Un palco “Aperto” per Sanremo

Cari amici jazzofili, immaginiamo vi stiate chiedendo perché su Proposito di Jazz si parli del Festival di Sanremo… argomento all’apparenza in antitesi rispetto alle tematiche che di norma affrontiamo. Del resto, anche uno dei più grandi umoristi italiani del ‘900, Achille Campanile, si chiedeva che cosa legasse gli asparagi e l’immortalità dell’anima… o le seppie coi piselli, che sono uno dei più strani e misteriosi accoppiamenti della cucina! Eppure, un legame c’era… come c’è anche tra Sanremo e il jazz… Non dimentichiamo, infatti – e il nostro Amedeo Furfaro non l’ha fatto! – che in tempi passati, ma anche più di recente, su quel palco si sono esibiti pezzi da novanta della scena jazz, sia internazionale sia nazionale e dunque questo articolo potrebbe anche voler essere uno sprone affinché a Sanremo, oltre alla cosiddetta musica “popolare”, trovino spazio anche i generi musicali meno mainstream…
Noi ce lo auguriamo! (MT – Redazione)

Lo share ha premiato Sanremo, festival in cui era apparsa da subito vincente la strategia di aprire a giovanissimi, a generazione di mezzo ed a più attempati “giganti” dell’ugola per incollare al video più fasce di telespettatori.  Al riguardo ecco alcune considerazioni sulla eventualità che, con alcuni accorgimenti regolamentari, la manifestazione possa trasformarsi da fenomeno nazionalpopolare in campione rispecchiante il meglio dell’Italia canora tutta, pur sempre confermando la propria radicata veste “International” . Va intanto ricordata come positiva la precedente formula delle due sezioni distinte, Nuove Proposte e Big, interne alla manifestazione, anche in ossequio ai titoli dei Big più accreditati. Andrebbe poi implementata la scoperta di nuove voci “sparse” nel territorio (in questa edizione sono rimaste fuori aree come la Calabria) magari affinando il modello stile ”Miss Italia”, diffuso su scala regionale, tentando di prevenire il taglio degli anelli deboli della catena musicale.  E poi, parlando di canzone napoletana, possono bastare Ranieri, Di Capri e il cast di “Mare Fuori” a rappresentarla?
Occorrerebbe inoltre puntare ad un deciso coinvolgimento del cantautorato “classico”. Oltre al concorrente Grignani hanno arricchito la serata delle cover gli ospiti Antonacci, Ramazzotti, Vallesi, Zarrillo, Edoardo Bennato…  Ed il plauso generale è stato di fatto un’indicazione sulla opportunità di rafforzare, nelle future edizioni, la presenza di tale categoria centrale nella storia della canzone nostrana.
Altra annotazione riguarda l’articolazione della canzone italiana in filoni diversi da quelli dominanti ovvero il melodico da una parte ed il pop/rock/rap dall’altra. C’è carenza di folk, world, lirica. Quest’anno, se il blues ha avuto un messaggero in Alex Britti (sempre nella serata delle cover) e Mengoni ha riletto la beatlesiana “Let It Be” nella cornice gospel del Kingdom Choir, non si è sentito molto jazz “applicato” alla canzone. E qui si parla di una kermesse che ha ospitato in passato Louis Armstrong e Lionel Hampton e, in anni più recenti, le voci di Al Jarrow e Cincotti oltre a quelle, di “scuola” italiana, di Gualazzi, Brancale, Molinari, Nicolai, la prima Arisa…

Le rassegne jazzistiche hanno da tempo allargato le fila a interpreti canori di varia provenienza stilistica. E la pur breve performance, nella serata finale sanremese, di Gino Paoli con Danilo Rea dimostra come possa ripetersi con successo l’interscambio fra jazz e canzone d’autore anche dalle parti dell’Ariston.

Amedeo Furfaro

“Immersivity” è l’insegna del Roma Jazz Festival 2022!

