Divertenti e brave Susanna Stivali e Chiara Viola

Serata “scoppiettante” quella di martedì scorso che alla Casa del Jazz, nell’ambito del ciclo “L’altra metà del Jazz” curato da Gerlando Gatto, ha visto protagoniste Susanna Stivali, accompagnata da Alessandro Gwis al piano, e Chiara Viola con Danilo Blaiotta al piano.

Come si accennava, ospite del primo tempo Susanna Stivali, che ha esordito rispondendo alla domanda di Gatto riguardo ad eventuali problemi legati al sessismo nel mondo del jazz; l’artista ha invitato tutti ad una riflessione, non su episodi specifici ma su un atteggiamento generale abbastanza arretrato nei confronti delle musiciste jazz in Italia sebbene oggi,  grazie ad iniziative di musicisti, organizzatori e manager si stia avviando un lento ma inesorabile cambiamento, con una conseguente apertura maggiore alle musiciste jazz. Tra gli eventi più significativi, la creazione dell’associazione Musicisti Italiani di Jazz (MIDJ) del cui direttivo Susanna fa parte, l’istituzione del Premio Gender Equality destinato al festival più impegnato dal punto di vista della parità di genere e un report annuale che descrive la situazione relativa a questa problematica con riferimento al panorama nazionale.

Conclusa la parte relativa alle questioni di genere Susanna, guidata dalle domande di Gatto, parla della sua carriera partendo dalla sua preparazione: nel raccontare dei suoi studi di pianoforte, canto classico e canto jazz ricorda come la sua formazione classica sia stata indispensabile per avere solide fondamenta su cui costruire anche il canto jazz – disciplina che aveva intrapreso di nascosto, contro il volere della sua insegnante di canto. Una particolarità che riguarda la sua formazione è che anche lei, come altre musiciste di questa serie di incontri, ha studiato presso il Berklee College of Music di Boston per un anno e mezzo, grazie al conseguimento di una borsa di studio; proprio a Boston Susanna decide di dedicarsi in toto allo studio della musica. Relativamente a quell’esperienza, ma anche ai suoi numerosi viaggi in vari paesi tra cui Sudafrica, Brasile, Thailandia, Lettonia e Mozambico, Susanna descrive una sensazione molto particolare, che si prova studiando a lungo all’estero: paradossalmente quando si è più lontani da casa, a suo dire, ci si avvicina di più alle proprie radici e alla propria terra e ci si trasforma; a questo proposito condivide un bel ricordo di una sua partecipazione ad un festival locale di musica internazionale. Tra gli insegnanti avuti in questo periodo ricorda Bob Stoloff, Mark Murphy, ma soprattutto Hal Crook, trombonista di vaglia nonché autore del libro How To Improvise, uno dei più conosciuti manuali di improvvisazione jazz in circolazione.

In seguito parla delle sue collaborazioni una volta tornata in Italia: oltre ai sodalizi  con artisti del calibro di Lee Collins, Miriam Makeba e Rita Marcotulli (già ospite di questa serie) Susanna dà particolare spazio al suo rapporto di amicizia con Giorgia, conosciuta in un campus in Inghilterra e con cui ha sviluppato fin da subito un legame grazie alla passione comune per Whitney Houston; legame che si è esteso  anche in ambito artistico, dal momento che Susanna ha scritto il brano Chiaraluce per l’amica, contenuto nell’album Stonata del 2007. Un’altra collaborazione di cui la cantante parla con affetto è quella con il Trio Corrente composto da Paulo Paulelli al contrabbasso, Fabio Torres al pianoforte e Edu Ribeiro alla batteria, trio brasiliano tra i più conosciuti nell’ambito jazz in patria per uno stile musicale che adotta una pulsazione ritmica diversa da quella tipica  brasiliana per fare spazio ad atmosfere più soavi e morbide (vincitori peraltro di un Grammy Award al miglior album di musica latina nel 2014 con Song For Maura, registrato con Paquito D’Rivera). Ed è collegandosi proprio a quest’argomento che si va a toccare l’ultimo punto della chiacchierata, ovvero l’importanza della scrittura, fondamentale a detta della vocalist che ha anche raccontato la sua evoluzione dal punto di vista della lingua usata: ha infatti iniziato a scrivere in inglese, cambiando poi registro quando è passata alla scrittura in italiano. Conclude quindi esprimendo la sua opinione riguardo alla correlazione tra sensibilità femminile e scrittura musicale, sostenendo l’effettiva inesistenza di questa dicotomia.

I brani cantati da Susanna, insieme al pianista Alessandro Gwiss, sono stati Valsinha, tratto dall’album Caro Chico; Fee-Fi-Fo-Fum dello scomparso Wayne Shorter e Decostruzione della stessa cantante, un’anteprima del suo prossimo album, in uscita a giugno in Brasile.

La seconda cantante della serata, Chiara Viola, entrata sul palco accompagnata dal pianista Danilo Blaiotta, inizia raccontando del suo rapporto con la musica, di cui si è innamorata soprattutto per quanto riguarda il canto, grazie al film Sister Act, la cui visione era una tradizione annuale nella scuola di suore che frequentava durante l’infanzia. In seguito, racconta dei suoi studi di chitarra classica e di come la sua passione per la musica degli 883 l’abbia da una parte spinta ad imparare a suonare lo strumento, e dall’altra l’abbia messa un po’ in contrasto con il suo insegnante. In seguito si iscrive alla Scuola Popolare di Musica Donna Olimpia per studiare canto, e a seguito di un concerto di Joey Garrison si innamora del jazz e decide che quella sarà la sua strada (una divertita Chiara racconta, a questo proposito, dell’indifferente reazione di Garrison all’entusiasmo della cantante). Prosegue raccontando dei tanti lavori da lei svolti al di fuori della musica: dal fare l’hostess di terra per Alitalia a lavorare in un albergo di Parigi, dove si è trasferita in seguito e dove adesso risiede.

Tornando alla musica, continua parlando del suo periodo di studio al Conservatorio Santa Cecilia, con insegnanti del calibro di Maria Pia de Vito (già anche lei ospite del ciclo) e Danilo Rea, e della tesi con cui si è laureata con 110 e lode, dedicata al silenzio. Dietro sollecitazione di Gatto, la Viola esprime una particolare ammirazione  per il “silenzio” che lei ama come una tela bianca che permette di apprezzarne i colori – in questo caso i suoni. Un dato curioso è che un’altra musicista ospite del ciclo, Miriam Fornari, aveva dedicato la sua tesi di laurea allo stesso argomento esprimendo più o meno le stesse opinioni di Chiara.

Il racconto prosegue con una artista assolutamente padrona del palco che denota una sorta di umorismo davvero apprezzabile con cui tiene desta l’attenzione del folto pubblico, chiaramente divertito e interessato. Ecco quindi l’esperienza in un gruppo di jazz tradizionale in contemporanea ad un suo tour con un complesso di free jazz – tour nato per puro caso, in cui lei era entrata in sostituzione della cantante titolare a causa di un malore di quest’ultima.

L’ultima parte della chiacchierata è dedicata ad un intenso dibattito, in cui è stato coinvolto anche Danilo, riguardo alle differenze tra l’Italia e Parigi per quanto riguarda il ruolo dei musicisti nella società: la nostra cantante racconta di un pubblico parigino educato fin da piccolo alla musica, grazie anche all’istituzione dei conservatoires, rinomate scuole di musica statali presenti in abbondanza nella Città delle Luci, una per ogni banlieue – ma più in generale grazie ad uno stato che investe di più sulla cultura rispetto a quello italiano, tanto che lì è in vigore una legge che consente ai musicisti di ricevere un sussidio statale (legge che, come fa notare Danilo, è passata in maniera molto più restrittiva anche qui in Italia); da qui è emersa un profondo disappunto da parte di Chiara nei confronti dello Stato italiano e degli organizzatori che non pagano abbastanza i musicisti, trascurando anche l’aspetto culturale.

I pezzi eseguiti da Chiara e Danilo sono stati Didsbury, tratta dall’album Until Down pubblicato da Chiara nel 2019, Lullaby for Francesco, anch’essa una toccante composizione della cantante, e una originale rielaborazione di Harvest Moon di Neil Young.

Degno di una nota a parte è stato il finale della serata: in virtù di un rapporto di amicizia che lega Chiara e Susanna, le due cantanti, accompagnate da Danilo Blaiotta al piano, si sono esibite insieme in una frizzante esecuzione di Bye Bye Blackbird.

Beniamino Gatto

Cinzia Gizzi e Noemi Nuti entusiasmano il pubblico: Ripresa alla Casa del Jazz la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz condotta e ideata dal nostro direttore Gerlando Gatto

Dopo un’attesa di circa due mesi e mezzo, la fortunata serie L’Altra Metà del Jazz, a cura di Gerlando Gatto, è ricominciata alla Casa del Jazz con due valide artiste: la pianista Cinzia Gizzi e l’arpista e vocalist Noemi Nuti.
La prima parte della serata è dedicata appunto a Cinzia Gizzi, la cui intervista inizia con una riflessione sull’assenza del canto jazz nel Festival della Canzone Italiana di Sanremo, conclusosi pochi giorni prima dell’evento: riflessione da cui scaturisce l’amara considerazione di un confinamento del jazz in certe nicchie e ambienti definiti, nonostante  l’attuale tendenza alla contaminazione tra generi.

