo Project.

 ************************************

Per mia scelta i commenti sui concerti saranno, per tutte e tre le serate, divisi in due parti, delle quali la seconda è intitolata ” L’impatto su chi vi scrive” ed è il mio commento personalissimo e dichiaratamente non ammantato di alcuna pretesa obiettività. A prescindere dalla competenza, la musica impatta diversamente a seconda della personalità, della formazione, dei gusti di ognuno.

Foto di Carlo Mogavero

Sala Santa Marta, ore 19
Oba Mundo Project
Loris Deval: chitarra classica
Anais Drago: violino
Viden Spassov: contrabbasso
Gilson Silveirapercussioni

Quattro musicisti ineccepibilmente bravi, un progetto nuovo non nell’intento (non è certo la prima volta né sarà l’ultima che si decide di reinterpretare temi famosi da film), ma nuovo nella resa. La presenza di Gilson Silveira indica già che i brani passano per una rilettura in termini ritmici ma anche timbrici e armonici “latin” (ma non manca l’Ucraina e la musica balcanica).
Non è certo un latin da cartolina: suonano benissimo questi tre ragazzi.
Gilson Silveira non è un ragazzo e quasi li tiene a battesimo, lui che è un poeta delle percussioni.
Suonano benissimo, gli Oba Mundo, con la cura di chi la musica l’ha non solo studiata ma  fatta propria e metabolizzata, e di chi il proprio strumento lo padroneggia tecnicamente in maniera perfetta e si può dunque permettere di farne praticamente tutto. Gli assoli della Drago sono ineccepibili e straripanti di energia, il contrabbasso di Spassov è intenso, granitico, offre continui spunti al quartetto non limitandosi all’ accompagnare, la chitarra di Deval è cangiante, i suoi fraseggi connotati da una inesauribile vena creativa. Silveira è una fonte continua di suoni, battiti messi in relazione tra loro con maestria.
I brani abbracciano una bella fetta della storia del grande cinema (da La vita è bella, all’ Orfeo Negro, a Mediterraneo).
La parte tematica è lo spunto per dare il via alla bravura indiscutibile di un quartetto di musicisti fantasiosi e preparati. Le dinamiche sono raffinate, l’interplay impeccabile e la verve improvvisativa notevolissima. Non capita spesso di poter ascoltare ad un festival giovani artisti talentuosi, che cominciano a farsi conoscere al di là delle loro realtà locale. Non capita nemmeno spesso di vedere un musicista affermato mescolarsi così beneficamente e generosamente a musicisti nuovi e dar loro appoggio, fantasia, che sottolineino il loro innegabile estro.


L’impatto su chi vi scrive

Un concerto scoppiettante, pieno di energia, divertente, costruito su musiche molto amate e giustamente molto applaudito.
Il limite del progetto l’ho trovato un po’ nell’applicare, a prescindere, una veste predeterminata  a temi molto diversi tra loro. La Canzone di Geppetto dal film televisivo di Comencini, per fare un esempio, mi è apparsa un po’ più travisata che riletta, mentre se ne sarebbe potuto fare un lavoro bellissimo di interpretazione interiore anche estrema, volendo. I temi vengono utilizzati essenzialmente come mero spunto per le evoluzioni virtuosistiche che seguono. Tra i due estremi della cover e del tema usa e getta preso solo per la sua struttura e poi  ingabbiato in una veste jazzistica preformata ed infilata a qualsiasi costo, c’è tutto un mondo espressivo che può essere infinitamente fecondo. Non a caso, una volta dimenticatami del suddetto tema, ho molto apprezzato le improvvisazioni e le belle introduzioni, che ne erano completamente avulse.
I ragazzi sono più che pronti, io credo, a scrivere e, se lo stanno già facendo, promuovere musica propria,  o a interpretare quella preesistente evitando di decidere “a tavolino” in che modo interpretarla. Lasciandosi andare piuttosto al loro flusso creativo interiore, che è lì che si affaccia prepotentemente e si percepisce vedendoli ed ascoltandoli suonare. Che queste considerazioni li incoraggino perché sono davvero molto bravi.

*****************************************

Teatro Giacosa, ore 21:30

Helga Plankensteiner and Plankton

 

Helga Plankensteiner: baritone sax, clarinet, voice
Michael Lösch: hammond organ, piano
Enrico Terragnoli: guitar, banjo

Il primo dei concerti al Teatro Giacosa è anche il più interessante e stralunato di tutto il festival, in linea con il tema “Elogio della Follia” voluto dal direttore artistico Massimo Barbiero. Un sestetto dalla poderosa sezione fiati, ma anche con una sezione ritmica in grado di  cambiare registro con disinvoltura e di certo non in maniera didascalica. Helga Plankensteiner ne è la leader, e l’ideatrice, dalla personalità dirompente: eclettica suonatrice di sax baritono, clarinetto e corde vocali, suona per un’ora ed oltre musica originale, in tutti i sensi, intrecciando generi musicali in maniera così creativa che ogni genere viene trasfigurato anche quando sembrerebbe essere replicato fedelmente. Il batterio della creatività si impadronisce del Blues, o dello Swing, o di qualsiasi altra suggestione, modificandoli quasi geneticamente.
Questo è possibile con improvvisi cambi di rotta, di dinamiche, ma anche con una attento studio delle timbriche, appaiando le voci in maniera sempre diversa e quasi sempre a contrasto- il sax baritono con l’hammond, i fiati con il banjo, la voce con la tromba. Ma anche alternando unisoni possenti a improvvisi assottigliamenti che precedono la deflagrazione totale di tutto il sestetto. Matthias Schriefl e Gerhard Gschlössl alle trombe e al trombone sono il controcoro e l’alter ego imprescindibile della Plankensteiner. Enrico Terragnoli è infaticabile e prezioso con i suoi Banjo che ammorbidiscono e armonizzano le digressioni dei fiati. Nelide Bandello lavora come uno strumento armonico oltre che come generatore di battiti. Michael Lösch con l’hammond o con il pianoforte delinea e asseconda l’atmosfera dei brani introducendo anche una bella dose di rigore che, dato il clima sul palco, rende ancora più bizzarro il risultato finale.