E siamo alla 46° edizione: dal 6 al 19 prossimo torna il Roma Jazz Festival, che animerà la Capitale con 26 concerti fra l’Auditorium Parco della Musica “Ennio Morricone”, la Casa del Jazz e il Monk Club, fino ad arrivare al Teatro del Lido a Ostia. Diretto da Mario Ciampà, il Roma Jazz Festival 2022 è realizzato con il contributo del MIC – Ministero della Cultura, di Roma Capitale ed è prodotto da IMF Foundation in co-realizzazione con Fondazione Musica per Roma.
Dopo “Jazz is Now” del 2018, “No Border” del 2019, “Jazz for Change” nel 2020 e “Jazz Code” del 2021, il titolo di questa nuova edizione è “Immersivity”, per un approccio multisensoriale, ludico e coinvolgente che guarda al contemporaneo e al futuro senza dimenticare le radici di un linguaggio al tempo stesso colto e popolare, sofisticato e immediato, in grado di parlare a pubblici diversi, da quelli della sale da concerto e dei jazz club, fino ai frequentatori del dancefloor e dei grandi festival multimediali.
Giganti della scena mondiale come Steve ColemanSpyro Gyra e la celeberrima Mingus Big Band al fianco dei protagonisti della nuova scena british come Alfa Mist o esordienti puri come il collettivo Jemma, vincitori del programma LazioSound Scouting 2022. Il protagonismo femminile è incarnato da straordinarie artiste come Lady BlackbirdNuby GarciaRosa Brunello e Ramona Horvath mentre l’inarrestabile spinta all’innovazione è documentata da artisti già celebri come Enrico Rava – al festival con il chitarrista sperimentale austriaco Christian Fennesz e il percussionista indiano Talvin Singh – e Danilo Rea, in programma con il progetto cromestetico Soundmorphosis.
Ancora: i sofisticati software del pianista Ralf Schmid e le performance multimediali di XY Quartet, le visioni ecologiche di Kekko Fornarelli e della giovanissima Jazz Campus Orchestra con lo spettacolo Let’s Save The Planet e la carica visionaria di videoartisti come Paolo Scoppola e Claudio Sichel. La cura della tradizione del pianista azero Isfar Sarabski e l’avanguardia di Erik Fredlander, in compagnia di Uri Caine, o dell’ensemble Itaca 4et, ma anche i ritmi elettroacustici di Kodex. E poi le produzioni originali della New Talent Jazz Orchestra con un grande omaggio a Charles Mingus e di Fabrizio Consoli e Fausto Beccalossi che celebrano Pasolini, così come l’incontro fra jazz e teatro e i due appuntamenti dedicati ai bambini di Fiabe in Jazz.
Questo lo straordinario programma del Roma Jazz Festival 2022, che prosegue così l’incessante ricerca sulle trasformazioni della scena jazz nazionale e internazionale, sulle sue contaminazioni con altre forme espressive e con l’innovazione tecnologica per rendere ancor più manifesta la trasversalità assoluta del Jazz e offrirne una fruizione più dinamica e contemporanea.

Info: https://romajazzfestival.it/

CALENDARIO
6 novembre
Fiabe Jazz: I Musicanti di Brema | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
New Talent Jazz Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Lady Blackbird | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Ralf Schmid: Pyanook | Casa del Jazz, h21

7 novembre 
Rosa Brunello: Sounds Like Freedom ft. Yazz Ahmed, Enrico Terragnoli, Marco Frattini| Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

8 novembre 
Erik Friedlander The Throw | Casa del Jazz, h21

9 novembre
Ramona Horvath/Nicolas Rageau | Casa del Jazz, h21

10 novembre
Enrico Rava/Christian Fennesz/Talvin Singh | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

11 novembre
Nubya Garcia | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Kodex | Casa del Jazz, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Teatro del Lido (Ostia), h21

12 novembre
Spyro Gyra | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Lino Volpe/Rosario Giuliani: Jazz Story | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21
Fabrizio Consoli/Fausto Beccalossi: Pasolini Ballate e Canzoni | Casa del Jazz, h21

13 novembre
Fiabe Jazz: Cenerentola Rock | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h11
Jazz Campus Orchestra | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h18
Mingus Big Band | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

14 novembre 
Kekko Fornarelli: Anthropocene | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21

15 novembre 
Isfar Sarabski Quartet | Auditorium Parco della Musica – Sala Petrassi, h21
Itaca 4et | Casa del Jazz, h21

16 novembre 
XY Quartet: 5 astronauts | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

17 novembre 
Danilo Rea/Paolo Scoppola: Soundmorphosis | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21
Jemma | Auditorium Parco della Musica – Sala Borgna, h21

18 novembre 
Alfa Mist | Monk Club, h21:30

19 novembre 
Steve Coleman Quintet | Auditorium Parco della Musica – Sala Sinopoli, h21

JAZZ E SIGLE TV

La televisione è stata spesso oggetto di critiche in quanto possibile veicolo di regresso culturale delle masse. Umberto Eco, a proposito dell’uomo circuìto dai mass media, scriveva che “poiché uno dei compensi narcotici a cui ha diritto è l’evasione nel sogno, gli vengono presentati di solito degli ideali tra lui e quelli con cui si possa stabilire una tensione” (Diario Minimo, 1961). La tematica dei rapporti fra musica e mass media investe anche un genere non definibile “narcotizzante” come il jazz nella sua relazione con la tv. In proposito, in Italia, si sono verificati dei momenti di avvicinamento fra i due termini del rapporto che consentono di abbozzare dei lineamenti di storia televisiva “vista” attraverso il fil rouge delle sigle jazz.