Parla poi della sua carriera: partendo dal primo incontro con la musica che avvenne per caso durante i suoi studi universitari in una facoltà impostale dalla famiglia . Ma ben presto la musica ebbe la meglio e nell’arco di poco tempo si andò delineando la personalità di una grande artista che  proseguì con il suo rapporto con il piano classico, che lei definisce fondamentale per una buona formazione jazzistica ma non indispensabile. Sulla musica classica tornerà in seguito, esprimendo la sua preferenza, tra i compositori, per Bach, genio capace di donare equilibrio a chi lo ascolta. Enumera quindi alcune delle sue collaborazioni più significative e di alto profilo come Harry “Sweets” Edison, Joe Newman, Sammy Davis e Tony Scott, dei quali ricorda con grande affetto l’aspetto umano oltre a quello artistico. E si arriva così  al 1988, anno della svolta per la sua carriera: sarà infatti quello l’anno in cui vincerà una borsa di studio, grazie ad una sua amica che la convinse a presentare la domanda, che la porterà negli USA, a Berkeley; Cinzia ricorda questi tempi negli Stati Uniti come duri ma molto soddisfacenti. Altri incontri e collaborazioni l’hanno segnata: nello specifico con Chet Baker, Dizzy Gillespie e in particolare Jaki Byard, con cui ha studiato metodologia a seguito di un incontro presso il Mississippi Jazz Club, allora gestito dai fratelli Toth.
Racconta poi del suo ritorno in Italia e della pubblicazione del suo primo disco Trio and Sextet, nel 1991, con la collaborazione di musicisti come Flavio Boltro alla tromba, Piero Odorici al sassofono, Giovanni Tommaso al basso, Gianni Cazzola alla batteria e Mario Migliardi al trombone, e della sua carriera didattica di cui ricorda luci e ombre: tra le prime ricorda la soddisfazione dell’insegnamento, sottolineandone tuttavia la complessità; tra le seconde illustra le difficoltà affrontate a causa di un sistema che imponeva al detentore della cattedra unica l’insegnamento di sette materie in tutto il semestre ed anche del fatto che, in quanto donna, ha dovuto dimostrare più degli altri colleghi maschi. Da questo complessivo bagaglio di esperienze le deriva la forza e la capacità di scrivere due libri dedicati agli “Arrangiatori Jazz”.
Toccando infine gli aspetti più recenti della sua carriera, ricorda il premio alla carriera vinto nel 2017 nell’ambito del Premio Internazionale Profilo Donna, grazie alla segnalazione di Patricia Adkins Chiti, e conclude con una piccola riflessione sulla quasi totale assenza di jazz nella Rai, collegandosi alla prima domanda fatta durante l’incontro da cui si evince, secondo Cinzia, che i giovani d’oggi vengono bombardati da un determinato tipo di musica, mentre dovrebbero avere la possibilità di scegliere la musica che amano e la Rai – servizio pubblico, non dimentichiamolo – dovrebbe dare modo ai suoi ascoltatori, che pagano un canone, di seguire ogni genere musicale.
Come al solito non sono mancati interventi musicali: in questo caso Cinzia è stata accompagnata dal contrabbassista Pietro Ciancaglini e dal batterista Marco Valeri, e insieme hanno suonato I Keep Love in You di Bud Powell, Subconsciously di Lee Collins e Te Vojo Bene Assaje.

Dopo il consueto intervallo di cinque minuti, la serata è ripresa con l’arpista e vocalist Noemi Nuti che purtroppo, a causa di un problema tecnico con l’arpa, si è presentata solo nelle vesti di cantante, accompagnata dall’eccellente pianista Andrew McCormack, compagno non solo sulla scena ma anche nella vita.
La vita di Noemi è caratterizzata da numerosi viaggi e contatti con diverse culture: nasce infatti a New York da famiglia italiana e ci rimane fino agli otto anni; da quel momento si trasferisce in Italia dove passerà la tarda infanzia e l’adolescenza, per poi trasferirsi a Londra, dove tuttora risiede. Già fin dall’età di otto anni Noemi inizia a studiare l’arpa, di cui si è innamorata grazie alla copertina di una rivista che la raffigurava in tutto il suo splendore; comincia quindi con lo studio dell’arpa classica e folk (soprattutto celtica) fino all’ottavo grado, ma grazie al contatto con la musica di Kurt Rosenwinkel ed Ella Fitzgerald decide di passare alla musica jazz: ed è in questo ambito che nel 2012 si diplomerà al Trinity College di Londra, studiando con insegnanti del calibro di Anita Waddell, John Hendrix e Sammie Purcell.
Nella sua musica risulta evidente un vivo interesse per la musica brasiliana, soprattutto per l’unione, da lei illustrata, tra ricchi ritmi e melodie leggere, semplici solo all’apparenza ma che in realtà nascondono una complessità disarmante: questa passione la porterà a formare una band di samba che arriverà fino al celeberrimo Carnevale di Rio de Janeiro. A proposito del Brasile, Noemi lo descrive come un posto molto particolare: un luogo isolato e un porto allo stesso tempo, contemporaneamente un melting pot e un luogo legato alla propria cultura.
Un altro luogo di cui parla con molto affetto è la sua residenza attuale, ovvero Londra: facendo un paragone tra la scena musicale londinese e quella italiana Noemi nota un attaccamento al passato e alle tradizioni molto più presente in Italia che nel Regno Unito dove, al contrario, osserva una maggiore apertura all’innovazione e attenzione da parte del governo nei confronti delle arti. Sempre a proposito del jazz inglese, descrive l’influenza subita dalla musica sudafricana e le differenze dei ritmi afro-jazz presenti nelle varie regioni del mondo: da una chiacchierata con il pianista panamense Danilo Pérez nasce una maggiore attenzione alle casse e ai bassi nelle regioni del Sud America, mentre, al contrario, una predilezione nei confronti dei piatti e delle frequenze alte nel Regno Unito; a questo proposito ha citato la cantante britannica Norma Winstone e come un suo brano, Azimuth, sia tornato alla ribalta grazie ai celebri rapper Drake e Yeat e ai produttori Bnyx e Sebastian Shah, che l’hanno campionata nel loro  IDGAF, uscito nello scorso ottobre. Conclude infine il suo intervento con un ulteriore elogio nei confronti di Londra, ovvero di come la scena inglese permetta un’ottima formazione a livello professionale e di affrontare a ogni sorta di pubblico e ambiente.
I brani proposti con il pianista Andrew McCormack sono stati “For What I See,” composizione originale di Noemi contenuta nel suo disco ‘Venus Eye’ uscito nel 2020 e ispirata da “Treme Terra” di Flora Purim e Airto Moreira con Joe Farrell (il disco si chiama “Three-Way Mirror”). A questa prima, trascinante esibizione hanno fatto seguito “Disfarça e Chora” di Cartola e “I Can’t Believe You’re In Love With Me” di Jimmy McHugh, interpretato anche da Billie Holiday.
In quanto a pubblico la serata è stata un successo, facendo registrare non solo un numero di spettatori tale da riempire quasi l’intera sala ma anche un entusiasmo e un gradimento che chi vi scrive non può che condividere.

Il prossimo appuntamento è in programma martedì 20 Febbraio alle 21 con Susanna Stivali e Chiara Viola. Clicca qui per info&tickets

Beniamino Gatto

DEXTER GORDON

Il be-bop si sviluppa negli anni ’40 a New York City, forte però anche dell’apporto di un crogiuolo di musici provenienti dalla West Coast e che si ritrovavano, prima di scrivere la Storia che tutti noi conosciamo, nei sobborghi di Los Angeles – California. Nativi di quell’area geografica ricordiamo personaggi come Art Pepper, Charles Mingus, Chet Baker. Molti di essi venivano poi ingaggiati da importanti capi-orchestra di passaggio i quali, rapiti dal grande talento di questi giovani virgulti, decidevano di portarli con sé in tour.

Negli anni ’40, nonostante le spinte del modern jazz, il pubblico impazziva ancora letteralmente per le suddette grandi orchestre capitanate dai vari Duke Ellington, Lionel Hampton, Benny Goodman, Louis Armstrong… Prima con Hampton e poi con Ellington aveva suonato ad esempio il giovane Mingus.

Nato a L.A. il 27 febbraio del 1923, stessa sorte ebbe il sassofonista tenore Dexter Gordon, che ritroviamo da giovanissimo nell’orchestra del re dei vibrafonisti quanto, subito dopo, in quella di Armstrong.

Oltre alla fortuna di poter maturare una grande esperienza artistica, sono occasioni uniche queste per imparare il complesso mestiere del musicista, con tutta la fatica che ciò si porta dietro. Non da ultimo il sapersi destreggiare, specialmente per un musico di colore, nell’America di quegli anni, barbaramente intrisa di segregazione razziale.

Il giovane Dexter dimostrava fin da subito di poter suonare a meraviglia il suo sax tenore, strumento cardine di quella che si può considerare una vera e propria nuova tradizione, principiata pochi anni prima dai suoni di Coleman Hawkins e Lester Young.

Proverò ora a sintetizzare in un pensiero le caratteristiche principali del suono unico del Nostro.