L’impatto su chi vi scrive

E’ quel concerto che in un Festival, in mezzo ad altre proposte, mi aspetterei sempre di vedere: nomi meno di richiamo e un palcoscenico che permetta loro di farsi conoscere un po’ di più.
Musica divertente, diversa da quella che si incontra nei circuiti soliti, eppure con un livello di complessità notevole. Giocosa, circense, teatrale, stramba, intensa, energica, totalmente originale, con ampi stralci di improvvisazione che non si limita però ad assoli che si alternano ordinatamente, ma che esplode in momenti anche collettivi imponenti, di cui l’impatto è notevole. Ma anche apprezzabili “cornici” di musica scritta che contrasta mirabilmente con le parti più libere. Un concerto curioso e attraente.

**************************************

Teatro Giacosa, ore 22:30
Enrico Rava New 4ET

Enrico Rava: flicorno
Francesco Ponticelli: contrabbasso
Enrico Morello: batteria

Il concerto di Enrico Rava in quartetto è l’evento del Festival, il nome celebre capace di attrarre anche il pubblico meno avvezzo al Jazz. Ed Enrico Rava non delude nemmeno stavolta.
Solo brani originali: “Inutile che ve li annunci, sono tutti brani originali”, dice lui stesso.
Brani originali, e il timbro inconfondibile del flicorno di Rava, i suoi fraseggi essenziali (in quanto a “numero di note” usate) e anche in virtù di ciò ricchi per intensità, dinamiche, efficacia espressiva. Con il suo trio Rava  si mette continuamente in gioco: dialoga moltissimo con Diodati, quasi un alter-ego elettrico, lascia molto spazio a chitarra, contrabbasso, batteria lasciando che si apra una finestra su un gruppo di per sé notevolmente interessante: un concerto nel concerto, in pratica. La batteria di Morello passa agevolmente dal soffio alla potenza massima,  sempre modulata da un controllo totale che ne rende intellegibile ogni istante di ogni successione ritmica, anche la più ardita. Il contrabbasso di Ponticelli è in continua proficua interazione ritmico – armonica con chitarra e batteria. Diodati è un chitarrista dalla personalità musicale ben spiccata, che padroneggia il suo strumento non smettendo mai di sperimentare.










L’impatto su chi vi scrive

Non si può che dire bene di un concerto come questo. Mai nulla di musicalmente scontato. Un musicista pressoché leggendario, che da sempre continua a rimettersi in gioco con musicisti nuovi – giovani – o semplicemente diversi da altri con cui ha interagito in precedenza. Il suo carisma e la sua personalità artistica ne escono sempre rafforzati. Il tre giovani artisti sul palco con lui sono tre talenti del Jazz oramai giustamente affermati,con un loro linguaggio ben riconoscibile e una creatività in continuo divenire. Il dialogo tra i quattro è fitto, è un dialogo tra pari.
In alcuni momenti ho personalmente percepito un certo sbilanciamento tra quella sintesi (intensa) di Rava di cui parlavo sopra, spesso incentrata sul suono in sé,  e la musicalità traboccante di note e battiti del trio con lui sul palco. Quasi certamente questa dualità è cercata e voluta,  e sono consapevole dunque che il contrasto che io sento in alcuni casi come sporadico squilibrio potrebbe per altri rappresentare il valore aggiunto del progetto.

                                                                                                                                                           *****************************************

La nottata è andata avanti fino a notte inoltrata al Caffè del Teatro con i bravi, giovani  e infaticabili The Essence 4tet ( Sara Kari: sax, Emanuele Sartoris: pianoforte, Antonio Stizzoli: batteria e Dario Scopesi: contrabbasso) che hanno animato la nottata con il loro Jazz vitale ed energico

Sara Jane Ghiotti Group @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Sara Jane Ghiotti Group @ Zingarò Jazz Club, Faenza

Sara Jane Ghiotti Group
(apertura Fiato al Brasile 2018)
Sara Jane Ghiotti. voce
Andrea Taravelli. basso
Simone Migani. pianoforte
Pasquale Montuori. batteria

Mercoledì 7 febbraio 2018. ore 22
ingresso libero

Zingarò Jazz Club
Faenza. Via Campidori, 11
social: www.twitter.com/zingarojazzclub ; www.facebook.com/zingaro.jazzclub

La stagione dello Zingarò Jazz Club di Faenza prosegue, mercoledì 7 febbraio 2018, con il Sara Jane Ghiotti Group, composto da Sara Jane Ghiotti alla voce, Andrea Taravelli al basso, Simone Migani al pianoforte e Pasquale Montuori alla batteria. Il concerto fa parte anche del cartellone di Fiato al Brasile 2018. La serata è ad ingresso libero con inizio alle 22.

Sara Jane Ghiotti affronta in questo sua nuova formazione la musica di tre grandi compositori – Edu Lobo, Milton Nascimento e Guinga – per un vero viaggio nella Musica Popolare Brasiliana, dallo Choro, alla Bossa Nova e al Samba. Ne risulta un suono jazzistico che non snatura l’anima popolare del progetto e ne rivela la chiave della contaminazione, vero cuore vibrante di questa musica.

La cultura musicale del Brasile è il risultato di un melting pot stratificato nel corso dei secoli: una terra che ospita un popolo variegato trova altrettante sfumature nella sua musica. Gli arrangiamenti dei brani, interamente curati da Sara Jane Ghiotti, riflettono in modo naturale questa varietà di stili e accenti espressivi.