Donald Bogle ha osservato che “attorno al 1950 i sets tv arrivavano nelle case degli americani trasformandone gradualmente abitudini e prospettive” (Blacks in American Films and Television, New York, Fireside, 1989). E David Johnson di recente ha annotato che “come la tv si insinuava nell’entertainment dell’America di metà 900, musicisti e compositori, molti con esperienze jazz, venivano chiamati a scrivere temi ed “attacchi” per varietà e programmi” (Heard It On The Tv: Jazz Takes On Television Themes, indianapublicmedia.org, 12/5/2021). Osservazioni in parte trasferibili, con le dovute proporzioni, all’Italia che, dal 1954, dai primi vagiti della neonata tv, subiva il modificarsi di usi, linguaggio, immaginario collettivo in un contesto di rapida trasformazione economica, sociale e culturale, a causa anche alla spinta dei mass media. Su queste colonne, fra le sottotracce della nostra storia televisiva, abbiamo provato a “rintracciare” un argomento abbastanza sottaciuto, quello delle sigle (e intersigle) che sono poi l’antipasto e il post prandium del programma televisivo, nello specifico quelle dialoganti lato sensu in jazz o comunque prodotte od associabili a jazzisti. Come “la radio degli anni Cinquanta è a cavallo tra conservazione e trasformazione” (cfr. sub voce Cultura e educazione, l’Universale Radio, Milano, 2006) così il nuovo medium, già dai primi anni di vita, attenzionava sonorità che erano espressione di differenti musiche del mondo. Su un tale sfondo il jazz riusciva man mano a ritagliarsi spazi nei palinsesti e ad essere presente in filmati, notiziari, dossier, speciali, spot e jingle (cfr. Jazz e pubblicità, “A proposito di Jazz”, 9/4/2021), programmi a quiz, a premi e a cotillon, varietà, sceneggiati e “originali televisivi”, serie tv. Già nell’Italia della ricostruzione postbellica la dimensione locale non più autarchica si era confrontata sulla globale “importando” liberamente musica che durante il regime era proibita. Con l’avvento del medium tv le sigle di fatto fungevano da possibile cavallo di Troia per conquistare al jazz spazio in audio/video e lasciar trapelare le note di Woody Herman, Stan Kenton, Duke Ellington, Toots Thielemans … e vari artefici di una musica che in quegli anni non veniva più percepita solo come intrattenimento omologante bensì anche quale propaggine di quella cultura neroamericana propria di una comunità oppressa non dominante. Una comunità in fibrillante opposizione politica e spiccato antagonismo sociale i cui risvolti rimbalzavano nelle lettere, nelle arti, nella musica. Ma entriamo nel dettaglio. In Italia, nel 1957, coetanea di Carosello, vedeva la luce in tv Telematch. La trasmissione a premi era introdotta dalle note di “Marching Strings” dell’orchestra di Ray Martin, il bandleader di “The Swingin’ Marchin’ Band” (RCA, 1958). Light music, la sua, che rappresentava però un’apertura internazionale verso la musica easy listening d’oltrefrontiera sul Programma Nazionale e in prima serata. Parallelamente, alla radio, nel 1960, Adriano Mazzoletti, da un anno collaboratore della Rai, debuttava con la Coppa del Jazz promuovendo in tal modo una più stabile programmazione in senso jazzistico sul mezzo radiofonico i cui primordi risalgono all’antenato Eiar Jazz del 1929.