Un buon musicista jazz deve imparare innanzitutto a familiarizzare con il linguaggio dello swing. È un modo di stare sul tempo che non basta saper riprodurre meccanicamente. Poco aiuta il solfeggio in tutto ciò: risulta fondamentale il come “swingare”, e solo di conseguenza il cosa improvvisare. La caratteristica più rappresentativa del suono di Dexter è certamente l’incredibile cantabilità delle frasi, ma anche il come suonarle sul tempo. Suonare dietro al tempo, non davanti: fluttuare nella musica con quel pizzico di ritardo che esalta certamente la cantabilità delle belle frasi.

Per sfatare un mito, posso con certezza affermare che ciò non accade solo nel jazz; se non ne avete memoria, vi invito ad andare a riascoltare alcune interpretazioni, ad esempio, dei notturni di Chopin per pianoforte, così come di una qualsiasi aria d’opera tratta dal repertorio del Belcanto italiano. Si può notare come il solista ritardi le frasi, si fa seguire dall’accompagnamento, crea una vera e propria dilatazione poetica (così mi viene da definirla).

La magia di applicare ciò nello swing differisce dalla musica romantica in una lampante peculiarità: il metronomo della musica romantica cambia continuamente (rallentando, accelerando…) mentre nello swing il treno non perde mai, salvo rare eccezioni, la sua meravigliosamente ossessiva funzione di trasporto musicale. Il “ritardo” nel fraseggio di Dexter Gordon è, non solo a mio parere, la singolarità più affascinante del suo suonare.

Dopo la parentesi con Armstrong (con cui rimase amico tutta la vita – è a lui che avrebbe dedicato quel famoso premio Oscar mancato nel 1987), decise di seguire l’orchestra di Billy Eckstine; scelta di cuore, scelta prettamente stilistica -da Armstrong rifiutò addirittura un cospicuo aumento della paga-.

Approdò dunque a New York alla fine del 1944 dove iniziò subito a suonare in jam, concerti e sessioni di registrazione con i grandi bopper del momento: primo su tutti Dizzy Gillespie, con cui nel 1945 registrò brani come Blue’n Boogie e la “super-bop” Groovin’ High.

Tra il 1945 e il 1946, ingaggiato dall’etichetta Savoy, registrò diverse sessioni a suo nome. Fece ritorno a Los Angeles alla fine degli anni ’40. Oltre a continuare ad incidere per la Savoy ed incarnare il ruolo di turnista nelle formazioni di grandi musicisti jazz dell’epoca, si ricordano in questi nuovi anni a L.A. alcune vere e proprie sfide tra tenoristi, chiamate tenor battles, in particolare con il sassofonista Wardell Gray. Per corsi e ricorsi storici quanto artistici nella grande propulsione creativa americana del tempo, la vicenda viene citata anche nel famoso romanzo-simbolo della beat generation On the Road di Kerouac.

Negli anni ’50 Dexter dovette però affrontare il periodo più buio probabilmente di tutta la sua esistenza, a causa dei suoi sempre più importanti problemi di tossicodipendenza da eroina, conosciuti purtroppo in quel tempo, com’è noto, da una grossa fetta di eroi del bop. Nonostante alcune, poche, session a suo nome e qualche apparizione da sideman, si può dire che Dexter Gordon passò un intero decennio dentro e fuori dalle prigioni. Venne scarcerato definitivamente nel 1959.

La rinascita avvenne nei primi anni ’60, quando firmò per la Blue Note e registrò 4 album strepitosi: “Doin’ Allright”, “Dexter Calling…”, “Go!”, e “A Swingin’ Affair”, gli ultimi due fuoriusciti da due giorni di sessioni con il quartetto stabile formato da Sonny Clark al pianoforte, Butch Warren al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria.

Ma la vita dei musicisti jazz non poteva prescindere, in quel tempo, dalla fascinazione per gli altri continenti. In Oriente ad esempio -in Giappone specialmente- i musicisti di jazz erano visti come dei veri e propri eroi, come ben dimostrano gli aneddoti, tra i tanti, dei primi tour nipponici compiuti dai Jazz Messengers di Art Blakey.

Similmente accadeva in Europa, specialmente in alcune capitali: Parigi, Oslo, Copenhagen su tutte. È proprio nella celebre città danese che Dexter decise di trasferirsi. Per tutti i 14 anni successivi visse tra Copenhagen e Parigi, contribuendo a quell’ondata di noti jazz players che, trovando riscontro e grande interesse da parte del pubblico europeo, decisero di stabilirsi nel vecchio continente o di passarvi lunghi periodi.

Per uno strano gioco del destino, quando venne chiamato ad interpretare il protagonista nel film Round Midnight di Tavernier, oltre ad omaggiare la vita di Bud Powell e Lester Young, a mio avviso Dexter si ritrova ad interpretare anche un po’ sé stesso.

Negli anni europei, oltre a registrare -per la Blue Note prima e per la Prestige poi- con noti musicisti jazz americani come Kenny Drew, Bobby Hutcherson, Freddie Hubbard e altri, Dexter si ritrovò a suonare con giovani musicisti della scena europea come il contrabbassista francese Pierre Michelot e il danese Niels-Henning Ørsted Pedersen (che ricordiamo anche in uno degli ultimi trii di Oscar Peterson).

Nel 1976 fece ritorno negli Stati Uniti. Registrò alcuni splendidi album per la Columbia e ricevette, da musicista ormai all’apice del successo, alcuni importantissimi riconoscimenti: musicista dell’anno per la rivista DownBeat nel 1978 e nel 1980, anno in cui venne inserito nella Jazz Hall of Fame.

Nel 1987 si ritrovò protagonista del già citato splendido film di Bertrand Tavernier, uscito in Italia con il titolo “A mezzanotte circa”, ruolo che gli valse numerosi importanti premi, rientrando addirittura tra i possibili vincitori dell’Oscar come miglior protagonista. La prestigiosa statuetta la ricevette Herbie Hancock per la miglior colonna sonora, magistralmente incisa anche, però, dal suo sax tenore.

Morì nel 1990 all’età di 67 anni per un cancro alla laringe che gli causò un’insufficienza renale, probabilmente dovuto al fumo. Quel fumo di sigaretta imprescindibilmente legato alla sua figura, che ben ricordiamo in una delle foto più iconiche della storia del jazz, scattata da Herman Leonard al Royal Roost nel 1948.

Danilo Blaiotta

DA FERLINGHETTI A KEROUAC C’E’ ANCORA BEAT GENERATION!

– “Beatitude” italoamericana.
C’è di che riflettere sulla capacità autorigenerante della beat generation. Il movimento riesce a fasi alterne a riproporre i propri eroi in eventi, film, pubblicazioni letterarie, dischi.
Dopo la straordinaria stagione iniziale si sono susseguiti echi e ri-percorsi da parte dei suoi protagonisti. Il più longevo, Lawrence Ferlinghetti, nato nel 1919 e vissuto fino al 2021, è stato l’alfiere che ne ha traghettato, anche fisicamente, il vessillo divulgandola oltre gli albori del nuovo millennio. E ancora dopo la sua scomparsa le “city lights” rimangono accese.
La Tùk Music con l’album “Ferlinghetti”, celebra oggi questo guru che ha l’immagine scolpita nella roccia a fianco di Burroughs, Ginsberg, Kerouac, Corso… Il disco vanta come interpreti e, alternativamente, autori, Paolo Fresu, Dino Rubino, Daniele Di Bonaventura e Marco Bardoscia. Il lavoro, che ha una propria autonomia rispetto alla pellicola, raccoglie le musiche originali composte per il docufilm “The Beat Bomb” di Ferdinando Vicentini Orgnani, girato tra il 2006 e il 2022 in U.S.A. ed Europa, che documenta e racconta, come ricorda Fresu “la straordinaria storia creativa intellettuale e umana di Lawrence Monsanto Ferlinghetti: poeta, pittore, attivista sociale e co-fondatore della City Lights Booksellers e & Publishers di San Francisco“. Ferlinghetti, a cui la Brescia dei familiari (il padre Carlo era di Chiari) ha dedicato una importante mostra nel 2017, fa parte della fronda italo-americana (o americoitaliana che dir si voglia) della beat generation. Ha scritto Francesco Meli che “il Vecchio Mondo ha continuato a sopravvivere nel Nuovo in forma originaria, assoluta, radicale” (“Cool, Hip, Beat. Dal jazz moderno a Jack Kerouac”, Mimesis, 2021).
Considerazione che si attaglia all’esperienza beat di Gregory Corso, ritratto nel docufilm “Bomb” di Scarfò, radici del reggino tradite da un linguaggio dissonante e ibrido di dialetto che ne caratterizza il verseggiare. E c’è Diane Di Prima, di parte materna sancosimese – si è in provincia di Latina – quale esponente femminile di spicco laddove è Philip Lamantia , di origini siciliane, a far da tramite col surrealismo francese. Vicino al movimento John Giorno, culturale heritage nel materano, sperimentalista di “spoken word” e poesia sonora. Per la cronaca Michela Valmori, su www.stradedorate.org, ha sottolineato l’accostamento aKerouac di uno scrittore bohemian come John Fante (il cui padre proveniva dalla provincia di Chieti) per analogo “migrant writing”, pur senza che quest’ultimo sia ascrivibile alla Beat Generation. I rapporti con esponenti culturali nostrani, come quelli fra Ginsberg e Pasolini,le frequentazioni, i reading, i raduni, gli happening nell’Italia attorno ai ’70, dimostrano un interscambio col nostro Paese con diversi riscontri, proseliti e gruppi (cfr. Alessandro Manca, “I figli dello stupore. La beat generation italiana”, Sirio, 2018). Evidentemente alla base c’era e resiste il fascino diffuso da/fra quei profeti del dissenso, un alone insieme di poesia prosa musica e ribellione.

