I NOSTRI CD. Stranieri in primo piano, ma senza trascurare il made in Italy

ACT

Nils Landgren Funk Unit – “Funk is my Religion” – ACT
Nils Landgren – “Nature Boy” – ACT
Nils Landgren, personaggio di punta del jazz, è ben noto anche ai lettori di queste note avendo in passato recensito alcune sue significative produzioni. Adesso lo riascoltiamo in due differenti contesti: nel primo album Nils è alla testa della suo celebrata “Funk Unit” mentre nel secondo abbiamo modo di apprezzarlo come arrangiatore e strumentista dal momento che suona da solo.
Ma procediamo con ordine. “Funk is my Religion” è l’undicesimo album registrato dalla pregiata ditta “Funk Unit” da quando venne creata nel 1994 ed ha avuto una vita piuttosto travagliata per vedere la luce: in effetti tutto era pronto per essere registrato nell’isola di Maiorca ma la cosa non fu possibile a causa del Covid; allora si virò verso il distretto di Redhorn in Bad Meinberg ma anche questa volta, sempre a causa del virus, non se ne fece alcunché. Ultima ratio l’Ingrid Studio di Stoccolma in cui l’album venne effettivamente registrato dal 3 al 7 novembre del 2020 per uscire in Germania il 28 maggio scorso. Come spesso sottolineato, capita raramente che il titolo di un album abbia un qualche effettivo collegamento con la musica che propone: in questo caso non poteva esserci titolo più azzeccato dal momento che effettivamente oramai da anni Nils Landgren va predicando questa sua passione per il Funk. Così, anche questa volta, il sestetto si muove sulle coordinate di una musica piacevole, orecchiabile, spesso trascinante in cui se è vero che non si avverte alcuna novità è altresì vero che non sempre nuova musica equivale a buona musica…e viceversa. All’interno dei dieci brani proposti, particolarmente riuscita l’interpretazione di “Play Funk” disegnata dalla bella voce di Magnum Coltrane Price.
Del tutto diverso “Nature Boy”; abbandonate le tinte forti del Funk, Lindgren si concede un esperimento tanto ardito quanto affascinante: presentare ben quattordici brani in solitudine. L’album prende il nome da un brano famoso, quel “Nature Boy” scritto da Eden Ahbez e registrato per la prima volta da Nat King Cole con l’orchestra diretta da Frank DeVol il 22 agosto del 1947. Ma, a parte questo brano, l’album è incentrato sulla musica tradizionale del proprio paese, una strada già percorsa da Landgren quando alla fine degli anni ’90 in duo con il pianista Esbjörn Svensson incise due album incentrati sulla folk music , “Swedish Folk Modern” e “Layers Of Light”. Questa volta la prova è più difficile in quanto Landgren si trova ad affrontare un repertorio oggettivamente ostico da solo con il proprio trombone. Risultato: viste le premesse si può ben dire che l’artista svedese si conferma musicista di prim’ordine, in grado di eseguire con sincera partecipazione partiture che molto si allontanano dal linguaggio prettamente jazzistico. Ottima, infine, la resa sonora grazie anche all’acustica della Ingelstorps Church dove è stato registrato l’album nel febbraio di questo 2021.

ATS

Raphael Kafers Constellation Project – “Retrospection” – ATS
Album d’esordio nella scuderia ATS per il giovane chitarrista austriaco Raphael Käfer che nell’occasione si presenta sotto l’insegna “Raphael Käfer’s Constellation Project”. A coadiuvarlo nella non facile impresa alcuni tra i migliori jazzisti austriaci come Tobias Pustelnik sax, Urs Hager piano, Philipp Zarfl basso e Matheus Jardim batteria. In programma sei brani originali del leader più il celebre standard “How Deep Is The Ocean” di Irving Berlin. L’album si fa apprezzare particolarmente per l’eccellente equilibrio raggiunto tra i cinque: il leader non si ritaglia alcuno spazio in più rispetto ai “colleghi” e nei suoi brani (tutti ben scritti e altrettanto ben arrangiati) c’è posto per tutti. Così ognuno ha un proprio spazio per evidenziare le proprie potenzialità, che non sono di poco conto. Per quanto concerne il linguaggio, siamo nell’ambito di un jazz mainstream contemporaneo – se mi consentite il termine – vale a dire un jazz nell’alveo della tradizione, ma al contempo attuale che pur senza alcuna pretesa di sperimentare alcunché di nuovo esprime la consapevolezza di raccontare compiutamente il proprio essere. Di qui la godibilità della musica che interessa tutto l’album cosicché riesce davvero difficile segnalare un singolo brano. Comunque qualche parola mi sento di spenderla sull’unico standard: presentare un brano celebrato come “How Deep Is The Ocean” non è facile anche perché i modelli con cui confrontarsi sono molti ed eccelsi; ebbene Käfer e compagni se la sono cavata egregiamente con una esecuzione pienamente rispettosa delle originali caratteristiche del brano.

Upper Austrian Jazz Orchestra – “Crazy Days: UAJO Plays The Music Of Ed Puddick” – ATS
Di carattere completamente diverso il secondo album targato ATS che vede all’opera la Big Band Upper Austrian Jazz Orchestra (UAJO). In effetti l’album è la risultante di una visita in Austria del trombonista, compositore e arrangiatore inglese Ed Puddick poco tempo prima del lockdown nei primi giorni del gennaio 2020. La UAJO nei suoi 28 anni di attività si è affermata sulla scena europea grazie alla sua duttilità che le consente di collaborare con musicisti di estrazione assai diversa passando così da Kenny Wheeler, a Johnny Griffin, da Mike Gibbs a Maria Joao… a Slide Hampton. In questo nuovo album il cui repertorio è firmato e arrangiato da Ed Puddick, c’è la conferma di quanto detto in precedenza: l’orchestra si adatta perfettamente sia a quegli arrangiamenti in cui Puddick si rifà esplicitamente ad un jazz più tradizionale sia a quei pezzi in cui la musica dell’inglese vira decisamente verso lidi più moderni evidenziando una diretta discendenza da Mike Gibbs. Seguendo questo schema si può affermare che i primi tre pezzi “Crazy Days”, “An Ocean of Air” e “Forum Internum”, appartengono alla prima categoria con in evidenza le sezioni di ottoni e di sassofoni. Di converso l’influenza di Mike Gibbs è particolarmente evidente in “Slow News Day” e “New Familiar” con il chitarrista Primus Sitter in primo piano. Tra gli altri solisti occorre ricordare il pianista Herman Hill, i sassofonisti Andreas See e Christian Maurer e il trombettista Manfred Weinberger.

ECM

Andrew Cyrille – “The News” – ECM
Gli anni passano ma sembrano non incidere più di tanto sull’arte del veterano Andrew Cyrille (classe 1939). Ecco quindi il terzo album prodotto dal celebre batterista per la casa tedesca, un “The News” che, manco a dirlo, non tradisce le attese. Ben completato da Bill Frisell alla chitarra, David Virelles piano e sin e Ben Street contrabbasso, il quartetto si muove in maniera empatica dimostrando di aver ben assorbito la perdita di Richard Teitelbaum venuto a mancare nel 2020. Il sostituto David Virelles si è perfettamente integrato nella logica del gruppo anzi è riuscito in un tempo relativamente breve a costituire una straordinaria intesa con il leader ché i due costituiscono adesso l’asse portante della formazione. Certo Frisell e Ben Street non sono dei comprimari e il loro ruolo è di assoluta importanza per la riuscita del tutto. Al riguardo non si può non sottolineare ancora una volta la straordinaria personalità di Cyrille che superata la soglia degli 80 resta validamente in sella non solo come insuperabile strumentista ma anche come compositore originale. Non è certo un caso che in repertorio figurino tre suoi brani di cui uno, “Dance of the Nuances”, scritto in collaborazione con Virelles. Gli altri pezzi sono opera di Bill Frisell, di David Virelles e di Adegoke Steve Colson (“Leaving East of Java”) brano tra i meglio riusciti grazie alla perfetta intesa evidenziata dal gruppo che alterna con assoluta naturalezza parti scritte a parti improvvisate.

Mathias Eick – “When We Leave” – ECM
Non sono certo molti i musicisti che suonano bene sia il pianoforte sia la tromba. In Italia abbiamo l’eccellente Dino Rubino; in Norvegia c’è questo Mathias Eick che oltre ai due su citati strumenti si fa apprezzare anche al basso, al vibrafono e alla chitarra. Nato in una famiglia in cui la musica è di casa (i due fratelli Johannes e Trude sono anch’essi musicisti) Mathias ancora non è troppo noto dalle nostre parti anche se può già vantare un curriculum di tutto rispetto avendo già collaborato, tra gli altri, con Chick Corea, Iro Haarla, Manu Katché e Jacob Young. In questa sua nuova fatica discografica, Eick suona con Håkon Aase al violino, Andreas Ulvo al piano, Audun Erlien al basso, i due batteristi Torstein Lofthus e Helge Norbakken nonché Stian Casrtensen alla pedal steel guitar. Eick appartiene di diritto a quella folta schiera di musicisti nordici che pur suonando jazz si rifanno in modo più o meno esplicito alle radici folk della loro musica. Ecco quindi, in organico, un eccellente violinista quale Håkon Aase che il leader inserisce nei suoi brani proprio per dare alle esecuzioni quella particolare coloratura cui si accennava. Così Aase divide con il leader e con il pianista Andreas Ulvo il ruolo di prim’attore in un repertorio declinato attraverso sette brani
tutti scritti dal leader e tutti accomunati da quella struggente malinconia che spesso caratterizza le composizioni dei musicisti del Nord Europa, in special modo norvegesi.

Marc Johnson – “Overpass” – ECM
Gli album per contrabbasso solo non sono frequenti e la cosa è perfettamente spiegabile dal momento che lo strumento è nato e si è sviluppato in funzione di accompagnamento del gruppo. Certo, nel corso degli anni, proprio nel jazz, il contrabbasso ha trovato la possibilità di elevarsi, da strumento di mero accompagnamento e sostegno armonico, a vero e proprio strumento solista, ma di qui ad essere il protagonista solitario di un concerto o di un disco ce ne corre. Non stupisce quindi, come si diceva in apertura, che gli album per solo contrabbasso siano relativamente pochi: tra questi si ricorda “Journal violone” di Barre Phillips del ’68 (probabilmente il primo del genere), e poi nel corso degli anni, tanto per citare qualche nome, Larry Grenadier, Larry Ronald, Lars Danielsson, John Patitucci, Daniel Studer… mentre in Italia si sono misurati con questa pratica, tra gli altri, Jacopo Ferrazza, Roberto Bonati, Furio Di Castri e Enzo Pietropaoli. Adesso arriva questo album di Marc Johnson e si tratta di un CD davvero strepitoso. Marc Johnson è in gran forma e d’altronde non è certo una sorpresa dato tutto ciò che questo artista ha già realizzato.Gli appassionati di jazz lo conoscono e con questo “Overpass” Marc si ripropone come uno dei principali artefici della modernizzazione che ha interessato il linguaggio contrabbassistico. L’album è declinato attraverso otto brani di cui cinque composti dallo stesso Marc cui si affiancano “Freedom Jazz Dance” di Eddie Harris, “Nardis” di Miles Davis e il tema d’amore della colonna sonora del film “Spartacus” di Alex North. Marc affronta questo impegnativo repertorio con assoluta padronanza del proprio strumento evidenziando la solita cavata possente, la consueta maestria tecnica sia al pizzicato sia con l’archetto, la ben nota capacità di valorizzare i contenuti tematici del pezzo come accade, ad esempio, in “Samurai Fly”, composizione che dall’inizio con archetto riprende il tema di “Samurai Hee Haw” tratto dall’album “Bass Desires” che il contrabbassista registrò nel 2018 con Bill Frisell, John Scofield e Peter Erskine.