A dire il vero, dopo il primo melodico Sanremo del ’51, una decisa aura jazz si era avvertita in Nati per la Musica, un programma con Jula De Palma, Quartetto Cetra, Teddy Reno che si avvaleva delle orchestre di ritmi moderni di Gorni Kramer e Lelio Luttazzi, la cui sigla è ascoltabile sul Portale della Canzone Italiana dell’Istituto Centrale per i Beni Sonori e Audiovisivi (www.canzone italiana.it/1zlns). Sorella Radio avrebbe dato anche in seguito significativi contributi alla causa jazzistica – si pensi all’uso fatto da Radio1 dello stacco di “Country“ tratto dal cd “My Song” di Jarrett con Garbarek, Danielson e Christensen (ECM, 1977) –  ma il copioso materiale di Mamma Rai, con il ricchissimo archivio sonoro ad oggi digitalizzato, meriterebbe di essere approfondito in altra sede. Torniamo allora al come eravamo tramite il cosa guardavamo. Dopo la vittoria di Modugno all’Ariston nel ’58, con una “Nel blu dipinto di blu” a ritmo swing, nell’anno di grazia televisivo 1961 passavano in video le immagini di Moderato Swing che era anche il titolo della sigla di Piero Umiliani.  Un biennio ancora per poi sentire il canto e la tromba di Nini Rosso echeggiare in “I ragazzi del jazz”, sigla di Fuori I ’Orchestra, epica trasmissione, per la regia di Lino Procacci, che si avvaleva della direzione musicale dello stesso Umiliani. Si trattava di una rubrica che si occupava “di musica equidistante fra quella leggerissima e quella classica“ (www.umiliani.com) che rimane una pietra miliare della televisione italiana. Fra i numeri fissi c’erano quello dedicato al Jazz made in Italy ed l’altro spazio denominato Parole e musica che registrava partecipazioni lussuose tipo la cantante Helen Merrill. Da segnalare che Umiliani avrebbe poi collaborato con I Marc 4 (acronimo di Maurizio Majorana, Antonello Vannucchi, Roberto Podio, Carlo Pes), gruppo operante fra ’60 e ’76, a cui è da ascrivere la sigla di Prima Visione (su album Ricordi, 1974). Il 1963 resta un anno significativo per il jazz sul piccolo schermo anche perché decollava in Italia, con TV7, l’idea di utilizzare un brano jazz come intro di un programma d’inchiesta. Per l’occasione la scelta cadeva su “Intermission Riff” di Stan Kenton, poi sostituita con una storica versione dell’Equipe 84. A fine decennio toccava alla serie tv Nero Wolf diretta da Giuliana Berlinguer con Tino Buazzelli, vedere impressi i titoli di testa e di coda dalla tromba di Nunzio Rotondo sulla base elettronica di Romolo Grano, musica da noir con echi dal lungometraggio di Louis Malle Ascenseur pour l’échafaud, del ’58, sonorizzato da Miles Davis, trombettista a cui Rotondo è stato spesso accostato. Ed avrebbe “aperto” un thriller televisivo il compositore Berto Pisano con la sua “Blue Shadow”, sigla lounge dello sceneggiato Ho incontrato un’ombra del 1974, che figura nella classifica stilata da “Rolling Stone” il 26 agosto 2020 in Fantasmi e storie maledette. Le migliori sigle della tv italiana del mistero degli anni ’70. In tema di rotocalchi da menzionare che AZ un fatto come e perché (in onda dal ‘70 fino al luglio ’76) adottava un pezzo del repertorio jazz, esattamente “Hard to Keep My Mind of You”, di Woody Herman.