– Dal centenario Ferlinghetti al centenario di Kerouac.
Il 2022 segna il trascorrere di un secolo dalla nascita di Jack Kerouac. Per l’occasione RaiPlay ha mandato in onda, sulla striscia di Rai Teche, “Beat Graffiti” con l’ intervista rilasciata a Milano nel ’66 a Fernanda Pivano da questo intellettuale evergreen. Gabriele Romagnoli ha osservato su “DLui” di marzo che Kerouac “non è morto, è solo partito di nuovo”. Una Beat
ri-Generation! Per l’occasione sono da segnalare, fra le novità discografiche, i due cd della compilation “Jack Kerouac. 100 Years Of Beatitude” (Bear Family Records) di Vari Artisti jazz pop e rock (fermo restante il “primum” del cofanetto Rhino del 1990, collection Verve del 1960 rieditata in “Readings by Jack Kerouac on the Beat Generation”). A 360 gradi le iniziative in campo a partire dal fitto calendario predisposto nella città natale di Lowell, nel Massachusetts, dal LCK (lowellcelebrateskerouac.org) quindi a New York il festival “The Village Trip”, ospiti-mattatori David Amram e Bobby Sanabria (Kerouac Society), per continuare a Vigo in Spagna con il “Festival Kerouac” di Musica Poesia e Performances in ottobre, special guest la poetessa Anne Waldman (cfr.jackkerouac.com/news). In ambito più letterario, in Italia, si è tenuto in ottobre il “Premio Internazionale di Poesia e Letteratura 100 anni di Kerouac”, a Morano, in Calabria: terra di santi, meta di barbari, tana di briganti e faro di migranti, con alle spalle una storia di fughe e cadute, risalite e ricadute. Che sia stato forse tale moto “wanderlust” una delle ragioni di questa location sotto i boschi, “sulla strada” per il Pollino, in parallelo alle montagne retrostanti il “Big Sur” californiano di Kerouac? L’associazione Orion che ha organizzato la manifestazione ha il patrocinio morale, con la Euterpe ASP di Jesi, del Lowell Celebrates Kerouac negli States. Due mondi non lontani, nonostante l’Atlantico a far da spartiterre, con la dea Ecate, la statua della Libertà, a stringere idealmente le mani ai Bronzi di Riace.
Ancora un “Viaggio in Italia” anche se virtuale, per Kerouac, nella terra dei futuristi e di D’Annunzio. A seguire lo ricordiamo in una sorta di ragionato “cut up” o meglio un breve collage di citazioni sul suo rapporto con il jazz in generale e nello specifico sul bebop sul quale sperimentò la “scrittura sincopata” modellando la propria “prosa spontanea”.

– Jack e il Jazz
“ Prima che Diòniso venisse depotenziato nella cultura greca a dio del vino, il suo era un culto misterico orgiastico in cui si maledicevano tutti coloro che ne rifiutavano la propiziazione. La forma artistica principalmente associata a Diòniso era il verso ditirambico, una forma di poesia
caratterizzata da un forte entusiasmo spontaneo. Di qui l’interesse degli scrittori della beat generation per il jazz, incarnazione della tendenza dionisiaca”.
Nicoletta Zuliani, “Jack Kerouac: il bop come modello”, ”Nerosubianco”, Roma, SISMA, 1/1993, pg. 53
“Jack intuisce che quel modo istintivo di scrivere, quasi senza punteggiatura (ndr: di Cassady) così vicino al fraseggio jazz di Charlie Parker e Dizzy Gillespie, è totalmente nuovo.”
Emanuele Bevilacqua, “Beat & Be Bop”, Einaudi, 1999, pg. 42.
“Nei tardi anni Quaranta e nei primi anni Cinquanta i nomi dei musicisti che Kerouac cita più spesso sono George Shearing, Stan Kenton, Gerry Mulligan e Chet Baker (…) quello di Kerouac era un gusto
cool (…) Questa sensibilità è più tipica del cool jazz della costa ovest che della ribellione bebop della costa est”.
Berndt Ostendorf, “Il bebop e la Beat Generation. Razza e misletture creative”, a cura di F. Minganti, sta in “JazzToldTales. Jazz e fiction Letteratura e jazz”, Bacchilega, Imola, 1997, pg. 79.
“ Certo, ascoltare la voce di Kerouac sui vari dischi da lui incisi (da solo o in compagnia di Steve Allen, Zoot Sims e Al Cohn) lo riscatta dalle valutazioni che si limitino all’analisi della pagina scritta”.
Franco Minganti, “X Roads. Letteratura, jazz, immaginario”, id. , 1994, pg. 22.
“Zop! Dizzy urlò, Charlie strillò, Monk scoppiò, il batterista scalciò, tirò una bomba – il punto interrogativo del basso vibrò – e via”.
Jack Kerouac, “Scrivere Bop. Lezioni di scrittura creativa”, Milano, Mondadori, 1996, pg. 38.

Amedeo Furfaro

I nostri libri

Ted Gioia – “Storia del Jazz” – EDT – pgg. 614 – € 35,00

Non molto tempo fa discutevo con un amico musicista (ma anche scrittore e più in generale attento osservatore della realtà) se nell’attuale situazione fosse o meno giustificata la pubblicazione di una nuova storia del jazz. Trovare un punto di intesa non è stato difficile: certo oramai molto si è scritto sulla storia della musica afro-americana ma molto resta ancora da scrivere, da scoprire, da chiarire. In buona sostanza una storia del jazz oggi si giustifica se risponde ad alcuni ben precisi requisiti: innanzitutto che sul passato ci dica qualcosa di nuovo rispetto a quanto finora scritto, sul presente che ci illumini su quanto sta accadendo sulla scena internazionale, sul futuro che vengano lumeggiate le nuove linee di tendenza. Il tutto accompagnato da una fluidità di racconto che eviti il più possibile incorniciati e box che finiscono con il distrarre e far perdere il filo del discorso.
Ebbene questi requisiti sono tutti presenti nella nuova edizione della “Storia del Jazz” di Ted Gioia pubblicata dalla EDT in collaborazione con Fondazione Siena Jazz – Accademia nazionale del jazz Centro di attività e formazione musicale, che si avvale della precisa traduzione di Francesco Martinelli il quale, com’è suo costume, scrive in maniera fluida, scattante, priva di qualsiasi autocompiacimento letterario sicché lo spirito dell’autore viene pienamente rispettato.
Il volume è diviso in undici capitoli (da “La preistoria del jazz” a “La resurrezione del jazz”) con l’aggiunta di quattro Note dedicate rispettivamente a “Letture consigliate”, “Ascolti consigliati”, “Ringraziamenti” e il sempre indispensabile “Indice analitico”. Da questa partizione si capisce come l’Autore parta dalle origini della musica afro-americana per giungere sino ai nostri giorni. Così, nella narrazione di Gioia, ritroviamo tutte le figure più importanti del jazz – da Jelly Roll Morton a Louis Armstrong, da Duke Ellington al Cotton Club, ai giganti del cool come Gerry Mulligan, Stan Getz, e Lester Young, Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Ornette Coleman…fino ai postmodernisti della scena downtown – inseriti in una cornice politica e socio-economica che costituisce uno dei punti di forza delle opere di Gioia. In effetti la musica non nasce spontaneamente come una sorta di fungo ma è il portato di tutta una serie di esperienze: di qui fondamentale comprendere il contesto in cui un certo linguaggio nasce e si sviluppa. E Gioia è davvero un maestro nel descrivere tutto ciò, nel farci capire – ad esempio – che cosa significò per i musicisti di colore negli States rivolgersi al be-bop mentre la seconda guerra mondiale volgeva al termine.
Ma è nella seconda parte del libro che a nostro avviso troviamo le notazioni più interessanti. Sono le pagine in cui l’Autore esamina “La resurrezione del jazz” partendo dalla “Resurrezione del cantante di jazz”.
Convincente la tesi sostenuta da Gioia per cui, in questi ultimissimi decenni, il jazz ha riscoperto in qualche modo le sue radici di musica del popolo avviando un dialogo nuovo e non programmato con la cultura di massa. E il ponte che ha permesso tutto ciò è stato varato da artisti quali Kamasi Washington, Robert Glasper, Esperanza Spalding i quali – sono parole di Gioia – “hanno dimostrato che possono utilizzare tutta la gamma stilistica delle canzoni odierne senza perdere le proprie radici jazzistiche”.  Una visione, come si nota, assolutamente rivoluzionaria che rende finalmente obsoleto il dibattito circa la presunta “morte del jazz”. In tale quadro anche i cantanti hanno svolto un ruolo di primissimo piano tenendo strettamente collegato il jazz alla musica commerciale. Quasi inutile sottolineare come accanto alle notazioni di carattere sociale, Gioia mai dimentica di indicare le registrazioni che meglio possono corroborare il suo discorso.
Di grande utilità pratica le letture consigliate e gli ascolti consigliati che possono costituire una guida sia per chi voglia approfondire la materia sia per chi ad essa si avvicini per la prima volta
Insomma un volume che non può mancare nella libreria di chi ama la musica.

