Cos’è che luccica sul grande mare? È GradoJazz 2021 – dal 17 al 24 luglio a Grado (Go)

di Flaviano Bosco –

Lasciandoci alle spalle mesi davvero difficili e  guardando al prossimo futuro, la prima cosa che ci meritiamo è una bella vacanza “sole e mare” che ci faccia dimenticare le brutture della galera del lockdown: i locali chiusi, gli schermi dei computer, la claustrofobia nelle nostre case e il continuo bombardamento a tappeto di brutte notizie. Ora basta! L’unico obbligo per almeno quindici giorni deve essere quello di non dimenticare a casa l’olio solare, cappellino e occhiali da sole.
Dopo le giornate sul bagnasciuga per ritemprarci, servirebbe una sostanziosa, quotidiana dose di musica, il farmaco migliore per cancellare le nostre passate ubbie.
Sembra un’utopia, un luogo da sogno, una cosa del tutto irreale, ma un posto così esiste davvero: è l’isola che c’è.
Grado, la perla dell’Adriatico, da tre anni ospita quello che, per qualità e bellezze artistiche, può essere considerato uno dei più importanti festival Jazz dell’estate italiana.
Dobbiamo solo lasciarci affascinare dalle sue suggestioni, abbandonandoci ai suoni, alla brezza, alla risacca e al paesaggio ineguagliabile tra la luminosa laguna e il cielo che l’isola d’oro ci regala.
Non sono certo parole da ufficio di promozione turistica, Grado non ne ha quasi bisogno grazie alle sue bellezze e alla sua storia millenaria; poche altre spiagge possono annoverare antiche vestigia romane e basiliche paleocristiane con magnifici mosaici a pochi metri dalla sabbia dorata. Grado Jazz con la sua magia si inserisce perfettamente in questo contesto e anche qui non serve sforzarsi troppo in persuasioni occulte o trovate di marketing, basta dare un occhiata ai nomi degli artisti sul cartellone.
Cominciamo dal calibro più rilevante che ci permette attraverso la sua arte immortale e le parole delle sue canzoni di introdurci alla rassegna. Nemmeno Paolo Conte avrebbe bisogno di tante presentazioni, in realtà, ma non ci si stanca mai di dire che senza di lui in Italia il jazz non esisterebbe nemmeno. Sono state le sue canzoni a contrabbandare nella musica cosiddetta leggera e leggerissima gli accordi e i ritmi dello swing che la tradizione musicale italiana aveva contribuito a creare già nell’epoca dei pionieri della musica degenerata (Nick La Rocca, cornettista di origine siciliana, con la sua Original Dixiland Jazz Band fu il primo ad utilizzare il termine che dal 1918 definisce il genere). Certi capivano il Jazz, l’argenteria spariva, ladri di stelle di Jazz, così eravamo noi, così eravamo noi.
Con la sua orchestra di 11 elementi, l’avvocato di Asti dietro i suoi baffi e con le dita sulla tastiera, celebra ancora i 50 anni della sua Azzurro emblema della canzone italiana propriamente detta e universalmente conosciuta. Il programma di Grado Jazz sembra costruito a partire dai gusti di Conte: dal main stream del songbook classico afroamericano, alla musica brasiliana fino alle suggestioni della musica orientale e ancora dal pianismo più classico e sognante fino alle trombe levigate.
Si esibirà il 24 luglio in un luogo il cui nome da solo evoca le atmosfere e l’alchimia della sua poetica in musica: Parco delle Rose. Sembra fatto apposta per lui e le sue canzoni: sulla riva del mare, alla luce lunare, al ritmo delle onde che si infrangono placide sulla sabbia, non mancherà di certo nemmeno un gelato al limon… mentre un’altra estate passerà. Libertà e perline colorate. Ecco quello che io ti darò…
Dee Dee Bridgewater. È proprio tra le rose che sarà accolta anche una delle più splendide signore del Jazz, dalla grazia e dalla dolcezza impareggiabili unite ad una potenza vocale e ad una presenza scenica davvero sbalorditive. Sul palco delle Rose, il 18  luglio, presenterà, in esclusiva, il suo nuovo progetto musicale accompagnata da giovani talenti e dalla sua solita verve: Ma cos’è la luce piena di vertigine, sguardo di donna che ti fulmina, Come-di, come-di.

Brad Meldhau. Prodigio del pianoforte, ha smesso già da un po’ di essere quell’eterno enfant prodige della tastiera che riempiva le pagine dei rotocalchi. Meldhau si è lasciato alle spalle quell’immagine pubblica di ragazzotto americano evolvendosi in un musicista raffinatissimo, dalle doti interpretative rare e dal prezioso virtuosismo. Si presenta il 19 luglio con il suo leggendario trio che fece furori in tutto il mondo negli anni novanta e che ancora oggi non ha perso la voglia di sperimentare tra post rock, jazz fino alle allucinate visioni bibliche espresse dal leader nel misticheggiante album Finding Gabriel: Io sono qui, sono venuto a suonare, sono venuto ad amare e di nascosto a danzare…

È dedicata alla musica brasiliana una delle serate più attese della rassegna (17 luglio) che da anni presenta le novità più interessanti e la tradizione classica di quell’universo di suoni. A far da guida al pubblico un vecchio amico del festival Max De Tomassi di Radio 1 Rai (media partner ufficiale di GradoJazz, assieme a Radio 3 Rai e Rai FVG), conduttore di Stereo Notte e  già autore della trasmissione Brasil, oggi in Stereo Notte, che ha fatto conoscere al nostro paese le bellezze della musica Carioca.
Potremo ascoltare così la suadente voce di Mafalda Minnozzi Ambasciatrice della canzone italiana in Brasile e il contrario, nelle sue interpretazioni degli standard della Bossa Nova riletti attraverso il Jazz contemporaneo di New York che hanno trovato la sintesi nell’acclamato album Sensorial (2019).

Altro grosso calibro del festival in salsa piccante brasiliana è Ivan Lins che ha messo il proprio sigillo da decenni sul jazz mainstream contemporaneo del paese sudamericano. La sua vena romantica e morbida gli ha permesso di collaborare sia con gli scatenati cubani Irakere sia con il crooner confidenziale Michael Bublè portando nuovamente la musica brasiliana sul palcoscenico internazionale.
Il 21 luglio è la volta di Enrico Rava & Danilo Rea, un duo di autentici colossi della musica italiana. A ottant’anni suonati, è proprio il caso di dirlo, il trombettista triestino-piemontese può considerarsi il padre nobile dell’attuale scena musicale italiana per quanto riguarda gli artisti più ricercati. Se si guardano i componenti dei gruppi che nei suoi sessant’anni di carriera ha incrociato e lanciato si può affermare tranquillamente che li ha disegnati tutti lui soffiando nella sua tromba. Non da meno Danilo Rea che ha attraversato la storia della musica d’arte italiana dal progressive fusion più raffinato dei New Perigeo nei primi anni ‘80, passando per i favolosi Doctor 3, fino alle numerosissime collaborazioni con la creme della musica pop italiana da Mina a Celentano, da Domenico Modugno a Renato Zero e Claudio Baglioni.
David Bowie sarà omaggiato dal progetto musicale di un altro gigante del jazz di casa nostra. Paolo Fresu, con la sua straordinaria band che si avvale dell’incantevole voce di Petra Mangoni, rileggerà le meraviglie del Duca Bianco il 22 luglio. Forse non molti sanno che il battesimo musicale di Bowie avvenne nei Jazz club di Londra nei quali si faceva felicemente trascinare dal fratello. Fu questo che lo spinse a prendere lezione di Sassofono contralto, come dichiarò: Quello strumento divenne per me un emblema, un simbolo di libertà. Da allora non ne fece più a meno fino all’ultimo capolavoro Blackstar che al di là dei generi può essere considerato un’opera d’avanguardia. Fresu rilegge quella straordinaria avventura musicale attraverso la propria arte promettendo fuochi artificiali e che We can be heroes, Just for one day, We can be all us Just for one day.
Saltando ancora dall’altra parte del mondo, Grado Jazz offre ai suoi spettatori una serata interamente dedicata ai tesori musicali dell’Asia che in modo trasversale incontrano i suoni di derivazione afroamenricana. Ad aprire le danze, anzi i canti, il 23 luglio, le voci diplofoniche e triplofoniche degli Huun Huur Tu, maestri del canto laringeo degli sciamani della tundra siberiana e delle steppe mongole. Chi avesse familiarità con le spericolate arditezze della vertiginosa vocalità del compianto Demetrio Stratos può farsi una lontana idea delle meraviglie che proporranno questi musicisti che si accompagnano con gli antichi strumenti della loro tradizione.
All’Asia anteriore appartiene il mondo cui si ispira il giovane ma già acclamato pianista Tigran Hamasyan. Di origine armena ha un’idea totalmente mistica della musica come ricerca di spiritualità assoluta e trascendenza che possiamo associare liberamente al lavoro di ricerca interiore e di riflessione religiosa intrapreso da Brad Meldhau di cui dicevamo. L’arte dell’armeno è stata paragonata alla psicomagia di Alejandro Jodorowsky, quindi il Parco delle Rose deve prepararsi a qualcosa di inaudito dalla bellezza cristallina e straniante.
I manicaretti offerti da Grado Jazz non finiscono certo qui. Gli appassionati si troveranno come bambini in gelateria davanti a tutte quelle vaschette che promettono talmente tanta delizia da non saper quasi scegliere.
Al variegato all’amarena nel nostro giochino infantile potremmo associare la fantastica mostra del fotografo Luca A. d’Agostino e dell’AFIJ sui trent’anni di Udin&Jazz, matrice della rassegna gradese con immagini che restituiscono le emozioni di decenni di concerti (dal 17 al 24 luglio all’ex Cinema Cristallo).

Al gelato al caffè corrisponde il Black Water Music concerto all’alba davanti al mare di Claudio Cojaniz da assaporare nella luce del mattino (18 luglio).
Al sapore tutti frutti sarà decisamente la fanfara urbana Bandakadabra, che per le strade di Grado farà sentire i propri ottoni così come nella tradizione più autentica del Jazz.

Allo stesso modo, al fresco sapore di agrumi saranno le granite in musica distribuite negli angoli più suggestivi della città dal sassofono di Daniele D’Agaro o dalla tromba di Mirko Cisilino.
Necessariamente un gelato al limone servirà alla fine dell’escursione sulla Jazz Boat (20 luglio) attraverso la laguna accompagnati dalla migliore musica dal vivo e dalla degustazione di prodotti tipici di mare e dalle bollicine delle vigne friulane.
Black come il cioccolato più fragrante e goloso sarà il tributo alla fantastica voce soul di Aretha Franklin: Respect! Di Elena Vinci, Joy Jenkins & Michela Grilli (20 luglio).
Aristocratica zuppa inglese e malaga per i classici Standard interpretati dall’Ensemble Jazz del Conservatorio Tartini di Giovanni Maier (21 luglio, prima di Rava/rea).
Sapori sperimentali e d’avanguardia per la band di Michelangelo Scandroglio, giovane e intraprendente contrabbassista toscano tutto Pan di stelle e cacao al peperoncino (22 luglio prima di Fresu).
Un tripudio di creme colorate per i Laboratori musicali per bambini di PraticaMenteMusica e allora via libera a dolci scorpacciate in musica per i più piccoli al sapore di Puffo, gianduia, amarena, liquirizia e pistacchio. Tutte proposte che non sono per niente solo eventi collaterali ma deliziosi dessert che rendono le giornate di Grado Jazz ancora più sfiziose e colorate.
Ormai l’abbiamo capito, a Grado Jazz sarà un’estate torrida e affascinante con duemila enigmi nel jazz, ah non si capisce il motivo, nel tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche, Arrivederci all’Isola d’oro sotto la luna del Jazz.
Il programma dettagliato lo trovate nella web-gelateria www.euritmica.it !

Flaviano Bosco

A Tutto Jazz!

La tanto auspicata rinascita del Paese vede ai nastri di partenza anche molti festival del jazz che, more solito, si terranno lungo tutto l’parco dello stivale. Ecco, quindi, alcuni cenni sulle manifestazioni che ci appaiono di particolare interesse.

34 anni per Gezziamoci il Jazz Festival di Basilicata
“Gezziamoci, il Jazz Festival di Basilicata” è giunto alla sua XXXIV edizione e questo prestigioso traguardo viene raggiunto grazie al fatto di aver sempre tenuto fede alle sue motivazioni di fondo vale a dire l’aderenza alle esigenze del territorio e quindi la volontà di valorizzare lo stesso unitamente ai non pochi talenti locali.
Quest’anno il programma parte da giugno, mantenendo come sempre il cuore del Festival nel mese di Agosto.
Un festival pronto ad accogliere pubblico in sette comuni tra stazioni ferroviarie, chiostri, cattedrali, terrazzi, vicoli, piazze, musei, spiagge con concerti in ogni ora della giornata, laboratori di assaggio, visite guidate, trekking urbani, concerti all’alba, presentazioni di libri e letture condivise, performance di pittura.
Il titolo del Gezziamoci 2021 “Qui Basilicata, la cultura non si ferma!” vuole essere, quindi, la risposta dell’Onyx Jazz Club e di tanti sponsor e amministrazioni ed Enti che hanno voluto, insieme, dare una risposta forte per una ripresa della cultura, del turismo in una delle più interessanti regioni d’Italia.
Per gli appassionati di jazz molti gli appuntamenti da non perdere: in particolare il 20 luglio il trio di Bill Frisell con Thomas Morgan e Rudy Royston; il 5 agosto un altro trio con Kurt Rosenwinkel, chitarra, Dario Deidda, basso elettrico e Greg Hutchinson, batteria; il 7 agosto il solo della magnifica pianista Stefania Tallini; il 26 agosto l’altro piano solo protagonista Fabio Giachino; il 27 agosto Giovanni Amato, tromba – Mario Castellano, pianoforte – Marco De Tilla, contrabbasso, Pasquale Fiore, batteria & Quintetto di archi più due clarinetti, un flauto, un fagotto – Dirige Giovanni Di Napoli; il 28 agosto Rita Marcotulli, pianoforte, Ares Tavolazzi, contrabbasso e Alfredo Golino, batteria mentre il giorno successivo la stessa Marcotulli si esibirà in solo in un particolarissimo concerto programmato all’alba. Ovviamente, ampio lo spazio dedicato ai musicisti locali; così il 17 luglio si esibirà la vocalist Rossella Palagano in quartetto; il 31 sarà la volta del quartetto guidato dal chitarrista Andrea Corrado; il 24 agosto Saverio Pepe canta Battiato con Pier Domenico Niglio, programmazione elettronica; il giorno successivo si potrà ascoltare l’altro quartetto con il vocalist Emanuele Schiavone.