Dal giornalismo d’inchiesta a quello sportivo: nel ’78 era il turno di Jazz Band di Hengel Gualdi a far da “preludio” a Novantesimo minuto, storica rubrica di RaiSport, e come non citare, dal campionario di La Domenica Sportiva, “Dribbling” di Piero Umiliani (1967), “Winning The West” della Buddy Rich Big Band (1973), “Mexico” di Danilo Rea e Roberto Gatto (1985), “Breakout” di Spyro Gira (1991)? Spostandoci alla “pagina” spettacoli, fra il ’76 e il ‘78, Rete 2 dava spazio in Odeon al pianista Keith Emerson (senza Lake e Palmer) in “Odeon Rag” arrangiamento di “Maple Leaf Rag” di Scott Joplin, subentrato in luogo del precedente “Honky Tonk Train Blues”, autore il pianista Meade Lux Lewis. Il filone spettacolistico avrebbe registrato più in là significativi esempi con lo scat di Lucio Dalla con gli Stadio che annuncia Lunedifilm  per un buon ventennio fino al 2002 e l’ellingtoniano “Take The A Train” di Strayhorn a fare da intro ai trailer cinematografici assemblati da AnicaFlash per la rassegna delle novità cinematografiche “di stagione”. Si diceva come luogo fertile per la semina tv di suoni jazz da filtrare nelle orecchie dei telespettatori fosse l’informazione. Gettonatissima rimane al riguardo la sigla di Mixer (1980-1996) ovvero “Jazz Carnival” dei brasiliani Azimuth, specialisti del samba doido, genere fusion-funky. Latin come nelle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove Herb Alpert e Tijuana Brass interpretano “A Taste of Honey”, brano di stampo pop, in repertorio a Beatles e Giganti (“In paese è festa”). Per la tv italiana va ricordato che, fuori dal reticolo giornalistico, si contano altre occasioni più dirette di esposizione per la musica jazz filtrata tramite il piccolo schermo. La Portobello Jazz Band di Lino Patruno “presentava” il programma di Enzo Tortora (cfr. La tana delle sigle in tds.sigletv.net) nel 1978, stesso anno dello sceneggiato in 3 puntate Jazz Band di Pupi Avati, colonna sonora di Amedeo Tommasi, con il clarino di Hengel Gualdi in evidenza nelle sigle di apertura e chiusura, “Jazz Band” e “Swing Time” ; poi ancora Di Jazz in Jazz, programma “dedicato” con relativa sigla a cura dell’Orchestra Big Band della Rai diretta da Giampiero Boneschi e Franco Cerri (www.teche.rai.it). “Schegge”, queste ultime, che costituivano una vetrina per il jazz di casa nostra in una situazione in cui il format varietà si teneva alquanto distante, a differenza di quanto avveniva negli U.S.A. . Dalle nostre parti vanno citati comunque Milleluci, show datato 1974, nella cui sigla finale “Non gioco più” Mina duetta con l’armonica di Toots Thielemans,  Palcoscenico, in onda fra 1980 e 1981, con Milva accompagnata da Astor Piazzolla mentre scorrono i titoli di coda in “Fumo e odore di caffè” e Premiatissima del 1985 dove il crooner Johnny Dorelli canta “La cosa si fa“ su base swing “metropolitano. Lo sdoganamento delle sigle jazz nei varietà proseguiva con Renzo Arbore (e Gegè Telesforo) a cui si deve “Smorza e’ lights (Such a night)” incipit di Telepatria International, inizio trasmissioni il 6 dicembre 1981 (www.arboristeria.itRenzo Arbore Channel). Per la cronaca il 18 marzo 1981, e fino al 1989, sarebbe andata in onda la prima edizione di Quark di Piero Angela, conduttore nonché apprezzato pianista jazz. La trasmissione di divulgazione scientifica sarebbe stata simbioticamente legata alla sigla, la “Air for G String” di Bach, eseguita da The Swingle Singers, pubblicata nell’album “Jazz Sèbastian Bach” (1963), peraltro incisa anche insieme al Modern Jazz Quartet in “Place Vendòme”, album del ’68 della Philips. Terminiamo questa breve carrellata, che non include per sintesi le emittenti private/commerciali pro-tempore, per ricordare la sigla swing di DOC Musica e altro a denominazione d’origine controllata (1987-1988) di Arbore, Telesforo e Monica Nannini, esempio di come coinvolgere il jazz in un contenitore di buona musica. Il breve excursus è stato uno squarcio fugace su una jazz age, grossomodo racchiusa fra ’54 e ’94, un fugace momento di (bel) spaesizzazione musicale segnato, al proprio interno, dal passaggio dall’analogico al digitale, fase che precedeva la successiva della tv satellite e quella attuale della connessione via internet con la diffusione dei social e di new media come le web-tv con piattaforme on demand. E’ stato osservato che nella tv generalista di oggi “il jazz non ha più la stessa presa pubblica di un tempo” (cfr. Il jazz e le sigle radiotelevisive, riccardofacchi.wordpress.com, 2/8/2016). E “CiakClub.it” ha pubblicato, a firma di Alberto Candiani, un elenco con Le 20 migliori sigle televisive di sempre: Da Friends a Il trono di spade la lista delle più affascinanti iconiche e meglio congeniate sigle delle serie tv senza che ne compaia qualcuna (simil)jazz. Vero! Ci sono molti set televisivi in cui il jazz fa comparse episodiche. C’è poi che, a causa dell’affinarsi delle tecnologie digitali, molte sigle vengono confezionate a tavolino e, perdendo in istantaneità, sono sempre meno frutto di incisioni live né tantomeno vengono selezionate fra materiali preesistenti. Ed è forse tutto ciò che ammanta quei “primi quarant’anni” di tv “eterea” di un irripetibile sapore amarcord.