Amedeo Furfaro, Lionello Pogliani – “Musiche in mente” – The Writer – pgg. 127 – € 12,00

Scritto a due mani dal nostro collaboratore Amedeo Furfaro e da Lionello Pogliani, rispettivamente giornalista e critico musicale il primo, e collaboratore scientifico dell’Università di Valencia, il secondo, il volume affronta il problema del linguaggio musicale sotto il profilo sia delle cosiddette scienze sociali e umane sia delle scienze strettamente intese. Di qui una lettura interessante in quanto si intersecano due tipi di logica in un momento in cui, viceversa, si tende a parcellizzare ogni discorso e quindi a esaltare il ruolo della specializzazione sempre e comunque. In buona sostanza obiettivo del lavoro, perfettamente centrato, è mettere in campo una concezione organica della musica che viene ricondotta in un unico arco culturale combinando idee che in genere non sono messe in correlazione fra di loro. In particolare, nella prima parte Pogliani, avvalendosi anche della collaborazione di Michel Villaz e Laurent Vercueil, si muove tra fisica, chimica, astronomia, biologia, acustica, medicina, mentre nella seconda parte Furfaro, partendo dalla sua formazione storico-politologica e antroposociale oltre che musicale, illustra le sue idee traendo ispirazione dalle occasioni più disparate come una lettura, una serata al cinema, una foto, una ricorrenza, un’intervista tutte su filo del discorso musicale.
In conclusione un volume che vuole essere uno stimolo ad una riflessione complessiva su come lo sviluppo dell’arte musicale abbia interessato ed investito tutto l’arco dello scibile umano.

Amedeo Furfaro – “Pasolini – Luoghi, incontri, suoni” – The Writer – pgg. 103 – € 12,00

In questo ulteriore volume, pubblicato nei primi mesi di quest’anno, Furfaro raccoglie i suoi scritti dedicati a Pasolini e riguardanti essenzialmente tre aspetti, luoghi, incontri e suoni. Di particolare importanza, per quanto concerne “A proposito di jazz”, la terza tranche in cui si tenta una panoramica del rapporto di Pasolini con la musica. L’Autore esamina quindi i vari aspetti delle relazioni di Pasolini con la musica partendo dalle colonne sonore dei suoi film per passare ad una discografia essenziale (jazz escluso) che copre gli anni dal 1960 al 1975 in cui sono elencati brani che vedono Pasolini nella veste di paroliere. Negli anni ’80 si collocano alcuni lavori discografici che hanno il merito di ripercorrere tappe importanti dell’excursus creativo pasoliniano, come “La musica nel cinema di Pasolini” (General Music 1984) in cui Morricone riassume le sue musiche per cinque pellicole firmate Pasolini. Interessante anche un altro lavoro, sempre dell’84, “Pour Pier Paolo, Poèmes de Pier Paolo Pasolini mis en musique par Giovanna Marini (Le Chant du monde). Negli anni seguenti Pasolini continua ad ispirare molte pagine musicali, dagli omaggi espliciti di cantanti e gruppi come Pino Marino, Massimiliano Larocca, Radio Dervish fino a compositori come Nicola Piovani e a registi come Nanni Moretti.
Ovviamente anche il mondo del jazz ha omaggiato Pasolini; Furfaro ricorda al riguardo la performance del Roberto Gatto in “Accattone” e la “Suite per Pierpaolo” a cura di Glauco Venier con Alba Nacicovitch. Ma è in “Appunti per un’Orestiade Africana” che la relazione fra Pasolini e il jazz trova il suo baricentro; ciò in ragione del fatto che buona parte della colonna sonora è affidata a jazzisti quali Gato Barbieri, Marcello Melis e Famoudou Don Moye. A seguire una discografia in cui il jazz “latu sensu” tiene a sottolineare Amedeo, compare a fianco della figura di Pasolini.

Guido Michelone – “Il jazz e i mondi” – Arcana – pgg. 390 – € 24,00

Davvero infaticabile Guido Michelone, didatta, studioso, giornalista e scrittore tra i più prolifici che il mondo del jazz italiano conosca. Ecco, quindi, una sua nuova fatica editoriale significativamente intitolata “Il jazz e i mondi”. Un titolo che può esplicativo non potrebbe essere. Nelle circa 400 pagine del volume, l’Autore, grazie ai numerosi viaggi compiuti tra Usa, Brasile, Giappone, Canada, Nord Africa e Medioriente, ci racconta, in maniera chiara ed esplicita com’è suo costume, il come e perché il jazz ha trovato diritto di cittadinanza in tutti questi Paesi
Si tratta di una narrazione a tratti affascinante in quanto si capisce finalmente come il jazz abbia potuto perdere le sue caratteristiche originarie per assumere le connotazioni di una musica universale senza più confini ma specchio della civiltà di ogni singolo Paese, come risultato necessario di quella contaminazione tra le diverse culture di ogni angolo del mondo. Di qui una sorta di viaggio straordinario, suddiviso in 29 capitoli dedicati ognuno ad una parte del mondo, elencate in ordine alfabetico, per cui si parte dall’Afghanistan per chiudere con “Zingari in jazz” dedicato alla musica manouche. Nel libro, accanto a nome e cognome di ogni jazzman, viene indicato lo strumento musicale mentre alla fine di ogni capitolo è riportata tra parentesi la data, grosso modo compresa tra il 2001 e il 2022, ad indicare il periodo in cui viene redatto il resoconto musicale del viaggio compiuto nella nazione indicata.
Ogni capitolo è impreziosito da una accurata discografia mentre il volume nel suo insieme è completato da una sempre utile bibliografia. Purtroppo manca quell’indice analitico che in un volume del genere sarebbe risultato particolarmente importante.

Renzo Ruggeri – “Elementi di Musica Jazz: CORSO BASE per fisarmonica” – Voglia d’Arte Production – pgg.165 – € 25,00

“Questo lavoro di Ruggieri – condotto con serietà e competenza – è un avvenimento per la fisarmonica.” Gianni Coscia
Con queste parole il grande patriarca della fisarmonica jazz italiana ha tenuto a battesimo l’uscita della prima versione del testo, circa 25 anni fa, quando esso rappresentava il primo libro internazionale per questo strumento con elementi di jazz moderno.
Ruggieri – da esperto didatta – affronta la materia in maniera profonda proponendo una suddivisione razionale dei capitoli, non lesinando esercizi pratici di grande efficacia. La nuova versione si propone una riscrittura del testo, un ampliamento degli argomenti in base alle esperienze degli anni di utilizzo, una razionalizzazione degli schemi e degli esercizi. Sicuramente è stato il primo testo ad introdurre in maniera approfondita dei “policordi” ovvero la pressione di più tasti contemporaneamente nella mano sinistra, tecnica che lo stesso Ruggieri definisce imperfetta ma molto efficace.
La vera novità è rappresentata, comunque, dalle “backing tracks” dei brani del metodo (nuove composizioni sulle strutture armoniche di famosi standard) suonate da affermati professionisti: Maurizio Rolli (contrabbasso), Mauro De Federicis (chitarra), Niki Barulli (batteria). Quest’ultime tutte disponibili gratuitamente sui circuiti online sia in versione completa che “minus bass”, o “minus harmony”, o “minus drums” a simulare le diverse situazioni che lo studente incontrerà.
Da sottolineare la sempre “elegante ed efficace” vena melodica di Ruggieri che si manifesta anche negli esercizi.
Di prossima uscita la versione inglese e nei prossimi anni quella INTERMEDIA e AVANZATA.
Distribuito in tutto il mondo da AMAZON è possibile acquistarlo direttamente su:
https://www.amazon.it/dp/B095GD37SN
Le basi sono disponibili gratuitamente su:
SPOTIFY
https://open.spotify.com/album/3gupaPMqTIuQekv9J8cwzL?si=NG6oHNIfTKa9eGMQQDIyXA
YOUTUBE
https://youtu.be/r0EVSxyEOB4

Vincenzo Staiano – “Solid – Quel diavolo di Scott LaFaro” – Arcana – pgg. 174 – € 16,00