“Double Sky” a Padula dal 19 al 27 agosto
Sono aperte le iscrizioni per partecipare alle masterclass con i protagonisti del festival di musica internazionale “Double Sky” diretto da Maria Pia De Vito, che si terrà dal 19 agosto al 27 agosto presso la Certosa di Padula e che segna il primo passo del più ampio progetto culturale di costituzione di un polo creativo dal titolo “Padula. La Certosa delle Arti”. Un calendario di appuntamenti internazionali che prevede concerti, laboratori, masterclass e incontri, promossi e organizzati dalla Regione Campania attraverso la Scabec e realizzati in collaborazione con la direzione generale della Certosa di San Lorenzo e con la direzione regionale dei Musei MIC, con l’obiettivo di trasformare la più grande certosa d’Italia in un hub culturale in cui musica, arte contemporanea e arte barocca s’incontrano e si fondono.
Sede di eventi ma anche Summer school con classi di formazione e laboratori gratuiti condotti da musicisti del calibro di Rita Marcotulli, Israel Varela, Michele Rabbia, Daniele Roccato e la stessa direttrice Maria Pia De Vito.
Le masterclass di piano, voce, batteria, percussioni, contrabbasso e live electronics si alterneranno ai laboratori del pomeriggio in cui gli studenti potranno praticare insieme ai propri insegnanti elementi di linguaggio ritmico, voce creativa e improvvisazione intuitiva, pensati per ispirare e far crescere giovani artisti della musica e non solo.
Per iscriversi alle masterclass è necessario prenotarsi attraverso il sito www.scabec.it . Il festival Double Sky ospiterà quest’anno Rita Marcotulli, Gianluca Petrella, Luca Aquino, Peppe Servillo, Javier Girotto, Fabrizio Bosso, Giovanni Guidi, Francesco Bearzatti, Michele Rabbia; ma “Padula, la Certosa delle Arti” non è solo musica, è contaminazione, a partire dalla imminente apertura della sezione dedicata all’arte contemporanea che sarà curata da Achille Bonito Oliva, per un progetto originale di formazione per il recupero e il rilancio del patrimonio di arte contemporanea che la Certosa già custodisce.

Varata la seconda edizione del Matino Jazz
Dal 19 al 25 luglio si svolgerà la seconda edizione del Matino Jazz, che, sempre sotto l’attenta guida del direttore artistico Elisabetta Tucci, riparte dopo il lusinghiero successo ottenuto nel luglio dello scorso anno. Molte le novità di quest’anno tra cui gli aperitivi in jazz e il contest per i giovani; si tratta, in particolare, di un concorso cui potranno partecipare, inviando una mail a ‘matinojazz21@gmail.com’, i giovani gruppi emergenti indicando il progetto proposto, il repertorio, la lista dei brani e la line up dei musicisti. La partecipazione è gratuita e le iscrizioni scadono il prossimo 10 luglio. Ma l’attenzione verso i giovani è dimostrata anche dal fatto che saranno i giovani ad aprire le serate dei big. Big che rispondono ai nomi di Giovanni Imparato (voce e percussioni) e Stefano Scartocci (pianoforte) in programma il 19 luglio; Gaetano Riccobono, Massimo Farò, Byron Landham, Davide Palladin, Nicola Barbonin cartellone il 20 luglio; Salvatore Russo con il suo Gypsy Jazz Trio sul palco il 21 luglio; Fulvio Palese, sassofonista salentino doc il 22 luglio; il ben noto Lino Patruno alla testa di un agguerrito sestetto con Clive Riche in veste di ‘guest star’ il 24 luglio.
Infine il 23 e 25 luglio due serate “tra amici” in compagnia del gruppo originario di Matino Jazz composto da Andrea Pace, Giulia Salsone, Bruno Zoia, Piero Fortezza, Elisabetta Tucci, Danilo Cartia.

 

Gerlando Gatto

“Il futuro del jazz italiano”: al via il festival MetJazz del Teatro Metastasio di Prato

La pandemia ha fermato il mondo. E il mondo ora si rimette in moto. La 26a edizione del Festival MetJazz, prodotta dal Teatro Metastasio di Prato, vedrà finalmente la luce dall’8 maggio al 14 giugno con la direzione artistica di Stefano Zenni, consolidando il progetto emerso nei giorni peggiori della crisi: un’edizione totalmente dedicata al jazz italiano.
“La necessità di gestire gli spazi a disposizione, il desiderio di rimodulare la geografia del festival e la volontà di immettere nuove energie in circolo impongono un gesto di coraggio e apertura – dichiara Stefano Zenni – Quest’anno abbiamo deciso senza esitazioni di far conoscere al pubblico un cartellone ricco di nomi affermati, di alto profilo e di fresca creatività, anche se meno altisonanti.”

Il tema del 2021 “Il futuro del jazz italiano” vuole rendere omaggio a quei talenti che non sempre godono dell’opportunità di presentare la loro musica nelle migliori condizioni: il programma, consultabile al link https://www.metastasio.it/it/eventi/met-jazz/momento-teatrale-20-21 si apre lunedì 10 maggio sul palco del Teatro Metastasio con il progetto “No Land’s” del contrabbassista Matteo Bortone, uno dei migliori dischi degli ultimi tempi; presente nel cartellone anche il trio di Filippo Vignato, applaudito trombonista che qui si presenta con un pulsante trio dagli umori molto eclettici; e infine il trio MAT, con tre punte di diamante della nuova scena italiana che concluderanno, in bellezza, il cartellone degli eventi. Alcuni di questi gruppi coinvolgono anche musicisti stranieri, poiché ormai i giovani musicisti si muovono in una dimensione di compiuto scambio europeo.

La clarinettista Zoe Pia, con il suo policromo progetto sulla musica sarda, e il dinamico sassofonista Giovanni Benvenuti, anche originale compositore, rappresentano proprio quei talenti su cui MetJazz vuole gettare nuova luce, come pure l’emergente pianista Andrea Goretti, che si muove sul filo tra improvvisazione classica e jazz. Protagonisti anche i Lapsus Lumine, un singolare gruppo vocale/strumentale che si muove gioiosamente all’intersezione tra canzone, jazz, sperimentazione, musica e letteratura e che vedrà ospite nell’organico il rumorista e fantasista Vincenzo Vasi.

Non meno importanti sono le occasioni della programmazione di MetJazz Off: dalla voce di Elisa Mini, una delle protagoniste di una scena vocale toscana già molto brillante, al sorprendente trio di Nazareno Caputo, intriso di umori contemporanei. Non mancheranno gli appuntamenti con i libri, con autori e curatori di vite e storie musicali uniche: da quella di Dexter Gordon presentata da Francesco Martinelli a quella di Bruno Tommaso, la cui vicenda artistica e di insegnante è per noi il vero simbolo di questa ripartenza con i giovani talenti.

Il festival ha sempre lavorato di concerto con partner dentro e fuori la città. La crisi ha rafforzato una politica in atto da tempo: alla Scuola di Musica Verdi, alla Biblioteca Lazzerini e a Musicus Concentus di Firenze (che ora collabora anche con l’Off) si aggiunge Siena Jazz, con cui abbiamo coprodotto il cd del compianto Alessandro Giachero, dal concerto che tenne a MetJazz nel 2020. E’ a lui, al suo lascito musicale e alla sua eredità didattica che è dedicata l’intera rassegna.

Il programma completo è consultabile sul sito del Teatro Metastasio al link https://www.metastasio.it/it/eventi/met-jazz/momento-teatrale-20-21.
Tutti gli eventi sono fruibili nel rispetto del regolamento emergenza Covid-19:
https://www.metastasio.it/it/eventi/cartellone/esserci-di-nuovo/regolamento-emergenza-covid-19.

Biglietti sezione Official: intero €16, under 25 €11, over 65/soci Coop €12, abbonati 2020 €10.
Acquistabili online al link https://ticka.metastasio.it/ oppure presso la Biglietteria del Teatro Metastasio: via B. Cairoli 59, Prato tel. 0574/608501 – biglietteria@metastasio.it. Orari: dal lunedì al sabato 11.00/13.00 e 17.00/19.00 (il giovedì 11.00/15.00 e 17.00/19.00).

Biglietti MetJazz OFF:
Sabato 8 maggio – Scuola di musica Verdi: ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a biglietteria@metastasio.it
Sabato 15 maggio – Biblioteca Lazzerini:
ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a iscrizionilazzerini@comune.prato.it
Sabato 22 maggio – Scuola di musica Verdi: biglietto unico €5 acquistabile on line su ticka.metastasio.it
Sabato 29 maggio – Scuola di musica Verdi: biglietto unico €5 acquistabile on line su ticka.metastasio.it
Sabato 12 giugno – Scuola di musica Verdi: ingresso gratuito con prenotazione obbligatoria a biglietteria@metastasio.it

CONTATTI
Info Teatro Metastasio: tel. 0574.608501
Ufficio Stampa Teatro Metastasio: Cristina Roncucci tel. 0574.24782 (interno 2) – 347.1122817
Comunicazione MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

 

Maderna Jazz Festival 2021

Sabato 22 maggio 2021, la masterclass condotta dal musicologo Luca Bragalini aprirà la prima edizione del Maderna Jazz Festival, rassegna organizzata dal Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna” di Cesena e coordinata dal pianista Michele Francesconi.

I dieci eventi in programma si svolgeranno tra maggio e settembre e vedranno impegnati i docenti dei corsi jazz del conservatorio cesenate. Tra gli insegnanti, sono infatti presenti alcune delle figure più rilevanti del panorama del jazz nazionale, musicisti esperti e che, nel corso degli anni, hanno avviato collaborazioni di alto profilo e riconosciute a livello italiano ed internazionale.

Tutti gli eventi del Maderna Jazz Festival 2021 si svolgono a Cesena e sono ad ingresso libero. A causa delle restrizioni legate alla situazione sanitaria, per poter partecipare ai singoli eventi sarà necessaria la prenotazione, inviando una mail a eventi@conservatoriomaderna-cesena.it

I luoghi scelti per i diversi appuntamenti del Maderna Jazz Festival sono il Conservatorio “Bruno Maderna” (Corso Ubaldo Comandini, 1), il Teatro Verdi (Via Luigi Sostegni, 13), il Chiostro di San Francesco (Via Montalti, dietro la Biblioteca Malatestiana) e il Foro Annonario (Piazza del Popolo, 1).

Nel cartellone, sono poi previsti due appuntamenti più squisitamente didattici: oltre alla masterclass di Luca Bragalini, prevista per sabato 22 maggio e dedicata alla musica del Modern Jazz Quartet, venerdì 17 e sabato 18 settembre il sassofonista Maurizio Giammarco condurrà un seminario intitolato “Gli Itinerari dell’Improvvisazione”. Il sassofonista si esibirà poi in concerto, sabato 18 settembre, alla guida di un quintetto formato dai docenti del conservatorio.

Sono due i concerti in programma nel mese di giugno.

Lunedì 7 giugno, Michele Francesconi condurrà il concerto finale del Laboratorio sul Piano Trio: sette giovani pianisti (Enrico Bandini, Filippo Medici, Fabio Pozzi, Pietro Rossi, Enrico Evangelisti, Marco Mantovanelli e Francesco Faggi, oltre allo stersso Francesconi) si esibiranno insieme alla ritmica formata da Paolo Ghetti al contrabbasso e da Luca Santaniello alla batteria per ripercorrere la storia e le tappe fondamentali di un format musicale che ha avuto negli anni e riveste tutt’oggi un ruolo centrale nello sviluppo dei linguaggi del jazz. Domenica 20 giugno, invece, sarà il turno del primo dei due concerti tenuti dalla Big Band del Conservatorio “Maderna”, diretta da Giorgio Babbini: l’organico si misura con un programma che darà ampio spazio ai brani cantati, con una rappresentanza di allievi della classe di Canto Jazz. La formazione ha anche collaborato con figure di rilievo del panorama jazzistico italiano fra le quali Gianluigi Trovesi, Fabrizio Bosso e Gabriele Mirabassi, col quale si è realizzato un progetto di musiche ispirate al Brasile, recentemente proposto in streaming.

Il Maderna Jazz Festival 2021 torna poi a settembre con una settimana intensa e ricca di appuntamenti.

Lunedì 13 settembre, un doppio concerto dedicato alla voce: nella prima parte della serata, Chiara Pancaldi e Michele Francesconi (entrambi docenti del Conservatorio “Bruno Maderna”) si esibiranno in trio insieme a Stefano Senni al contrabbasso. A seguire, suoneranno tre formazioni di allievi del Conservatorio, coordinate dalla stessa Chiara Pancaldi: tre formazioni differenti che avranno sempre al contrabbasso il supporto solido di un musicista esperto come Stefano Senni.

Martedì 14 settembre suonerà Pericopes, il duo formato dal sassofonista Emiliano Vernizzi e dal pianista Alessandro Sgobbio. La musica di Pericopes è una miscela personale di composizione, improvvisazione, influenze diverse e sinergia esecutiva portata dai due musicisti in un repertorio svincolato naturalmente da ogni etichetta di stile e genere.

Il Giancarlo Giannini New Jazz Quartet si esibirà, invece, mercoledì 15 settembre: la formazione è composta da musicisti dell’area forlivese (Giancarlo Giannini al trombone, Michele Scucchia al pianoforte, Enrico Moretti al contrabbasso e Manuel Giovannetti alla batteria) e si misura con brani originali e standards jazz particolarmente arrangiati mantenendo sempre saldo il rapporto con le radici afroamericane.

Giovedì 16 settembre, il Maderna Jazz Festival ospita il trio formato da Antonio Cavicchi alla chitarra, Marc Abrams al contrabbasso e Riccardo Biancoli alla batteria: tre musicisti che collaborano da oltre venti anni con l’intento comune di condividere proposte musicali in cui la comunicazione e l’interplay non siano solo aspetti secondari, ma il motore della musica stessa.

Dopo i due appuntamenti con Maurizio Giammarco (la masterclass intitolata “Gli Itinerari dell’Improvvisazione” e il concerto in quintetto con i docenti del conservatorio), il Maderna Jazz Festival si concluderà domenica 19 settembre con il secondo concerto della Big Band del Conservatorio “Maderna” di Cesena, diretta da Giorgio Babbini.

Tutte le eventuali variazioni del programma causate dalle evoluzioni della situazione sanitaria in corso saranno comunicate tempestivamente sul sito del Conservatorio (www.conservatoriomaderna-cesena.it) e sui canali social del Dipartimento Jazz del Conservatorio “Bruno Maderna”.