 

Amedeo Furfaro

Aldo Romano: Pasolini intellettuale scomodo e complesso

Poco prima di predisporre l’articolo su Pasolini e il jazz, pubblicato lo scorso 14 dicembre su questa testata, Amedeo Furfaro ha avuto l’opportunità di contattare Aldo Romano, musicista che ebbe modo di frequentare più volte  Pasolini. La conversazione col grande batterista si è rivelata nel contempo un’occasione per un dialogo che si è spostato anche su altri temi, al di fuori della oramai prossima ricorrenza del centenario della nascita del poeta-regista. Ne è venuta fuori la breve intervista che, a seguire, proponiamo ai nostri lettori. (Redazione)

Aldo Romano, batterista e compositore originario di Belluno, trapiantato giovanissimo in Francia con la famiglia, ha inizi da chitarrista per poi passare ventenne, alla batteria, nel 1961. Ha presto occasione di suonare con Jackie McLean  imponendosi all’attenzione dei più per qualità dinamiche e fantasiosa versatilità. Nel 1964 fa parte di uno dei primi gruppi europei di free. Fra gli incontri importanti per la propria carriera artistica quelli con Don Cherry e Gato Barbieri (Togetherness, 1965) e con Giorgio Gaslini, con il quale registra New Feelings.  Pur dotato di “Alma latina”, per citare un suo album del 1983, e con esperienze svariate come quella fusion dei Total Issue, Romano è “conosciuto principalmente come batterista free-jazz” (Feather-Gitler). Tra i tanti album al proprio attivo, i fortunati Carnet de Route, Suite Africaine, Non dimenticar… Numerose le collaborazioni di prestigio con musicisti quali Barney Wilen, Stan Getz, Phil Woods, Joachim Kühn, Charlie Mariano, Joe Albany, Carla Bley, Philip Catherine, Didier Lockwood, Eddy Louiss, Michel Portal, Claude Barthélemy, Roswell Rudd e, fra gli italiani, Rita Marcotulli e Stefano Di Battista. Con Franco D’Andrea, Paolo Fresu e Furio Di Castri ha inciso nel 1988 “Ritual” per la Owl. La discografia comprende vari lavori per diverse label come Verve, Enja, MLP Music, Label Bleu, Fresh Sound, Dreyfus (Just Jazz, con Mauro Negri, Geraldine Laurent ed Henri Texier), ECM (Enrico Rava Quartet), Soul Note (special guest con Kenny Wheeler nella European Music Orchestra diretta da Claudio Fasoli), Abeat Records (Adventure Trio con Luca Mannutza e Alessio Menconi), Splasc(h) Records (Tresse con Pietro Tonolo e Texier). A Copenhagen nel 2004 è stato insignito del Jazzpar Prize.

-Un italiano a Parigi. Ma più italiano o francese?
Da giovane, appena trasferito in Francia, tendevo a dimenticare il mio paese di provenienza, di cui ho sempre conservato la cittadinanza. Col tempo, poi, mi è ritornato il “sound” di questa lingua. E devo dire che ancora oggi continuo a sentirmi sempre legato all’Italia ed a sentirmi italiano.
-C’è differenza fra la situazione del jazz in Francia e in Italia?
Direi che l’Italia negli ultimi anni è cresciuta tanto. Suonando con Enrico Rava, Danilo Rea ed altri grandi musicisti ho scoperto molti posti, anche piccoli, dove fare del jazz. E poi trovo il pubblico italiano particolarmente vicino a questa musica.
Da batterista hai suonato sia con Keith Jarrett, per cinque mesi, che con Michel Petrucciani, due pianisti ben lontani fra loro…
Molto diversi. Jarrett nella musica ricerca profondità e spiritualità, Michel era costretto a sopravvivere, al di là della malattia, e cercava l’incontro con il pubblico.