Craig Taborn – “Shadow Plays” – ECM
Ecco un’altra preziosa incisione di Craig Taborn registrato in splendida solitudine durante un concerto tenuto nel marzo del 2020 alla Wiener Konzerthaus. L’album si articola su sette brani tutti composti dallo stesso Taborn cha ha da poco superato la soglia dei 50 anni. La cifra stilistica del pianista, organista, tastierista e compositore statunitense è oramai ben nota: un pianismo assolutamente originale, spesso improvvisato (come nell’album qui proposto) in cui suono e silenzi scandiscono un trascorrere del tempo caratterizzato dal fatto che fantasia e preparazione tecnica, dinamiche perfettamente controllate, intrecci poliritmici, ricorso sapiente al contrappunto, improvvise cascate di note coesistono a formare una musica sempre nuova, affascinante, spesso trascinante. Taborn è assolutamente padrone della materia; non c’è un solo momento in cui si avverte la pur minima sensazione che l’artista non sia in grado di padroneggiare ciò che sta suonando: tutto resta ancorato ad una visione che l’artista svela all’ascoltatore man mano che il concerto procede. E nel prosieguo dell’ascolto si può avvertire come l’arte di Taborn affondi le proprie radici nella migliore tradizione del piano jazz, riconoscendo tra i suoi numi ispiratori i nomi di Ellington, Monk, Cecil Taylor, Sun Ra, Abdullah Ibrahim, Ahmad Jamal in un perfetto connubio tra modernità e classicismo. Ma non basa ché tra le fonti ispiratrici di Craig bisogna annoverare anche il cinema, la pittura e tornando alla musica una folta schiera di musicisti che non appartengono al jazz quali Debussy, Glass, Ligeti.

Marcin Wasilewski Trio – “En Attendant” – ECM 2677
La ECM ci ripropone una delle formazioni europee più significative degli ultimi anni. Il trio polacco del pianista Marcin Wasilewski con Sławomir Kurkiewicz al contrabbasso e Michał Miśkiewicz alla batteria. Tanto per sottolineare la cifra artistica del gruppo, basti considerare che i tre hanno talmente entusiasmato il trombettista Tomasz Stańko da collaborare assieme per oltre 20 anni. Il fatto è che i tre suonano in trio dall’oramai lontano 1993 per cui hanno sviluppato un idem sentire, una fluidità di suono, una compattezza non facilmente riscontrabile in altri gruppi seppur di chiara fama. Tutti questi elementi li ritroviamo nell’album in oggetto che accanto alle composizioni del leader e del trio ci presenta una rivisitazione di “Variation 25” tratta dalle “Godberg Variations” di Bach, “Vashka” di Carla Bley e “Riders On The Storm” dei Doors. Evidenziare un brano piuttosto che un altro è impresa quanto mai ardua, comunque se si volesse avere un’idea ben chiara di come i tre siano davvero accomunati da una intesa speciale suggeriremmo di ascoltare le tre improvvisazioni del trio (“In Motion Part I,II,III”): sarà facile capire come Wasilewski e compagni non si adagino su pattern o punti di riferimento precostituiti, ma si avventurino su terreni totalmente improvvisati in cui i tre strumenti cambiano di ruolo, giocando anche su dinamiche spesso inattese. A chiudere forse non è inutile
sottolineare come questo album sia il primo, dopo 10 anni, registrato dal trio in studio (La Buissonne, nel sud della Francia), senza ospiti, e il settimo pubblicato dalla etichetta discografica di Manfred Eicher.

LOSEN RECORDS

La norvegese Losen Records, proseguendo nelle sue proposte di qualità, ci presenta due trii, il primo guidato dal batterista tedesco Frederik Villmow coadiuvato da due norvegesi: il pianista Vigleik Storaas e il bassista Bjørn Marius Hegge; il secondo dal pianista Christian Jormin con Magnus Bergström basso e Adam Ross batteria.

Frederik Villmow Trio – “Motion” – Losen Records
L’album comprende oltre a quattro original, tre standard, scelti ognuno dai componenti del trio: “A Lovely Way to Spend an Evening” di Jimmy McHugh, “Blame It On My Youth” di Oscar Levant e “Like Someone In Love” di Jimmy Van Heusen. Un repertorio, quindi, abbastanza variegato ma capace di farci apprezzare da un lato anche le capacità compositive del leader, dall’altro le possibilità esecutive del combo che si muove perfettamente a proprio agio anche sui terreni così battuti come quelli rappresentati dai citati standard. In effetti i tre possono contare su una ottima intesa cementata da precedenti esperienze e il tutto viene declinato attraverso un giusto equilibrio tra parti improvvisate e parti scritte. Insomma siamo sul terreno del classico jazz-trio che, ad onta di qualsivoglia sperimentazione, rimane sempre un organico di tutto rispetto…sempre che, ovviamente, sia composto da musicisti di livello come questi che si ascoltano nel CD in oggetto. In particolare Willmow pur essendo nato a Colonia ha studiato e sviluppato la sua attività in Norvegia dove ha avuto modo di collaborare con alcuni prestigiosi jazzisti del Nord Europa e non solo tra cui Vigleik Storaas (NO), Bjørn Alterhaug (NO), Tore Brunborg (NO), Bendik Hofseth (NO), Alan Skidmore (UK), Cappella Amsterdam (NL), Mats Holmquist Big Band (SWE), Metropole Orkest Academy diretta da Vince Mendoza (NL). Ma è proprio all’interno del trio presente in “Motion” che sembra aver trovato la giusta collocazione. Comunque lo si attende a prove ancora più impegnative.

Christian Jormin Trio – “See The Unseen” – Losen Records
“See The Unseen” vede all’opera lo svedese Christian Jormin al piano con i già citati Magnus Bergström e Adam Ross. Si tratta del debutto di Jormin da leader in casa Losen e l’esordio è più che positivo. Registrato il 22 e 23 luglio 2020, quindi in pieno lockdown, presso la Concert Hall Sjostromsalen at Artisten in Gothenburg, l’album presenta dieci composizioni firmate dal leader e scritte appositamente per il trio. In realtà il nocciolo duro del combo era costituito da Jormin e Bergstrom che, incontratisi con Adam Ross, hanno pensato bene di allargare il duo costituendo il trio che stiamo ascoltando. L’album prende spunto dal fatto di voler reagire, in qualche modo, all’isolamento che ci era stato imposto. Così, attraverso, la musica le distanze sono abolite e l’interazione è assicurata. In effetti, anche in questo caso, una delle maggiori qualità del trio è proprio l’intesa che si avverte: i tre si muovono in modo spontaneo ma perfettamente consapevole che i compagni d’avventura non solo seguiranno lungo il percorso scelto ma saranno in grado di proseguire il discorso in maniera coerente e consapevole. Le dieci tracce sono tutte innervate da armonie ben congegnate e da un certo minimalismo all’interno di strutture molto ben disegnate, strutture che consentono a tutti e tre i musicisti di esporre compiutamente il proprio potenziale. Tutti godibili i brani con una preferenza per “Mola Mola”.

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B.I.T. – Danielle Di Majo e Manuela Pasqui –  “Come Again” – Filibusta
E’ un duo al femminile quello che ci propone la Filibusta Records in questo album: protagoniste Danielle Di Maio ai sassofoni e Manuela Pasqui al pianoforte. La sassofonista avevamo già avuto modo di apprezzarla, tra l’altro, negli album di Ajugada Quartet e della vocalist Antonella Vitale mentre la Pasqui ha già firmato un album come leader (“Il filo dell’aquilone”) oltre ad aver collaborato con numerosi jazzisti di vaglia. Questo per dire che le due artiste sono ben note nell’ambiente del jazz, godendo di una meritata stima. Stima che viene confermata dall’album in oggetto che si articola su nove brani declinati sia sul versante prettamente jazzistico grazie a due original firmati rispettivamente dalla sassofonista (“Cagnaccio”) e dalla pianista (“Della mancanza e dell’amore”) sia, soprattutto, sulla rielaborazione di brani tratti dal repertorio “colto”, arrangiati dalla Pasqui che da sempre si caratterizza per questa sua capacità di attingere dal repertorio classico per rivitalizzarlo con il linguaggio dell’improvvisazione. Ecco quindi in scaletta Thibaut, John Dowland, Claudio Monteverdi, Franz Schubert, Johann Pachelbel. A mio avviso il pregio maggiore dell’album consiste nel fatto che, ascoltando i brani (tutti eseguiti magistralmente), non si avverte nessuno iato tra pezzi che traggono ispirazione da due mondi così diversi, eppure così vicini nella considerazione dell’Amore quale elemento, forse l’unico, che può aiutarci a vivere.

Enzo Favata – “The Crossing “ – Niafunken
Conosco Enzo favata da molti anni e credo di poter dire che questo è uno dei migliori album da lui realizzato nel corso di una oramai lunga e prestigiosa carriera. Il musicista sardo, in questa occasione al sax, theremin, samples è coadiuvato da Pasquale Mirra al vibrafono, marimba midi e Fender Rhodes, Rosa Brunello al Fender Bass, Marco Frattini, batteria e percussioni, cui si aggiungono in qualità di ospiti Ilaria Pilar Patassini voce, Salvatore Maiore cello, Maria Vicentini violino e viola e il chitarrista Marcello Peghin, già accanto a Favata in numerose avventure. Una tantum il titolo dell’album così come dei vari brani non è occasionale ma deriva compiutamente dalla musica proposta. Così, ad esempio, “The Crossing” (“Attraversamento, incrocio”) sta a significare proprio l’intenzione di Favata di proporre una musica che testimoni l’incrocio di più culture. Non a caso il brano d’apertura, “Roots”, di Jan Carr dei Nucleus, segnala una profonda attenzione verso il jazz-rock così come “Salt Way” dello stesso Favata ci riporta alla mente quella via del sale che attraversava il deserto della Dancalia grazie ad una musica orientaleggiante, ricca di umori, sapori così sapientemente speziati mentre particolarmente toccante è “Black Lives Matter”. Il brano, composto a più mani da Favata, Brunello, Mirra e Frattini vuole esprimere lo sdegno presente ancora in tutti noi per un episodio inaccettabile, con il sax di Favata a enfatizzare il clima del pezzo, su un tappeto sonoro che sembra richiamare i grandi paladini, musicisti e non, dell’eguaglianza dei neri negli States…e non solo; particolarmente adatto il campionamento delle voci di Steve Biko, Fela Kuti e Malcom X.

Karima – “No Filter” – Parco della Musica
E’ da molto tempo che seguo Karima la cui carriera, a mio avviso, non è stata finora adeguata alle sue effettive possibilità. Ma andiamo indietro nel tempo. Karima è stata, a mio sommesso avviso, l’unico vero talento che sia emerso dalla trasmissione “Amici”. Quell’anno, però, non vinse e la cosa mi fece talmente arrabbiare che smisi di vedere il programma. Adesso di anni ne sono passati, ma Karima stenta ad emergere nonostante il suo talento sia stato riconosciuto da personaggi di assoluto livello come Burt Bacharach, che ha scritto per lei dei brani e prodotto, nel 2010, il suo primo album dal titolo “Karima”. Questo nuovo album, che arriva dopo sei anni dall’ultima fatica discografica, rende giustizia, anche se non del tutto, delle due qualità: bellissima voce, ottime dosi interpretative, capacità di affrontare con sapienza un repertorio certo non facile. In effetti la vocalist presenta in rapida successione tutta una serie di successi della musica internazionale, per la precisione ben undici, tra cui i celebri “Walk on the Wild Side” di Lou Reed prima traccia del disco e anche primo singolo accompagnato dal videoclip che narra la recording session dell’album pubblicato come anticipazione sulla pagina Facebook di Karima, “Feel Like Making Love” di George Benson e Roberta Flack, “Come Together” e “Blackbyrd” dei Beatles. Ad accompagnare Karima, Gabriele Evangelista al basso, Piero Frassi al pianoforte e arrangiamenti, e la Piemme Orchestra diretta da Marcello Sirignano.