I nostri CD

a proposito di jazz - i nostri cd

Pierluigi Balducci – “L’equilibrista” – Dodicilune
Una prima notazione tutt’altro che secondaria: “questo lavoro – afferma lo stesso Balducci – vede la luce ad otto anni dal mio precedente disco, “Blue from Heaven”, e a tre anni da “Evansiana”, pubblicato nel 2017. Lo dedico a John Taylor, che in questi due dischi è presente: punto di riferimento sia per me che per tanti altri musicisti europei, John mi ha onorato della sua presenza nel mio quartetto fino alla sua scomparsa, nel 2014”. Ebbene, nell’intento di omaggiare cotanto artista, il bassista/compositore pugliese Pierluigi Balducci, ben coadiuvato da Robert Bonisolo (sax tenore), Fabrizio Savino (chitarra) e Dario Congedo (batteria) ha realizzato questo eccellente album con sette brani originali tutti composti dal leader. Inquadrato l’album nelle sue linee generali, occorre aggiungere che il titolo rispecchia appieno la musica che si ascolta. Un equilibrio tra forma e contenuto, un bilanciamento apprezzabile tra parti scritte e improvvisate, un giusto alternarsi di atmosfere tra energico groove e avvolgente melodia, il tutto condito da una ricerca sul sound che ha dato frutti copiosi. In particolare si fa apprezzare il dialogo a più voci che vede impegnati alle volte Balducci e sezione ritmica, altre volte Balducci e Bonisolo; ciò senza trascurare il peso degli assolo che si ascoltano nei vari brani: particolarmente apprezzabile, ad esempio, il chitarrista nella title-track con il suo incedere elegantemente descrittivo mentre il sax di Bonisolo s’impone alla generale attenzione già a partire dalle primissime note del brano d’apertura “Blackarera” caratterizzato da un coinvolgente andamento ritmico.
Dal canto suo il leader, oltre a fornire un irrinunciabile supporto armonico per tutta la durata dell’album (si ascolti a mò di esempio “Kosmos and Chaos”) si produce anche in notevoli assolo come nel caso di “Monet” probabilmente il pezzo migliore dell’album. Fra gli altri brani più significativi “Fino a prova contraria”, una lunga ballad esposta con sapienza narrativa da Robert Bonisolo e con i notevoli assolo della chitarra di Savino e del basso elettrico del leader.

Luiz Bonfà – “Plays & Sings Bossa Nova + The Gentle Rain” – Aquarela do Brasil
Siamo nei primissimi anni ’60, per la precisione nel 1962, quando viene registrato un lp dal sassofonista Stan Getz con il chitarrista Charlie Byrd: è l’inizio del fenomeno ‘jazz samba’ (più tardi inteso come ‘bossa nova’) che tanto successo ebbe nel mondo del jazz. Tra i sacerdoti di questa nuova musica figura certamente il chitarrista e vocalist Luiz Bonfà (Rio de Janeiro, 17 ottobre 1922 – Rio de Janeiro, 12 gennaio 2001) che nello stesso 1962 fu tra i protagonisti dello storico spettacolo di bossa nova che si tenne alla Carnegie Hall. A testimonianza delle sue frequentazioni con il mondo del jazz restano le incisioni con Stan Getz, Quincy Jones, Frank Sinatra, Eumir Deodato. Moltissime le composizioni di Bonfà – oltre un centinaio – molte celebri, tra cui ricordiamo innanzitutto “Manhã de Carnaval” e “Samba de Orfeu” entrambi tratti dalla colonna sonora del film “Orfeo Negro”. In questo album si ascoltano due lp risalenti agli anni ’60. Nel primo, registrato a New York nel 1962, troviamo Bonfà a capo di un sestetto e una sezione d’archi arrangiata da Lalo Schifrin; il secondo – “The Gentle Rain” – è la colonna sonora dell’omonimo film in cui il chitarrista suona con un’orchestra arrangiata e diretta dall’amico Eumir Deodato, realizzata a Rio De Janiero nel 1966. Naturalmente in repertorio figurano altre perle targate Bonfà come il già citato “Manhã de Carnaval” e ancora “Samba de Duas Notas”, “Silencio do amor”, “Perdido de amor” registrato a Rio de Janeiro nel 1959 e porto come “bonus track”. Fornire un quadro esauriente dell’arte di Bonfà è opera davvero ardua dato l’enorme numero di registrazioni effettuate dall’artista tuttavia dall’ascolto di questo album si può ricavare un ritratto soddisfacente di quel che Bonfà ha rappresentato nel mondo della musica.

Jakob Bro – “Uma Elmo” – ECM 2702
E’ un trio di caratura internazionale quello che il chitarrista danese Jakob Bro, al suo quinto disco da leader per la ECM, presenta in questa occasione: al suo fianco sono, infatti, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il batterista spagnolo Jorge Rossy. Ad onta del fatto che i tre mai avevano inciso prima, la formazione si dimostra assolutamente compatta, ben guidata dal leader e perfettamente in grado di svolgere la musica che Bro aveva immaginato. Nove brani tutti composti dal chitarrista caratterizzati da un’atmosfera profonda, intimista, fortemente evocativa, ricca di echi, di riverberi, con chitarra e tromba che dialogano continuamente e la batteria di Rossy a punteggiare e sostenere il tutto, pur concedendo davvero poco all’impianto ritmico. Nell’ambito del repertorio figurano tre espliciti omaggi, in cui, però, Bro continua ad evidenziare la sua poetica mantenendosi ad una certa distanza dagli artisti evocati. Non a caso l’album si apre con “Reconstructing a Dream” in ricordo di quel periodo (2007) in cui collaborava con la Paul Motian’s Electric Bebop Band. “To Stanko” è un tributo al trombettista polacco Tomasz Stanko con il quale Bro aveva collaborato per ben cinque anni incidendo, tra l’altro, nel 2009 l’album ECM “Dark Eyes” unitamente a Alexi Tuomarila piano, Anders Christensen chitarra basso e Olavi Louhivuori batteria; la linea melodica è dolcemente suggestiva ben lontana, quindi, dal clima arroventato proprio dell’artista polacco. L’altro jazzista omaggiato è Lee Konitz per il quale Bro ha scritto ed eseguito “Music For Black Pigeons”; nei confronti del sassofonista Bro dichiara una sorta di sincera devozione sorta negli anni in cui hanno suonato assieme durante le tournée effettuate in Islanda, Groenlandia, Norvegia, Danimarca. Il brano più interessante? Difficile da enucleare anche se mi ha particolarmente colpito “Housework” sia per il sound affatto particolare della tromba, sia perché è piuttosto complicato enucleare le parti improvvisate dall’intelligente scrittura.

James Booker – “The Ivory Emperor” – Soul Jam 806188
Album da non perdere per gli appassionati di un certo tipo di jazz, molto vicino al blues. In effetti vi sono contenuti tutti i singoli che James Booker realizzò come leader all’inizio della sua carriera, tra il 1954 e il 1962, quando incideva per diverse etichette tra cui Imperial, Chess, Ace e Peacock. Il cd contiene inoltre brani di altri artisti in cui James Booker appare come sideman. E’ il caso, ad esempio, di “You’re On My Mind” e “The Nex Time” in cui suona accanto a Junior Parker (voce) e Arnett Cobb (sax tenore), e delle due tracce conclusive in cui collabora con il bluesman Earl King. Ma chi era James Booker domanda che probabilmente si staranno facendo i nostri più giovani lettori. Ebbene James Booker, (New Orleans, 17 dicembre 1939 – 8 novembre 1983), conosciuto come il Principe del piano di New Orleans, è stato uno dei musicisti più amati di Crescent City. Era un pianista eccellente, organista di livello (lo si ascolti ad esempio in “Cross My Heart”), vocalist e compositore che si era creato uno stile del tutto personale fondendo R&B, gospel, blues, boogie-woogie, jazz tradizionale e moderno attraverso un suono originale. Ma le sue conoscenze musicali andavano ben al di là rivolgendosi anche alla musica classica europea, così rivisitò in chiave blues il “Valzer del minuto” di Chopin e inserì una composizione dello stesso autore polacco in un brano boogie-woogie. Data l’importanza della sua musica nell’ambito della scena jazz-blues di New Orleans, la sua produzione fa parte dal 2008 degli archivi della Biblioteca del Congresso.

Sam Cooke – “Wonderful World – The Hits” – Hoo Doo
Questo è un album chiaramente divisivo: in effetti se amate il soul jazz e più in generale la soul music allora l’ascolto sarà più che gradevole; esattamente il contrario se vi sentite lontani da questo particolare genere. Il protagonista è un vocalist di assoluto rilievo, Sam Cooke, che può essere considerato uno dei padri fondatori della soul music essendo stato tra i primi a coniugare le tematiche gospel con input provenienti dalla vita reale. Nato a Clarksdale il 22 gennaio 1931 e scomparso a Los Angeles l’11 dicembre 1964, Sam sulla spinta del padre – il Reverendo Charles Cook della Chiesa Battista – si era già affermato da giovanissimo come leader del famoso gruppo gospel “teenage” “The Highway QC” che abbandonerà all’età di 19 anni per dedicarsi ad una musica “profana”. Nel corso della sua non lunga carriera, Sam collezionò una serie incredibile di successi, grazie ad un incredibile senso del ritmo e a straordinarie capacità vocali che gli consentivano di passare con disinvoltura da Gershwin (lo si ascolti in “Summertime” a classici del pop quale “Youn Send Me”, anch’esso presente in questa raccolta. E il pregio principale di questo CD consiste proprio nel fatto che nell’ambito delle 30 tracce, registrate tra il 1956 e il 1962, possiamo ascoltare tutti i più grandi successi del vocalist, da “Wonderful World” che apre la compilation a “Bring It On Home to Me”, da “Chain Gang” a “Twistin’ the Night Away” da “A Change Is Gonna Come” fino al conclusivo “Having a Party” per circa 78 minuti di musica. In queste numerose performances Sam Cooke è accompagnato anche da alcuni eccellenti jazzisti quali il pianista Hank Jones, Mike Pacheco (conga), Red Callender (basso).

Chick Corea – “Plays” – Concord 2 CD
E’ di poche settimane fa la dipartita di Chick Corea un artista che ha segnato la storia del jazz negli ultimi cinquant’anni. Ecco, quindi, questo pregevole doppio album della Concord che lumeggia uno dei tanti lati della complessa personalità artistica di Corea: quella del piano solo. Piano solo declinato attraverso una varietà di situazioni che testimonia, meglio di mille parole, da un lato l’incredibile conoscenza del repertorio pianistico, dall’altro la capacità di ben interpretarlo. Eccolo quindi alle prese con Mozart, con Gershwin, con Scarlatti, con Bill Evans, con Scriabin, con Antonio Carlos Jobim, con Monk, per chiudere con una serie di brani tratti da quell’inesauribile scrigno costituito dalle sue composizioni. In particolare il primo CD è dedicato a prezzi celebri che tutti conoscono mentre nel secondo è possibile ascoltare tutti brani di Corea eccezion fatta per “Pastime Paradise” di Stevie Wonder. I brani sono tratti da una serie di concerti svolti in vari Paesi europei e statunitensi e ovunque, dinnanzi ad un pubblico che lo acclama, Chick non si risparmia e affronta con disinvoltura i non facili confronti con gli autori su citati. Ma non basta ché Corea si lascia andare anche ad improvvisazioni che testimoniano la valenza di un artista che mai ha fatto ricorso al banale, al facile ascolto, ai cliché spesso di moda. Insomma ancora una volta Corea si concede senza limiti al suo pubblico, senza particolari modalità, fedele al suo motto più volte espresso secondo cui “a me piace – afferma il pianista – che il pubblico ai miei concerti si senta come se stessimo nel mio salotto a discutere del più e del meno”.
Così il suo pianismo conserva intatta la sua originalità e soprattutto quel tocco che lo ha reso celebre. Come ho molte volte sottolineato, quello che trasforma un buon musicista in un grande artista è la riconoscibilità e in un pianista detta riconoscibilità si sostanzia nella originalità del tocco, nel caso di Corea un tocco sublime e straordinariamente controllato.

Daniele Germani – “A Congregation of Folks” – Gleam Records 7004
Album d’esordio per questo alto-sassofonista originario di Frosinone ma di stanza a Brooklyn, NY, ben coadiuvato dal pianista originario dell’Oregon Justin Salisbury, dal bassista Giuseppe Cucchiara e dal batterista sudcoreano Jongkuk Kim. In programma tredici composizioni tutte scritte dal sassofonista che si è fatto le ossa suonando al Wally’s Jazz Cafe, il leggendario jazz club di Boston; in questa città Germani si è trasferito nel 2013 avendo ottenuto una borsa di studio per frequentare il Berklee College of Music. Mentre era lì, è stato ammesso al prestigioso Berklee Global Jazz Institute di Danilo Perez, dove ha studiato sotto la guida di Terri Lyne Carrington, Joe Lovano e del suo mentore, George Garzone. Avendo alle spalle tanti anni di studio e con maestri talmente prestigiosi, Germani si presenta al pubblico italiano come musicista maturo, perfettamente consapevole dei propri mezzi espressivi e in grado di guidare un ensemble ben equilibrato e affiatato grazie al fatto che i quattro si sono conosciuti al Berklee. Di qui una perfetta spaziatura tra gli strumentisti e il giusto tempo dato ad ognuno per esprimere le proprie potenzialità. Così ad esempio in “One Moment To Monet” è il piano di Salisbury a mettersi in particolare evidenza mentre in “Hal Believe It” è l’intera sezione ritmica ad evidenziare la sua bravura nel sostenere magnificamente il solismo del leader. Il quale dà un’impronta all’intero album già nelle primissime note del brano d’apertura quando su un tappeto disegnato dal basso introduce e sviluppa il tema, portandolo dolcemente a conclusione Comunque ad avviso di chi scrive il brano meglio riuscito è “Eres luz”, una suggestiva melodia disegnata anche dal contrabbasso di Cucchiara e che vede l’intero quartetto esprimersi al meglio.

Andrea Goretti – A Light in The Darkness – Dodicilune 503
Undici composizioni originali che il pianista-compositore Andrea Goretti affronta in solitudine. Di qui una duplice fatica: da compositore e da esecutore. E la valutazione non può che essere positiva. Le composizioni appaiono ben strutturate, caratterizzate da introspezione e sincera meditazione, mentre le esecuzioni risultano perfettamente aderenti alle idee dell’artista. Quindi nessuno sfoggio virtuosistico ma un uso intelligente delle dinamiche, una accurata ricerca armonica nell’ambito di un pianismo tecnicamente ineccepibile. Il tutto supportato da una profonda conoscenza della letteratura sia classica sia jazzistica, con specifico riferimento alle tendenze più attuali. Non a caso in repertorio figura anche un brano, “T.T.T. X – Twelve Tone Tune X” costruito con una linea melodica di dodici suoni, ad omaggiare il celebre “Twelve Tone Tune” di Bill Evans. Altra dote di Andrea Goretti la capacità di saper bilanciare scrittura e improvvisazione, pratica quest’ultima, che pur evidenziandosi in tutto l’album si palesa particolarmente in “Neptune’s Blues” e “I giganti”. L’album si chiude con tre pezzi registrati dal vivo durante un concerto a Roma nel novembre del 2018: “Impro I”, “Lamento”, ispirato al blues e “Il Grinch 2”, dedicato, non senza un tocco d’ironia, al periodo natalizio, in particolare a quel personaggio – Grinch per l’appunto – inventato nel 1957 dal Dr. Seuss, che odia il Natale, non ne sopporta l’atmosfera allegra, i canti, i regali e le luci. L’album è impreziosito da una poesia di Umberto Petrin, “Question”, ispirata dalla musica di Goretti.