Il concerto del Sara Jane Ghiotti Group fa parte anche del cartellone di Fiato al Brasile 2018, il festival dedicato alla musica e alla cultura del Brasile, fortemente voluto dalla Scuola di Musica Sarti di Faenza. Anche quest’anno, inoltre, la rassegna si concluderà allo Zingarò Jazz Club con il Concerto Finale in programma lunedì 12 febbraio 2018.

Mercoledì 14 febbraio 2018, la stagione dello Zingarò Jazz Club prosegue con “Schubert In Love” il nuovo progetto di Plankton, la formazione guidata dalla sassofonista Helga Plankensteiner. Il progetto è sovvenzionato dalla Provincia Autonoma di Bolzano. Plankton è un sestetto composto da Helga Plankensteiner al sax baritono e alla voce, Matthias Schriefl alla tromba, Gerhard Gschlössl al trombone, Michael Lösch all’organo Hammond e al pianoforte, Enrico Terragnoli alla chitarra e al banjo e Nelide Bandello alla batteria.

Lo Zingarò Jazz Club è a Faenza in Via Campidori, 11.

Pino Minafra e la banda di Ruvo di Puglia al Teatro “La Seine Musicale” di Parigi

Vorrei iniziare questo 2018 condividendo con i lettori di “A proposito di jazz” una bellissima notizia: la banda di Ruvo di Puglia diretta da Pino Minafra insieme al figlio Livio e (nella parte classica e tradizionale) a Michele Di Puppo, suonerà domenica prossima – 14 gennaio – in quel di Parigi, al Teatro “La Seine Musicale”, per concludere la rassegna “Ilot la France et l’Italie”.

Più volte, in questo stesso spazio, ho avuto modo di sottolineare l’importanza della bande di paese, non solo come fucina di nuovi talenti, ma anche – e forse soprattutto – come elemento di conservazione dell’identità di una comunità, di un luogo… per non parlare di quanto le bande siano state importanti per la nascita e lo sviluppo del jazz.  In questo ambito oramai da molti anni un ruolo di primissimo piano è ricoperto dal musicista pugliese Pino Minafra che ha cercato in ogni modo di portare all’attenzione degli appassionati e delle pubbliche autorità l’importanza della banda. Di qui il progetto “La Banda” che nasce nel 1993 proprio per cercare di salvare dall’oblio una grande tradizione musicale tipica del Sud Italia che ha prodotto un suono originale e unico al mondo. L’intento del compositore e trombettista ruvese è stato da un canto quello di documentare su supporto sonoro la tradizione musicale classica della banda – arie d’opera, marce sinfoniche e musiche della settimana santa – dall’altro quello di proiettare la banda nel suono contemporaneo, facendola confrontare con i linguaggi musicali più innovativi grazie alla presenza di compositori e solisti di valore internazionale. Il percorso trasversale fra “Tradizione e Innovazione”  fatto dalla Banda di Ruvo di Puglia, ospite dei più importanti festival europei di jazz, musica classica e contemporanea – Londra (Queen Elisabeth Hall), Parigi, Donaueschingen, Monaco di Baviera, Saalfelden, Graz, Les Mans, Lille, Huddersfield, Kendal, Brighton, Basingstoke, Munster, Berlino e altri – ha pienamente dimostrato l’attualità e la freschezza di questo suono caldo, vivo e generoso, ancora tutto da esplorare oltre che proteggere.

Nel 2012, un grandissimo musicista e compositore come David Byrne, fondatore dello storico gruppo Talkin’ Heads, dichiarò di essere stato ispirato, per la realizzazione del disco Love This Giant con la cantante St. Vincent, proprio dal suono della banda, e in particolare dall’ascolto di un disco di «una banda che suonava su una facciata musica operistica e sull’altra jazz e musica di Nino Rota», verosimilmente corrispondente alla Banda di Ruvo di Puglia diretta da Pino Minafra e al doppio “Traditional Italian Banda / Banda And Jazz” (Enja, 1997). Insomma un’iniziativa meritevole e non a caso l’Unesco ha riconosciuto il fenomeno delle Bande al Sud Italia come Patrimonio Immateriale Mondiale dell’Umanità.

A conferma del tutto il concerto di cui in apertura. In scaletta convivranno la Sivigliana di Adolfo Di Zenzo, celebri arie di Giuseppe Verdi, Georges Bizet, Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Vincenzo Bellini, Giacomo Puccini, Gioacchino Rossini, Giuseppe Verdi, alcune colonne sonore di Nino Rota e il brano originale Pinocchio firmato da Livio Minafra.

La Banda è attualmente composta da Vincenzo Mastropirro, Francesco Di Puppo (flauto), Dominga Damato (oboe), Angelo Giodice (clarinetto piccolo), Giambattista Ciliberti, Leonardo Cattedra, Vito Di Cintio, Gianluigi Caldarola, Giuseppe De Michele, Rocco Di Rella, Vincenzo Di Puppo, Giuseppe Dicorato (clarinetto), Nicola Puntillo (clarinetto basso), Massimo Cianciaruso (sax soprano), Paolo Debenedetto (sax alto), Francesco Loiacono (sax tenore), Michele Marzella (sax baritono), Simone Lovino, Vito Vernì, Vito Lamanna (corno), Vito Francesco Mitoli, Luciano Palmitessa, Pino Minafra (tromba), Luciano Pischetola, Biagio De Michino (trombone), Emanuele Maggiore, Vincenzo Bucci (flicornino), Antonio Cicerone (flicorno soprano), Salvatore Barile (flicorno tenore), Nicola Valenzano (flicorno baritono), Giuseppe Scarati, Pasquale Di Muro, Sebastiano Lamorte, Michele Cantatore (tuba), Vincenzo Mazzone, Giuseppe Tria, Simone Salvatorelli e Tommaso Summo (percussioni), Livio Minafra (fisarmonica).