Roberto Magris – “Suite!” – 2 CD JMOOD
Roberto Magris, Eric Hochberg – “Shuffling Ivories“ JMOOD
Roberto Magris è uno dei non moltissimi jazzisti italiani che abbia oramai acquisito una statura effettivamente internazionale come dimostrano i due album in oggetto.
Il primo – “Suite”- è il diciassettesimo album in studio registrato negli Stati Uniti da Roberto Magris per la casa discografica JMood di Kansas City. È il primo disco inciso da Magris a Chicago, assieme a musicisti della scena jazz Chicagoana, per la cronaca Eric Jacobson tromba, Mark Colby tenor sax, Eric Hochberg basso, Greg Artry batteria, Pj Aubree Collins voce, con l’aggiunta di Spoken word in alcuni brani, e con alcuni pezzi incisi in piano solo, provenienti da una successiva session discografica tenutasi a Miami. Il programma è prevalentemente basato su brani e testi originali, con alcune rivisitazioni di standard del jazz e due brani pop degli anni ‘70 come “In the Wake of Poseidon” dei King Crimson e “One with the Sun” dei Santana con la ripresa di “Imagine” di John Lennon. Da evidenziare come sotto molti aspetti si tratti di un coincept album dal momento che nei pezzi scritti dallo stesso Magris è molto presente il richiamo alla pace, alla fratellanza. In altre parole con questa splendida realizzazione il pianista triestino vuole veicolare un messaggio di speranza e lo fa con i mezzi a sua disposizione. Di qui un linguaggio che è una sorta di summa delle più significative correnti che hanno attraversato il jazz degli ultimi decenni mentre nei brani per piano solo ritroviamo il Magris sensibile, introspettivo che abbiamo imparato a conoscere in questi anni.
Pubblicato nel 2021 sempre per la JMood di Chicago, il secondo album – “Shuffling Ivories“- presenta il pianista triestino in duo con il contrabbassista Eric Hochberg in un programma dedicato interamente da un canto al piano jazz, da Eubie Blacke ad Andrew Hill, dall’altro alle più profonde radici del jazz statunitense da cui provengono echi di blues e ragtime, di gospel, di free. Il tutto intervallato da original dello stesso Magris. Quasi inutile dirlo, ma il pianista ancora una volta fa centro, grazie ad una sorta di ispirazione che pervade ogni sua esibizione. Il suo pianismo, anche in questo caso scevro da qualsivoglia tentativo di stupire l’ascoltatore, si sofferma sulla necessità espressiva di creare un fitto dialogo con il suo partner, dialogo che venga recepito appieno dall’ascoltatore. E così accade anche perché il contrabbassista dimostra di condividere appieno gli intendimenti del compagno di strada. Di qui un dialogo che si sviluppa fitto, impegnativo, mai banale con i due impegnati ad ascoltarsi e rispondersi sull’onda di un’intesa che non conosce tentennamenti. Ad avvalorare quanto sin qui detto, citiamo alcuni dei titoli contenuti nell’album: “Memories of You” di Blake, “Laverne” di Hill”, “I’ve Found A New Baby” di Palmer e Williams, “The Time Of This World Is At Hand” scritto dal pianista e compositore Billy Gault, “Quiet Dawn” di Cal Massey vero e proprio cavallo di battaglia di Archie Shepp che lo incluse nel celebre album “Attica Blues” del ’72.

Sade Farina Mangiaracina – “Madiba” – Tuk Music
La pianista siciliana (in un brano anche al Fender Rhodes) si ripresenta in trio con il bassista Marco Bardosica e il batterista Gianluca Brugnano cui si aggiunge Zid Trablesi al loud in tre pezzi. E già quindi da questo organico si può comprendere quali siano le intenzioni di Sade, intenzioni rese ancora più esplicite dal titolo dell’album. In buona sostanza l’artista intende dedicare questa musica ad un eroe dei nostri tempi, Nelson Mandela, del quale narrare la storia. Impresa ovviamente al limite del possibile data l’annosa polemica sulla semanticità o meno della musica. Comunque, a parte queste considerazioni, non c’è dubbio che questo album riesce a far riflettere chi lo ascolta, dipingendo un contesto in cui la storia di Mandela può trovare giusta collocazione. La Mangiaracina sfoggia ancora una volta un pianismo oramai maturo che esprime compiutamente le sue idee. Così, ad esempio, in “Winnie”, dedicato alla moglie del leader sudafricano, il ritmo si fa incandescente come a voler sottolineare le difficoltà incontrate dalla donna nello stare accanto a Nelson. Ma questo è solo un episodio ché in tutti i brani si ritrova qualcosa di interessante non disgiunta dal tema centrale. Ecco quindi, per fare un altro esempio, la ripresa del brano “Letter From A Prison”, una splendida ballad con Bardoscia in grande spolvero. Ma, citato Bardoscia, non si possono dimenticare gli altri componenti il gruppo, tutti perfettamente all’altezza di un compito certo non facile.

Germano Mazzocchetti Ensemble – “Muggianne” – Alfa Music
Germano Mazzocchetti è uno di quei pochi musicisti che mai delude; questo grazie anche al fatto che entra in sala di incisione solo quando ritiene di avere qualcosa di importante e di nuovo da dire. E quest’ultimo suo CD non fa eccezione alla regola. “Muggianne” è un album che si ascolta con interesse dalla prima all’ultima nota, soffuso com’è, specie nei primi brani, da un sottile velo di malinconia. Il tutto eseguito magistralmente da un gruppo coeso dalla lunga militanza e che comprende Francesco Marini al sassofono e ai clarinetti, Paola Emanuele alla viola, Marco Acquarelli alla chitarra, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria. E già la struttura dell’organico e i nomi dei musicisti dicono molto circa la statura artistica di Mazzocchetti: il fisarmonicista e compositore abruzzese, nel suo personalissimo bagaglio culturale, può vantare una passione per il jazz, una conoscenza approfondita della musica colta nelle sue varie declinazioni, nonché una approfondita conoscenza del musical e una ricca frequentazione del teatro di prosa: non a caso Germano è anche uno dei più apprezzati autori di musiche di scena. Questa miscela la si ritrova compiutamente nella sua musica che quindi risulta difficilissima da classificare, ammesso poi che la cosa sia importante! Quel che viceversa risulta importante è la qualità di ciò che propone, sempre originale, mai banale e soprattutto sempre coinvolgente. Un’ultima notazione: molti si saranno chiesti che significa ‘Muggianne’; la risposta ce la fornisce lo stesso Mazzocchetti: ”Il titolo Muggianne è una parola che nel dialetto del mio paese significa ‘Sta zitto e non parlare più’” come a dire, forse (ma questa è una nostra personalissima interpretazione) che la musica non ha bisogno di essere spiegata per entrare nei nostri cuori.

Enrico Rava – “Edizione Speciale” – ECM
Siamo nell’estate del 2019 e si festeggiano due compleanni importanti: i 50 anni della ECM e gli 80 di Enrico Rava. Il gruppo del trombettista e flicornista si esibisce ad Antwerp, Belgio, con l’abituale organico completato da Francesco Diodati alla chitarra elettrica, Gabriele Evangelista al contrabbasso ed Enrico Morello alla batteria, cui si aggiungono due ospiti “eccellenti” quali Francesco Bearzatti al sax tenore e Giovanni Guidi al pianoforte. Il concerto viene registrato ed eccolo qui a disposizione di tutti noi. Rava è universalmente riconosciuto come uno dei musicisti più creativi ed originali che il jazz europeo abbia conosciuto, grazie ad una versatilità che nel corso di una carriera oramai molto lunga gli ha permesso sia di restare fedele alla tradizione, sia di elaborare un linguaggio melodico consono alla tradizione italica, il tutto senza trascurare le innovazioni dettate dal free di Ornette Coleman e le suggestioni ritmiche della musica sud americana nelle sue varie declinazioni. A ciò si aggiunga il fatto che Rava ha lanciato diversi giovani musicisti come quelli che compongono il suo attuale quartetto. Per questa “Edizione speciale” Rava ha voluto ripercorrere il suo repertorio proponendo pezzi che vanno dal 1978 al 2015, anno di pubblicazione di “Wild Dance”, più nuove versioni di “ Once Upon A Summertime” , un classico di Michel Legrand e di “Quizás, Quizás, Quizás”, celebre brano di musica cubana. Come suo solito Rava si ritaglia spazi solistici ma lascia ampia libertà d’azione ai compagni di viaggio e così in particolare Diodati, Guidi e Bearzatti hanno modo di evidenziare ancora una volta quel talento che tutti riconosciamo loro. Insomma un disco davvero da “Edizione speciale”.

Santi Scarcella – “Da Manhattan a Cefalù” –
Il più jazzista dei cantautori italiani. Così è stato definito Santi Scarcella, definizione da condividere in toto dopo aver ascoltato l’album “Da Manhattan a Cefalù”, dedicato alla memoria di Nick La Rocca, un emigrante siciliano a cui, per convenzione, si deve la registrazione del primo disco di jazz nel 1917. Partendo da un repertorio di quattordici brani di cui ben dodici scritti dallo stesso Scarcella da solo o in compagnia di Viscuso o Mesolella, con l’aggiunta del traditional “Vitti na crozza” di Li Causi e lo standard di chiusura “Some Day My Prince Will Come”, Scarcella sfodera uno stile tanto arguto quanto personale. Mescolando il dialetto siciliano con l’italiano ma anche con lo spagnolo e l’inglese, nonché differenti stili come il samba, il mambo, passando attraverso il rag time, lo ska, Santi prepara una ricetta assolutamente fruibile…anche se farà storcere la bocca ai puristi del jazz. Tuttavia a beneficio di questi ultimi forse non è inutile sottolineare in primo luogo che il progetto di Scarcella, partito dai canti di lavoro siciliani, è riuscito a trovare elementi in comune con il blues americano e, proprio per questo, è stato approvato dalla statunitense Uconn University e in secondo luogo che sotto la veste dell’allegria, l’album tratta temi molto ma molto seri come l’emigrazione, l’integrazione, il glocalismo, patologie gravi come l’Asperger.

Giovanni e Jasmine Tommaso – “As Time Goes By” – Parco della Musica
Non è inusuale che membri della stessa famiglia collaborino nella realizzazione di un album ma ciò non ci impedisce di salutare con simpatia questo album che vede l’uno accanto all’altra il papà Giovanni Tommaso e la figlia Jasmine Tommaso in quintetto con Claudio Filippini al piano e Fender Rhodes, Andrea Molinari alla chitarra e Alessandro “Pacho” Rossi alla batteria. Sgombriamo subito il campo da qualsivoglia equivoco: Jasmine non è solo la figlia di un gigante del jazz quale Giovanni Tommaso, ma è una vocalist che ha tutte le carte in regola per intraprendere una brillante carriera; da anni stabilita a Los Angeles, può vantare un intenso percorso accademico speso tra la School of the Arts di South Orange e l’Università della California e gli studi in ambito jazz presso il Berklee College of Music di Boston. A ciò si aggiungono collaborazioni di rilievo con Stefano Bollani, Danilo Rea, Tia Fueller, Kim Thompson e Fabrizio Bosso. Questo album arriva al momento giusto per certificare l’avvenuta maturazione dell’artista. Jasmine interpreta bene un repertorio variegato in cui accanto a brani dal sapore prettamente jazzistico quali “Once Upon A Dream” di Sammy Fain e Jack Lawrence, “Lullaby Of Birdland” di George Shearing e la successiva “Someone To Watch Over Me” di George Gershwin, possiamo ascoltare una suggestiva versione di “Marinella” di Fabrizio De André nonché alcuni original scritti dalla stessa Jasmine con Lorenzo Grassi e dallo stesso leader.

Tanta bella musica… per tutti i gusti!