Pietro Lazazzara – “My Art of Gypsy Jazz” – Stradivarius
Chiarezza esemplare nel titolo dell’album: siano nel campo di un certo ben preciso tipo di jazz che il chitarrista e compositore Pietro Lazazzara frequenta con disinvoltura. Ma sarebbe un errore confinare l’album nell’ambito del “Gipsy Jazz”: in effetti, restando questo la fonte principale da cui trae ispirazione, il percorso di Pietro è più complesso e completo. Eccolo quindi studente di chitarra classico, appassionato conoscitore del flamenco, laureato in musica jazz e infaticabile appassionato ricercatore nell’ambito di uno sconfinato universo musicale. Di qui una musica in cui tutti questi input sono ben amalgamati e condotti ad unità grazie ad una buona verve compositiva e ad una eccellente tecnica esecutiva che si palesa soprattutto nei due brani per chitarra-solo “Passion d’Amour” ed “Echi d’Infanzia”. Nell’album Lazazzara è, in effetti, coadiuvato da Antonio Solazzo al basso e in un brano, “Relax”, da Emanuele Maggiore al flicorno. In cartellone quattordici pezzi scritti dallo stesso chitarrista con l’eccezione di “Douce Ambiance” di Django Reinhardt, “Joseph Joseph” di Kahn, Chaplin, Nellie e “Bistrot Fada” di Stephane Wrembel. Alla fine di un duplice attento ascolto dell’album, si può ben dire che la figura di Lazazzara quale compositore ed esecutore si colloca su livelli più che buoni. Le composizioni appaiono tutte ben scritte, equilibrate, caratterizzate da una sapiente ricerca armonica e si fanno ammirare anche per il notevole bilanciamento tra parti scritte ed improvvisate. L’esecuzione, poi, è raffinata, elegante ad evidenziare un chitarrista sensibile, ispirato, dalla tecnica ineccepibile per quanto misurata e lontana dalla volontà di stupire l’ascoltatore cosicché ogni nota ha il suo preciso perché.

Peggy Lee – The Hits of – All Anglow Again!” – Essential Jazz11443
Peggy Lee (Jamestown, 26 maggio 1920 – Bel Air, 21 gennaio 2002) è stata artista di squisita sensibilità che ha incantato le platee di tutto il mondo. Dotata di una voce non potentissima ma di grande fascino, suggestiva, capace di portare l’ascoltatore in una dimensione “altra”, Peggy ottenne grande popolarità durante l’era dello swing quando lavorò e incise con grandi orchestre dirette, tra gli altri, da Benny Goodman, Nelson Riddle, Billy May. Questo album contiene l’edizione integrale dell’lp “All Aglow Again”; si tratta di una compilation realizzata nel 1960 con in repertorio dodici brani tratti dalle varie registrazioni effettuate sino a quel momento ivi comprese alcune hit come la celebre “Fever” canzone di Eddie Cooley e Otis Blackwell (usando lo pseudonimo di John Davenport) del 1956; incisa per la prima volta da Little Willie John nello stesso anno, diventò di grande successo grazie alla cover di Peggy Lee del 1958 che raggiunse la quinta posizione nel Regno Unito e l’ottava negli Stati Uniti ed in Olanda, vincendo il Grammy Hall of Fame Award 1998. In aggiunta al già citato “All Anglow Again!” il cd in oggetto presenta altri 17 brani scelti tra i maggiori hit della cantante come “Black Coffee”, “Sugar”, “Ain’t We Got Fun” e “La La Lu”. In buona sostanza per chi come il sottoscritto conosce già da qualche decennio l’arte di Peggy Lee nessuna sorpresa ma il piacere di ascoltare alcune delle sue più convincenti interpretazioni; per i più giovani un’occasione da cogliere per fare la conoscenza di una delle migliori cantanti jazz.

Joe Lovano – “Garden of Expression” – ECM 2685
Conosco personalmente Lovano dall’oramai lontano 1982 e l’ho sempre considerato uno straordinario musicista oltre che una bella persona, cosa che mai guasta. Quest’ultimo album ci restituisce un Lovano in forma smagliante, alla testa di quel Trio Tapestry con cui lo avevamo apprezzato nell’omonimo album del 2019, quindi ancora con Marilyn Crispell al piano e Carmen Castaldi alla batteria. Registrato nel novembre del 2019, l’album è dedicato a quanti sono rimasti vittime del Covid 19. Di qui otto brani tutti scritti dallo stesso Lovano che conducono l’ascoltatore in atmosfere rarefatte disegnate dal leader ma ben supportate da pianoforte e batteria che non fanno assolutamente rimpiangere la mancanza del contrabbasso. Si ascolti quindi con quale e quanta delicatezza il pianismo di Marilyn avvolge il sax del leader, quasi a tessere un intricata trama su cui quasi si adagia la voce di Lovano, mentre la batteria di Carmen segue con grande intelligenza e intuito gli intenti del leader. Una musica, quindi, che si sostanzia nell’empatia che i tre evidenziano sin dalle primissime note a conferma di un “idem sentire” tutt’altro che banale. Esemplare al riguardo il suadente “Night Creatures” in cui la Crispell sembra quasi volersi espandere nel comune territorio pronta, però, a cedere il passo all’entrata del sassofono, il tutto porto con estrema delicatezza. Appare quasi come uno standard il successivo “West of the Moon” mentre nella title- track il trio abbandona le melodie disegnate in precedenza per avventurarsi su terreni diversi, quasi vicini ad un certo free, ma che comunque mette in luce un abilissimo e lucido Castaldi il quale non si lascia sfuggire l’occasione per evidenziare il suo, d’altronde ben noto, talento. L’album si chiude con un lungo (oltre 10 minuti) “Zen Like” scandito da campane tibetane che si stacca nettamente da tutto ciò che si è ascoltato sinora.

Shai Maestro – “Human” ECM 2688
Coinvolgente la musica di questo quartetto la cui leadership si potrebbe tranquillamente spartire tra il pianista Shai Maestro e il trombettista statunitense Philip Dizack, coadiuvati da una puntuale sezione ritmica composta dal batterista israeliano Ofri Nehemya e dal contrabbassista peruviano Jorge Roeder. Certo la maestria del pianista israeliano non la scopriamo certo adesso dato che Shai è già al suo sesto disco da titolare, il secondo con l’etichetta ECM, e può vantare anche quattro album di spessore incisi con l’Avishai Cohen Trio. Ma in questo album c’è forse qualcosa di più. Innanzitutto una piena maturità compositiva declinata attraverso un repertorio di undici composizioni tutte sue ad eccezione di “In a Sentimental Mood”. In secondo luogo la piena conferma di uno stile pianistico che nulla aggiunge a ciò che è strettamente necessario ad esprimere la propria individualità, il proprio essere più profondo (si ascolti al riguardo soprattutto “Compassion” e “Hank and Charlie” il commovente omaggio porto a Hank Jones e Charlie Haden, con il contrabbasso di Jorge Roeder in bella evidenza). In terzo luogo la capacità di eseguire al meglio, in modo originale, composizioni non proprie come la su citata pagina ellingtoniana, pezzo tanto affascinante quanto difficile da riprodurre visto l’inevitabile confronto con l’originale. Infine la straordinaria facilità con cui riesce a rapportarsi con i compagni di viaggio; semplicemente perfetta l’intesa con il trombettista assai evidente soprattutto in “Human” e in “They Went to War” mentre la sezione ritmica è sempre lì, presente e discreta, a puntualizzare le linee disegnate da pianoforte e tromba.

Angelo Mastronardi – “Rough Line” – GleamRecords7003
Con questo terzo album da leader, il pianista si ripresenta con la formula preferita del trio assieme al batterista palermitano Melo Miceli e al contrabbassista americano Rogers Anning. In programma 6 composizioni originali scritte dal leader e due standard, “All Things You Are” (J.Kern / O. Hammerstein II) e “Oleo” (S. Rollins). Il terreno è quello di un jazz caratterizzato da una forte carica ritmica e da spiccate individualità che emergono nel corso delle varie esecuzioni; il tutto impreziosito da una accurata ricerca sul suono che si evidenzia ancora più chiaramente quando Mastronardi si produce non solo al pianoforte ma anche al Fender Rhodes. Come si accennava notevole l’apporto solistico di tutti i membri del trio: così ecco il basso di Rogers Anning particolarmente in evidenza in “Everything I Need” mentre la batteria di Melo Miceli si fa apprezzare in “Away From The Scene”. E il leader? A parte la sapienza con cui guida il trio, si ritaglia spazi per convincenti assolo: in particolare nei due brani eseguiti in solitudine, “All The Things You Are” e “7 H-Our”, Mastronardi evidenzia una assoluta padronanza della tastiera che sa utilizzare in maniera completa evidenziando tra l’altro una ottima diteggiatura e una eccellente indipendenza tra le due mani. In particolare il brano di Kern e Hammerstein è porto in maniera originale con l’intento da un canto di preservare la bellezza del tema dall’altro di osare qualcosa di nuovo, alla costante ricerca di quell’equilibrio fra tradizione e sperimentazione che caratterizza tutto l’album ; in “7H-Our” Mastronardi, avendo a che fare con una propria composizione, si muove con sicurezza nel dichiarato intento di sperimentare le possibilità timbriche del Fender.

Lucio Miele – “Kalpa” – Creative Sources Record
Album assolutamente atipico in cui Lucio Miele, percussionista di tradizione classica, dedito alla ricerca e alla sperimentazione, si racconta attraverso sei sue composizioni, affiancato da Simona Fredella alla voce recitata in due brani e da Anacleto Vitolo al mastering. Chi conosce il musicista salernitano troverà in questo album una perfetta continuità con le sue realizzazioni in cui ha sempre cercato di condensare la molteplicità delle sue esperienze. Viceversa per chi questo album rappresenta il primo approccio con la musica di Miele, sicuramente ne resterà sorpreso, nel bene o nel male non spetta certo allo scrivente deciderlo. In ogni caso è opportuno sottolineare che Miele è artista sincero, intellettualmente onesto, che ha sempre seguito la sua strada per quanto ostica fosse la stessa. Certo, fare musica basandosi solo su percussioni ed elettronica non è impresa facile, anche quando si è perfettamente padroni degli strumenti utilizzati (si ascolti ad esempio il convincente uso dell’elettronica in “Mbombo”). Mancano i riferimenti usuali, la linea melodica, l’andamento ritmico è assolutamente frastagliato e imprevedibile, ma quando si approccia una realizzazione di questo tipo i vecchi parametri vanno messi da parte e occorre lasciarsi andare al flusso sonoro. Aprire la mente il cuore, l’anima e lasciare che la musica ci attraversi fin nel profondo alla ricerca di emozioni sopite che forse solo in questo modo saremo in grado di apprezzare. Insomma un album, come si accennava, di non facile ascolto ma che vale la pena fruire ma, ripetiamo, con disponibilità e attenzione…altrimenti è meglio lasciar perdere.

Roberto Ottaviano – “Resonance & Rapsodies” – Dodicilune
Doppio album del sassofonista (soprano) e compositore pugliese Roberto Ottaviano, affiancato in “Resonance” dal quartetto Eternal Love composto da Marco Colonna (clarinetti), Giorgio Pacorig (piano, rodhes), Giovanni Maier (contrabbasso) e Zeno De Rossi (batteria), ampliato dalla presenza di Alexander Hawkins (piano), Danilo Gallo (contrabbasso e basso acustico) e Hamid Drake (batteria), mentre nel secondo CD, “Rapsodies” solo dal quartetto Eternal Love. Una realizzazione, quindi, particolarmente impegnativa che non a caso ha vinto l’annuale referendum come miglior disco italiano del 2020. Ora, a prescindere dal valore che valutazioni del genere possono avere o non avere, resta il fatto che a mio avviso raramente una produzione discografica è stata così meritevole di tali considerazioni. In effetti Roberto Ottaviano è artista di grandissimo livello, tra i migliori che l’attuale scena jazzistica, non solo italiana, possa annoverare. La sua mente compositiva è sempre lucida, attuale, capace di cogliere i fermenti più significativi che attraversano l’universo musicale senza distinzione di genere mentre le modalità esecutive evidenziano un bagaglio tecnico molto profondo, talmente ben assorbito da non necessitare di alcuna palese esposizione e che, di conseguenza, si sostanzia in uno stile asciutto, senza fronzoli, che nulla lascia all’esibizionismo. L’intento che sta alla base dell’opera è, come afferma lo stesso Ottaviano, “una sorta di omaggio alla ricerca di quella sofferta poetica che fa parte della condizione umana”. Per dare forza e concretezza a questi concetti, Roberto fa ricorso ad una musica declinata attraverso ventitré brani in larga misura da lui stesso scritti in cui non mancano i riferimenti alla musica classica contemporanea. Ma è la pratica collettiva il dato fondamentale di questo doppio CD, una pratica che consente una sorta di doppione del sax di Ottaviano con i clarinetti di Marco Colonna, che risultano essenziali per allargare a dismisura il concetto di suono. Se volessimo sintetizzare in poche parole il significato più profondo di questo “Resonance & Rapsodies” si potrebbe forse dire che nel momento in cui rievoca le esperienze del passato Ottaviano non rinuncia a guardare oltre, non rinuncia ad una ricerca che costituisce una delle cifre fondamentali del suo essere artista.