Intervista con il chitarrista siciliano Gaetano Valli

Gaetano Valli, siciliano di Palermo classe 1958, ma “emigrato” a Udine sin da bambino, è chitarrista dotato di squisita sensibilità e persona di grande cortesia e delicatezza. Autodidatta al 100%, come lui stesso ama definirsi, ha sviluppato nel tempo uno stile personale la cui cifra stilistica è caratterizzata dal gusto per le belle melodie e dalla raffinatezza armonica.

Lo abbiamo intervistato all’indomani del concerto tenuto questa estate a “Udin&Jazz” dove ha riproposto, con una diversa formazione, i contenuti della sua ultima produzione discografica, “Hallways”, registrata nell’ottobre del 2016 con Sandro Gibellini e Fulvio Vardabasso alle chitarre, Giovanni Mazzarino al pianoforte, Flavio Davanzo alla tromba, Alessandro Turchet al contrabbasso e Aljosa Jeric alla batteria.

 – Parliamo dal concerto di ieri. Il tuo progetto prevedeva tre chitarre e poi, invece, ti sei trovato a dover fronteggiare i forfait degli altri due chitarristi, Sandro Gibellini e Fulvio Vardabasso. Cosa ti sei inventato?

“Come si dice ho dovuto fare di necessità virtù, ma questo nel jazz ci sta. Abbiamo rivisto alcuni arrangiamenti, Flavio Davanzo, il trombettista, si è reso disponibile a studiare le parti che normalmente vengono suonate dalle chitarre, ho eliminato una voce perché ci sono brani a tre voci, a tre chitarre… comunque, tutto sommato, il risultato è stato buono. Poi mi è venuta questa idea, all’ultimo istante, sapendo che la compagna del contrabbassista è una brava musicista che suona anche l’ukulele, di inserirla in organico per il brano “Calypso” ed è stato un momento che mi è piaciuto parecchio e che è stato apprezzato anche dal pubblico… anche perché, pur muovendomi nell’ambito del jazz, io cerco sempre la risposta del pubblico. Quando capisco – com’era la situazione di ieri – che c’è una platea molto varia, non mi piace propormi con una musica che in qualche modo non si collega con essa… “Calypso” è un brano molto leggero, privo di dissonanze, che fluisce abbastanza bene e l’inserimento dell’ukulele, ripeto, mi è piaciuto molto, anzi c’è il rammarico di non averci pensato in fase di registrazione. Però, un domani, chi lo sa!”

– Vogliamo ricordare il nome della musicista?

“Certo: Marinella Pavan. Lei all’inizio non voleva, è molto timida, viene dal classico, poi mi ha mandato una prova registrata sul telefonino e allora ho insistito parecchio e alla fine ce l’ho fatta”.

– Per quanto concerne il pubblico ti assicuro che se non si fosse saputo che il progetto era per tre chitarre, nessuno avrebbe avuto alcunché da ridire…insomma la performance è piaciuta… e parecchio anche!

“Come ti ho detto, ho cercato di riadattare le cose e quando uno studia un brano ad esempio a tre voci, se ne salta una non è che crolli l’impianto complessivo. Comunque la sonorità della tromba è tale per cui la voce principale diventa determinante e la voce della chitarra è sempre relativamente debole rispetto alla tromba, quindi quello che in origine era un ensemble è diventato un quartetto e la cosa ha funzionato. Ciò anche perché con questa ritmica ho una frequentazione che dura oramai da molti anni: con Aljoša, musicista sloveno, ho fatto gli ultimi quattro dischi; con Alessandro siamo già al terzo disco ed è una vera e propria garanzia: oltre a saper suonare lo strumento, ha una memoria di ferro… controlla… è un regista. E questa è una cosa strana: spesso il contrabbassista, anche se non è il leader, si accolla il compito di controllare, quasi di guidare il tutto. Per me, quindi, è una sicurezza: quando ho qualche dubbio, lo guardo e lui mi mette in riga”.

– Da cosa nasce questo omaggio a Jim Hall?

“Il tutto è nato da un fatto casuale: ci siam trovati io e Fulvio Vardabasso, che è un chitarrista triestino, e nel suonare ci siamo resi conto che, in modo spontaneo, quando ci chiedevamo cosa suonare, la scelta cadeva quasi sempre su pezzi di Jim Hall e quindi ci siamo accorti di avere questa passione in comune. Di qui la volontà di realizzare questo tributo; contemporaneamente abbiamo pensato che sarebbe stato bello introdurre una terza chitarra e così è venuto fuori anche il nome di Sandro Gibellini che conosco da vecchia data, da quando frequentavo i suoi corsi e che ritengo uno dei musicisti più indicati ad interpretare la musica di Jim Hall. Strada facendo abbiamo impostato il lavoro su pezzi di Hall cui ho aggiunto dei pezzi scritti da me pensando non tanto al suo stile e al suo modo di suonare ma alle sue condizioni del suonare, vale a dire alle diverse formazioni con cui il chitarrista si è trovato a lavorare: “Hallways” significa proprio questo, le vie di Hall, i modi di Hall e quindi nel disco si trova un duo (chitarra e contrabbasso secondo la formula Ron Carter-Jim Hall), si trova il quintetto di “Interplay” (l’album di Bill Evans con Jim Hall, Freddie Hubbard, Percy Heath e Philly Joe Jones ndr) e al riguardo ho scritto “Inter Nos” che in qualche modo segue la logica strutturale del brano che dà il titolo all’album, con questo inizio con le linee di basso e chitarra insieme, poi l’aggiunta del pianoforte, quella della  tromba… insomma questo ri-percorrere quelle che sono state le sue intuizioni compositive (lui era sì un grande chitarrista ma forse anche, se non soprattutto, un grande progettista, organizzatore, una mente razionale pazzesca) e mi viene sempre in mente il fatidico confronto con un altro grande della chitarra, Wes Montgomery. Io adoro Wes Montgomery come adoro Jim Hall ma approcciano la musica in modo totalmente diverso: l’uno – Wes – spontaneo, quasi animalesco, l’altro – Hall – razionale, preciso, da ingegnere; quindi se Montgomery è inimitabile, Hall diventa una guida. In effetti una idea originaria di titolo del disco era “Il nostro guru” “Our Guru” ma non suonava bene e così è stata bocciata ma questa è la sostanza: Jim Hall è un guru, qualcuno da seguire. Tornando al disco ho scritto anche “Three Brothers” che richiama il lavoro del trio di Jim Hall con Jimmy Giuffre; c’è poi anche il duo piano-chitarra (“Skating in Central Park”, registrato da Bill Evans e Jim Hall nel 1962 ndr)… Insomma, ho voluto impostare il lavoro non su un fatto stilistico, sull’emulazione del musicista ma su un fatto organizzativo dal punto di vista degli arrangiamenti, delle formazioni”.