Aldo Romano

-Con Petrucciani hai inciso il tuo famoso brano “Pasolini”.
Un brano che ha avuto più versioni nel tempo, compresa quella per grande orchestra grazie a Lionel Belmondo.
-Una domanda all’artista aperto verso la cultura nelle sue varie modalità, dalle arti fino alla poesia. Ciò per introdurre il discorso su un intellettuale di vasti interessi come Pasolini. Esiste, come si suol dire, una predilezione francese per il Pasolini personalità eretica del novecento ma anche verso il grande poeta, regista, scrittore, drammaturgo?
Io parlerei di grande stima o quantomeno di curiosità verso questo intellettuale scomodo e complesso da decifrare nelle sue “ambiguità” di comunista e cattolico, moralista e corsaro; penso agli articoli, a libri come “Petrolio”…
-Era lo scrittore dell’” Io so”, colui che individuò anzitempo il volto di un nuovo potere globale. Tu lo hai conosciuto direttamente, vero?
L’ho frequentato. Ricordo che ci si ritrovava spesso con Bernardo Bertolucci a casa di Elsa Morante, a via dell’Oca, a Roma. Lì incontravo scrittori come Alberto Moravia, gente di cinema come Gianni Amico, grande appassionato di jazz…
-Si, il regista di Appunti per un film sul jazz, del 1965. Bertolucci fa pensare, parlando di jazz, a Gato Barbieri, al suo tema di “Ultimo Tango a Parigi”.
Una composizione che inizialmente doveva essere affidata ad Astor Piazzolla il quale, pare, rimase contrariato dall’incarico poi affidato ad altri.” Gato” da par suo seppe creare un tema popolare che rappresentava bene l’epoca con la voce del proprio sax, di rabbia e non solo lirica. Del film ricordo bene ancora oggi di aver cenato, dopo le riprese della scena principale, con Bertolucci, Marlon Brando, Maria Schneider. Lei sembrava alquanto assente, come lo stesso Brando. A tavola c’era anche Zouzou, cantante-attrice icona degli anni ’60.
-Parlando ancora di poeti, hai lavorato su Cesare Pavese dedicandogli un album che nel Dizionario del Jazz di Carles-Clergeat-Comolli viene definito “insieme strano ed eccezionale” ?
Si, di Pavese ho sempre apprezzato in particolare i versi sulla vecchiaia. Oltre ad uno spettacolo c’è anche il disco Divieto di santificazione, del ’77, con Jean-Francois Jenny-Clark, nel quale è compresa Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Pavese era una persona di rara umanità. Si suicidò in una camera d’albergo a Torino dopo l’interruzione della relazione con l’attrice americana Constance Dowling.
-Il tuo libro “Ne joue pas fort, joue loin: fragments de jazz”, del 2015, racconta una vita di jazz….
Si e spero di poterlo mettere a breve on line per una libera lettura.

Amedeo Furfaro

I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

Con le masterclass di Roberto Gatto e Roberto Tarenzi, torna in presenza la didattica jazz di Celano Jazz Convention

Venerdì 27 agosto 2021, dalle 14 alle 17, Celano Jazz Convention torna alla didattica in presenza con due incontri di altissimo spessore. Il batterista Roberto Gatto e il pianista Roberto Tarenzi condurranno infatti due masterclass dedicate ai rispettivi strumenti, trasmettendo ai partecipanti l’importanza e il valore delle loro esperienze musicali, sia quelle più strettamente tecniche sia quelle maturate suonando dal vivo come leader di formazioni o al fianco dei più importanti protagonisti del jazz italiano ed internazionale.

Gli incontri si svolgeranno a Celano, nelle sale di Palazzo Don Minozzi. Per iscriversi, occorre prenotarsi inviando una mail all’indirizzo conferenze@celanojazzconvention.com. Il costo di iscrizione a ciascuna delle due masterclass è di 35€.

Roberto Gatto si esibirà in concerto, poi, nella serata di venerdì 27 agosto, sempre a Celano, alla guida del suo quartetto e con la presenza di Beatrice Gatto come ospite alla voce.

Roberto Gatto è sicuramente il più rinomato batterista italiano all’estero e vanta importanti partnerships con artisti del mondo del jazz e non solo. Nato a Roma il 6 ottobre 1958, il suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (insieme a Danilo Rea ed Enzo Pietropaoli) e da allora ha suonato in tutta Europa e nel mondo con i suoi gruppi e a fianco di artisti internazionali. È stato inoltre componente di Lingomania, una delle formazioni più importanti della storia jazz italiano. Oltre ad una ricerca timbrica raffinata e a una tecnica esecutiva perfetta, i gruppi a suo nome sono caratterizzati dal calore tipico della cultura mediterranea: questo rende senza dubbio Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel mondo. Nella sua carriera musicale, Roberto Gatto ha collaborato come sideman con i più importanti interpreti della storia e dell’attualità del jazz internazionale: da Chet Baker a Freddie Hubbard e Lester Bowie, da Gato Barbieri a Kenny Wheeler e Randy Brecker e poi con Enrico Rava, Ivan Lins, Vince Mendoza, Kurt Rosenwinkel, Joey Calderazzo, Bob Berg, Steve Lacy e moltissimi altri.