Dino Piana – “Al gir dal bughi” – PMR, Jando Music
90 anni e non sentirli…o meglio che bel sentire ci procura questo nuovo album del trombonista Dino Piana. Conosco oramai da molti anni la premiata ditta composta da Dino e Franco Piana e ne ho sempre ricavato una bella impressione e non solo dal punto di vista squisitamente musicale, visata la gentilezza, la signorilità con cui i due amano rapportarsi con noi critici e giornalisti. Ma è il versante artistico su cui tocca concentrarsi in questa sede e allora dico, immediatamente, che l’album si colloca su quegli alti livelli cui Dino e Franco Piana ci hanno abituati oramai da decenni. Con in più un elemento di notevole importanza: il CD è stato fortemente voluto da Enrico Rava (storico amico di Dino Piana) e da Franco Piana per festeggiare i 90 anni (a luglio 91) del trombonista piemontese. Di qui la strutturazione di un organico d’eccellenza in cui accanto ai senatori Rava al flicorno e Dino Piana al trombone figurano Franco Piana al flicorno, Julian Oliver Mazzariello al piano, Gabriele Evangelista al contrabbasso e Roberto Gatto alla batteria. Di qui la scelta di un repertorio oggi non di moda: nove standard celeberrimi – “Bernie’s Tune”, “Dear Old Stockholm”, “Everythings Happens To Me”, “I’ll Close My Eyes”, “Line For Lions”, “Rhythm A Ning”, “Polka Dotz and Moonbeams”, “When Light Are Low”, “When Will The Blues Leave” – che tutti, più o meno, si richiamano a quell’hard bop da cui in buona sostanza è poi derivato tutto il jazz moderno. Il gruppo si esprime con bella compattezza impreziosito dal fitto dialogo tra i fiati e dagli assolo di Dino che non si risparmia anzi fa sentire ben nitida la voce del suo strumento in ogni brano. Gli standard fluiscono genuinamente ‘freschi’ come se il tempo non fosse trascorso e l’ascolto è sempre gradevole anche se occorre attenzione per catturare le mille sottigliezze dell’esecuzione. Una precisazione: lo strano titolo deriva dal fatto che durante il primissimo incontro tra Rava e Piana, quest’ultimo associò al blues in fa il giro armonico del boogie-woogie per l’appunto “Al gir dal bughi”.

Marcello Rosa – “The World On A Slide” – Alfa Music 236
Straordinario viaggio nel mondo del trombone. A fungere da gran cerimoniere è Marcello Rosa, uno dei personaggi più rilevanti dell’universo jazzistico nazionale. Conosco Marcello personalmente oramai da tanti anni e so perfettamente quanto ami la sua musica e quanta passione metta in ogni cosa che fa. Ovviamente a quest’aurea regola non sfugge “The World On A Slide” una raccolta di ben sedici brani –molti originali, altri scelti tra le più belle melodie del repertorio jazzistico del XX secolo – ma tutti suonati e arrangiati da Rosa nel corso della sua vita. Ebbene per questa sua ultima fatica discografica, Marcello ha voluto coronare un bel sogno: incidere un disco di soli e tanti tromboni. Ha così chiamato accanto a sé alcuni specialisti non solo del jazz ma anche della musica colta. Ed eccoli tutti i nomi dei temerari che hanno partecipato all’impresa: dalla musica colta Andrea Conti I trombone dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Luigino Leonardi trombonista presso la Banda musicale dell’Aeronautica Militare, Gianfranco Marchesi trombone basso dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e il Quartetto italiano di tromboni, formato da Devid Ceste secondo trombone dell’Orchestra sinfonica nazionale della RAI, Matteo De Luca I trombone dell’orchestra della Suisse Romande di Ginevra, Diego Di Mario I trombone presso l’Orchestra sinfonica nazionale della RAI e Vincent Lepape I trombone dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino. Dal mondo del jazz sono arrivati i già ‘collaudati’ Andrea Andreoli, Mario Corvini, Massimo Morganti e Roberto Rossi; accanto a loro i giovanissimi e brillanti Stefano Coccia, Elisabetta Mattei, Federico Proietti e il G.E.F.F. Trombone Quartet, composto da Giovanni Dominicis, Francesco Piersanti, Eugenio Renzetti e Gabriele Sapora. In taluni pezzi c’è pura una sezione ritmica composta da Paolo Tombolesi al pianoforte, Luca Berardi e Roy Panebianco alla chitarra, Marco Siniscalco al contrabbasso e basso elettrico, Cristiano Micalizzi alla batteria e Filippo La Porta alle percussioni. Il risultato è semplicemente entusiasmante: come si diceva una volta ‘dove peschi peschi bene’ ed in effetti tutte le esecuzioni contengono una carica tale da mai lasciarti indifferente. Qualche titolo? “Autumn Leaves” con Massimo Morganti in veste di solista, la suadente “Southern Ballad” che ad onta delle difficoltà di realizzazione narrate da Rosa è venuta molto bene con Roberto Rossi solista, il sempre toccante “What Are You Doing the Rest of Your Life” affidato al Quartetto Italiano di Tromboni con Gianfranco Marchesi. Da segnalare infine che come bonus track figurano “Miss Magnolia Lee” del giugno 1974 con Enrico Pieranunzi piano, Alessio Urso basso e Gegè Munari batteria e “Il ladro di noccioline” del 1980 con Daniele Cestana piano, Nanni Civitenga chitarra e chitarra basso e Enzo Restuccia batteria.

Bob Salmieri – “…and Mama Was a Belly Dancer” – Cultural Bridge
Il sassofonista tenore romano Bob Salmieri si è già fatto conoscere da quando, nel 2016, costituì l’Erodoto Project, i cui album sono stati recensiti su questi stessi spazi. E’ di pochi mesi fa la costituzione del ‘Bob Salmieri Bastarduna Quintet’ con Giancarlo Romani alla tromba, Vincenzo Lucarelli organo e piano, Maurizio Perrone contrabbasso e Massimiliano de Lucia alla batteria, ospite in tre brani il vibrafonista e pianista polacco Mateusz Nawrot. In piena pandemia il gruppo incide il disco “…and Mama was a belly dancer” per Cultural Bridge, declinato attraverso otto composizioni tutte del leader che anche come strumentista non si risparmia di certo per tutta la durata dell’album. Due le necessarie premesse: nell’intento di Salmieri si tratta di un concept album in quanto rivede e rivive i sogni di un uomo-bambino che costruisce i suoni, i sapori, i colori di un tempo lontano e di un mondo sognato. In secondo luogo il termine Bastarduna con cui si è voluto caratterizzare il gruppo indica una varietà pregiata di fichi d’India a voler indicare la strada ‘mediterranea’ che il gruppo intende perseguire. Ora se, more solito, almeno per me è assai difficile stabilire se la musica coincide con l’impianto concettuale che dovrebbe sostenerla, non c‘è invece dubbio alcuno sul fatto che il jazz proposto si inserisca nel solco di un’ispirazione di impronta chiaramente mediterranea, particolarmente evidente in “Madame oculus” e “Men With The Painted Faces” impreziosito da un bell’assolo di Lucarelli all’organo. Dal punto di vista della linea melodica, particolarmente apprezzabile “The Flying Devils”. Comunque è tutto l’album che si snoda attraverso un filo rosso che vede in primo piano il fitto colloquio tra i due fiati ben sostenuti dalla sezione ritmica con l’ospite polacco in grado di ben inserirsi nel discorso collettivo con assoli di pregevole fattura (lo si ascolti in “The Balinese Dancer (Reprise)”.

Roberto Spadoni – “Mah” – Sword Records
Anche Roberto Spadoni fa parte delle mie oramai lunghe amicizie musicali ed è proprio partendo da questa base che mi sento di affermare la valenza dello stesso quale musicista assai ben preparato e che, tutto sommato, non ha ancora ottenuto i riconoscimenti che merita. Adesso, dopo lunghi anni in cui ha suonato la sua fida chitarra, diretto organici di varie dimensioni, composto, insegnato, si cimenta con qualcosa di nuovo: produrre, promuovere e diffondere la sua musica seguendola in tutta la sua lunga filiera, dalla composizione alla registrazione, dal progetto grafico alla stampa e alla diffusione. Di qui la creazione di una label che – con una venatura di ironia – sottolinea Spadoni ha chiamato ‘Sword Records’. “Mah” è per l’appunto la prima realizzazione targata ‘Sword Records’ per cui il leader-chitarrista si esibisce con Fabio Petretti (sax tenore & soprano), Paolo Ghetti (contrabbasso) e Massimo Manzi (batteria). In programma nove composizioni originali tutte scritte dal leader a conferma di quanto su accennato a proposito della poliedricità di Roberto. L’album è sicuramente apprezzabile sia per l’originalità della scrittura così ben equilibrata sia per la bravura dei singoli notevoli nella parti d’insieme così come nei vari assolo. Ecco quindi il contrabbasso di Paolo Ghetti farsi apprezzare in “Remore morali” un brano non nuovo ma sempre affascinante. In “Girotondo” è la batteria di Massimo Manzi in primo piano, impegnata in un fitto dialogo con i compagni di viaggio mentre in “Borgo antico” si apprezza Fabio Petretti impegnato a disegnare una fluida linea melodica. Dal canto suo il leader non fa mancare il suo apporto solistico in ognuno dei brani apparendo, almeno a chi scrive, particolarmente convincente in “Buonanotte”. Ottima anche la chiusura con “Ce la posso fare” un pezzo che, evidenzia ancora Spadoni, egli ha diretto molte volte e che comunque rappresenta una sorta di mantra, un augurio, “una carica di energia positiva”, impreziosito nell’occasione dagli assolo di Petretti e di Spadoni.

Barney Wilen & Alain Jean-Marie – “Montreal Duets” – Elemental 2 CD
Vi piace la “buona” musica senza distinzione di stili, di epoca, di messaggi più o meno espliciti…insomma senza se e senza ma? Se la risposta è affermativa allora dovete ascoltare questo doppio album. Siamo nella Chiesa di Gesù, a Montreal (Canada) il 4 luglio del 1993 in occasione dell’annuale Festival del jazz. In programma per un doppio concerto pianificato alle 20 e alle 22,30 un duo d’eccezione composto da Barney Wilen al sax tenore e dal pianista martinicano Alain Jean-Marie. Già a quell’epoca i due avevano lungamente suonato assieme sin dagli anni ’80 potendo vantare una propria ben solida reputazione. In particolare Barney era considerato uno dei più prestigiosi sassofonisti francesi avendo, tra l’altro, collaborato con Miles Davis per la colonna sonora del film “Ascenseur pour l’Échafaud” nel 1957 mentre Alain a conferma di una carriera prestigiosa aveva ricevuto il “Prix Django Reinhardt” e nel 2000 il “Django d’Or”. Ora se è vero che nel mondo della musica e del jazz in particolare non sempre uno più uno fa due, questa volta si potrebbe ben dire che invece fa tre. Ascoltarli nelle loro evoluzioni è davvero un piacere tale e tanta è la fluidità del loro linguaggio. I due si intendono a meraviglia, si inseguono, si interrompono, si passano la palla senza soluzione di continuità nel rispetto di soluzioni ritmiche che guardano da vicino alla grande tradizione del bop. Non a caso Alain Jean-Marie agli inizi della carriera era stato avvicinato stilisticamente a Bud Powell. Nell’ampio programma enucleare qualche brano è davvero difficile anche se una menzione particolare la merita la splendida ballad di Gordon Jenkins, “Good Bye”, pezzo con cui Barney Wylen chiuse la sua performance a Caen il 14 marzo 1996 in quello che sarebbe stato il suo ultimo concerto. Ascoltando “Good Bye” non ci si può non lasciar prendere da una ondata di malinconia nel ricordo di un grande artista che anche nell’esecuzione presente in questo album evidenzia una classe e una musicalità senza pari. E vorrei chiudere citando le parole di Jean-Paul Sartre riportate da Pascal Anquetil nel booklet del disco: “il y a un gros homme qui s’époumone à suivre son trombone dans ses évolutions, il y a un pianiste sans merci, un contrebassiste qui gratte ses cordes sans écouter les autres. Ils s’adressent à la meilleure part de vous-même, à la plus sèche, à la plus libre, à celle qui ne veut ni mélancolie ni ritournelle, mais l’éclat étourdissant d’un instant. Ils vous réclament, ils ne vous bercent pas”.

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Ferenc Snétberger, Keller Quartett – Hallgató – ECM New Series 2653
Com’è nostra consuetudine, consentiteci una tantum qualche digressione al di fuori degli ambiti prettamente jazzistici. Questa volta lo facciamo per segnalarvi questo album targato ECM New Series, dedicato al dolore vissuto da molti nel corso dei secoli senza motivo alcuno, che vede come protagonisti il chitarrista ungherese Ferenc Snetberger, il terzo pubblicato da ECM, e il Keller Quartet, anch’esso costituito da musicisti ungheresi. L’album, registrato in concerto nella Grand Hall della Liszt Academy di Budapest nel dicembre 2018, presenta un programma interamente dedicato alla musica classica. L’apertura e la chiusura sono dedicati a brani dello stesso Snétberger, inframmezzati da composizioni di Dimitri Shostakovich (il Quartetto per archi N. 8 in Do minore dedicato alle vittime della guerra e del fascismo), John Dowland ( “I Saw My Lady Weep” per chitarra e quartetto d’archi, e “Flow, My Tears” per chitarra e violoncello), Samuel Barber (lo struggente “Adagio for strings” interpretato dal solo “Keller Quartet”. Dal canto suo Ferenc Snetberger presenta alcune sue composizioni che non sfigurano al cospetto di contati autori. Così il “Concerto In Memory of My People,” in tre movimenti, composto da Snétberger nel 1994 per chitarra e orchestra, e qui riproposto in un arrangiamento per chitarra e quintetto d’archi, coglie perfettamente nel segno riuscendo a trasmettere l’ispirazione dell’autore che ricorda e dedica questa musica alla memoria dei suoi antenati gitani Roma e Sinti (cui il chitarrista appartiene) perseguitati e uccisi nei secoli. L’album si chiude con due composizioni del chitarrista, “Your Smile” per chitarra solo, unico brano in cui ci si distacca dalla sensazione di tristezza e dolore che domina tutto il CD e “Rhapsody No.1, for Guitar and Orchestra” qui però nella versione per chitarra e quintetto d’archi.
Che altro aggiungere se non che alla bellezza dei brani si aggiunge la valenza di Ferenc Snétberger che si conferma esecutore e compositore di sicuro livello.

I nostri CD

Cari Amici,
archiviato questo Natale piuttosto atipico, per usare un eufemismo, ci accingiamo ad affrontare il nuovo anno con molte speranze e pochissime certezze. Ma, dal momento che dovremo trascorrere ancora molto tempo tra le mura di casa, vi propongo una serie di album che vale la pena ascoltare.
Buona Musica e Buon Anno.