– Naturalmente stiamo parlando del tuo ultimo disco che si chiama “Hallways” uscito di recente per i tipi della Jazzy Records. Vogliamo citare gli altri musicisti presenti nel cd?

“Certo; ci sono Sandro Gibellini alla chitarra semi-acustica, Giovanni Mazzarino al pianoforte, Fulvio Vardabasso alla chitarra semi-acustica, Flavio Davanzo alla tromba, Alessandro Turchet al contrabbasso e Aljoša Jerič alla batteria. Io quando suonano gli altri chitarristi, suono la chitarra classica per dare al tutto una sonorità particolare”.

– Hai già avuto qualche riscontro rispetto a questo album?

“Ancora è troppo presto dal momento che il cd è uscito da appena una settimana. Comunque quanti l’hanno ascoltato – amici, parenti, altri musicisti – hanno espresso un giudizio favorevole… e spero che la cosa continui”.

– Adesso parliamo più propriamente di Valli. Ecco, come nasce il Valli musicista?

“Come accade spesso, il Valli musicista nasce grazie ai genitori che gli fanno trovare una casa piena di strumenti – soprattutto da parte di madre – mia mamma suonava il violino e la sua famiglia è stata sempre molto attaccata alla musica. Non a caso mio nonno, mio zio, mia zia, tutti suonavano qualcosa… poi il mio carattere, assolutamente lontano dallo sport e da qualsiasi attività dinamica… ed eccomi pronto ad abbracciare uno strumento. Prima il pianoforte, che però voleva dire studiare sodo, teoria, solfeggio… forse un po’ troppo per il sottoscritto, anche perché voleva dire soprattutto essere ascoltato molto, troppo, in casa. Così sono passato alla chitarra che è uno strumento intimo, ti permette di isolarti… ricordo che l’ho trovata a casa, una Bagnini comprata per corrispondenza… ho cominciato con quella, poi ho cambiato varie chitarre e ho iniziato a suonare, come molti chitarristi, dalla musica rock”.

– E l’incontro con il jazz?

“E’ avvenuto in modo direi naturale. Si cresce, si fanno esperienze ed io mi sono avvicinato al jazz grazie alla fusion. Così sono passato da Battisti a Pino Daniele che è stato il mio colpo di fulmine portandomi ad un certo tipo di raffinatezza, di ricercatezza armonica, quindi George Benson approdando poco dopo al jazz vero e proprio”.

-Che tu identifichi con…?

Miles Davis, John Coltrane, Chet Baker e insomma tutti i grossi nomi che ben conosciamo. Tornando alla mia formazione, ho frequentato i seminari di Perugia, di Siena e poi ho incontrato Sandro Gibellini ai seminari veneziani del Suono Improvviso e da lì sono andato avanti. Insomma sono un autodidatta al 100% però qualche cosetta l’ho studiata, l’ho appresa dai seminari e soprattutto dalla necessità di insegnare perché ad un certo punto mi hanno detto: “vieni ad insegnare nella scuola nostra” e io, preso dal panico (allora lavoravo come progettista e ricordo che avevo sempre sotto mano il libro di teoria musicale) cominciai a studiare seriamente, preparavo le lezioni per la scuola e in qualche modo questa è stata la mia fortuna”.

– A quando risale il tuo primo disco?

“Siamo nel 1996, “Paludi” era il titolo dell’album che era un gioco di parole tra Palermo e Udine”.

– E già perché tu sei nato a Palermo e poi trasferito a Udine

“Esatto. Sto a Udine dal ‘65 … una vita. Mi sono trasferito a seguito della famiglia: i miei genitori, tutti e due insegnanti, hanno avuto una cattedra da questa parti e così eccomi qui… comunque devo dire che mi trovo molto, molto bene. Non è piacevole da dire ma è la verità: qui si vive bene perché c’è un clima molto produttivo, le cose funzionano… in Sicilia funzionano meno”.

– No, non funzionano…

“Ecco, l’hai detto tu. A me piace andare in Sicilia per prendere il meglio, cioè il cibo, il mare, il sole… amici, parenti e ovviamente la musica. In Sicilia c’è tanta buona musica. Ultimamente ho scoperto tutta la parte di Ragusa, Siracusa fino a Catania, vi ho suonato parecchie volte…”.

– Questo immergerti nella musica, come e quanto ha influito sul tuo sviluppo come uomo?

“E’ stato fondamentale. Oggi senza musica non riuscirei a vivere. Io non faccio solo il musicista perché è veramente difficile campare con il jazz, anche se devo dire che non ho molto forzato su questo versante perché ho un carattere piuttosto schivo e non mi piace mettermi in mostra, chiedere favori… insomma, propormi a manager e organizzatori… e poi non riuscirei a vivere la vita del musicista al 100%. Per fortuna i miei genitori mi hanno costretto a prendere una laurea, in architettura, e questo mi ha fatto bene perché si tratta sempre di un lavoro creativo – adesso faccio il designer e quando progetto, lo stereo è sempre acceso -. Insomma, l’ascolto mi accompagna sempre e mi predispone bene al lavoro che faccio”.