Mentre il Paese tenta faticosamente di uscire da una crisi terribile indotta dalla pandemia, il mondo della musica dà evidenti segni di ripresa declinata attraverso una serie di manifestazioni che interessano un po’ tutte le regioni. Oggi, quindi, vi segnaliamo alcuni di questi festival che ci appaiono particolarmente degni di attenzione. E iniziamo con qualcosa che ci porta fuori dal nostro ambito d’interesse abituale (la musica jazz) per andare in un campo che altre volte abbiamo frequentato: la musica classica.
Venerdì 23 luglio ha avuto inizio, ad Acquasparta, il Festival Federico Cesi diretto con mano sicura e competente da Annalisa Pellegrini, brillante e ben nota musicista; diplomata in conservatorio nel 1996 e in Canto Lirico nel 2001, la Pellegrini ha completato la sua preparazione con il Master Internazionale in Direzione di Coro di Musica Sacra con il massimo dei voti nel 2002, e il Diploma Accademico in Canto Barocco conseguito nel 2005, specializzandosi altresì in Vocalità Infantile con il Maestro C. Boldy. Pensato insieme a Stefano Palamidessi, che ne è il direttore organizzativo, il Festival si svolge sia in provincia di Terni sia in provincia di Perugia con la collaborazione dei Comuni di Acquasparta, Sangemini Montecastrilli, Spello e Trevi e la diocesi di Orvieto Todi. Chiusura il 9 settembre con l’esecuzione de “Il martirio di San Terenziano” un oratorio inedito di Antonio Caldara su testi di Giuseppe Piselli del 1718.
La manifestazione si caratterizza da un lato per l’ampio spazio lasciato ai giovani, dall’altro per una certa varietà di programma: così, ad esempio, il 30 luglio si avrà la possibilità di ascoltare a Spello una delle jazz-ladies del panorama italiano, Marcella Carboni, impegnata in un solo all’arpa, mentre il 9 settembre ad Acquasparta si esibirà il tenore Mark Milhofer accompagnato da Marco Scolastra al pianoforte in un programma significativamente intitolato “Caruso il mito”.

Restando nell’ambito della musica colta, segnaliamo tre importanti eventi che si avvarranno entrambi della partecipazione di Annalisa Pellegrini: il 28 luglio farà parte come soprano del quartetto vocale impegnato nei canti gregoriani, il 21 agosto sarà il soprano solista nel programma “Il suono dei sensi – Fascinazioni barocche” mentre nel già citato concerto di chiusura ricoprirà il ruolo dell’Angelo.
I concerti si svolgeranno all’aperto, saranno totalmente gratuiti ed ovviamente serviranno a focalizzare l’attenzione su territori già di per sé splendidi.
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E torniamo adesso su terreni che ci sono più congeniali.
Il 19 agosto si apre presso la Certosa di Padula Il Festival jazz sotto la direzione artistica di Maria Pia De Vito, che si chiuderà il 27. A dar fuoco alle polveri saranno Javier Girotto & Aires Tango, formazione che non ha certo bisogno di ulteriori presentazioni dato il prestigio acquisito in ogni dove. Questo concerto presenta un ulteriore elemento di interesse in quanto al gruppo si unirà Peppe Servillo il quale ha già collaborato con Girotto.
Il 23 sarà la volta della grande pianista Rita Marcotulli impegnata in un programma significativamente intitolato “I Caraviaggianti”. Si tratta di una sorta di viaggio tra le figure seducenti e dure del Caravaggio. Un concerto quindi di strumenti ed arie che giocano con la classica, il jazz, la musica contemporanea e l’elettronica. Accanto alla pianista suoneranno Mieko Miyazaki (koto e voce), Israel Varela (voce e percussioni), Michele Rabbia (percussioni e electronic sound), Tore Brumborg (sax), Michel Benita (contrabbasso) e Marco Decimo (violoncello).
Il giorno dopo il quartetto del trombettista Fabrizio Bosso con Julian Over Mazzariello al pianoforte, Jacopo Ferrazza al contrabbasso e Nicola Angelucci alla batteria.
Il 25 il celebrato “Zorro” del sassofonista e clarinettista Francesco Bearzatti con Giovanni Falzone alla tromba, Danilo Gallo al basso elettrico e Zeno De Rossi alla batteria.
Il 26 altro concerto di assoluto rilievo con Luca Aquino alla tromba che racconta le grandi storie della boxe; accanto a lui Antonio Jasevoli alla chitarra elettrica, Pierpaolo Ranieri al basso elettrico ed elettronica, special guest Manu Katche alle percussioni e batteria; visual art di Mimmo Paladino e testi di Giorgio Terruzzi.
Il giorno successivo sarà la volta del pianista Giovanni Guidi in quartetto con Stefano Carbonelli chitarra elettrica, Nicolò Francesco Faraglia chitarra elettrica, Federico Negri e Giovanni Iacovella batteria.
A chiudere il 27 agosto un duo d’eccezione costituito da Gianluca Petrella trombone e elettronica e Pasquale Mirra vibrafono.
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E chiudiamo con il Festival di Termoli alla sua settima edizione in programma dal 28 luglio al 1 agosto. Il Festival è organizzato dall’Associazione culturale Jack e trova nella meravigliosa Piazza Duomo un palcoscenico straordinario.

Franco D’Andrea – ph Angelo Salvin

In apertura Franco D’Andrea incontro DJ Rocca in un set di straordinaria intensità.
Il 29 doppio concerto con Luca Ciarla Solorchestra e il duo formato da Luca Aquino tromba e Giovanni Guidi al pianoforte.
Il 30 il quartetto del trombettista Flavio Boltro cui farà seguito il giorno dopo Enzo Favata “The Crossing”.
Chiusura il 1 agosto con Davide Shorty & Straniero Band –  Fusion Tour.

Gerlando Gatto

Il Jazz ai tempi del Coronavirus le nostre interviste: Enzo Favata, sassofonista

Intervista raccolta da Gerlando Gatto

Enzo Favata, sassofonista

-Come stai vivendo queste giornate?
“Potrei dirti come tutte le persone di questo mondo, vivo le giornate con apprensione e sospensione, paura non solo del nemico invisibile, ma soprattutto del futuro incerto. Detto questo, cerco di usare questo periodo sospeso in maniera differente dal solito e di darmi un organizzazione rigida del tempo e delle cose da fare nell’immediato. Naturalmente un po’ spaventato dal fatto che alla ripresa dei “ giochi”, data la mia condizione di musicista geograficamente lontano dai centri di diffusione della musica, sarà molto difficile che tutto ritorni alla normalità in tempi brevi, ho deciso di riorganizzare il mio tempo, dandomi uno schema rigido alle mie lunghe giornate, suddivise con orari ed impegni precisi: la mattina la passo in studio cercando di fare come tutti i musicisti, pratica con lo strumento, la composizione di nuove idee ecc… ho anche preso in mano il mio archivio con 30 anni di lavori, registrazioni live, colonne sonore, lavori per cinema teatro, album mai usciti, performance e concerti live, un lavoro davvero imponente dato che ci saranno più di 400 ore di registrazione, non voglio lasciarle in un cassetto e le cose più interessanti le sto rimasterizzando e mettendo online, sarà un lavoro che continuerò anche finiti i tempi del coronavirus, per ora ci sono 22 album digitali già pubblicati https://enzofavata.bandcamp.com/  La seconda parte della giornata, dato che per scelta di vita da dodici anni ho deciso di abitare in campagna, il pomeriggio lo dedico alla terra che ho intorno a casa e cerco di fare seriamente un lavoro completamente diverso che richiede devozione e cura come la musica, lavoro a volte sin quando è buio. So che avere queste possibilità di poter non essere incollati ad un divano o reclusi in una piccola casa di 40 mq, di questi tempi può essere una grande fortuna, quindi porto grande rispetto alla condizione degli altri e spero che l’emergenza finisca presto”.

-Come ha influito tutto ciò sul tuo lavoro? Pensi che in futuro sarà lo stesso
“Il lavoro stava avendo un profondo cambiamento anche prima di questo sconvolgimento, vivo la scena musicale da davvero tanto tempo e la situazione per i musicisti è precipitata già da tempo, sin dall’avvento di alcune mode digitali che ne ha sconvolto il mercato, appiattendolo su di un concetto davvero restrittivo rispetto al ruolo della musica e del musicista. Personalmente lavoro molto e soprattutto all’estero e non sto a dire quanti concerti e tournée ho perso. Credo che il futuro non sarà più  lo stesso, ma lo vedo in positivo, dopo le grandi tragedie ci sono stati sempre epocali cambiamenti, credo che questa esperienza farà nascere  collaborazioni, nuovi network ed  una maggior coscienza anche da parte dei musicisti e della filiera dello spettacolo, compreso il pubblico: ci sono segnali già evidenti di una consapevolezza e riorganizzazione nel nostro mondo, basta iniziare ad avere più coraggio, a mettersi in gioco anche nella vita associativa, dare qualcosa anche agli altri per ottenere di più tutti e su questo la filiera del jazz italiano ha ancora da lavorare molto”.

-Come riesci a sbarcare il lunario?
“Sto riprendendo con più costanza la mia attività di colonne sonore, dove ho fatto molto negli anni, alternandola all’attività concertistica; non nascondo che è un momento difficile, ma vedendo il bicchiere mezzo pieno ho deciso di utilizzare i materiali  risorti dal mio archivio e li sto mettendo online. Credo  che  promuovere la tua musica su piattaforme come bandcamp stia iniziando a dare risultati non solo per me, all’estero è uno standard usato ed ha successo, in Italia impera Spotifly che, con tutto il rispetto per la musica per tutti, a noi del jazz fa arrivare qualche euro, per questo lancio un’idea alla stampa specializzata: sarebbe una bella cosa che anche la critica musicale, i media internet i blog e riviste, si dedicassero con più convinzione a questo modo di concepire la produzione musicale diretta tra musicista e fruitore della musica, per semplificare è un po’ come fa la Coldiretti in Italia, che promuove i prodotti  a chilometro zero”.

-Vivi da solo o con qualcuno. E quanto ciò risulta importante?
“Vivo con la mia famiglia e naturalmente in questo momento è importate, ma lo è sempre stato”.

-Pensi che questo momento di forzato isolamento ci indurrà a considerare i rapporti umani e   professionali sotto una luce diversa?
“Credo che l’isolamento aiuti a capire meglio il valore dei rapporti umani di una volta anche con i contatti diretti, chi non è della mia generazione non conosce il valore di una cartolina di una telefonata, di andare a far visita ad un conoscente, l’era degli sms e poi delle chat hanno appiattito tutto ad un messaggio uguale per tutti da spedire alla tua rubrica telefonica. Meno male che la tecnologia oggi, con le video-chiamate, ci aiuta a ridurre la distanza tra le persone che conosciamo e spesso riduce il noioso susseguirsi di messaggi, in questo periodo le video-chiamate sono aumentate visibilmente e questo modo visivo di dedicare più tempo, a mio parere cambierà notevolmente in meglio il rapporto tra le persone. Io lo sto sperimentando questo trend, conosco persone in tutto il mondo, ma mai come ora ne ricevo segnali e comunicazioni da tutti, credo che sia il leitmotiv che accompagna l’umanità tecnologica   ed è una bella cosa che tutti vogliono sapere degli altri. Anche nel lavoro si usano sempre più video-chiamate anche in gruppo per condividere qualche minuto insieme, guardarsi in faccia, oppure chiedere consigli su certe cose, parlare di problematiche comuni. Tutto questo prima di febbraio era molto più raro, oggi anche se distanti siamo più vicini perché ci accomuna un dramma e la voglia di superarlo”.

-Credi che la musica possa dare la forza per superare questo terribile momento?
“La musica aiuterà tutti ad affrontare questo momento, mai come al giorno d’oggi la musica è facilmente raggiungibile ed è facilmente fruibile. La musica influisce molto sul modo in cui pensiamo, in cui ci comportiamo, in cui sentiamo. La musica è un mezzo davvero molto potente che lavora direttamente sulle emozioni. Per noi che la produciamo è una ragione di vita e non da oggi. Per me ora è un momento di grande immersione interiore, come ho detto prima sia nel passato con oltre 30 anni di  archivio dentro cui scavare e riscoprire, sia nel futuro con una  grande la voglia di creare a cui ho iniziato a dedicare più tempo proprio in questi giorni. Il lavoro della riscoperta di mie radici musicali ed anche il lavoro in campagna mi stanno dando la forza non solo di superare, ma anche di creare qualcosa di nuovo, come finalmente la realizzazione di un mio album in solo e la composizione di nuovi materiali per la realizzazione e registrazione del nuovo album con il mio attuale gruppo “The Crossing” con Pasquale Mirra, Rosa Brunello e Marco Frattini di cui esiste un album live recording su bandcamp  https://enzofavata.bandcamp.com/album/enzo-favata-the-crossing-live”.