AB Quartet – “I bemolli sono blu” – TRJ records
L’AB Quartet è un gruppo costituito da Antonio Bonazzo (pianoforte), Francesco Chiapperini (clarinetto e clarinetto basso), Cristiano Da Ros (contrabbasso), Fabrizio Carriero (batteria e percussioni). L’album prende le mosse da un obiettivo esplicitamente dichiarato da Bonazzo: elaborare, in occasione del centenario dalla morte di Claude Debussy nel 2018, un progetto basato su arrangiamenti di musica di questo compositore francese.
E il titolo viene proprio da una frase di Debussy che in una lettera parla della sua visione della musica legata principalmente ad aspetti extramusicali come il colore. Di qui un repertorio di sette brani originali. Come al solito quando un album dichiara un intento si pone la classica domanda: obiettivo raggiunto? Onestamente mi risulta difficile fornire una risposta. Comunque è innegabile che i temi scelti si facciano ascoltare con attenzione così come è innegabile che in alcuni passaggi risulti evidente l’influenza di Debussy. Pertinente è anche il linguaggio adoperato dal gruppo il che non stupisce ove si tenga conto che il gruppo affonda le proprie radici nella tradizione classica. Proprio per questo i brani sono prevalentemente scritti anche se non mancano ampi spazi per le improvvisazioni singole e collettive. Un esempio di quanto sin qui detto lo si trova già nel primo brano, “Moon”; il riferimento è al “Clair de Lune” vagamente richiamato nella linea melodica per lasciare subito il posto ad una reinterpretazione cesellata dal pianoforte di Bonazzo, mentre i clarinetti di Chiapperini creano un impasto strumentale dalle timbriche originali, con batteria e contrabbasso a intessere un impianto ritmico molto più sostenuto rispetto all’originale.

Tiziana Bacchetta – “Driving Home for Christmas” – G.T.
Un’indispensabile premessa: io non amo particolarmente gli “album di Natale” per cui mi sono accinto ad ascoltare questo album con una buona dose di scetticismo. Ma poi, nota dopo nota, minuto dopo minuto, ho cambiato radicalmente idea tanto da poter affermare che questo è un CD di sicuro livello. E ciò per una serie di motivi che cercherò di elencare non in ordine di importanza. La scelta del repertorio: la vocalist romana, ad eccezione dei ben noti “Have Yourself a Merry Little Christmas” di Martin -Blane e “White Christmas” di Irving Berlin, ha preferito presentare brani, tutti musicalmente validi e raffinati ma assai meno battuti. Ovviamente ciò non sarebbe stato sufficiente; ecco quindi arrangiamenti sapidi, ben studiati e curati in ogni minimo aspetto con un gruppo affiatato in cui spicca l’individualità di Giacomo Tantillo, trombettista e flicornista siciliano di Palermo che passo dopo passo si avvia a diventare una certezza del panorama jazzistico nazionale. A questo punto sarebbe ingiusto non citare gli altri componenti il gruppo, vale a dire Raffaele Cervasio chitarra, Arturo Valente piano e Rhodes, Carlo Bordini batteria e Guerino Rondolone basso. Ma, com’è fin troppo ovvio, il merito principale dell’ottima riuscita dell’album è della leader, Tiziana Bacchetta. Giunta al suo terzo album, l’artista dà prova di grande maturità sfoggiando notevoli capacità interpretative supportate da un voce ben educata che riesce a transitare senza sforzo alcuno attraverso atmosfere assai differenziate. Ecco quindi il bruciante blues “Christmas Tears” portato al successo da Freddy King uno dei più talentuosi chitarristi del blues elettrico contemporaneo e interpretato dalla Bacchetta con trasporto e una voce ruvida il giusto, ecco la “Title Track” un brano bellissimo di Chris Rea, fino alla conclusione con l’evergreen “White Christmas” di Irving Berlin. Insomma una bella musica che ci accompagna verso le prossime festività, una sorta di raggio di luce in un panorama piuttosto plumbeo.

Michel Benita – “Looking at Sounds” – ECM
L’etichetta Ecm dedica meritoriamente due album alla scena francese, questo di Michel Benita e un altro di Matthieu Bordenave di cui ci occupiamo qui di seguito. In “Looking at Sounds” il contrabbassista franco-algerino Michel Benita si presenta in quartetto con il connazionale Philippe Garcia alla batteria, lo svizzero Matthieu Michel al flicorno e il belga Jozef Dumoulin, specialista del piano elettrico. L’album è giocato su due elementi: una raffinata ricerca timbrica e melodica, e la prevalenza del sound collettivo rispetto all’assolo. Il repertorio si compone di undici pezzi scritti in massima parte dallo stesso Benita da solo o in collaborazione con altri, cui si aggiungono due brani famosi, “Inutil Paisegem” di Antonio Carlos Jobim e Louis Olivera, e “Never Never Land” di Styne, Comden, Green. L’intro affidata al leader è una sorta di manifesto dell’intera poetica dell’album: la linea melodica, suggestiva e cantabile, disegnata dal flicorno di Matthieu Michel, viene costantemente supportata dal basso e dalla batteria di Garcia, in questo caso con mirabile gioco di spazzole, mentre Demoulin si limita a sottolineare alcuni passaggi contribuendo, però, in maniera determinante a creare quella particolare timbrica che costituisce una caratteristica dell’album. E il clima intimista, di rara suggestione si avverte per tutta la durata dell’album anche se non mancano episodi particolari come “Cloud To Cloud” declinato sul filo di una improvvisazione collettiva e il conclusivo “Never Never Land” in cui il leader, in splendida solitudine, si produce in uno dei più centrati assolo dell’album. Gustosa, infine, l’interpretazione di “Inútil Paisagem”.

Roberto Bindoni Unquiet Quartet – “Mediterranean Cowboy” – Alfa Music
E’ uscito di recente l’album d’esordio dell’Unquiet Quartet di Roberto Bindoni; il chitarrista (eccellente anche al pianoforte, strumento che però in questa occasione non usa) è accompagnato da Matteo Cuzzolin al tenore, Marco Stagni al contrabbasso e Filip Milenkovic alla batteria. Si tratta di una prova particolarmente impegnativa per Bidoni il quale si presenta anche come autore dell’intero repertorio, nove brani che riescono a ben catalizzare l’attenzione dell’ascoltatore. La linea stilistica oscilla tra il jazz modale e quelle atmosfere nordiche che abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli ultimi decenni grazie ad artisti quali Jan Garbarek o Jan Balke tanto per fare qualche nome. Le atmosfere sono quindi in linea di massima pacate, con una riconoscibile linea melodica e un ritmo sostanzialmente lento, ragionato, il tutto impreziosito da arrangiamenti ben scritti sia che riguardino le parti completamente scritte sia che facciano un passo indietro per lasciare spazio all’improvvisazione, terreno su cui si muove particolarmente bene il sax tenore di Cuzzolin (lo si ascolti in “Unquiet Place” e nel già citato “Kamikaze”). Particolarmente suggestivo “Encanto” con il leader in bella evidenza. Certo, come si accennava si tratta di un disco d’esordio per cui i margini di miglioramento ci sono, ma già a questo punto è un bel sentire.

Matthieu Bordenave – “La traversée” – ECM

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Ecco il primo album da leader del sassofonista francese Matthieu Bordenave in trio con il tedesco Florian Weber al pianoforte e lo svizzero Patrice Moret al contrabbasso. In programma nove brani tutti composti dallo stesso sassofonista. Come espressamente dichiarato dallo stesso leader, l’idea musicale che ha ispirato l’album è quella del trio formato da Jimmy Giuffre, Paul Bley e Steve Swallow circa sessanta anni addietro ma ancora oggi attualissima. Di qui una musica allo stesso tempo moderna nel sound e nella ricerca di un linguaggio vicino alla musica contemporanea ma allo stesso tempo fortemente ancorata al passato. E la cosa si spiega assai bene ove si tenga conto che Bordenave può vantare una preparazione anche classica. L’album oscilla, quindi, tra questi due poli in una sorta di camerismo particolarmente attento allo spazio e alle sfumature che evidenzia al meglio le potenzialità dei tre artisti. Così se il sax del leader rimane costantemente in primo piano, con un sound non particolarmente robusto ma personale, pianoforte e contrabbasso non si limitano ad una funzione di supporto fornendo un contributo importante anche nella costruzione della linea portante; si ascolti al riguardo il sontuoso assolo di Patrice Moret in “Ventoux” o quello di Weber nel successivo “Incendie blanc”. Insomma nonostante la mancanza di una qualsivoglia percussione, la ‘traversata’ del trio solca mari non sempre placidi, alla costante scoperta di nuovi orizzonti.

Yilian Canizares – “Erzulie” – Planeta Y
Questo è uno dei pochi album che vi consiglierei di ascoltare più e più volte tale e tanta è la ricchezza di contenuti in esso racchiusa. La violinista, cantante e compositrice cubana Yilian Canizares si conferma una delle artiste più originali apparsa sulla scena musicale degli ultimi anni grazie ad una concezione musicale che le consente di accorpare una formazione di base classica e i ritmi, le melodie, le danze della sua madre patria. E tutto ciò si appalesa con grande semplicità nell’album in oggetto, registrato a New Orleans ma che in realtà prende vita da un viaggio nel 2017 ad Haiti. Quì Yilian ha avuto modo di confrontarsi con i Boukman Eksperyans, band storica che prende il nome da Dutty Boukman, un sacerdote vodou che condusse una cerimonia religiosa nel 1791, considerata l’inizio della rivoluzione haitiana. Non a caso l‘album è dedicato a “Erzulie”, divinità del pantheon vudu che personifica l’essenza della femminilità e la sensualità. In effetto l’intento della Canizares è più ampio: “raccontare la storia dell’Africa attraverso i suoi figli creoli: Haiti, Cuba e New Orleans […] musica che deriva quindi da un legame che non è morto malgrado tutto ciò che è successo storicamente”. Accanto all’artista cubana troviamo un quartetto di musicisti di nazionalità e culture musicali diverse, The Maroons, altro riferimento alla storia libertaria caraibica, che allineano Paul Beaubrun (chitarrista e vocalist haitiano), Childo Tomas (basso, cori e kalimba dal Mozambico), Charlie “BKVK” Burchell (batteria e tastiere, statunitense di New Orleans) e Inor Sotolongo (percussionsta cubano). A questi si aggiungono svariati ospiti a tromba, contrabbasso, organo, tastiere, percussioni, violoncello e flauto, a costituire una formazione straordinaria. L’album si apre con la romanticamente coinvolgente “Habanera” e si chiude con “Yeyé” cantata in dialetto yoruba (o lucumi), così come “Yemayá” mentre nella title track e in “Noyé” l’artista utilizza il creolo haitiano. Un’ultima notazione tutt’altro che secondaria: nel brano “Libertad” sono inserite le voci campionate di tre donne di epoche diverse particolarmente significative in merito alle tematiche trattate: Simone de Beauvoir, Malala e Nina Simone.

Donatello D’Attoma – “Oneness” – Dodicilune
Donatello D’Attoma è uno dei pianisti più interessanti che si pone nella linea stilistica tracciata da alcuni grandi della tastiera, Thelonius Monk in primis e, andando più indietro nel tempo, Bill Evans. In questo album il pianista si presenta in trio con il siciliano Alberto Fidone al contrabbasso e il romano Enrico Morello alla batteria. In programma otto brani di cui ben sette dovuti alla penna del leader che quindi si dimostra anche prolifico e valente autore. La chiusura è invece affidata ad una composizione, guarda caso, di Thelonious Monk, “Coming On Thwe Hudson”. Il trio è affiatato, ben guidato e ricco di interventi solistici che impreziosiscono ogni esecuzione. Intendiamoci: nessuna dimostrazione muscolare o interventi tesi a stupire l’ascoltatore, ma grande attenzione all’espressività e quindi alla volontà di trasmettere la tensione emotiva che i tre avvertono, in un costante equilibrio tra pagina scritta e istintiva improvvisazione. In particolare D’Attoma evidenzia una solida tecnica di base cementata sia dagli studi classici sia dalla profonda conoscenza della letteratura jazzistica; di qui un rigoroso controllo di ogni elemento dell’esecuzione con un pianismo solido, raffinato, essenziale ben supportato dai compagni d’avventura che, seguendo la lezione di Evans, ricoprono un ruolo tutt’altro che marginale. E ciò appare evidente sin dal primo brano, “Fluorescent Light”, in cui i tre si muovono empaticamente, caratteristica che viene conservata per tutta la durata dell’album. I brani sono tutti godibili e ben articolati come in una sorta di percorso che mai perde d’intensità.

Elina Duni, Rob Luft – “Lost Ships” – ECM
Registrato nello studio La Buissonne nel sud della Francia nel febbraio del 2020, questo album, in quattro lingue – albanese, francese, inglese, salentino- vede la cantante svizzero albanese Elina Duni ed il chitarrista britannico Rob Luft (la cui collaborazione risale al 2017) coadiuvati da Matthieu Michel al flugelhorn (lo si ascolti particolarmente in “Brighton”) e Fred Thomas piano e batteria. A scanso di equivoci, in questo caso il jazz appare marginale ma l’album è notevole e vale quindi la pena segnalarlo. Il programma, pur essendo assai variegato, presenta come temi centrali quelli dell’emigrazione e della difesa della natura declinati attraverso brani tradizionali, composizioni originali e due canzoni rese famose rispettivamente da Frank Sinatra e Charles Aznavour. In un cartellone siffatto appare evidente come molteplici debbano essere stati gli input ed è la stessa Duni a confermarlo: «Ci sono canzoni – afferma – che hanno influenze del passato, con il suono dell’Albania ed il folclore mediterraneo sempre presenti, ma volevamo esplorare anche altre radici musicali: ballate jazz senza tempo, canzoni francesi, canzoni popolari americane…. ». Comunque l’album, come si accennava, è di assoluto livello grazie soprattutto alla maestria di vocalist e chitarrista, l’una sempre più convincente nell’interpretazione di tematiche assai delicate, l’altro in grado di sottolineare ogni passaggio con rara discrezione e altrettanta pertinenza. Così la musica acquista attimo dopo attimo sempre più consistenza, sorretta da un’intesa non comune come evidenziato nel brano in inglese, “The Wayfaring Stranger”. Il controllo delle dinamiche è assoluto così come la capacità di ricondurre ad un unicum le quattro voci melodiche. Infine una perla di raffinatezza la chiusura con “Hier Encore” di Aznavour presentata in duo, chitarra e voce.

Erodoto Project – “Mythos Metamorphosis” – Cultural bridge
Bob Salmieri sax tenore e soprano, ney, turkish klarinet, Alessandro de Angelis grand piano, Rhodes piano, Maurizio Perrone contrabbasso, Giampaolo Scatozza batteria e Carlo Colombo percussioni sono i responsabili dell’“Erodoto Project” giunto alla sua terza tappa attraverso i miti e le leggende del Mediterraneo. Dopo “Stories: Lands, Men And Gods” (2016) e “Molòn Labè” (2017) arriva “Mythos Metamorphosis” in cui il gruppo è affiancato dal Mirò String Trio, al secolo Fabiola Gaudio violino, Lorenzo Rundo viola e Marco Simonacci violoncello. In repertorio undici originali composti da Salmieri e De Angelis declinati attraverso l’avventura di Ulisse che affronta e resiste alle lusinghe delle sirene. Ecco quindi richiamate le leggende di Aci e Galatea, di Ifi e Iante, della Sibilla Cumana…via via fino al brano di chiusura dedicato a “Leucosya”, una delle tre sirene che, secondo la mitologia greca, viveva sugli scogli della baia di Salerno assieme a Partenope e Ligea. Essendo questo il quadro di riferimento, è chiaro che la musica prodotta dovesse in qualche modo riferirsi alle varie culture che dal Mediterraneo traggono linfa vitale. E così è stato. Ancora una volta Salmieri e compagni tengono fede alle premesse e ci regalano una musica di grande intensità caratterizzata da suadenti linee melodiche, armonizzazioni semplici ma non per questo banali e una tavolozza timbrica impreziosita, nell’occasione, dal trio d’archi i cui arrangiamenti sono stati curati da Alessandro de Angelis. Insomma un jazz senza etichette, non ascrivibile ad uno stile piuttosto che ad un altro, ma una musica libera che prende per mano l’ascoltatore e lo trasporta in un altrove impossibile da etichettare.