– Che tipo di jazz ascolti?

“Io sono appassionato di canzoni per cui ascolto molte cantanti e lavoro tanto con le cantanti: da molti anni ho parecchi duo con cantanti proprio perché mi piace lavorare sulle canzoni”.

– Qualche nome?

“Prima di tutte Lorena Favot con la quale di recente ho fatto un disco che si chiama “Acustikè” assieme ad Alessandro Turchet (contrabbasso), Luca Colussi (batteria, percussioni) e Gianpaolo Rinaldi (pianoforte). Poi, anche per questioni logistiche, molto spesso lavoro con cantanti della zona come Michela Grena, cantante pordenonese caratterizzata da una voce molto black, con Elsa Martin, Letizia Felluga, Valentina Gramazio ma anche con cantanti maschi. Mi piace ricordare Giuseppe Bellanca, talentuoso tenore (canta alla Scala di Milano) che canta benissimo il jazz ed è divino nello scat. Vorrei anche ricordare che con me ha cantato una giovanissima Elisa, ora regina del pop. Pensa che suonavamo gli standard! Era una bravissima interprete di jazz. Peccato che abbia scelto un’altra strada… Il jazz in Italia ha perso una grande vocalist.

– Tra le cantanti estere c’è qualcuna che prediligi?

“A me piace molto una cantante che si chiama Robin McKelle che però nessuno conosce e non riesco proprio a capire perché: ha una voce splendida, forse l’ultimo album potrebbe essere discutibile da parte dei jazzofili perché ha fatto un lavoro molto R&B, ma l’impronta sua di jazzista puro sangue si sente ben precisa. Comunque di cantanti brave ce ne sono moltissime. A me piacciono in particolare quelle che interpretano gli standard… e poi ci sono le grandi del passato che mai passano di moda come Ella Fitzgerald (di cui ascolto particolarmente i lavori fatti in duo ad esempio con Joe Pass)”.

– Non credi che questo voler per forza etichettare la musica – questo è jazz, questo è R&B – sia oramai superato in qualche modo?

“La risposta da parte dei critici e di buona parte dei musicisti è scontata: non credo nelle distinzioni, non credo nelle etichette e via di questo passo… personalmente penso che le etichette servono ai venditori di dischi per incasellare gli album in determinati scaffali”.

– Questo è vero ma è altresì vero che le differenze tra jazz e canzoni pop esiste ed è ben individuabile.

“Fino a un certo punto. Mi viene in mente il lavoro che stanno facendo cantanti famosi della musica leggera come Gino Paoli e Massimo Ranieri che si sono affidati a jazzisti come Danilo Rea, Rava, Fioravanti, Bagnoli e tanti altri. Io li ascolto con interesse, anche se cantano sempre in maniera tradizionale senza usare una pronuncia e un linguaggio jazzistici… ma rimane sempre una parte, che è quella strumentale, in cui il jazz è ben presente”.

– A mio parere quando si fanno lavori del genere o le due parti si integrano o l’esperimento non ha molto senso…

“Sono perfettamente d’accordo. Non bisognerebbe percepire uno scollamento tra chi canta e chi lo accompagna. D’altra parte è lodevole; è bello che certi personaggi cerchino di incontrarsi con una certa qualità. E’ sempre una buona promozione che si fa al jazz. Può succedere addirittura il contrario. Ci sono dei cantanti che hanno uno stile jazzistico e che tuttavia si fanno accompagnare da gruppi pop… penso a Mario Biondi che ogni sera fa le stesse cose, tutto secondo copione. Ecco questa per me è la fine della musica. Io ho smesso di suonare musica leggera perché fare ogni sera le stesse cose è per me impensabile. Mi viene in mente Chet Baker: quante volte ha suonato “My Funny Valentine”? Ti sfido a trovare due esecuzioni uguali. Ecco questa secondo me è la musica. E penso a Bach, a questo grande artista che sicuramente mentre suonava improvvisava, componeva in quel momento. Tutto ciò mi fa pensare con un po’ di tristezza ai musicisti “classici”, i quali sono sempre legati al pezzo di carta; ho incontrato dei musicisti che mi chiedevano:“ma tu come fai? Dove hai la parte?”. Mi ricordo che da ragazzino ho trascritto il “Bourrée” di Segovia, l’ho imparato a memoria, l’ho fatto sentire ad un pianista classico il quale mi ha detto: “bellissimo questo pezzo, dammi la parte che devo assolutamente impararlo”. Tornando alla tua considerazione, se qualche cantante pop vuol fare degli esperimenti con jazzisti e la cosa non riesce vuol dire semplicemente che la musica non è bella, non è valida”.

(ph: Marco Ambrosi, courtesy Jazzy Records)

– Oltre a Jim Hall e Wes Montgomery, c’è qualche altro chitarrista cui ti sei ispirato nel corso della tua carriera?

“Il primo che ho già menzionato e che mi fatto amare il jazz è stato George Benson, un colosso che ancora oggi continua a stupirmi. Come ti dicevo sono passato attraverso la fusion ma oggi non riuscirei più ad ascoltare quella musica. Così sono andato a scoprire i ‘vecchi’ e ho incontrato Barney Kessel e poi tutta una serie… Jimmy Raney… poi sono andato ai moderni anche se mi piacciono i moderni che suonano tradizionale come Anthony Wilson, figlio del grande Gerald Wilson e a lungo collaboratore di Diana Krall, l’olandese Jesse Van Ruller; poi, avendo lavorato a lungo per la rivista “Axe”, sono entrato in contatto con molti chitarristi come Larry Koonse, Peter Bernstein, Julian Lage, Gilad Hekselman, Jonathan Kreisberg e poi con gli italiani Fabio Zeppetella, Sandro Gibellini, Roberto Cecchetto, Umberto Fiorentino e tanti, tanti altri… Comunque mi piace molto suonare sulle armonie. L’unico jazz che non ascolto è il free jazz perché credo sia più interessante suonarlo che ascoltarlo”.