Come leader ha registrato molti album: Notes, Fare, Luna, Jungle Three, Improvvisi, Sing Sing Sing, Roberto Gatto plays Rugantino, Deep, Traps, Gatto-Stefano Bollani Gershwin and more, A Tribute to Miles Davis Quintet, Omaggio al Progressive, The Music Next Door, Roberto Gatto Lysergic Band, Remebering Shelly, fino ai più recenti Sixth Sense, Now e My Secret Place. Nel corso degli anni ha composto musica per il cinema, in particolare insieme a Maurizio Giammarco la colonna sonora di “Nudo di donna” per la regia di Nino Manfredi, e, in collaborazione con Battista Lena, le colonne sonore di “Mignon e Partita”, che ha ottenuto cinque David di Donatello, “Verso Sera” e “Il grande cocomero”, tutti diretti da Francesca Archibugi.

Nel 1993 ha realizzato due video didattici “Batteria vol. 1 e 2”. È stato il direttore artistico di Jazz in progress presso il Teatro dell’Angelo a Roma. Per oltre dodici anni ha insegnato batteria e musica d’insieme presso i seminari di Siena Jazz. Ha frequentato il Conservatorio di Santa Cecilia a Roma e il Conservatorio de L’Aquila. Roberto Gatto è titolare della cattedra di batteria jazz al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma.

Dopo lo studio del pianoforte classico, iniziato all’età di otto anni, Roberto Tarenzi scopre il jazz nell’adolescenza e studia con Enrico Intra e Roberto Pronzato ai Civici Corsi di Jazz di Milano, dove ottiene il diploma nel 1999, e frequenta i seminari della Berklee School a Umbria Jazz e i corsi di Siena Jazz.

Nel 1995 entra a far parte della Big Band diretta da Enrico Intra con cui incide quattro dischi e accompagna, tra gli altri, Dave Liebman, Max Roach, Bobby Watson, Bob Brookmeyer, Franco Cerri, Enrico Rava, Franco Ambrosetti. All’inizio del 2006 si trasferisce a New York per sei mesi, dove svolge un’intensa attività concertistica nei club e registra con la cantante Alice Ricciardi, Gaetano Partipilo, Franco Ambrosetti e Michele Bozza. Al ritorno dagli Stati Uniti, viene scelto assieme ad altri undici pianisti in tutto il mondo (tra cui Aaron Parks e Gerald Clayton) per partecipare al prestigioso “Thelonious Monk International Piano Competition”, esibendosi di fronte ad una giuria presieduta da Herbie Hancock e comprendente, tra gli altri, Danilo Perez e Andrew Hill. Nel 2008 si trasferisce a Roma e inizia una intensissima attività concertistica al fianco di Stefano Di Battista e Rosario Giuliani, collaborando altresì con Roberto Gatto, Maurizio Giammarco, Dario Deidda, Fabio Zeppetella, Fabrizio Bosso, Max Ionata e praticamente tutti i migliori musicisti della scena italiana.

A suo nome ha pubblicato diversi lavori discografici, tra i quali “Other Digressions”, “Trio Live”, “Love and Other Simple Matters” e “11 Little Things”, mentre con Cues Trio, formato insieme a Lucio Terzano e Tony Arco, ha inciso”Introducing Cues trio” e “Feel” con David Liebman come ospite.

Insegna stabilmente presso il Saint Louis College of Music di Roma, il Conservatorio di Latina, oltre a tenere seminari e workshop di improvvisazione.

Il percorso didattico di Celano Jazz Convention, tracciato dal direttore artistico della rassegna Franco Finucci, torna in presenza dopo aver continuato le attività online durante il periodo della pandemia. Sia l’edizione 2020 della rassegna che le iniziative promosse nel corso dell’inverno si sono tenute in rete e hanno proposto i seminari condotti da alcuni dei protagonisti più rilevanti della scena jazz italiana come Marco Di Battista, Max Ionata, Giovanni Falzone, Luca Mannutza, Marcello Di Leonardo, Ada Montellanico, Claudio Filippini, Umberto Fiorentino, Roberto Gatto e Tino Tracanna e con un ospite di assoluto rilievo internazionale come Jerry Bergonzi.