Ecco un volume che sarà ben accolto da tutti gli appassionati di jazz, in special modo dai pianisti e dai contrabbassisti. Racconta, infatti, la storia di un connubio assolutamente straordinario, un incontro che ha cambiato la storia del jazz in relazione al classico combo pianoforte, batteria, contrabbasso. Ci si riferisce ovviamente alla straordinaria intesa che nell’arco di pochissimo tempo si costituì tra Bill Evans e Scott LaFaro, un’intesa che sconvolse definitivamente la gerarchia degli strumenti nel trio (completato all’epoca da Paul Motian) cosicché il pianoforte perse il ruolo di guida per essere affiancato, a pari condizioni, da batteria e contrabbasso. Certo, a dirlo oggi, sembra qualcosa di scontato ma se si risale all’epoca in cui Evans e LaFaro si incontrarono, vale a dire il 1959, si scoprirà come la musica proposta dal trio fosse assolutamente rivoluzionaria. In questo suo scritto Staiano pone l’accento sulla figura del contrabbassista prematuramente scomparso nel 1961, offrendone un ritratto illuminante anche perché ci fa comprendere come, già prima di incontrare Bill Evans, fosse artista in possesso di una propria ben specifica cifra stilistica. Particolare attenzione viene, così, dedicata al periodo che va dal 1955, quando Scott lascia l’università di Itaca per iniziare il suo primo tour come professionista, sino a quel tragico incidente che il 6 luglio del 1961 gli costa la vita. Grazie ad un racconto ben articolato, sorretto da una prosa che conosce l’italiano, il volume si legge quasi tutto d’un fiato arricchito da una serie di contributi originali. In effetti in Italia pochissimo era stato scritto su LaFaro per cui il libro di Vincenzo Staiano assume un’importanza particolare. L’autore, per questa sua prima pregevole monografia, si è avvalso della biografia di Scotty (con questo nomignolo era noto LaFaro e questo si utilizza nel libro) redatta dalla sorella Helene, nonché di una grande quantità di contributi sull’artista, come l’intervista di Martin Williams apparsa sul periodico “Jazz Review”, un articolo del 1968 di Jean-Pierre Binchet su “Jazz Magazine”, un sito web a lui dedicato nel 1998 da Charles A. Ralston, nonché di moltissimi altri contributi elencati nella ricca appendice bibliografica e webgrafica, cui si affianca una discografia.
La figura di LaFaro assume così una valenza particolare sottolineata anche dal titolo del libro, “Solid”, che come ci spiega lo stesso Staiano richiama l’essenza di un messaggio inviato a Scott da Miles Davis, un messaggio con cui il trombettista gli faceva capire di volerlo nella sua formazione come contrabbassista.

Kenny Barron: a colloquio con l’enciclopedia del jazz

È con vero piacere che “A proposito di jazz” accoglie tra i suoi collaboratori un giovane musicista appena laureato con 110 e lode al Conservatorio di Latina. Il suo nome: Daniele Mele. Daniele, classe ’97, inizia a studiare pianoforte all’età di 13 anni. Dopo una doverosa formazione classica con il M. Ilaria Liberati intraprende gli studi Jazz presso il Conservatorio “O. Respighi” di Latina sotto la guida del M. Andrea Beneventano, dove, come si diceva si diploma con lode. Approfondisce gli studi con Andrea Rea, Roberto Bottalico, Ignasi Terraza, Kevin Harris, e si forma seguendo masterclass di Jazz e di musica classica in tutta Italia (Berklee, Siena Jazz, Arcevia Jazz, etc.).
L’inizio di questa collaborazione con il nostro blog è di quelli che lasciano il segno: si tratta, infatti, di una approfondita intervista con Kenny Barron, pianista e compositore tra i più importanti ancora sulla scena.
Nato a Filadelfia, il 9 giugno 1943, Kenny si esibisce da quando aveva quindici anni e in tutto questo arco di tempo ha saputo sviluppare uno stile personale che lo colloca tra i grandi della tastiera di tutti i tempi: ancora oggi le sue registrazioni con Stan Getz nulla hanno perso dell’originario fascino così come quelle del gruppo Sphere di cui  nel 1980 fu uno dei fondatori, con Charlie Rouse (sax), Buster Williams (basso) e Ben Riley (batteria).
E, alla grandezza dell’artista, si è sempre accompagnata una statura umana di straordinaria dolcezza: chi scrive queste note ha avuto l’opportunità di intervistarlo oramai parecchi anni fa e ne conserva un ricordo bellissimo dovuto proprio alla gentilezza e alla disponibilità dell’uomo. Gentilezza e disponibilità che dimostra appieno in questa intervista che pubblichiamo qui di seguito. (G.G.)

Ore 9:00 (New York) il giorno 25/04/2021.
-Sono molto emozionato in questo momento e la ringrazio per avermi concesso quest’intervista.
“Oh, è un piacere”.

Prima parlavo con mio padre, gli stavo dicendo che credo ci sia una grande differenza tra musica jazz e musica pop: se voglio parlare con un “nome importante” del Jazz posso avere qualche possibilità di farlo, mentre credo che se volessi parlare con un idolo del pop avrei maggiori difficoltà.
“Sì, lo penso anch’io”. (ride)

-Sì… il jazz è più popolare del pop!

“È vero”.

Mi fa piacere sapere che sta bene. Vorrei chiederle della vaccinazione, perché so che si è vaccinato: è andato tutto bene?
“Oh sì, ho avuto due dosi di Moderna. Due dosi, quindi… ora sono a posto”.

-Benissimo. Questo è un periodo assurdo!
“Sì, lo è”.

-Se non le spiace, parleremo di alcuni punti che mi interessano particolarmente. So che ha suonato in Italia ad Umbria Jazz con numerosi musicisti, e mi piacerebbe sapere quale fu la sua prima volta qui e perché.

“La prima volta in Italia fu… wow… nel 1963? ’63 o ’64, ero con Dizzy Gillespie. Sì, eravamo a Milano”.

-Era una tappa del tour che faceste in giro per il mondo?
“Sì, suonammo in Piazza Duomo e la cattedrale è incredibilmente bella. Quella fu la prima volta”.

-Le piace l’Italia?
“La amo. La gente, il popolo… non si può mangiare male in Italia. È veramente difficile!”.

È vero. E invece cosa mi dice del suo rapporto con la musica italiana? Per esempio, io sono di Napoli, nel Sud Italia. Sono cresciuto ascoltando “O sole mio” e “Tu sì ‘na cosa grande”. Conosce queste canzoni?
“Oh sì, le ho sentite tante volte. Non ho mai saputo i nomi dei compositori, ma le ho sentite tante volte”.

-Ok! Ha qualche aneddoto particolare dell’Italia, o ci sono musicisti di sua conoscenza qui?
“Ah… beh, ovviamente una delle mie persone preferite è Dado (Moroni, NdT). Abbiamo suonato insieme in duo, e numerose volte abbiamo fatto dei tour suonando la musica di Monk, eravamo quattro pianisti. A dire il vero abbiamo un progetto insieme per il prossimo anno, penso a Budapest… ho suonato con lui tante volte, e gli voglio bene. La prima volta che ho incontrato Dado è stata ad un seminario in una città vicino Genova, Nervi.

-Stava partecipando ad un seminario su di lei?
“No no, in realtà era il mio interprete!”.

-Ah, bello! (si ride)
“Siamo diventati presto amici, e lì l’ho sentito suonare per la prima volta. In realtà c’era una jam session ogni sera lì al club. Andai per sentirlo suonare e ne rimasi affascinato, è un musicista incredibile… anche con contrabbasso e batteria!

-Oh… non lo sapevo!
”Oh sì, lo assumerei! Per suonare il contrabbasso, e lo assumerei anche per suonare la batteria”.

-Interessante…
“E ho fatto una registrazione con Stefano, Stefano Di Battista, alcuni anni fa. E il contrabbassista, di cui non ricordo il nome ora…”

-Forse Rosciglione? Giorgio o Dario Rosciglione?
“Oh, no. Li conosco, padre e figlio. Era un musicista più giovane. Comunque tutti bravi musicisti”.

-Bene. Adesso mi piacerebbe parlare con lei dei tre album che amo. Il primo è “Canta Brasil”. Lo adoro! Sa, ballo salsa e bachata con la mia fidanzata…
“Ah-ah, wow!”.

Sì, ballavo prima del Covid ovviamente, ora è tutto chiuso. Ma mi piace, perciò quando ascolto questo tipo di ritmi inizio a ballare e a muovermi. Mi è davvero piaciuto quell’album, e sbaglio se affermo che è iniziato tutto con L’uomo, Dizzy Gillespie?
“Oh, più o meno; in realtà non suonavamo così tanti pezzi brasiliani… ma quell’esperienza è stata d’introduzione alla musica brasiliana: suonavamo “Desafinado”, “Samba De Uma Nota So”. Tuttavia, ciò che davvero mi avvicinò alla musica brasiliana fu ascoltare “Brasil ‘65”, sai… nel 1965! Stavo ascoltando la radio a San Francisco, quando passarono proprio quell’album e ne rimasi folgorato. C’erano chitarre eccezionali, poi Wanda De Sah, e il pianista, era il leader, Sergio Mendes… fu il gruppo che mi portò alla musica brasiliana. Da quel momento in poi ho lavorato con Stan Getz, che suonava molto questo tipo di musica, e poi ho fatto ricerche e ascoltato musica Brasiliana più datata, quella della scuola del Samba. Poi ho conosciuto Nilson Matta, Duduka da Fonseca e Romero Lubambo, e iniziammo a suonare e suonare insieme. Mi insegnarono molti ritmi differenti, e da dove provenivano… questi ritmi vengono dal Nord del Brasile, questi altri dal Sud. Iniziai a lavorare con loro. E così fondammo la band, Canta Brasil”.

-Mi scusi ma vorrei sapere qualcosa di più su Gillespie. Com’era al di fuori del mondo musicale? Ho iniziato a studiare il jazz un po’ di tempo fa, e lui è uno di quei grandi nomi che si devono necessariamente studiare, e da cui si deve prendere il più possibile.
“Fuori dal mondo musicale? Era un grande, davvero una persona cortese, anche molto divertente… fuori dal mondo musicale”.