-Se non la musica a cosa ci si può affidare?
“Chi ama la musica e la crea difficilmente pensa ad altro, ma nel concreto a mio avviso la forza per superare questo momento è l’unione il non sentirsi soli anche nel nostro mondo artistico, partecipare socialmente come ho detto prima, essere presenti , non solo con il dito sulla tastiera di un social, ma sentirsi parte di una comunità, far valere i propri diritti, ma anche i nostri doveri” .

-Quanto c’è di retorica in questi continui richiami all’unità?
“Devo dire che se da un punto di vista bisogna essere assolutamente ottimisti nonostante la banale, ma necessaria retorica di: “ce la faremo, andrà tutto bene, gli italiani sono un grande popolo… ecc…”, bisogna comunque iniziare a raccontare un po’ di verità su cosa è la nostra nazione, non dimentichiamo che l’Italia era già un paese scassato da prima con sei milioni di disoccupati, nove milioni di sommerso (tra cui anche molti musicisti danno il loro piccolo contributo lavorando in nero) cinque milioni di poveri. Insomma l’unità va bene ma anche la coscienza di essere sull’orlo di un baratro e che le risorse che verranno impiegate per la ripresa saranno dei conti salatissimi che dovremo pagare, non dimenticandoci che gli Italiani complessivamente evadono per 150 miliardi all’anno e questo non è un esempio di unità. Su questa domanda vorrei divagare un poco prendendo ad esempio dei post che in questi giorni vedo sul mondo dello spettacolo a proposito di iniziative virtuose come quelle del governo tedesco. Secondo voi possiamo paragonarci? Oppure post “l’Italia è il paese della cultura e dell’arte”.  Ma si ha in mente quanto i governi “cattivi” del Nord investano in cultura? Chi ha frequentato i palcoscenici della Germania, Norvegia, Svezia ma anche dell’Olanda si rende conto di quanto i governi spendono e di quanto il pubblico sia presente e spenda i soldi di un biglietto, anche per andare a vedere musicisti non conosciuti; esiste insomma più senso di unità nel vedere la gente che conduce una vita sociale legata alla cultura, al ritrovarsi per un evento che non sia di natura commerciale o nazional-popolare; speriamo che cambi qualcosa che non sia l’unità dei flashmob dai balconi, e di tante altre iniziative che lasciano il tempo che trovano. Finisco il concetto dicendo che il mondo della musica ha sempre risposto al concetto di unità andando in aiuto sempre per le cause dei più deboli”.

-Sei soddisfatto di come si stanno muovendo i V/si organismi di rappresentanza?
“Il mondo del jazz, come è noto, per una parte si è associato in Federazione del Jazz Italiano, che riunisce l’associazione dei Musicisti, quella dei Festival ecc… (conoscete già chi ne fa parte) si tratta comunque di un buon inizio e credo siano stati fatti passi importanti, dato che prima non esisteva nulla; detto questo si ha la necessità di dare un’accelerazione vista la situazione contingente, lasciando da parte certi atteggiamenti garantisti solo per una piccola parte del jazz italiano, siamo una filiera e se una parte soffre, ne soffre l’intera catena. La mia non vuole essere una critica bensì un suggerimento attivo: AMJ, di cui faccio parte e che riunisce i musicisti di jazz, per avere più massa critica deve riuscire ad accogliere più musicisti non solo della fascia “giovanile” e per far questo deve riuscire a dare più fiducia a chi sarebbe intenzionato ad aggregarsi, ma non lo fa perché comunque non si sente rappresentato; è un duro lavoro, credo che l’attuale dirigenza stia facendo anche oltre il possibile, ma bisogna superare questo stallo e gli strumenti necessari si hanno basta metterli in atto. I-Jazz in questo momento, almeno per la fine del 2020 e credo per buona parte del 2021, dovrà essere cosciente del “capitale artistico“ che sono i musicisti di jazz Italiani ed imparare a valorizzarlo maggiormente, anche con importanti azioni di promozione, sviluppare azioni comuni per quanto riguarda il fundraising e mettere in campo, anche aiutati dal Governo, tutte quelle azioni che permettano di promuovere i Festival, Teatri, Rassegne, per riportare a loro il pubblico anche con una visone diversa,  prendendo spunto, come ho spiegato prima, dal pubblico dell’Europa del Nord”.

-Se avessi la possibilità di essere ricevuto dal Governo, cosa chiederesti?
“Il Governo ha iniziato un piccolo dialogo con la Federazione del Jazz ed “a bellu a bellu” ( traduzione dal sardo: a piccoli passi) sta iniziando un percorso. Nella Fase 3 post Coronavirus e con la riapertura delle frontiere chiederei: una disposizione finanziaria maggiore sia nelle attuali risorse per il Fus, sia meccanismi di avvicinamento per quei Festival e realtà importanti (e ce ne sono) che non hanno avuto la fortuna di aver accesso al Fondo Unico per lo Spettacolo; creare incentivi almeno per un quinquennio  per I Festival ed i Palinsesti che ospitino musicisti Italiani di Jazz (di qualsiasi età); creare una campagna di promozione di riavvicinamento del pubblico, anche reintroducendo e incentivando le iniziative statali e private, la programmazione della musica jazz e dei concerti com’era una volta. Infine, ma non meno importante, attivare l’Export Office, una Istituzione di promozione governativa, attiva con successo in tantissime nazioni, che in Italia deve dipendere dal MIBACT , con un modello a struttura aperta ed a sportello, con due call annuali che finanzino i viaggi dei musicisti che ne abbiano diritto, ovvero con dei contratti firmati da Festival ed Organizzazioni straniere, lo stesso Export  Office che andrà a promuovere il jazz Italiano nelle Fiere”.

-Hai qualche particolare suggerimento di ascolto per chi ci legge in questo momento?
“Diciamo che dopo quello che ho detto, consiglio a tutti di andare a scoprire la musica su Bandcamp, è un buon modo per essere uniti e solidali con i musicisti che non stanno lavorando in questo momento e naturalmente, una volta ascoltati i brani, scaricate gli album; trovate anche le più importanti etichette, digitate un genere ed andate a scoprire. Libri? “Logo Land” di Max Barry, per capire in un romanzo del 2003 la società attuale. “In Patagonia” di Bruce Chatwin, per comprendere un mondo in cui la distanza sociale è usuale. “Peggio di un Bastardo” autobiografia di Charles Mingus. Ed infine per chi volesse angosciarsi di più, ma con un libro straordinario “La Peste” di Albert Camus.

Gerlando Gatto

Festa danzante: “Don Karate” è l’evento d’anteprima del MetJazz 2020

Il MetJazz 2020 guarda al futuro, e il futuro si può declinare in molti modi: per l’evento d’anteprima del festival organizzato dal Teatro Metastasio di Prato, una grande festa danzante al Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci con Stefano Tamborrino e il suo esaltante spettacolo “Don Karate”, ormai ben noto per la mescolanza di hip-hop, jazz, house, punk, con larghe aree di improvvisazione avventurosa, atmosfere elettroniche, groove danzanti.
Un intreccio dal suono trasparente e arioso: complici del batterista e compositore Tamborrino, sono il bassista Francesco Ponticelli e il vibrafonista Pasquale Mirra. Per questa occasione saliranno insieme a loro sul palco il rapper Millelemmi – al secolo Francesco Morini – impegnato all’elettronica e il videoartist Paolo Pinaglia che aggiungerà un tocco visivo alla musica.
Il live è anche l’occasione per presentare in Toscana l’omonimo progetto discografico in uscita su vinile il 24 gennaio per l’etichetta Original Cultures, sponsorizzato da K-array.
L’anteprima del MetJazz sarà una grande festa, realizzata in collaborazione con Centro Pecci Prato nel segno della musica contemporanea in cui il jazz funziona come catalizzatore, capace di tenere insieme generi diversi attraverso l’improvvisazione e la sintesi di ritmi e sonorità per raccontare come “Le cose cambiano”, tema della 25esima edizione scelto dal direttore artistico Stefano Zenni.
Il trailer di Don Karate su YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=aNybMgduvyU
Ingresso unico €10. I biglietti sono disponibili in prevendita al link http://bit.ly/METJAZZ29gennaio.
Maggiori informazioni sul sito del Teatro Metastasio all’indirizzo http://bit.ly/METJAZZinfo29gennaio. Infoline: tel. 0574.608501 – biglietteria@metastasio.it

L’ingresso al Centro Pecci è in viale della Repubblica 277 a Prato.
Info Teatro Metastasio – tel 0574 608501 – Cristina Roncucci 0574/24782 (interno 2) – 347 1122817

Venticinque anni del festival MetJazz: “Le cose cambiano”, verso il futuro

Compie 25 anni il festival MetJazz di Prato, organizzato dal Teatro Metastasio con la direzione artistica del musicologo Stefano Zenni. L’edizione 2020 si svolgerà dal 29 gennaio al 27 febbraio 2020 coinvolgendo diverse location della città – lo stesso Teatro Metastasio, il Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, il Teatro Fabbricone, il Teatro Politeama Pratese, la Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi – oltre al Pinocchio Jazz Club di Firenze.
La 25a edizione, dal tema “Le cose cambiano” avvia una nuova fase del festival tracciando un’apertura che identifica un nuovo inizio: se negli anni MetJazz ha ospitato dapprima prestigiosi solisti italiani con omaggi ai grandi del jazz e poi si è indirizzata verso musicisti internazionali, attenzione per il jazz contemporaneo, apertura agli stili più diversi, produzioni originali ed esclusive, mostre e seminari, per questa nuova edizione il direttore Stefano Zenni ha scelto di rivolgere lo sguardo in avanti, al futuro, a come cambia la musica, a come cambiano i gusti.
MetJazz 2020 affida infatti a energie creative nuove: due progetti speciali in prima assoluta, tre diverse orchestre, quattro pianisti, solisti di peso, una grande festa danzante d’apertura, sei concerti e due conferenze, articolati nella struttura classica delle due consuete sezioni, Official e Off.

I protagonisti dell’edizione 2020.
Per l’evento d’anteprima del 29 gennaio una grande festa danzante al Centro Pecci Prato con Stefano Tamborrino e il suo trascinante e raffinato spettacolo “Don Karate” ormai ben noto per la mescolanza di hip hop, jazz, house, perfino punk, con larghe aree di improvvisazione avventurosa, atmosfere elettroniche, groove danzanti, in un intreccio dal suono trasparente e arioso, complici il bassista Francesco Ponticelli e il vibrafonista Pasquale Mirra. Per l’occasione sul palco ci saranno anche il rapper Millelemmi, al secolo Francesco Morini, e il videoartist Paolo Pinaglia. Il live è anche l’occasione per presentare in Toscana l’omonimo progetto discografico in uscita su vinile e in digitale il 24 gennaio 2020 per l’etichetta Original Culture. Un evento realizzato in collaborazione con Centro Pecci Prato.