Marco Fumo – “Reflections” – Odradek Records
Merco Fumo è personaggio ben noto ed apprezzato nell’ambiente jazzistico. La sua padronanza strumentale e la sua profonda conoscenza del lessico jazzistico ne fanno personaggio di assoluto rilievo. E questo album ne è l’ennesima conferma in quanto riesce ad evidenziare, come meglio non si potrebbe, i numerosi legami – ora palesi ora più nascosti – tra l’universo euro-colto e la musica afroamericana. In un flusso rapido e spesso trascinante scorrono quindi alcuni degli autori che hanno fatto la storia della musica tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento sulle due sponde dell’Oceano Atlantico. Da Scarlatti a Joplin, da Stravinsky a Nazareth, da Debussy a Ellington tanto per fare qualche nome. Ovvero dal ragtime, dal choro, dal tango, dal blues, dallo stride piano…al jazz e alla musica classica europea in un confronto tutt’altro che banale, alla scoperta di consonanze spesso inaspettate. E’ quanto si nota, come si legge nelle note che accompagnano l’album, ascoltando il “Tango” di Stravinsky risalente al 1940 e il “Café de Barracas” di Eduardo Arolas del 1920: la concezione delle masse sonore presenta molti punti di contatto nel pensiero dei due compositori. Più evidente, è ovvio, il rapporto tra il ragtime di Scott Joplin e lo stride piano di James P. Johnson. E di questi esempi se ne possono fare molti altri costituendo per l’appunto questo il punto focale della ricerca di Marco Fumo il quale ama sottolineare come nella sua vita abbia “frequentato sempre tutta la musica, indistintamente” non facendosi mai limitare “da barriere o pregiudizi”.

Danilo Gallo, Dark Dry Tears – “Hide, Show Yourself!” – PMR
Dopo lo splendido album “Thinking Beats Where Mind Dies” del 2016, il quartetto “Dark Dry Tears” si ripresenta al pubblico del jazz con un organico leggermente diverso in quanto al posto di Francesco Bearzatti figura Massimiliano Milesi (sax tenore e soprano e clarinetto) mentre rimangono al loro posto Francesco Bigoni (sax tenore e clarinetto), Jim Black (batteria) e ovviamente Danilo Gallo al basso elettrico. In programma tredici brani tutti composti da Gallo. Ciò detto rimane sostanzialmente identica la cifra stilistica del gruppo che evidenzia ancora una volta i suoi punti di forza nell’intenso dialogo tra i due fiati, nell’incessante straordinario supporto ritmico di Jim Black (a mio avviso uno dei migliori batteristi oggi in circolazione) e nella sapiente direzione di Gallo che si fa valere non solo per l’apporto ritmico ma anche per la spinta propulsiva forniti dal suo strumento. Quanto al ruolo dei fiati, lo stesso appare evidente sin dal primo brano per proseguire, senza soluzione di continuità, fino al pezzo di chiusura. Interessante notare come l’uso del sax soprano da parte di Milesi conferisca un sapore nuovo alla tavolozza timbrica del gruppo che presenta una compattezza, una omogeneità tutt’altro cha facili da raggiungere. I quattro si muovono in perfetta simbiosi, senza un attimo di incertezza ad interpretare le sapienti composizioni di Gallo la cui raffinatezza è soprattutto evidente nelle introduzioni e nelle chiusure dei singoli brani. Si ascolti al riguardo come il basso elettrico introduca l’intero album nel brano “Demolition” caratterizzato in seguito da un trascinante crescendo.

Keith Jarrett – “Budapest Concert” – 2 CD – ECM
Di recente su questi stessi spazi il nostro Massimo Giuseppe Bianchi si è occupato di Keith Jarrett esaminandone due aspetti: il rapporto con il pubblico e l’approccio al repertorio classico. Venuti a conoscenza del fatto che il pianista non potrà più suonare in pubblico, ogni suo album, per quanto registrato anni addietro, assume una particolare valenza. E’ il caso di questo “Budapest Concert” inciso il 3 luglio del 2016 alla Béla Bartok Concert Hall e declinato attraverso due CD, nel primo una serie di improvvisazioni di durata medio lunga, nel secondo ancora improvvisazioni questa volta di durata inferiore e due standard “It’s A Lonesome Old Town” di Tobias e Kisco e “Answer Me, My Love” di Winkler e Rauch. Come spesso gli capitava durante le sue performances, Jarrett preferisce mettere subito in chiaro le sue intenzioni. Ecco quindi la “Part I” sicuramente la più complessa e meno melodica dell’intero programma, in cui l’artista si lancia nelle sue ardite improvvisazioni. E tutto il primo CD, corrispondente alla prima parte del concerto, ripercorre un identico canovaccio vale a dire un pianismo allo stesso tempo lucido e imperscrutabile, vorticoso e meditativo, che comunque si lascia attrarre da quell’area culturale vicina alla musica accademica in special modo del Vecchio Continente. Il discorso cambia nel secondo disco caratterizzato sin dall’inizio da una atmosfera più raccolta, intimista e da una più avvertibile cantabilità. Fino alla degna chiusura con due standard rappresentati con dolce partecipazione. E’ sicuramente questo il Jarrett che il pubblico ama di più, quell’artista che raccoglie in sé il portato di ogni stile pianistico e che, se in stato di grazia, è capace di inanellare una serie infinita di spunti melodici come nessun altro. Ed un esempio probante si ha proprio in questo secondo CD in cui ogni singola esibizione è sugellata da una caldo applauso del pubblico senza che la tensione cali per un solo attimo: lo spettatore è definitivamente conquistato così come noi che ascoltiamo l’album comodamente accovacciati in poltrona.

Anja Lechner, François Couturier – “Lontano” – ECM
Dopo il felice debutto nel 2014 con “Moderato cantabile” sempre firmato ECM, la violoncellista tedesca e il pianista francese tornano in sala di incisione per dar vita a questo “Lontano” articolato su sedici brani sia originali sia dovuti ad autori di aree ed epoche diverse, da Ariel Ramirez a Giya Kancheli, da Anouar Brahem a Henri Dutilleux. Come si può facilmente desumere dall’organico, si tratta di una musica dall’impianto cameristico. Quel che fa la differenza rispetto ad altre registrazioni del genere è da un canto la statura artistica dei due artisti, dall’altro la scelta del repertorio. Ascoltando l’album sin dalle primissime note si ha netta la sensazione di ascoltare musicisti in grado di coniugare una preparazione classica con il linguaggio improvvisativo proprio del jazz. Di qui un suono, una timbrica, un gioco di colori molto vicini alla tradizione cameristica europea. D’altro canto non mancano pagine in cui la capacità di improvvisare prende il sopravvento sulla pagina scritta. Funzionale a tutto ciò la scelta di un repertorio che tende quasi ad annullare qualsiasi distanza temporale tra i vari brani nell’intento – del tutto riuscito – di evidenziare come la buona musica non conosca limiti di tempo. Così, dopo i primi tre brani di impronta “colta”, il ben noto e struggente “Alfonsina y el mar” di Ariel Ramirez. E questa particolare capacità di attualizzare alcune partiture appare altresì evidente, come chiarito nel libretto che accompagna l’album, in almeno altri quattro brani: in “Memory of a Melody” ci si richiama all’aria dalla Cantata BWV 105 di Bach, in “Hymne” si avverte l’influenza di Gurdjieff, in “Postludium” fa capolino l’arte del pianista e compositore ucrainoValentin Silvestrov mentre nella title track si omaggia Federico Mompou esplicitamente ricordato nel già citato “Moderato cantabile”.

Gianni Lenoci – “Wild Geese” – Dodicilune
Quando Gianni Lenoci ci lasciò improvvisamente, su questi stessi spazi ebbi modo di sottolineare come la sua dipartita lasciasse un vuoto difficilmente colmabile. E questo album, postumo, registrato nel 2017, ne è l’ennesima conferma. Lenoci era artista di indubbio talento che trovava i suoi punti di forza da un canto in una grande capacità improvvisativa declinata attraverso composizioni originali sempre indirizzate verso una sperimentazione mai fine a sé stessa, dall’altro nell’estremo rispetto degli altri, dei suoi colleghi che lo portava ad eseguire le composizioni altrui senza alcunché perdere dell’originario fascino. In questa sua ultima fatica discografica, Lenoci è in trio con Pasquale Gadaleta al basso e Ra-Kalam Bob Moses alla batteria. In repertorio nove composizioni scritte da alcuni grandi del jazz: quattro a testa da Carla Bley e Ornette Coleman, una da Gary Peacock. L’album produce una duplice sensazione: il piacere di ascoltare alcuni standard che restano nella storia della musica e allo stesso tempo l’ammirazione per come Lenoci e compagni siano capaci di riavvolgere il nastro, scomporre i nove brani e ripresentarli secondo una logica nuova, personale, che lascia intravedere, quasi in filigrana, la profonda conoscenza della musica interpretata. E a mio avviso due sono i brani che meglio illustrano quanto sin qui detto, “Latin Genetics” e il conclusivo “Ida Lupino”, senza alcunché togliere alla maestria con cui il trio affronta tutti i brani in programma, a partire dal sontuoso “And now the queen” cui fa seguito “Job Mob“ impreziosito da un Gadaleta in grande spolvero e con un Lenoci quasi a richiamare atmosfere proprie del free. Pezzi che ci introducono alla parte centrale dell’album costituita da tre brani tutti di lunghezza superiore ai dieci minuti. Insomma un album straordinario che merita di essere ascoltato anche da chi non si professa particolarmente amante del jazz: sono sicuro che piacerà anche a costoro.

Ivano Nardi – “Homage to Kandinsky” –
Il batterista Ivano Nardi può a ben ragione essere considerato personaggio storico del jazz italiano e romano in particolare. Sulla scena oramai da parecchi anni, ha collaborato con alcuni bei nomi del panorama internazionale (Massimo Urbani fra tutti e poi Mario Schiano, Marco Colonna, Steve Lacy, Evan Parker, Don Cherry e Lester Bowie) sviluppando uno stile percussivo affatto personale che oscilla tra free jazz e improvvisazione totale. In questa ultima fatica discografica si presenta in quartetto con Eugenio Colombo (sax e flauti), Roberto Bellatalla (contrabbasso) e Giancarlo Schiaffini (trombone). L’Album, come evidenziato dallo stesso titolo, trae ispirazione dai quadri del pittore russo nell’intento di rievocare, attraverso le note, i tratti caratteristici di Kandinsky, dalle armonie dei colori alla vividezza del tocco; di qui le improvvisazioni che assumono titoli quali Giallo indiano, Rosso, Giallo 1, Giallo 2, Grigio scuro, Blu ecc. In buona sostanza la materia indagata a fondo dall’artista russo viene trasformata in materia sonora ora attraverso i solo del leader ora con le improvvisazioni collettive del gruppo che ci riportano ad atmosfere proprie degli anni ’70. Il tutto viene esplicitato ulteriormente da una frase dello stesso Nardi laddove afferma, cito testualmente, che “continuo a leggere e ad approfondire cose che riguardano l’arte tutta: so che non basta una vita a raccogliere tutti questi stimoli!”.

Novotono – “Wood (Wind) at Work” – Autrecords
Sotto l’insegna dei “Novotono” incontriamo il progetto dei fratelli Adalberto ed Andrea Ferrari con il nuovo album uscito qualche mese fa. Per chi non conosca ancora questi due artisti sottolineiamo che si tratta di improvvisatori di alto livello specialisti di tutta una serie di strumenti a fiato: clarinetto basso, alto sax e baritone sax Andrea, Eb tubax, clarinetto basso, clarinetto, alto sax, soprano sax, contrabbasso clarinetto Adalberto. Già la struttura stessa dell’organico fa capire come ci si trovi dinnanzi ad una musica particolare, spesso giocata sull’aspetto timbrico ma che non trascura il lato melodico né quello ritmico. I due musicisti, fidando su capacità improvvisative non comuni, affrontano terreni spesso disagevoli inerpicandosi su chine pericolose da cui comunque escono sempre bene. Così ad esempio è davvero esemplare il modo in cui i due riescono a rendere vivo il dialogo tra gli strumenti in “Melodie Per Un Burattino Di Legno”, dialogo che sembra non risentire della mancanza di parole per rendersi esplicito nella sua natura più profonda, mentre in “Gegheghè” si abbandona questa atmosfera intima per tuffarsi in un clima rockeggiante. Ma, come si accennava, non si trascura gli spetti ritmici e melodici: ecco, quindi, “Old Durmast” caratterizzato da un andamento ritmico inusuale, a tratti sghembo ma affascinante e “Contratuba Seguoia” con una bella linea melodica ben individuabile, interrotta quasi a metà del brano da un lacerto sonoro assolutamente straniante, dopo di che il pezzo si avvia a conclusione riprendendo l’originario schema. Bella la chiusura con “Wooden Toys” scritto con piacevole ironia. Insomma un album di non facile ascolto ma di sicuro interesse da cui si ricava una importante lezione: l’improvvisazione è stato, è e sarà un elemento imprescindibile della musica jazz.