– Tra i tanti musicisti che hai frequentato, ce n’è qualcuno che ti ha lasciato un ricordo indelebile?

“Peter Bernstein è sicuramente uno di quelli che mi hanno particolarmente impressionato sia come persona sia come musicista. Poi, oltre ai già citati Sandro Gibellini e Giovanni Mazzarino, devo ricordare i musicisti della zona con cui ho lavorato e con cui ancora oggi continuo a collaborare come Bruno Cesselli, Nevio Zaninotto, Francesco Bearzatti, U.T.Gandhi, Piero Cozzi, Giovanni Maier e tanti, tanti altri… Riccardo Fioravanti con cui ho fatto un disco che è stato molto apprezzato dalla critica, “Tre per Chet” per la Splasc(H), che nel 1998 ho dedicato a Chet per il decennale della sua scomparsa, con Marco Brioschi, trombettista favoloso che non riesco a capire come mai non sia ancora emerso nel modo giusto dato che è, a mio avviso, il più “bakeriano” che ci sia oggi in Italia. Adesso sto preparando qualcosa per il 2018 e lavorerò ancora con Riccardo e Fulvio Sigurtà”.

– Qual è, tra i dischi da te incisi, quello cui sei più affezionato?

“Direi “Suoni e luoghi” un disco che considero ben equilibrato, molto vario, forse quello che meglio potrebbe riassumere la mia personalità”.

– Con chi l’hai inciso?

“Con “Artesuono” di Stefano Amerio. E Stefano è un’altra figura che mi fa piacere citare in quanto, oltre alle sue innumerevoli qualità che tutti gli riconoscono, personalmente devo dire che mi ha permesso di lavorare bene. Io lo conosco da tanti anni… avevamo aperto una scuola e l’ho coinvolto assieme ai musicisti locali più rappresentativi come Glauco Venier, Zaninotto, Gandhi, Giovanni Maier… e quella volta ho pensato “perché non inserire anche un corso per fonici?”. Così ho chiamato Stefano… lui allora faceva musica leggera, disco-music, tant’è che anch’io, lavorando con lui, facevo album di quel genere sotto lo pseudonimo di Gae Valley. Insomma, per fartela breve, qui in Friuli, nonostante se ne parli poco, c’è comunque un eco-sistema musicale che funziona abbastanza bene”.

– Ecco, come ti spieghi il fatto che qui in Friuli ci siano un sacco di talenti jazzistici che riguardano tutti gli strumenti e un po’ tutti gli stili?

“La musica si sposa molto bene con il carattere solitario e un po’ da orsi dei friulani; noi essere umani abbiamo comunque il bisogno di sfogare il nostro bisogno di espressione e i friulani si esprimono bene attraverso la musica anche perché questa ha bisogno di solitudine, di relax per concentrarsi, per prepararsi. Forse difetta un po’ la coralità: quando si fanno i gruppi, la cosa difficile qui è far stare insieme le persone. Poi, però, quando riesci ad ottenere un buon rapporto con gli altri, i risultati si vedono: c’è dedizione, c’è serietà… poi vedo molto bene i giovani che sono venuti fuori… tanta qualità. In fin dei conti credo che noi vecchietti si sia fatto un buon lavoro di semina di cui ora si raccolgono i frutti”.

(ph: Marco Ambrosi, courtesy Jazzy Records)

– Qualche nome?

“E’ difficile… non vorrei dimenticare per strada qualcuno, ce ne sono veramente tanti. Molti di loro li ho sentiti ma non ti saprei dire il loro nome. Comunque tra i nomi che ricordo bene ci sono Gianpaolo Rinaldi e Emanuele Filippi come pianisti, Marco D’Orlando come batterista… lo stesso Alessandro Turchet, poi Letizia Felluga e Chiara Di Gleria come cantanti e per finire ci sono una sacco di bravi giovani sassofonisti e trombettisti nati nelle bande di paese e poi confluiti nelle classi dei conservatori di jazz di Udine e Trieste”.

Gerlando Gatto

Per le immagini, si ringraziano: Luca A. d’Agostino / Phocus Agency per gli scatti di Udin&Jazz 2017 e Marco Ambrosi e Jazzy Records

 

 

La stagione 2017/18 dello Zingarò Jazz Club di Faenza

La stagione 2017/18 dello Zingarò Jazz Club di Faenza

Zingarò Jazz Club
Faenza. Via Campidori, 11
social network: www.facebook.com/zingaro.jazzclub ; www.twitter.com/zingarojazzclub

Mercoledì 27 settembre 2017, con il concerto del duo The Godivas, prende il via la nuova stagione di concerti dello Zingarò Jazz Club di Faenza. Come di consueto, i concerti sono tutti ad ingresso libero e si terranno di mercoledì, con inizio alle 22, nella splendida sala al numero 11 di Via Campidori.

Una stagione di trenta appuntamenti con un filo narrativo in grado di affiancare espressioni più canoniche e formazioni maggiormente rivolte alla sperimentazione: un risultato conseguito grazie alla varietà stilistica delle scelte di Michele Francesconi, direttore artistico della rassegna. Saranno presenti, oltre ai concerti, anche diversi incontri con i protagonisti del panorama jazzistico nazionale: una peculiarità ormai caratteristica che rende lo Zingarò Jazz Club una realtà conosciuta ed apprezzata su tutto il territorio italiano. Nel prossimo cartellone, in particolare, saranno ospiti Enrico Bettinello per la presentazione del suo libro Storie di Jazz e Luca Bragalini con il suo lavoro dedicato alla dimensione sinfonica dell’opera di Duke Ellington.