Quattro i grandi eventi dislocati tra Metastasio, Fabbricone e Politeama Pratese.
Il festival si apre ufficialmente lunedì 3 febbraio nella bellissima cornice del Teatro Metastasio, con un progetto speciale per il MetJazz della Martini Big Band formata da studenti e docenti del Conservatorio G.B. Martini di Bologna diretti da Michele Corcella, special guest il trombonista Gianluca Petrella. Protagoniste, le musiche della Liberation Music Orchestra di Charlie Haden e Carla Bley arrangiate e riorchestrate in esclusiva per MetJazz dal M° Corcella. Una co-produzione tra MetJazz e Conservatorio di Bologna, in collaborazione con Musicus Concentus di Firenze. La Liberation Music Orchestra è stata una formazione composita ed eclettica nata nel 1969 con un programma e un repertorio esplicitamente politici, impostasi come il paradigma del jazz più impegnato, dispiegatosi in quattro album, Liberation Music Orchestra (1969), The Ballad of the Fallen (1982), Dream Keeper (1990), Not in Our Name (2005), da cui sarà tratto il repertorio del concerto.
Lunedì 10 febbraio dalle 21 doppio appuntamento al Teatro Fabbricone. L’intera serata è dedicata al pianoforte, strumento che ha sempre seguito una sua linea evolutiva autonoma, peculiare e che oggi appare come una delle cartine di tornasole dei cambiamenti stilistici in corso. Sul palco, in esclusiva italiana, tre degli artisti europei più originali, avventurosi e creativi della scena contemporanea: dapprima il duo di Eve Risser e Kaja Draksler che si addentrerà nella ricchezza di colori e nell’esplorazione delle sonorità di “To Pianos”; a seguire il solista Alexander Hawkins, forse il più brillante pianista europeo della sua generazione, con un concerto in cui confluisce in una sintesi vitale una visione della musica molto aperta in cui si ritrova Duke Ellington, il pianismo classico, il free jazz, l’esperienza con Mulatu Astatke, la passione per l’organo.
Lunedì 17 febbraio alle 21 si torna al Teatro Metastasio per un concerto dedito alla pratica della conduction (una direzione d’orchestra basata su gesti e segnali visivi decisi sul momento, che determinano il percorso improvvisato della forma concretizzando il concerto davanti agli occhi del pubblico) con la Fonterossa OpenOrchestra di Silvia Bolognesi, formazione esemplare con musicisti di stili diversi, dilettanti e professionisti, che spazia senza pregiudizi in un repertorio tra jazz, pop, soul, rock.
Giovedì 27 febbraio ore 21 al Politeama Pratese protagonista un compositore e arrangiatore di punta nella fusione di jazz e musica classica: in prima assoluta, Paolo Silvestri con una nuova composizione coprodotta da MetJazz e Camerata Strumentale Città di Prato “Anime verde speranza. Fuga di cuori e cervelli per grande orchestra”. Una suite in dieci episodi legati fra di loro senza interruzione, ispirato ognuno ad un grande jazzista, da John Coltrane a Ornette Coleman, da Charles Mingus a Wayne Shorter, da Billy Strayhorn a Carla Bley, fino a Hermeto Pascoal e Duke Ellington. A seguire, l’esecuzione di “The River” di Duke Ellington nella versione sinfonica concepita nel 1970 per un balletto e allora orchestrata dal canadese Ron Collier, qui ripresa con integrazioni di Silvestri. Questo concerto è caratterizzato dall’assenza di solisti, una condizione insolita in ambito jazzistico e orchestrale; allo stesso tempo, vede la presenza speciale di tre artisti provenienti dal mondo classico ma attivi in ambito contemporaneo e jazz, dotati dunque di una poliedricità che traghetterà l’intera orchestra nel linguaggio stilistico pensato da Paolo Silvestri: Antonino Siringo, Andrea Tofanelli e Walter Paoli.

Tre gli appuntamenti del MetJazz Off realizzati in collaborazione con la Scuola Comunale di Musica Giuseppe Verdi di Prato.
Domenica 9 febbraio alle 11 il concerto in piano solo di Alessandro Giachero, un artista che ha fatto tesoro delle aperture stilistiche del jazz contemporaneo, grazie anche alle collaborazioni stabili con William Parker e Anthony Braxton e con altri grandi improvvisatori italiani.
Domenica 16 febbraio alle 11, la conferenza del direttore artistico del festival Stefano Zenni: “Ancient to the Future: tradizione e avanguardia nell’Art Ensemble of Chicago” per analizzare la musica come racconto e messa in scena di una Storia diversa, quella della Great Black Music nell’universo potente e teatrale dell’Art Ensemble of Chicago.
Domenica 23 febbraio alle 11 una conferenza di Luca Bragalini, a cura della Camerata strumentale di Prato e di ICAMus, affronterà un viaggio tra le partiture sinfoniche di Duke Ellington a partire dalla pagina scritta della sua ultima monografia “Dalla Scala a Harlem. I sogni sinfonici di Duke Ellington” e con l’aggiunta di uno storytelling con rari video, musiche inedite, immagini e parole, che racconterà una delle più neglette e affascinanti opere del Duca, mettendo in luce il rapporto di quest’ultimo con il Reverendo King.
Anche per il 2020 MetJazz ribadisce la collaborazione con il Pinocchio Jazz di Firenze e promuove il concerto di sabato 15 febbraio alle ore 22, nella sala dello storico locale con Alexander Hawkins che, alcuni giorni dopo il concerto al Fabbricone, ritroviamo in duo con uno dei musicisti più brillanti e intensi della nuova scena italiana: il clarinettista Marco Colonna.

Il programma completo del festival, con le diverse sezioni, è consultabile sul sito del Teatro Metastasio al link http://bit.ly/MetJazz2020.
Le prevendite dei biglietti sono attive al link http://ticka.metastasio.it: fino all’11 gennaio sono disponibili le formule di abbonamento, mentre dal 21 dicembre sono in vendita i biglietti per i singoli concerti.
Gli spettatori potranno acquistare i biglietti anche presso la Biglietteria del Teatro Metastasio in via Cairoli 59 tel. 0574.608501 dal martedì al sabato con orario 11-13 e 17-19 (il giovedì 11-15 e 17-19.00) oppure presso il Circuito Box Office al tel. 055.210804 o la Tabaccheria Bigi di Prato in via Bologna 77, tel. 0574.462310.

Info sulle prevendite: biglietteria@metastasio.it.
Riduzioni per gruppi, under 25, over 65, abbonati, convenzioni e soci COOP.

CONTATTI
http://bit.ly/MetJazz2020
Info Teatro Metastasio: tel. 0574.608501
Ufficio Stampa Teatro Metastasio: Cristina Roncucci tel. 0574.24782 (interno 2) – 347.1122817
Comunicazione MetJazz: Fiorenza Gherardi De Candei tel. 328.1743236 info@fiorenzagherardi.com

I NOSTRI CD. Curiosando tra le etichette (parte 3)

Proseguiamo il nostro viaggio attraverso alcune tra le più importanti etichette di jazz. Oggi parliamo di Caligola, Cam Jazz, Dodicilune e ECM di cui vi presenteremo alcune significative produzioni.

CALIGOLA

L’associazione culturale Caligola dal 1980 promuove musica al di fuori dei circuiti istituzionali, organizzando concerti all’interno di spazi presi in affitto. Dal folk al blues, dal rock alla musica d’autore fino al jazz, l’associazione Caligola è riuscita a portare nel territorio veneziano alcuni tra i più noti maestri della musica moderna. Nel 1994 nasce Caligola Records, etichetta indipendente, che sotto la sapiente regia di Claudio Donà è riuscita ad imporsi come una delle più importanti realtà italiane nel valorizzare il jazz italiano in particolare dell’area veneta. Di Caligola records vi proponiamo tre recenti produzioni.

Maurizio Brunod è uno tra i più fedeli artisti della Caligola Records. Chitarrista di grande spessore pubblicò il primo album con Caligola nel 2009, “Northern Lights”, per chitarra solo. Adesso si ripropone con “African Scream” ancora per chitarra solo. Anche se la chitarra è tornata prepotentemente in auge nel mondo del jazz grazie ad alcuni personaggi di assoluto livello, ciò non significa che tutte le ciambelle riescano col buco, soprattutto se si decide di affrontare un repertorio variegato ed impegnativo da solo con il proprio strumento seppur confortato dall’ausilio dell’elettronica. Ma Brunod è artista che non teme le sfide ed eccolo dunque dedicare il brano d’apertura al collega e amico Garrison Fewell prematuramente scomparso, “Ayleristic”, già proposto nell’album in duo con lo stesso Garrison, “Unbroken Circuit” del 2015. Nel ricordo dell’amico, Brunod non ha pudore dei propri sentimenti e ci regala una interpretazione intensa, suggestiva, emozionalmente coinvolgente. Subito dopo eccolo alle prese con uno standard, “I Remember Clifford” di Benny Golson affrontato con lucida consapevolezza senza alcuna smania di voler travolgere alcunché ma con il sincero proposito di rendere omaggio ad un grande pezzo e ad un grande compositore.
Di qui sino alla fine sei originali a sua firma intervallati da un brano di Aldo Mella. E nella duplice veste di compositore-esecutore Maurizio ha modo di mettere in mostra tutte le sue valenze. Al riguardo particolarmente convincente la title track caratterizzata da un andamento quasi ipnotico grazie ad una melodia inusuale e ad un uso appropriato del loop.

Claudio Cojaniz è un altro pezzo da novanta del jazz friulano e più in generale italiano. Questo “Molineddu” è stato registrato tra il novembre 2016 e il febbraio 2017, quindi pochi mesi prima di “Sound Of Africa”, altro album del pianista che manifesta così il suo amore verso questo continente. Ad affiancarlo ancora una volta i componenti del ‘Coj & Second Time” vale a dire Alessandro Turchet (contrabbasso), Luca Grizzo (percussioni, vocale), Luca Colussi (batteria) con l’aggiunta di Carmela Arghittu (voce) nel brano che dà il titolo all’album. In programma sette originali tutti dovuti alle felice vena creativa del leader. Ancora una volta il pianismo di Cojaniz risulta di grande interesse; il suo linguaggio, pur nel dichiarato omaggio all’arte, alla cultura di altri continenti (qui sentita la dedica alla città di Aleppo), mai risulta calligrafico, sempre scevro da ogni manierismo e intellettualismo di maniera. Di qui niente funamboliche evoluzioni sulla tastiera, niente invenzioni particolarmente azzardate, niente suoni alterati ma linee melodiche essenziali eppure di assoluta godibilità, armonizzazioni non astruse ma non banali, e soprattutto una tavolozza coloristica che i membri del quartetto rendono al meglio con la cavata possente e precisa di Alessandro Turchet, la batteria mai ridondante di Luca Colussi che si dimostra ancora una volta (se pur ce ne fosse stato bisogno) uno dei migliori e più lucidi batteristi italiani e le percussioni assolutamente inusuali di Luca Grizzo che regalano quasi un tocco di magia alla musica dell’ensemble (se non si vede Grizzo esibirsi non si ha un’esatta percezione di quanto detto). Tra i brani da segnalare soprattutto “Molineddu – Girasoles suta sa luna” in cui Carmela Arghittu interpreta con grande e sincera partecipazione i versi di Istevene Stefano Flores.

Roberto Martinelli (sax soprano) e Ermanno Maria Signorelli (chitarra classica) sono i protagonisti del toccante album “Pater” registrato a Padova nel 2018. Titolo non potrebbe essere più esplicativo dal momento che l’album è dedicato ai padri dei due artisti scomparsi in un breve arco di tempo. E questo dà la misura del tipo di musica che si ascolta. Sax soprano e chitarra costituiscono un duo certo non usuale ed in effetti è il primo disco che i due incidono assieme anche se, viceversa, sul campo hanno avuto diverse occasioni di collaborare. Di qui un’intesa che va ben al di là della registrazione in oggetto, un’intesa confortata dal comune background sia classico sia jazzistico, dall’idem sentire quanto a purezza e naturalezza del suono acustico. Non a caso Signorelli è tra i pochissimi jazzisti italiani ad aver scelto la chitarra classica. Al riguardo dobbiamo, quindi, segnalare l’assoluta coerenza con questo assunto di ambedue i musicisti che non si sono lasciati sedurre dai “nuovi suoni”. Liberi da ogni obbligo di modernità, i due si spingono su terreni in qualche modo legati alla musica colta europea in cui è ben difficile distinguere tra pagina scritta e improvvisazione. Materia, quest’ultima, in cui sia Martinelli sia Signorelli sembrano eccellere per tutta la durata dell’album. Straordinariamente efficace la trattazione delle dinamiche in cui anche il silenzio ha un suo rispettabile ruolo, così come coinvolgente risulta l’invenzione tematica dei due che si riallaccia in maniera decisa al gusto melodico della tradizione italiana. Infatti degli otto brani in programma ben sette sono gli originali di cui quattro di Signorelli e tre di Martinelli cui si aggiunge lo standard “My Favourite Things” di Rodgers e Hammerstein porto con gusto e originalità.