-Non lo era durante la musica?
“Oh sì, era egualmente divertente! Ma molte persone pensavano che fosse solo apparenza, invece lui era così anche fuori dal palco. Era divertente, molto cortese e molto rispettoso”.

– Quindi il vostro tour mondiale si è tenuto tra il ’62 e il ’66. Che cosa mi dice rispetto alle tappe? Mi ha parlato di Milano, nel ’63.
“Sì, in Italia. Ma abbiamo suonato anche in altri posti: Copenaghen, in Svezia, Varsavia in Polonia, che al tempo era ancora comunista”.

-E fuori dall’Europa?
“Non abbiamo suonato fuori dall’Europa. Abbiamo fatto solo un tour europeo, e quella fu la prima volta che andai in Europa. Fu un inizio fantastico per me!”.

-Sì, posso immaginarlo! (si ride) Parliamo del secondo album, si intitola “Two as One”, l’album con Buster Williams.
“Oh Buster!”.

-E questo lavoro è di particolare importanza per gli italiani, perché è stato registrato a Perugia al Teatro Morlacchi.
“Sì”.

– Ricordo “All of You” e “Someday My Prince Will Come”, e l’ostinato di Buster… 40 secondi forse sul fa, e poi tutto il sound che si apre quando suona il Re basso e con tutte quelle frequenze che arricchiscono la musica. Meraviglioso!
“Certo”(ride)

-E Buster Williams? Com’è?
“Io amo suonare con Buster Williams. In effetti ho appena visto un video su di lui… non so se avete Amazon Prime in Italia”.

-Ce l’abbiamo.
“Si intitola “Bass To Infinity”. È tutto sulla sua vita, ci sono alcune interviste con Herbie Hancock, Lenny White… tutti suonavano insieme a Buster. Dura un’ora, è molto interessante. Sai lui è buddista, perciò parla della sua pratica e di molte altre cose. Ci conosciamo dal 1958, quando eravamo entrambi adolescenti a Philadelphia. Lo conosco da molto tempo, abbiamo lavorato molto insieme… è uno dei miei contrabbassisti preferiti in tutto il mondo”.

-Ho letto che ha suonato con… c’è qualcuno con cui non ha suonato? Ha suonato davvero con tutti!
“Sì, tutti. Le cantanti lo amano, ha lavorato con Nancy Wilson per molto tempo, e anche Sarah Vaughan. Questo video racconta anche delle prime volte in cui uscì per esibirsi, appena terminata la scuola superiore, con Gene Ammons e Sonny Stitt, e di quando ha dovuto avere il permesso da sua madre… dagli un’occhiata!”.

-Senz’altro. Sa… l’inizio della mia tesi di laurea contiene una frase su Philadelphia, e sul fatto che tutti i grandi musicisti sono di lì. È una specie di magia. (ridono)
“Non tutti, ma molti sono di lì! Io penso che una delle ragioni, prima di tutto, è che è molto vicina a New York, a solo due ore di guida. Perciò Philadelphia era una delle tappe principali per i musicisti che provenivano da New York, e io ricordo di aver visto Kenny Dorham e molte altre persone che semplicemente scendevano per andare a fare un concerto a Philly. E si può arrivare a Philadelphia per una sera, e poi tornare indietro quando il concerto è finito. Ai tempi aveva due Club principali che presentavano musicisti di fama mondiale, uno si chiamava Pep’s e l’altro Showboat. Vedevo ‘Trane, Yusef Lateef e Miles suonare lì, e molti altri. Philly era un luogo dove si lavorava, e penso sia per questa ragione che c’erano molti giovani musicisti, incluso me, che poi migliorarono con tutta quella musica attorno.

-Capisco.
“Philly aveva anche molti posti di lavoro per questi giovani musicisti, ci sono molti club in cui ho lavorato. Ed era una gran cosa, avere posti in cui suonare. Questo mi ha aiutato nella crescita, c’erano altri giovani musicisti con cui ho socializzato che sono ancora in giro! C’erano Sonny Fortune, beh lui è venuto a mancare ora, siamo cresciuti insieme… e Buster come sai. Philly era proprio un gran posto”.

-Il prossimo musicista di cui vorrei parlare è anche lui di Philly, e ora mi riferisco al terzo album, che è anche il mio preferito: sto parlando di “People Time”.
“Oh, Stan!”.

-Sì, questo album è la ragione per cui ho iniziato a studiare la sua musica e il suo modo di suonare il pianoforte. È vero che lui la considerava l’altra metà della mela, in senso musicale?
“Ehm, non lo so… così diceva! (ride) Beh, credo che per dirlo lo pensasse davvero. Musicalmente eravamo… empatici? Avevamo un approccio alla musica simile, la melodia era importante”.

-Sì! Sa Kenny, ho sempre l’impressione che quando Stan smette di suonare lei continui a suonare il sassofono ma usando il piano, e viceversa.
“Ah!” (ride)

– È incredibile! Davvero, mi sembra che siate come connessi.
“Sì, lo credo anch’io. Entrambi amavamo la liricità, e questo è importante. Stan poteva suonare una ballad e farti piangere, con il suo sound e le sue idee e la sua creatività. Quello fu un concerto interessante, specialmente in duo, lui era… beh, sono sicuro che conosci la storia”.

-La conosco.
“Era malato al tempo, quando registrammo in duo. Aveva una sorta di tumore del sangue, perciò sentiva molto dolore. Dovevamo registrare per tre sere, ma andammo avanti soltanto per due, lui non riuscì a finire l’ultima sera. Avemmo solo un altro concerto insieme dopo quell’episodio, a Parigi, e non riusciva a suonare molto. Lui suonava la melodia e io feci la maggior parte dei soli al pianoforte, e quella fu l’ultima volta che lo vidi”.

-Mi dispiace molto.
“Era marzo e io lo chiamai un mese più tardi, per sapere come stesse. Mi disse che stava bene e che avrebbe suonato per il prossimo tour, e poi a giugno… è venuto a mancare. Abbiamo perso una bella persona.

-Sì. Secondo me  Stan Getz e Paul Desmond sono due grandi sassofonisti che rimarranno nella storia del jazz
“Davvero?”.

-Sì, mi piacciono davvero tanto. Sicuramente c’è anche Charlie Parker, e tutti quei sassofonisti formidabili che sono fuori da ogni sorta di classificazione. Ma mi piacciono molto Paul e Stan per il modo che hanno di suonare.
“Quindi tu ami… il loro sound?”.

-Sì.
“Lo apprezzo. Paul aveva un sound molto morbido e snello, tenero. E una delle prime registrazioni che ho ascoltato era di Dave Brubeck e Paul Desmond, era ‘Jazz Goes To College’”.

-Sì, me la ricordo. Forse anni ’60?
“In realtà tardi anni ’50, perché ancora vivevo a Philly. Questo era uno dei miei pezzi preferiti”.

– Solo un’ultima cosa su Stan Getz… in quale occasione iniziò a collaborare con lui, a quanti anni? Ha mai rimpianto di non averlo conosciuto prima?
“Rimpiango sempre di non aver conosciuto prima le persone, ma sono lieto quando le conosco! Ricevetti una chiamata per lavorare con lui, per sostituire Chick Corea. Allora aveva una band con Stanley Clarke, Tony Williams e Chick. Mi chiamò e mi chiese di prendere il suo posto, questa fu la prima volta che lavorai con Stan. Era incredibile, suonavamo tutta la musica di Chick Corea. Penso si chiamasse “Captain Marvel Band” o qualcosa del genere. Era un piccolo tour, suonammo per poche serate soprattutto in Sud Carolina e a Baltimora. Quando partimmo Stan mi disse: “Sei davvero un musicista con esperienza”, e per me quello era un grande complimento. Per un po’ non l’ho più sentito, e poi pochi mesi dopo mi chiamò per un posto alla Stanford University”.

-Ho capito.
“Artist-in-residence. Mi chiamò per chiedermi di andare lì e suonare in alcuni concerti con lui. Da quel momento iniziammo ad andare in Europa durante l’estate perché io insegnavo alla Rutgers University e lui a Stanford, perciò non potevamo provare molto durante l’anno accademico. Ma in estate andammo a tutti i grandi festival d’Europa. Aveva una buona band, con Victor Lewis e Rufus Reid. Facemmo un paio di registrazioni a Montmartre con il quartetto, e un paio in duo. Sempre grande musica, grande scrittura. Registrammo un pezzo elettronico dal titolo “Apasionado”, in California. Mi piaceva, per me era qualcosa di diverso! C’erano gli archi e tutti i tipi di strumenti elettronici. Una grande esperienza che non avevo mai fatto prima”.

-Ok. Dato che lo ha accennato, mi piacerebbe parlare dell’insegnamento. Lei era un insegnante di pianoforte alla Rutgers University, e poi alla Julliard, la vecchia Manhattan School.
“Esatto”.

-Insegna ancora? O ha lasciato?
“No, mi sono congedato”.