La stagione si apre con la performance estroversa e irriverente di The Godivas, il duo formato da Messalina Fratnic e Silvia Wakte. E si prosegue, poi, con un mosaico vario e particolareggiato del jazz italiano: gli appassionati ascoltatori dello Zingarò Jazz Club avranno modo di ascoltare tanto la musica dei protagonisti presenti sui palchi dei festival più importanti che quella dei talenti emergenti. E, naturalmente, ci sarà modo di dare visibilità alle formazioni nate sul territorio e di esplorare i territori sonori vicini al jazz. (altro…)

Melodia, ricerca, follia: questo il focus che caratterizza il ritorno alle origini del Talos Festival. A Ruvo di Puglia (Bari) dal 3 al 10 settembre

Erasmo da Rotterdam diceva che la follia è capace di prolungare la giovinezza. Figuriamoci quali miracoli può fare se la si accosta alla musica e alla ricerca, che tengono accesa la mente! Al Talos Festival 2017, dal 3 al 10 settembre a Ruvo di Puglia (Bari), melodia, ricerca, follia sono gli elementi che caratterizzano l’intero programma di una delle manifestazioni più apprezzate e conosciute a livello nazionale e internazionale, ideata e diretta dal trombettista e compositore Pino Minafra.

Nel centro storico della bella cittadina pugliese, adagiata tra uliveti e vigneti, si alterneranno circa 500 ospiti, tra cui Michel Godard, John Surman, Peppe Barra, Ihab Radwan, Ernst Reijseger, Faraualla, Roberto Ottaviano, Canzoniere Grecanico Salentino, Eugenio Colombo, Dario Cecchini, Evan Parker, Michel Portal, Vincent Peirani, Nicola Pisani, Livio Minafra, l’Orchestra Sinfonica della città Metropolitana di Bari; inoltre Il Talos Festival propone anche quest’anno un articolato programma dedicato al fenomeno culturale della banda con concerti, produzioni originali, presentazioni di dischi, masterclass. Tra gli eventi collaterali anche le mostre fotografiche di Enzo Paparella e Raffaele Puce e una proiezione a cura di Michele Pinto. Grande novità di questa edizione è l’incontro tra musica e danza contemporanea, con le coreografie curate da Giulio De Leo e dalla Compagnia Menhir per regalare un carattere multidisciplinare nella progettualità già ricca del festival.

Il Talos Festival nasce nel 1993 dall’idea del Maestro Pino Minafra, jazzista di fama mondiale e docente di tromba presso il conservatorio Piccinni di Bari, con l’intento di creare un meltin pot nel quale i suoni della tradizione pugliese, mediterranea ed europea si incontrano in una feconda contaminazione multiculturale; di fatto realtà di un’Europa sempre più grande e unita pur nelle sue diversità. Da subito si realizza una forte sinergia con l’Amministrazione Comunale di Ruvo, che sostiene la manifestazione, dimostrando una grande apertura e sensibilità.

Questi elementi hanno fatto nascere in Puglia un festival/laboratorio internazionale di grande spessore qualitativo e progettuale, che si è svolto ininterrottamente dal 1993 sino al 2008.

La direzione artistica, dal 1993 al 2000 e nel 2004 è stata del Maestro Minafra, mentre sino al 2008 tale ruolo è stato ricoperto da altri musicisti che, modificando la ratio alla base del progetto ne hanno comportato una modifica del presupposto fondante il festival e con una conseguente riduzione dell’attenzione del pubblico europeo e nazionale. L’Amministrazione Comunale, detentrice del marchio depositato “Talos Festival”, ha inteso quindi riavviare e rilanciare tale prodotto culturale di elevato prestigio internazionale riaffidando la direzione artistica al Maestro Minafra e ripristinandone il filone primigenio della produzione progettuale legata all’attualità. Caratteristica che peraltro antesignanamente ha contribuito a far nascere moltissimi festival jazz in molti comuni pugliesi.

L’obiettivo principale della ripresa è dunque non solo rimettere in continuità la manifestazione riportandola agli antichi fasti ma anche di legare la presenza di jazzisti di spessore internazionale al territorio e alle sue espressioni. Scelta cardine, non a caso, è l’idea di puntare il tema del festival sulla BANDA: la storia musicale più rappresentativa del Sud.

Il festival, organizzato come detto dal Comune di Ruvo di Puglia, gode della collaborazione di una ricca rete di partner che si sono incontrati intorno alla co-progettazione di un importante percorso di rilancio pluriennale del progetto Talos e della sua governance. Ci saranno dunque il Conservatorio di Musica Niccolò Piccinni di Bari, l’Associazione Culturale Terra Gialla, l’Associazione Menhir con l’omonima compagnia di danza contemporanea diretta da Giulio de Leo e la cooperativa Doc Servizi. Fondamentale poi il supporto di Camera di Commercio di Bari, Parco Nazionale dell’Alta Murgia, Confcommercio Ascom di Ruvo di Puglia, Orchestra Sinfonica della Città Metropolitana di Bari e Itel Telecomunicazioni; la collaborazione del Forum GiovanIdee, della rete Ruvo Solidale, dell’associazione Proloco di Ruvo di Puglia e degli sponsor Tipografia De Biase, Cantina di Ruvo di Puglia, Talos Viaggi e Hotel Pineta.

Talos Festival è diviso, come da tradizione, in due sezioni: un’anteprima (dal 3 al 6 settembre) dedicata alle esperienze che si sono formate all’interno di istituzioni culturali, conservatori, scuole e molto altro e il Festival internazionale (dal 7 al 10) con grandi ospiti di respiro nazionale ed internazionale e alcune produzioni originali realizzate espressamente per il Talos che dimostrano il ruolo di ecletticità, poliedricità e innovazione che la banda può svolgere nel panorama musicale in tutto il mondo.

Info e programma completo: www.talosfestival.it