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CAM JAZZ

La CAM JAZZ è nata come una costola della prestigiosa Cam (Creazioni Artistiche Musicali) Records, costituita tra la fine del 1959 e l’inizio del 1960. Fondata dai fratelli Campi fu una delle primissime etichette a specializzarsi nel registrare le musiche tratte dai film. Nel 2000 la nascita di CAM Jazz per una intuizione del titolare della CAM che ascoltato Giovanni Tommaso appena finito di registrare la colonna musicale di un film, con musiche da lui composte, e venuto a conoscenza che Giovanni era un jazzista gli propose l’idea di suonare in versione jazz alcuni dei temi più noti tratti dal catalogo CAM. Giovanni accolse l’idea con entusiasmo, e fu così che nacque il primo album di CAM JAZZ, “La dolce vita – Tommaso/Rava Quartet”. Quasi inutile sottolineare come questa etichetta rappresenti oggi una delle realtà più vitali e importanti, conosciuta ed apprezzata in Italia e all’estero, avendo tra l’altro acquisito due prestigiose etichette, La Black Saint e la Soul Note.

Anche in questo caso vi proponiamo tre produzioni. Le prime due vedono protagonista uno degli artisti di punta dell’etichetta Enrico Pieranunzi, registrato dal vivo durante un concerto alla Bastianich Winery in splendida solitudine, e in trio con Gabriele Mirabassi e Gabriele Pieranunzi.

Enrico Pieranunzi “Wine & Waltzes” fa parte di quella serie di registrazioni effettuate quasi per scommessa da Ermanno Basso produttore dell’etichetta e Stefano Amerio vero e proprio mago del suono, titolare dei celebri “Artesuono Recording Studios”. In sostanza si trattava di verificare se fosse possibile produrre degli album live registrati nelle cantine del Friuli Venezia Giulia. La scommessa è stata vinta alla grande e questo album ne è una prova inconfutabile. Enrico suona come al solito molto, molto bene, con quella classe e quella originalità che ne hanno fatto uno dei migliori pianisti oggi in esercizio sulle platee di tutto il mondo. Il suo stile allo stesso tempo rigoroso e fantasioso, frutto di un innato talento ma anche di anni ed anni di intenso studio, è immediatamente riconoscibile. Se a tutto ciò si aggiunge la piacevolezza di un repertorio quasi tutto incentrato sul ritmo ternario si capirà immediatamente perché l’album è godibile dal primo all’ultimo istante.

Così come godibile è “Play Gershwin” ovviamente incentrato sul compositore di Brooklyn. Come si diceva con Pieranunzi negli studi di registrazione di Stefano Amerio, a Cavalicco, Gabriele Mirabassi al clarinetto e Gabriele Pieranunzi al violino. Un organico, quindi, inusuale ma di eccelso spessore tecnico-artistico. Questo album meriterebbe tutta una serata di illustrazioni non solo e non tanto per la qualità della musica e la bravura degli esecutori quanto per la complessità dell’operazione che sottende il CD. Al riguardo bisogna partire da un dato: sia “An American in Paris” sia “Rhapsody in Blue” – ambedue contenute nell’album – furono scritte per larghi organici. Come ridurre queste partiture sì da farle suonare ad un trio anziché ad un’orchestra sinfonica? L’impresa era di quelle da far tremare i polsi, come confessa lo stesso Pieranunzi che per “Un Americano a Parigi” si è servito della trascrizione per pianoforte solo di William Daly e della versione per due pianoforti scritta dallo stesso Gershwin, mentre per la “Rapsodia” è stata lasciata integra quella parte solistica di pianoforte scritta nel 1924 che spesso viene tagliata e si è proceduto a ristrumentare passaggi non suonati dal pianoforte. Risultato? Eccellente sotto ogni aspetto; alle due opere sopra citate si aggiungono i preludi (scritti originariamente per solo pianoforte) che evidenziano vieppiù una intesa del tutto straordinaria che va ben al di là del fatto meramente musicale. Pieranunzi mette sul piatto ancora una volta tutto il suo mostruoso bagaglio che va dal ragtime a Bach mentre i compagni di viaggio lo seguono con una gioia ed una intensità palpabili ed avvertibili in ogni momento.

Pipe Dream – “Pipe Dream”
Sotto l’insegna di Pipe Dream opera un nuovo quintetto costituito da Hank Roberts (violoncello e voce), Filippo Vignato (trombone), Pasquale Mirra (vibrafono) Giorgio Pacorig (pianoforte, fender rhodes) e Zeno De Rossi (batteria). Questo è il loro album d’esordio e se il buongiorno si vede dal mattino allora di questo gruppo sentiremo parlare a lungo e bene. In effetti l’album è molto interessante ricco com’è di umori, di sapori, di colori, di atmosfere che rendono sempre vivo l’ascolto. I cinque musicisti conoscono molto bene la musica globalmente intesa per cui nelle loro esecuzioni non è difficile scorgere tracce di jazz propriamente detto (soprattutto free e bop) suggestioni etniche, echi di minimalismo, abbandoni poetici, frammenti di funk… Così la mente vaga alla ricerca di ricordi lontani ma riportati in superficie da suggestioni sonore porte con intelligenza, garbo e originalità. Si noti, ad esempio, con quanta abilità Filippo Vignato si muove sulle frequenze più basse contribuendo in maniera determinante a non far sentire la mancanza del contrabbasso. Egualmente il violoncello di Hank Roberts si incarica di eseguire le linee melodiche più accattivanti mentre Zeno De Rossi fa cantare i suoi tamburi alternando suono e silenzio (magistrale il suo accompagnamento nella title track). Giorgio Pacorig si conferma pianista versatile e nell’occasione anche valido compositore (suo “They Were Years”, il brano più complesso dell’intero programma). Infine Pasquale Mirra dispensa sghembi tocchi di melodia a comporre un puzzle tra i più originali e convincenti che abbiamo avuto modo di sentire in questo primo scorcio dell’anno.

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ECM (Editions of Contemporary Music)

Se c’è un’etichetta che nel mondo della musica, al di là di qualsivoglia genere, ha influenzato musicisti, critici e pubblico questa è sicuramente la ECM. Fondata ad Amburgo da Manfred Eicher nel 1969, la casa discografica tedesca nel corso di questi ultimi decenni ha imposto una propria estetica, dettando parametri che hanno portato ad un jazz completamente diverso rispetto all’originale afro-americano, con una cura estrema per il suono, un’estetica cui hanno aderito moltissimi artisti e non solo europei tra cui Mal Waldron che registrò il primo album ECM (“Free at Last” novembre 1969), Joe Lovano, Keith Jarrett, Paul Bley, Chick Corea, Pat Metheny, l’Art Ensemble of Chicago Jan Garbarek, John Abercrombie, Palle Danielsson… i nostri Enrico Rava, Stefano Battaglia, Stefano Bollani… solo per citarne alcuni . Nel 1984 nasce la costola ECM New Series, che pubblica artisti come Arvo Paart, Heiner Goebbels, Meredith Monk, Ketil Bjornstad, Valentin Silvestrov, che appartengono alla musica colta contemporanea.
Tornando al jazz vi proponiamo le prime cinque uscite con cui la ECM ha inaugurato questo 2019.

Ralph Alessi – “Imaginary Friends” – ECM 2629
Ecco il terzo album del trombettista statunitense Ralph Alessi pubblicato dalla ECM dopo “Baida” del 2013 e “Quiver del 2016”. Questa volta Alessi è alla testa di un suo quintetto attivo dal 2010 e completato da Ravi Coltrane a tenore e sopranino, Andy Milne al pianoforte, Drew Gress al contrabbasso e Mark Ferber alla batteria. In programma nove composizioni originali del leader. L’album si apre con “Iram Issela” che evidenzia ancora una volta come Alessi risulti artista assolutamente moderno senza per ciò perdere il contatto con la tradizione; il brano è caratterizzato da una bella linea melodica e già da questo primo pezzo si possono riscontrare quelle che saranno le caratteristiche dell’intero album. Vale a dire il ruolo di leader assoluto del trombettista che detta e disegna le atmosfere dell’album in ciò coadiuvato splendidamente dal pianismo mai esorbitante di Andy Milne e da una sezione ritmica di assoluta eccellenza, sempre pronta a sottolineare i momenti clou delle varie interpretazioni. Abbiamo lasciato per ultimo Ravi Coltrane in quanto il sassofonista (classe 1965, figlio di John e Alice Coltrane) può vantare un’intesa con Alessi dai tempi del California Institute of the Arts alla fine degli anni ’ 80. Ciò spiega, meglio di mille parole, la straordinaria intesa tra i due che li porta a dialogare su un piano di assoluta parità. Si ascolti, al riguardo “Melee”, il brano più lungo dell’album, un vero e proprio campo minato in cui trombettista e sassofonista si avventurano senza rete, dando fondo a tutte le loro potenzialità, in un gioco di rimandi, rincorse, stop and go a tratti davvero entusiasmante.

Yonathan Avishai – “Joys and Solitudes” – ECM 2611
Un album che si apre con una sontuosa interpretazione del classico “Mood Indigo” di ellingtoniana memoria non può che conquistarti immediatamente. Se poi a questo primo brano seguono sette composizioni originali, tutte di convincente fattura, ecco che finito l’album hai subito voglia di rimetterlo su. Autore di questo piccolo miracolo è il pianista Yonathan Avishai, nato a Tel Aviv nel 1977, da madre francese e padre israeliano, ma residente in Francia dal 2001, che con questo album segna il suo ingresso da leader nella scuderia ECM. Avishai è alla testa del suo trio, in attività dal 2015, con Yoni Zelnik, bassista israeliano oramai anch’egli di casa a Parigi e Donald Kontomanou, batterista francese della Guinea con origini greche. Accennavamo al brano d’apertura, “Mood Indigo”: ebbene il trio non si limita ad una pedissequa riproposizione ma ce ne fornisce una versione originale particolarmente apprezzabile per la ricchezza armonica e la ricerca timbrica. E sono questi elementi che si riscontrano in tutto l’album in cui il pianista fa riferimento esplicito ad esperienze, emozioni da lui vissute in prima persona. Così, ad esempio, lo straniante “Tango”, che dello stereotipo argentino conserva ben poco, è ispirato dall’ascolto di ‘Ojos Negros’ di Anja Lechner e Dino Saluzzi; particolarmente gustoso con il suo andamento altalenante “Joy” mentre “Les pianos de Brazzaville” si richiama esplicitamente ai suoi viaggi nella repubblica del Congo, grazie anche ad alcuni espliciti riferimenti etnici. Una menzione particolare merita “When Things Fall Apart” il brano più lungo e articolato (più di dodici minuti) che, dopo un inizio di carattere impressionistico, si sviluppa attraverso un ampio dialogo fra i tre che pone in evidenza sia l’intesa di gruppo sia la bravura dei singoli.

Mats Eilertsen – “And Then Comes The Night” – ECM 2619
Dopo la felice esperienza del settetto con “Rubicon” (sempre ECM del 2015) il bassista norvegese Mats Eilertsen si ripresenta al pubblico del jazz alla testa di un trio con Harmen Fraanje piano e Thomas Strønen batteria che esiste già da una decina d’anni. Si tratta, quindi, di un classico trio pianoforte con sezione ritmica che, almeno dal punto di vista dell’organico, non presenta alcunché di nuovo. Eppure l’album presenta notevoli motivi di interesse grazie alla particolare visione musicale dei tre, condotti con mano sicura dal leader che può vantare un’intesa attività in casa ECM avendo collaborato alle registrazioni, tra gli altri di, Tord Gustavsen, Trygve Seim, Mathias Eick, Nils Økland, Wolfert Brederode e Jakob Young. Ma è nei progetti a suo nome che l’artista rivela compiutamente la sua cifra stilistica. Così, in questo “And Then Comes The Night” (titolo derivato dal racconto dello scrittore islandese Jón Kalman Stefánsson “Luce d’agosto ed è subito notte”) Eilertsen abbandona strade già abbondantemente battute per inerpicarsi lungo sentieri scoscesi in cui il silenzio ha quasi la stessa importanza del suono e il gioco delle dinamiche risulta preponderante rispetto a qualsivoglia elaborazione armonica o ricchezza di fraseggio. Di qui una musica tutt’altro che banale con cui Eilertsen ci invita a compiere con lui un viaggio immaginario, nel profondo delle emozioni che non possono non riguardare ciascuno di noi. E così l’album si apre con un titolo particolarmente significativo “22”, in ricordo della terribile strage compiuta il 22 luglio del 2011 sull’isola di Utøya, nel Tyrifjorden,
da un uomo che uccise 69 giovani, ferendone altri 110, tra i partecipanti ad un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. A tutt’oggi è l’atto più violento mai avvenuto in Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale.