Enrico Pieranunzi – “Time’s Passage” – abeat
Enrico Pieranunzi è uno di quei non molti musicisti che mai sbaglia un colpo. Ogni qualvolta decide di entrare in sala di incisione è perché ha qualcosa da dire e solitamente si tratta di qualcosa di interessante. Anche questo album registrato nel maggio del 2019, non sfugge alla regola. Il pianista-compositore romano si presenta, questa volta, alla testa di un quintetto con il grande batterista francese Dedè Ceccarelli, il compagno di tante avventure Luca Bulgarelli al contrabbasso e basso elettrico, e due ospiti di lusso quali Andrea Dulbecco al vibrafono e Simona Severini alla voce; in programma nove brani di cui sei scritti dallo stesso leader, in epoche assai diverse e due standard dovuti alle penne di David Mann e Bob Hillard l’uno, e di Arthur Hamilton e Johnny Mandel l’altro. Già dalle prime note della title track si intuisce quale sarà l’andamento dell’album: una musica oscillante tra il jazz da camera e lo swing canonico. Ecco così la delicata “Time’s Passage” impreziosita dai delicati volteggi di un Dulbecco particolarmente brillante cui fa seguito il “Valzer” espressamente dedicato ad Apollinaire con testo in francese. Con “Biff” le atmosfere virano decisamente verso uno swing più accentuato impreziosito dalle improvvisazioni dei quattro musicisti (esclusa la Severini che non figura in questo brano). E così fino all’ultimo brano, “Vacation from The Blues”. Una curiosità: nel disco c’è una doppia versione del brano “In the wee small hours of the morning” portata al successo da Frank Sinatra, una con l’ensemble e una piano e voce. Questa scelta piuttosto anomala, come spiega lo stesso Pieranunzi, è dovuta al fatto che la Severini “ha cantato così bene in entrambe le versioni di questo delicato standard americano, ha espresso il mood della canzone con tanto feeling e fascino narrativo che non me la sono sentita di togliere una delle due versioni. Meritano assolutamente di essere ascoltate entrambe”. E come dargli torto?

Dino Rubino – “Time of Silence” – Tuk Music
Dino Rubino è senza dubbio alcuno uno dei più fulgidi talenti emersi negli ultimi due decenni. Il trombettista, flicornista, pianista, compositore siciliano si è costruito una solida reputazione passo dopo passo, mai bruciando i tempi e mai accontentandosi dei traguardi raggiunti. Da un po’ di tempo incide per la Tuk Music e con l’etichetta di Paolo Fresu sta sfornando degli album davvero eccellenti. Quest’ultimo lo vede alla testa di un quartetto con Emanuele Cisi al sassofono tenore, Paolino Dalla Porta al contrabbasso e Enzo Zirilli alla batteria. In programma dieci brani tutti originali di Rubino che si esprime al pianoforte imbracciando il flicorno solo in un brano, “Settembre”, a chiusura del programma. Spesso ci si interroga circa la pertinenza del titolo dell’album con la musica proposta. Ebbene, in questo caso, il nesso c’è ed è evidente. In un momento in cui chi strepita più forte sembra avere la meglio (e non solo in musica) Rubino sceglie una strada diversa, una strada che privilegia la melodia che non deve essere gridata, basta sussurrarla. E’ una sorta di afflato poetico quello che scaturisce dalle note del siciliano, una musica raffinata, elegante ma tutt’altro che leziosa o banale. Prendendo spunto proprio dal silenzio quale dimensione non secondaria, Rubino guida il gruppo con un pianismo che si fonde senza alcuna forzatura con il resto del gruppo a conferma di una intesa completa. Si ascolti, ad esempio, in “Claire” il modo in cui, dopo un bell’assolo del leader, Cisi raccoglie il testimone per dialogare con il pianoforte in una sorta di botta e risposta affascinante. Così come in “Karol”, i due trovano modo di integrarsi alla perfezione evidenziando le rispettive potenzialità. Potenzialità che nel caso di Rubino sono particolarmente evidenziate in “Owl in the Moon” impreziosito da un assolo pianistico coinvolgente nella sua semplicità. Infine come non segnalare l’ultimo brano, il malinconico “Settembre”, in cui Rubino si esprime magnificamente al flicorno. Al di là della musica, bella la cover dovuta all’artista svizzero Stephan Schmitz.

Terje Rypdal – “Conspiracy” – ECM
Conosco personalmente Rypdal da più di 40 anni e fin dall’inizio l’ho considerato uno dei veri, pochi in novatori che hanno illuminato la scena jazzistica internazionale negli ultimi decenni. A mio avviso una delle caratteristiche che fanno davvero grande un musicista è la riconoscibilità: tu ascolti poche note di sassofono e riconosci Charlie Parker così come ti basta qualche accenno pianistico per individuare Keith Jarrett; egualmente sono sufficienti poche note di chitarra amplificate in un certo modo per individuare tutto un mondo: quello per l’appunto di Terje Rypdal. Registrato a Oslo nel febbraio dello scorso anno in quartetto con Ståle Storløkken keyboards, Endre Hareide Hallre basso elettrico e Pål Thowsen batteria, l’album si articola in sei composizioni del leader che attraversano un po’ tutto il suo spettro compositivo. L’aggancio a quel jazz-rock degli anni ‘70 e ’80 appare evidente ma il tutto viene reinterpretato alla luce di una modernità che si respira evidente mai dando l’impressione del deja-vu. Così se il brano d’apertura “As if the Ghost… was Me?” (“Come se fossi io, il fantasma?”) velato da sottile ironia ripercorre situazioni care al Rypdal che tutti conosciamo, ecco che già in “What was I thinking” ascoltiamo un chitarrista più pensoso, più intimista a dialogare con il basso. Più legata a stilemi rockeggianti la title-track (con evidente richiamo alla Mahavishnu Orchestra) mentre tutta la seconda parte del breve album (appena una trentina di minuti) presenta una musica più evocativa, descrittiva, melodica, oserei dire malinconica a dimostrazione di come, contrariamente a quanto asserito da qualche pur illustre collega, non si tratti di un album quasi routinario ma di una realizzazione fortemente pensata e voluta da una artista che non ha perso un’oncia della sua creatività. Per concludere si ascolti con attenzione la splendida ballad “By His Lonesome”.

Dino Saluzzi – “Albores” – ECM
Tutte le volte che ho ascoltato Dino Saluzzi dal vivo ne ho sempre ricavato una forte iniezione di energia, una carica di vitalità che non sembra risentire del trascorrere del tempo. Ad onta dei suoi ottantacinque anni Saluzzi è sempre in piena attività, tanto che da poco è uscito questo suo nuovo disco. Album tra l’altro assai particolare in quanto dopo più di trent’anni il maestro argentino torna ad incidere in totale solitudine, con nove sue composizioni. Ed è ancora una volta un piccolo capolavoro. Saluzzi prosegue lungo il suo cammino, con la sua musica che è allo stesso tempo astrazione allo stato puro e narrazione di una memoria che si perde nel tempo. Di qui i riferimenti a persone a lui care e a paesaggi e scorci di natura che fanno parte del suo essere. Il tutto eseguito con uno strumento, il bandoneon, che egli ha portato a livelli di espressività mai raggiunti fino ad oggi. Certo c’è sempre Astor Piazzolla ma il linguaggio adoperato dai due è completamente diverso sì da renderne impossibile un qualsivoglia raffronto. Ma torniamo ad “Albores” che si apre con un omaggio al compositore georgiano Giya Kancheli (“Adios Maestro Kancheli”) la cui musica ha già inciso insieme al celebre violinista lettone Gidon Kremer. Immancabili i riferimenti alla musica andina che viene trasposta in un universo sonoro senza tempo (“La cruz del Sur”) così come inevitabile, lo struggente ricordo del padre (“Don Caye – Variaciones sobre obra de Cayetano Saluzzi”). Senza trascurare i rimandi ad una Buenos Aires d’altri tempi: si ascolti “Segun me cuenta la vida” una milonga ma nello stile di Saluzzi e il successivo “Intimo”. L’album si conclude con “Ofrenda – Toccata”, un brano di rara suggestione in cui misticismo e devozione coesistono a conclusione di un viaggio intriso di nostalgia, bellezza, corporeità e spiritualità a cui tutti noi siamo invitati.

The Auanders – “Text (us)” – Auand
Era il 2011 quando su un palco a New York, per festeggiare i dieci anni della Auand, prese forma l’idea di formare una sorta di all-star costituita da artisti dell’etichetta pugliese. Nel corso degli anni il progetto è stato presentato in molte città con organici differenti mentre dal punto di vista discografico siamo adesso al secondo capitolo. Questa volta il lavoro è frutto di una residenza di una settimana ad Arezzo presso il Cicaleto, con un programma di 8 brani originali commissionati ad hoc ad alcuni dei musicisti più attivi che collaborano con la Auand. Ecco quindi un tentetto base – Mirko Cisilino tromba e corno francese), Michele Tino (sax alto e flauto), Francesco Panconesi (sax tenore), Beppe Scardino (sax baritono e clarinetto basso), Filippo Vignato (trombone), Glauco Benedetti (tuba), Francesco Diodati (chitarra), Enrico Zanisi (pianoforte, rhodes, synth e glockenspiel), Francesco Ponticelli (basso e basso elettrico) e Stefano Tamborrino (batteria, percussioni e voce) cui si affiancano in veste di ospiti Sara Battaglini (voce), Francesco Bearzatti (clarinetto), Stefano Calderano (chitarra), Simone Graziano (rhodes) ed Evita Polidoro (voce). Il titolo – Text(Us)(“Scrivici un messaggio”) – contiene di per sé una della carte vincenti dell’etichetta di Bisceglie, vale a dire la voglia di entrare in contatto e in empatia con l’ascoltatore . Dal punto di vista prettamente musicale l’album risulta interessante soprattutto per le modalità di esecuzione: il gruppo, pur essendo numeroso, si muove con grande scioltezza evidenziando una notevole intesa sia nelle parti d’assieme sia nei momenti in cui vengono lasciati spazi ai molti solisti. Il tutto reso possibile da centrati arrangiamenti attraverso cui gli artisti trovano, per l’appunto, modo di esprimere le proprie potenzialità. Notevoli, da questo punto di vista, le sortite, tanto per citare qualche nome, di Francesco Bearzatti in “Song to the Unborn”, Filippo Vignato in “One Week”, oltre alle splendide voci di Sara Battaglini e Evita Polidoro.

Tingvall Trio – “Dance” – Skip Records
Martin Tingvall (pianoforte), Omar Rodriguez Calvo (basso) e Jürgen Spiegel (batteria) sono i protagonisti di questo convincente album registrato per la “Skip Records”. La formazione ha oramai acquisito una solida reputazione confermata da quest’ultima fatica discografica. Tingvall e compagni prendono per mano l’ascoltatore e lo conducono in un immaginario viaggio attorno al mondo a ritmo dei vari stili di danza. Il tutto interpretato sempre con pertinenza e alla luce di un’empatia che il trio ha evidenziato in tutti gli album fin qui incisi. Quest’ultimo “Dance” è declinato attraverso tredici brani tutti scritti dal leader e arrangiati collegialmente dal trio in modo davvero assai curato come si evidenzia sia dalle intro sia dalle chiusure dei vari brani. Si parte con un esplicito richiamo al Giappone cui fa seguito la title track caratterizzata da una suadente linea melodica ben disegnata dal leader con i tamburi a sottolineare un clima arcaico, senza tempo. In “Spanish Swing”, “Cuban SMS” e “Bolero” è l’anima latina a prevalere grazie ad una caratterizzazione ritmica particolarmente centrata in “Bolero” mentre in “Arabic Slow Dance” si avvertono i profumi dell’Oriente con una significativa introduzione di Calvo impegnato poi in un fitto dialogo con il leader per tutta la durata del brano. “Ya Man” tratteggia un’atmosfera diversa dal resto dell’album in quanto siamo in pieno clima reggae con una forte tappeto ritmico intessuto da Calvo e Spiegel nel cui ambito si inserisce il pianismo di Tingvall. Se questi sono i brani in cui maggiormente si avverte il sapore della “danza” non mancano mezzi più meditativi e introspettivi come il conclusivo “In memory…”.
Oltre al CD e all’uscita digitale, sarà presto disponibile anche una stampa vinile da 180 gr.

Dominik Wania – “Lonely Shadows” – ECM
Dopo i successi ottenuti con il Maciej Obara Quartet (“Unloved”, “Three crowns”, ambedue targati ECM)), il pianista polacco Dominik Wania si misura con un ‘piano solo’ registrato nel novembre del 2019 a Lugano, ma che comincia a prendere forma già alcuni anni addietro dopo le registrazioni del citato “Unloved”. Per quanti seguono il jazz con buona attenzione non sarà sfuggito il valore di questo pianista che coniuga un background di tipo classico con capacità improvvisative proprie del jazz-man. Forte di queste caratteristiche Wania affronta la prova più difficile e importante della sua carriera e ne esce a fronte alta. In undici brani tutti di sua composizione e tutti affidati all’improvvisazione del momento, il pianista ci offre una sorta di summa delle sue capacità compositive e interpretative. La sua musica, tutt’altro che di facile ascolto, presenta evidenti richiami a Satie, Ravel e Messiaen; il tocco è leggero, fluido; grande l’attenzione per il dettaglio acustico; solida la concezione architettonica delle composizioni nonostante sia praticamente impossibile individuare chiare linee melodiche o qualsivoglia pattern ritmico. Insomma, come già accennato, siamo nel campo dell’improvvisazione totale che l’artista maneggia con disinvoltura e con originalità mai proponendo qualcosa di banale. Tra i vari brani da segnalare “AG76” un omaggio all’artista polacco Zdzisław Beksiński (1929-2005) le cui distopiche e surreali immagini hanno fortemente influenzato Wania il quale per eseguire il brano ha ricercato una timbrica delicata e nebbiosa, mentre “Indifferent Attitude” si differenzia dagli altri pezzi per essere molto vicino ad atmsfere tipiche del free jazz storico.

Marcin Wasilewski Trio, Joe Lovano – “Arctic Riff” – ECM
Incontro al vertice tra uno dei più grandi sassofonisti degli ultimi decenni e un trio polacco di tutto rispetto guidato dal pianista Marcin Wasilewski e completato da Slawomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michail Miskiewicz alla batteria. Quasi inutile sottolineare la grande versatilità di Lovano che riesce a mantenere intatta la propria individualità indipendentemente dal contesto in cui si trova ad operare. Dal canto suo il trio polacco conferma quanto di buono aveva già evidenziato anche nelle collaborazioni con il trombettista anch’egli polacco Tomasz Stanko. In repertorio composizioni dei due leader, un brano di Carla Bley e uno di Joe Lovano cui si aggiungono alcune improvvisazioni collettive. Il quartetto si muove, quindi, su coordinate piuttosto differenziate. Così, ad esempio, nella doppia versione di “Vashkar” di Carla Bley mentre nella prima dopo una breve introduzione di Lovano, Wasilewski si impossessa del tema per svilupparlo alla sua maniera dopo di che interviene ancora Lovano il tutto mantenendosi nei limiti di una visitazione piuttosto letterale, nella seconda prevale un maggior spirito improvvisativo. Ben strutturate le melodie del pianista che si avvalgono di un Lovano in gran spolvero specie in “Fading Sorrow” mentre in “L’Amour Fou” è il batterista a mettersi in particolare luce; splendido il brano finale, “Old Hat”, una suggestiva ballad impreziosita dagli assolo dei due leader che si iscrive di diritto nelle grandi tradizioni del jazz. Nelle improvvisazioni collettive è tutto il quartetto a marciare all’unisono grazie soprattutto al sassofonista che, come si accennava, è riuscito ad inserirsi perfettamente nel già rodato meccanismo del trio polacco.