-Perché, se posso chiedere?
“Beh, sto invecchiando! (ride) A un certo punto senti che hai bisogno di imparare qualcosa, ed io avevo bisogno di imparare altro. Avevo bisogno di ascoltare altre persone suonare, in un certo senso di “istruirmi”. Gli studenti erano bravi, intendo bravi davvero… che cosa avevo da dare loro? A Manhattan c’erano Gerald Clayton, Aaron Parks, era uno dei miei studenti, e molti altri… alla Julliard avevo Jonathan Batiste, alla Rutgers Terence Blanchard, Harry Allen. E tutti loro suonavano benissimo il pianoforte!”.

-Com’era un sua lezione tipo? Cosa faceva durante l’ora?
“Sostanzialmente suonavamo insieme. Ho sempre avuto due pianoforti nella mia aula. Suonavamo insieme perché questo mi permetteva di capire cosa effettivamente sapessero o non sapessero suonare. Insomma, erano al punto in cui io non avevo bisogno di dire loro “questo è un accordo di Do”, non avevano bisogno di questo da me: sapevano già come come suonare. Eravamo interessati a sottigliezze e rifiniture, e idee su tocco, frasi, cose del genere”.

-Quindi le sue lezioni erano come delle performance dal vivo, ma guidate?
“Sì, una cosa di questo tipo! Suonavamo e poi ci fermavamo, e dicevo “Ok, qui stiamo suonando una ballad, non dovete suonare così rigidamente, non c’è bisogno di suonare così tante note in questa ballad… lasciate spazio, anche il silenzio è parte della musica”, cose così. E penso che la prendessero molto seriamente”.

-Quindi… ha dei suggerimenti per diventare un buon insegnante? C’è un ingrediente speciale?
“No, non penso. Certo dipende, le persone hanno diversi modi di insegnare. Il mio modo di insegnare era quello di ascoltare i musicisti e sentire costa potevano fare, e sfidarli. Prendevamo una canzone e la suonavamo per 30 minuti, e poi facevamo un botta e risposta, per fare esercizio. E poi provavamo a sfidarci l’un l’altro, ed è un bene quando gli studenti provano a sfidare anche te. (si ride) Ho imparato molto anch’io”.

-Ok.
“Non è tipo “sono il tuo insegnante e tu fai quello che dico”, a quel livello non è così. È più uno scambio di idee. Imparo da loro, loro imparano da me”.

-Certo, grazie mille. Parliamo adesso di composizione. Lei ha composto molto: adoro “Until Then e Sunshower”, in particolare. Quanto pensa sia importante scrivere pezzi originali, che abbiano la propria firma?
“Penso sia importante, e che si debba scrivere il più possibile. Quello che cerco nella scrittura, quello che cerco di raggiungere nella composizione è… la semplicità. Non scrivo cose in 11/8, 9… non scrivo cose in tempi strani. Non sento la musica in quel modo! Alcuni musicisti lo fanno comodamente e mi piace ascoltarli, ma il mio approccio è più che altro fatto di melodie semplici, armonie che forse qualche volta sono ingannevoli… o forse non qualche volta! Per me funziona la semplicità”.

-Sì. Stavo pensando… lei reputa questo un passaggio fondamentale? Un passaggio che un musicista deve fare per sentirsi completo? O pensa che si possa saltare?
“Intendi saltare la scrittura?”.

-Sì.
“Beh, non tutti i musicisti sono compositori, alcuni di loro non scrivono. Ma, come dice qualcuno, l’improvvisazione è composizione, solo che non è scritta”.

-Infatti.
“Un musicista Jazz compone tutto il tempo… quando inizia a scrivere, quella è una composizione! (si ride) Ma molti musicisti semplicemente non sono per la scrittura, e li capisco. Io penso che sia un altro aspetto di te che dovresti esplorare”.

-Ok. Guardi, una volta ho frequentato una masterclass di Billy Childs. Secondo me è un grande compositore.

“Sì, lo è.”

-E ha detto qualcosa che io ritengo incredibile. Ha detto: “Il segreto del comporre è creare qualcosa di sorprendente, e allo stesso tempo inevitabile”.
“Sì, ok”.

-Mi suona come qualcosa del tipo: “Devi creare musica che ha dei legami con il passato, in modo che ascoltandola tu sappia dove sta andando, ma che abbia anche qualcosa di sorprendente che ne cambia la direzione”, no?
“Sì, sì, sì”.

-È d’accordo?
“Sono d’accordo. E ho ascoltato abbastanza musica di Billy Childs, è un compositore brillante”.

-Lei ricorda un buon consiglio che qualcuno le ha dato recentemente o nel passato, o un evento particolare che ha cambiato il suo modo di comporre e suonare?
“Ehm… sì! Qualcuno una volta mi diede un’idea che io poi ho provato ad applicare: prova a suonare il tuo solo nello spazio di una quinta perfetta. Tutte le tue parti di improvvisazione. Ovviamente non puoi farlo chorus dopo chorus dopo chorus, ma fai una prova. Quanto puoi suonare solo in quel piccolo spazio di una quinta perfetta?”.

-Non ho capito bene, Mr. Barron…
“Sul pianoforte, una quinta perfetta, da Do a Sol. E stai suonando una canzone, qualunque essa sia, prova a suonare tutto all’interno di quella quinta perfetta, cromaticamente”.

-Ok!
“E vedi come va. È qualcosa che puoi provare… potresti restare sorpreso. Perché qualsiasi nota tu metta insieme funzionerà contro qualsiasi accordo suonerai. Deve essere risolto, ma funziona. Questo è un consiglio che qualcuno mi diede e che ho provato. È qualcosa da ricordare”.

-Ok, ora… l’ultima parte. Oltre la musica, sono curioso rispetto alla giornata tipica di Kenny Barron. Ci sono delle cose particolari che ama fare nel tempo libero, se non suona?
“Mi piace leggere molto. Mi piace leggere romanzi”.

-Che tipo di romanzi?
“Mi piace James Patterson, romanzi gialli e cose di questo tipo”.

-Sì! Le piace Zafon? Carlos Ruiz Zafon?
“Oh, non lo conosco”.

-No? È bravo! E Dan Brown?… quello de “Il Codice Da Vinci”.

-“Oh sì sì l’ho letto! (ridono di gran gusto) L’ho letto. In realtà ho anche visto il film”.

-Sì… mi scusi, l’ho interrotta.
“No, non fa niente. Stavo dicendo che durante il Covid non c’è molto altro da fare, perché altrimenti andrei da qualche parte, ascolto musica o cose di questo tipo. Perciò questo è ciò che faccio, leggo e provo anche a cucinare!”.

-Cosa cucina?
“Schnitzel… bistecca! Cose del genere”.

-Le piace la pizza?
“La amo. E a Napoli ho mangiato la migliore pizza della mia vita.”

-Wow! Si ricorda il posto?
“No, ma era così fina… con l’aglio…non ricordo perché mi ci hanno portato. Quella fu la migliore pizza che io abbia mai mangiato. E amo anche mangiare! (si ride) Che è un male!

-No. Non è un male! Sa, quest’anno mi ha fatto realizzare appieno che ci sono anche altre cose oltre alla musica. E se si usano queste cose per nutrire il proprio “appetito musicale”, ci si sentirà più rilassati nel suonare e meglio in generale.
“Lo penso anch’io. Bisogna essere una persona a tutto tondo, il che significa fare tutto nella vita, non solo musica. Ci sono persone ossessionate dalla musica, è tutto ciò che fanno: 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Ascoltano e praticano musica, scrivono musica 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Vorrei essere una di queste persone, ma non lo sono. Ci sono altre cose che catturano la mia attenzione, come la politica o quanto accade nel mondo. Ora c’è il processo di Minneapolis (per la morte di George Floyd, NdT) che mi interessa”.

-Sì, anche a me.
“Succedono anche altre cose. Possono ispirare la tua musica, in un certo qual modo”.

-Sono d’accordo. Quali sono i suoi piani per il futuro? Ci sono nuovi album in cantiere, nuovi progetti?
“Non al momento. C’è un sassofonista, Greg Abate. Ha fatto delle registrazioni di… circa 15 miei pezzi, con il trio. Suona il sassofono contralto, e ha sovrainciso il sassofono e scritto una sorta di sezione di sax in alcuni dei pezzi. È abbastanza interessante! Ma penso che l’unica cosa che vorrei fare prossimamente è un solo, e poi forse un duo, con batteria o percussioni o… un violoncello! Sì qualcosa del genere. Ed è economico da produrre perché non devo pagare me stesso. (ride)”.

Kenny Barron, Udine, Teatro Palamostre, 10.04.2018 Note Nuove

-Verrà in Italia?
“Ci sono dei piani, non so se verranno cancellati o no a questo punto. Penso che a Perugia o Pescara ci potrò essere”.

-Lo spero!
“Lo spero anch’io! E ci sono altre cose… ce n’è una in una città chiamata… Merano? Non Milano, Merano”.

-Sì, nel nord Italia.
“Sì, non sono sicuro che accadrà. Ma penso che per luglio o agosto le cose miglioreranno almeno un po’, lo spero”.

-Sì, ed io sarò lì ad aspettarla! Vaccinato ovviamente, spero di poterla conoscere e abbracciarla nella vita reale.
“Ok! Grazie molte”.

Le sono molto grato, grazie mille.
“È stato un piacere!”.

Ci vediamo presto allora.
“Ok, ciao!”.

-Grazie, arrivederci!

Daniele Mele