Eleni Karaindrou – “Tous des oiseaux” – ECM 2634
Questo album, della ECM New Series, ci propone le colonne sonore scritte da Eleni Karaindrou per la pièce “Tous des oiseaux” del regista Wajdi Mouwad e “Bomb. A love Story” dell’attore e regista iraniano Payman Maadi. L’artista greca si dimostra ancora una volta all’altezza della situazione evidenziando la solita verve compositiva che avevamo imparato a conoscere ed apprezzare sin dalla sua prima colonna sonora per Periplanissis (Wandering), di Christoforos Christofis (1979). Da allora Eleni non si è più fermata collezionando allori in tutto il mondo tra cui la vittoria nel 1982 al Thessaloniki Film Festival che la condurrà ad una fruttuosa collaborazione con Theo Angelopoulos e nel 1992 il Premio Fellini di Europa cinema. Anche con quest’ultima fatica discografica la Karaindrou si cala perfettamente nello spirito delle rappresentazioni sceniche, la prima che porta sulla scena una tragedia che si sviluppa nel cuore del conflitto israelo-palestinese, la seconda a sottolineare come al culmine della guerra Iran-Iraq del 1988, quando Teheran viene bombardata senza sosta, l’amore, l’affetto, la speranza e la vita hanno la meglio sulla paura della morte. Da sottolineare come questa colonna sonora sia la prima composta dalla Karaindrou dopo la scomparsa di Angelopoulos e si sia già meritata una nomination per l’ APSA (Asia Pacific Screen) come Best Original Score. Date le tematiche trattate, è facile intuire lo spessore della musica, sempre molto intensa, emozionale, ricca di colori, di suggestioni, di umori ottimamente resa dall’orchestra d’archi, con il primo violino Argyo Seira, al cui fianco troviamo altri musicisti di talento quali, tanto per fare qualche nome, la vocalist Savina Yannatou, Nikos Paraoulakis al ney (sorta di flauto caratteristico soprattutto della musica tradizionale colta di molti Paesi Medio-Orientali), Stefanos Dorbarakis al kanonaki (strumento cordofono della tradizione classica araba). Dal canto suo la Karaindrou si fa apprezzare in alcuni brani anche come pianista.

Joe Lovano – “Trio Tapestry” – ECM 2615
Ecco l’album che non ti aspetti. Protagonista il grande sassofonista Joe Lovano, di origini siciliane, che dopo aver partecipato a varie registrazioni ECM nel corso degli anni (ricordiamo gli splendidi album a fianco di Paul Motian, Steve Kuhn e John Abercrombie) approda adesso al suo primo album da leader per la casa tedesca, cosa abbastanza strana visto l’eccezionale curriculum dell’artista. Album che non ti aspetti, dicevamo in apertura, in quanto Lovano, ben coadiuvato dalla pianista Marilyn Crispell e dal batterista Carmen Castaldi, si muove su terreni molto più vicini a quella che viene considerata l’estetica ECM piuttosto che ai canoni del jazz propriamente detto (quello afro-americano tanto per intenderci). Ecco, quindi, una musica molto introspettiva, delicata, declinata attraverso undici brani a firma di Lovano che lo stesso sassofonista definisce come “alcune composizioni tra le più intime che abbia mai scritto”. A ciò si aggiunga il fatto che “Trio Tapestry” è tutto giocato sul lirismo e sulla straordinaria intesa fra i tre cementata con la pianista di Filadelfia dalle precedenti collaborazioni e con il batterista dalla condivisione del percorso formativo presso il Berklee College e dai successivi gruppi che li hanno visti suonare l’uno accanto all’altro. Chi fosse a caccia di swing qui non lo troverà, di converso all’interno di strutture ben delineate avrà la possibilità di apprezzare a che grado di rarefazione può giungere la musica se affidata a veri e propri talenti e alla straordinaria versatilità di Lovano che, pur in un contesto stanzialmente cameristico, si esprime sempre con un fraseggio molto fluido e sempre originale.

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DODICILUNE

L’etichetta Dodicilune, fondata e guidata da Gabriele Rampino (direttore artistico) e Maurizio Bizzochetti (label manager) è attiva dal 1996 e dispone di un catalogo di oltre 250 produzioni di artisti italiani e stranieri. Distribuiti nei negozi in Italia e all’estero da IRD, i dischi Dodicilune possono essere acquistati anche online, ascoltati e scaricati su una cinquantina tra le maggiori piattaforme del mondo grazie a Believe Digital. Tra le ultime produzioni ne abbiamo scelte tre che riteniamo particolarmente significative.

Claudio Angeleri – Blues is more
Consentiteci, innanzitutto, di formulare le nostre più vive congratulazioni a Claudio Angeleri che con questo “Blues Is More” firma il suo ventesimo album da leader. Per l’occasione il pianista e compositore bergamasco presenta al suo fianco una batteria di straordinari musicisti: il sassofonista Gabriele Comeglio, attivo sia nel jazz (Yellow Jackets, Randy Brecker e Lee Konitz) sia nel pop (Mina, Battiato e Lucio Dalla); il bassista Marco Esposito, già sodale di Angeleri in diverse occasioni nonché collaboratore tra gli altri di Gianluigi Trovesi, Franco Ambrosetti, Bob Mintzer; il trombonista Andrea Andreoli, attivo con la WDR Orchestra insieme a Bill Lawrence (Snarky Puppy) e Bob Mintzer; il batterista e percussionista Luca Bongiovanni, presente in alcune edizioni di Bergamo Jazz e Iseo Jazz. Ospiti anche la cantante Paola Milzani (in “Monk’s dream”), e il flautista Giulio Visibelli (“Paths”). In repertorio tre riletture di standard, “Dance of the infidels” di Bud Powell, “A new world a comin” di Duke Ellington e “Monk’s dream” di Thelonious Monk e Jon Hendricks, cui si affiancano sette composizioni originali del pianista che vanta una lunga e prestigiosa carriera testimoniata oltre dai già citati album da prestigiose collaborazioni con artisti del calibro di Charlie Mariano, Bob Mintzer, Franco Ambrosetti, Gianluigi Trovesi. Ciò detto bisogna ancora una volta sottolineare come il pianismo di Angeleri, seppur nell’ambito di un moderno mainstream, riesca ad essere allo stesso tempo moderno e originale. Il suo linguaggio è creativo, intelligente, spesso trascinante, corroborato da tanti anni di studio, dai molti album cui prima si faceva riferimento e dall’aver calcato con successo molti e molti palcoscenici. Così’ nel suo pianismo ritroviamo echi di blues (naturalmente), di modale, di musica contemporanea, di funky…il tutto omogeneizzato sì da renderlo un unicum di assoluta originalità. Senza trascurare quella capacità di scrittura che difficilmente rende riconoscibile la pagina scritta dalle improvvisazioni: al riguardo si ascolti con attenzione il basso di Marco Esposito nella title track sax di Gabriele Comeglio in “Paths” e la splendida voce della Milzani in “Monk’s dream”.. per non parlare dei due splendidi piano solo, “la ellingtoniana “A new world is coming” e l’originale “Dixie” che chiude l’album.

Centazzo, Schiaffini, Armaroli – “Trigonos”
Musica certo non per tutti quella proposta da Andrea Centazzo (percussioni, malletkat, sampling), Giancarlo Schiaffini (trombone) e Sergio Armaroli (vibrafono), ovvero tre sperimentatori tra i più acuti della scena contemporanea italiana. In programma dieci brani tutti originali scritti dai tre. E a questo punto crediamo che il quadro della musica contenuta nell’album sia piuttosto chiaro, una musica che non presenta alcun punto di riferimento preciso ma che viaggia da un lato all’altro dell’immaginario triangolo costituito dai musicisti a riaffermare la volontà del singolo di andare al di là di qualsivoglia estetica precostituita, di rifuggire da ogni cliché, di affrontare piste sconosciute alla ricerca del proprio io più profondo. Quindi un’improvvisazione totale che prevede un’immersione completa nei suoni prodotti da ognuno a seconda della propria sensibilità: così mentre Schiaffini mette sul tappeto quell’enorme bagaglio che lo connota e che va dal New Orleans al migliore free-jazz, Centazzo evidenziala sua passione per i suoni profondi, evocativi e Armaroli si muove leggero dispensando pennellate di colore con il suo vibrafono. Il risultato è affascinante, certo alle volte straniante, ma una volta cominciato ad ascoltare “Trigonos” è praticamente impossibile
smettere e così si giunge alla fine in atmosfere sempre ovattate, quasi sottovoce come ad opporsi, rileva nelle note di copertina Paolo Carradori, a quanti oggi usano “parole orrende”. Da sottolineare il coraggio della etichetta salentina nel produrre un album del genere dando così una mano non secondaria allo sviluppo delle “nostre” avanguardie.

Roberto Ottaviano – “Eternal Love”
Da una parte Abdullah Ibrahim, Charlie Haden, Dewey Redman, Elton Dean, lo stesso Coltrane, Don Cherry, dall’altra la musica africana: questi i due poli al cui interno è declinata la personalissima poetica di Roberto Ottaviano, senza dubbio alcuno uno dei migliori sassofonisti oggi in esercizio e non solo sulle scene italiane. La sua è una visione particolare della musica che trascende l’“hic et nunc’ per immergersi in una spiritualità che per l’appunto ritroviamo in alcuni dei musicisti sopra citati e di cui Ottaviano reinterpreta alcuni brani, cui affianca due sue notevoli composizioni. In particolare con questo album Ottaviano tende ad operare una ricerca molto profonda, una sorta di ‘bagno mistico” (così lui stesso la definisce) per far sì che il “Jazz si faccia infine Musica Totale, ma soprattutto travalichi l’idea fine a sé stessa di fare musica per scavare a fondo nel nostro ego e per capire se esiste un noi universale da cui ripartire”. Se queste sono le premesse che hanno spinto l’artista è poi impossibile stabilire se l’obiettivo è stato raggiunto, data la natura totalmente intimista del progetto. Ciò che si può dire in questa sede è che l’album ancora una volta non delude gli estimatori di Ottaviano (e noi tra questi). Per affrontare il delicato compito Ottaviano ha costituito un nuovo quintetto in cui accanto ai ‘fidi’ Alexander Hawkins (piano, Rhodes, Hammond) e Giovanni Maier (contrabbasso), troviamo Zeno De Rossi alla batteria e Marco Colonna ai clarinetti. L’album si apre con la rilettura di un brano tradizionale africano, “Uhuru”, che ci conduce in maniera pertinente alla musica che Ottaviano ci riserva nei solchi successivi. Una musica intimista, suggestiva, ricca di colori, in cui la bravura dei singoli si incastona nelle strutture ampie, disegnate con maestria dal leader. E parlando dei singoli non si può non sottolineare ancora una volta la maestria di Ottaviano che al sax soprano conosce pochi rivali, la capacità di Marco Colonna al clarinetto basso di dialogare alla pari con il leader (lo si ascolti in “Mushi Mushi” di Dewey Redman), l’eccezionale lavoro di Maier anche con l’archetto (in “Eternal Love”, “Until The Rain Comes” di Cherry e “African Marketplace” di Abdullah Ibrahim), lo spumeggiante fraseggio di Hawkins e il supporto sempre imprescindibile di Zeno De Rossi.